Spirit/Isecolari/NS07/NS07.txt Solitudine - Nell'esperienza degli Istituti Secolari Presentazione Il tema della solitudine sembra essere oggi di grande attualità, anche se è fuori di dubbio che questa esperienza esistenziale, ora cercata e goduta, ora temuta e sofferta, ha inciso da sempre nella vicenda umana. Un discorso attuale, se non altro perché nella società contemporanea - almeno in quella del mondo occidentale - è sempre più difficile trovare le condizioni favorevoli ad una esperienza di solitudine feconda e rilassante e, d'altro canto, è sempre più facile - purtroppo - trovarsi coinvolti in situazioni di solitudine non voluta e spesso terribilmente pesante. Appare dunque opportuno che una riflessione su questo tema offerta ai membri degli Istituti Secolari ( ai quali peraltro questo aspetto della vita è congeniale per una libera scelta implicita nel loro progetto vocazionale ) sia collocata in un quadro di più ampio respiro, proprio per un aiuto a prendere coscienza, se ce ne fosse bisogno, di essere chiamati, anche per l'aspetto della solitudine, a condividere con tutti la precarietà che il vivere nel mondo normalmente comporta. I vari contributi, che in questo volume concorrono ad illuminare il problema della solitudine, sono delle autentiche finestre spalancate su una panoramica ricca e variegata, che forma un'armonia d'insieme, nel cui contesto è forse possibile riscontrare qualche ripetizione peraltro solo apparente. Una nota emergente da tutti i contributi è il costante riferimento alla realtà contemporanea, pur nell'approfondimento di tematiche di fondo che, per essere attinenti alla natura umana, hanno valore perenne. Martella Malaspina, partendo dal considerare la solitudine come " realtà ineliminabile dell'esistenza umana ", ne analizza i possibili risvolti psicologici, per concludere con una rasserenante prospettiva sulla " solitudine positiva ", frutto di una esigenza spirituale ed evangelica. Anna Riva apre con una documentata descrizione circa il rapporto " capacità di solitudine - capacità di relazione " e l'" aspetto costruttivo della solitudine ", ma subito dopo si sofferma a considerare taluni disagi tipici del nostro tempo che possono favorire una condizione di diffusa solitudine esistenziale; presenta infine un quadro assai drammatico, tratto in gran parte dalla sua esperienza professionale, di quelle che l'Autrice chiama " solitudini inaccessibili ", che richiedono interventi generosi nel segno della solidarietà dettata dall'amore. Segue un interessante contributo, più specifico per noi, di Adriana Luppi, che pone in relazione la solitudine di tutti con quella inerente la scelta vocazionale della secolarità consacrata, soffermandosi in particolare sulla solitudine della consacrazione verginale, che l'autrice qualifica con aggettivi molto significativi: " aperta ", " abitata ", " capace di silenzio ", " capace di ricerca e di attesa ". " La provocazione evangelica delle nuove solitudini " è il tema trattato da Rosanna Bissi, che riprende il concetto di ambivalenza della solitudine ma puntando sull'aspetto positivo, cioè sulla solitudine come valore. Proprio per vivere tutta la positività di questo valore l'Autrice indica preziosi suggerimenti pedagogici ed ascetici. Il contributo di Marisa Sfondrini ci presenta dal vivo, attraverso una serie di testimonianze, alcune drammatiche situazioni di solitudine tanto frequenti nella realtà odierna, stimolando la nostra sensibilità e sollecitandoci ad un impegno di aiuto alle persone più sole attraverso la gratuità dell'amore. Una breve ma succosa riflessione di Augustina Marchetti Dori, tratta da significative pagine bibliche e da un prezioso riferimento a san Francesco, conclude il volume richiamandoci alla consolante certezza della " compagnia " con Dio. Maria Canepa La solitudine situazione esistenziale e dimensione psicologica di Mariella Malaspina Realtà ineliminabile dell'esistenza umana Il mondo appare oggi come un piccolo villaggio, in cui ciò che avviene ( ma in genere, solo il male e le sciagure o quello che ha qualche attinenza con l'ambito scintillante dello spettacolo perché il bene - ahimè - non fa notizia! ) viene conosciuto in tempo reale, è comunicato e comunicabile, diventa quasi tangibile. I mezzi di comunicazione di massa, infatti, hanno raggiunto uno sviluppo prodigioso, la nostra società crea infinite possibilità di incontro e di scambio, ma produce anche forme nuove e tremende di solitudine e di alienazione: si moltiplicano le tendenze centrifughe e separatiste, cresce l'individualismo, si fa strada la mentalità concorrenziale, che concepisce gli altri come una minaccia. Psicologicamente, si avvertono due tensioni tra loro contrapposte, ma compresenti: il bisogno di comunicare e relazionarsi agli altri, ma nel contempo la diffidenza e la chiusura nei confronti di chi ci sta intorno. " Nel codice genetico delle grandi civiltà occidentali - scriveva nell'ottobre 1994 un noto giornalista, Giuliano Zincone - c'è la voglia di amore e di felicità, ma è rimasta anche la voglia di paura ". Scopriamo in noi la nostalgia e il desiderio di una vita " a misura d'uomo " pur sentendoci cittadini del mondo, ma anche nutriamo sospetto o ci sentiamo indifferenti nei confronti di quanti ci vivono attorno. Eppure, abbiamo coscienza che non si cresce nella propria identità separandosi, ma ponendosi in relazione. I punti di riferimento e le appartenenze si moltiplicano, ma sono tutti percepiti come temporanei, non definitivi né stabili: ci manca sempre il tempo, soprattutto per stringere e coltivare le amicizie. Così, avvertiamo una sensazione di precarietà e di incertezza. Perfino nella vita spirituale si rischia di fare un accumulo di esperienze senza riuscire a trovare in nessuna di esse la propria interiorità profonda. Né la vita con il suo incanto e le sue meraviglie né il cuore con i suoi misteri arrivano più a suscitare stupore. Siamo sospinti sempre più prepotentemente a confrontarci solo con noi stessi, con i nostri bisogni ed interessi, senza rapportarci agli altri. Nell'attuale imperante cultura dell'efficienza, del successo, dell'effimero, del piacere, dell'apparenza ci fermiamo alla superficie e all'illusione, e questo crea nell'animo un enorme vuoto. Viviamo, è vero, in un clima di pluralismo religioso, culturale, ora anche etnico, ma ciò da una parte spinge ad abbattere le barriere della rigidità e dell'arroccamento, mentre dall'altra rischia di portare alla rinuncia di qualunque criterio di discernimento. Nell'immensa solitudine a cui la vita frenetica, il progresso e perfino l'architettura e l'urbanistica contemporanea costringono l'uomo moderno, egli non sa più stare da solo né sopporta il silenzio; ha paura di trovarsi isolato e quindi cerca nervosamente la folla, immergendosi nel frastuono e nei rumori di ogni tipo. Questa apparente soluzione, ovviamente, non aiuta ad uscire dalla solitudine; anzi, contribuisce a creare un individualismo di massa con miti, ritmi e riti suoi propri ( incontri mondani e vacui, che sono tutto fuorché " incontri "; divertimenti che stordiscono e fanno evadere, ma non rigenerano; turismo quasi ossessivo che rischia di divenire una fuga o uno status-symbol; grandi assembramenti di carattere sportivo o musicale, che finiscono per rivelarsi manifestazioni di scomposta e talora criminale tifoseria o di scarso senso estetico ). La solitudine, allora, pare essere - soprattutto oggi - una situazione esistenziale, una costante ineliminabile dalla vita di chiunque, anzi dalla stessa condizione umana. Si può tentare di sfuggire ad essa, ma risulta vano il tentativo di fuggire da sé. " Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera ": così si è espresso uno dei massimi poeti contemporanei, Salvatore Quasimodo, per descrivere questa componente fondamentale dell'esperienza umana di ogni tempo. Tuttavia, nella società in cui viviamo, essa è troppo spesso frutto e prodotto dell'abbandono, dell'incomprensione, dell'isolamento e del rifiuto altrui, tanto da essere definita " uno degli aspetti del non-senso della nostra epoca ". Come tutte le realtà umane, però, la solitudine ha prospettive e sfaccettature differenti: può essere considerata nella sua dimensione psicologica ( isolamento spaziale, separazione affettiva, emarginazione sociale e culturale ) oppure con l'ottica filosofica o teologica oppure ancora con un taglio sociologico. Bonhoeffer e Fromm, in questo senso, affermano che solo chi è capace di comunione può vivere una solitudine che non schiaccia, non opprime, ma è vita e produce vita. Quando poi essa diviene raccoglimento e silenzio, costituisce il contesto basilare per la creatività e per la realizzazione personale, anzi addirittura del rapporto con Dio. Il suo significato, perciò, non appare per nulla chiaro ed univoco, e talora assume perfino aspetti e valenze contrastanti. Esiste, infatti, una solitudine positiva, operosa, ricca di attese e di speranza, che è comunione capace di aprirsi alla relazione e alla pienezza, di interrogarsi, ascoltare e scoprire il progetto di Dio sulla propria vita; senza di essa, l'essere umano risulta sbilanciato, finendo per perdere il suo equilibrio fisico, morale e spirituale. Ma c'è anche la solitudine negativa, descritta già nel libro del Qoelet, che è isolamento, chiusura in se stessi, emarginazione, vuoto, indifferenza di fronte ai problemi dei propri simili. È, dunque, una condizione esistenziale ambivalente, che può trasformarsi in una tormentosa ossessione, sofferta e subita per lo più temporaneamente perché dovuta all'età o ad una particolare situazione di vita ( malattia, anzianità, disoccupazione, abbandono, indifferenza, morte di persone care ), ma può anche essere accettata o addirittura scelta, quale atteggiamento e dimensione interiore, gioiosamente liberante. Biblicamente questa ambivalenza è emblematizzata dal deserto: luogo della sterilità, della separazione e dell'esilio, ma anche dell'incontro con Dio e della Sua rivelazione. Essere soli significa essere indifesi e incapaci di penetrare attivamente nel mondo che ci circonda. Noi vorremmo agire, siamo portati ad operare, facciamo progetti, desideriamo essere di aiuto agli altri. Però vengono per ciascuno dei periodi in cui siamo prevalentemente oggetto di azioni altrui. Ci sono persino singoli momenti in cui sembra che l'una o l'altra fase dominino. In effetti, l'attività e la passività - che è una forma di solitudine - coesistono ogni giorno, perché noi stessi siamo una insondabile e misteriosa mescolanza di attività e passività. La solitudine in prospettiva psicologica Alcuni bisogni sociali, come quello di comunicare, di stringere amicizia e di contare su un'appartenenza sicura sono universali, perché innati nell'uomo ed integranti della sua costituzione. Questi bisogni, tuttavia, vengono influenzati, attenuati o accresciuti dal contesto culturale, ma soprattutto dalle attese e percezioni personali riguardanti sia la quantità sia, e in misura prevalente, la qualità delle relazioni che instauriamo con chi ci circonda. Si vede con chiarezza, oggi, che il fenomeno della solitudine non è circoscritto a situazioni-limite o comunque eccezionali, ma è complesso, vario e diffuso. Un sondaggio statistico ha dimostrato che circa un quarto della popolazione sperimenta, in qualche fase della sua esistenza o in qualche periodo dell'anno, un'estrema solitudine. Ne è persino derivato un vero e proprio sfruttamento economico di tale fenomeno, attraverso la costituzione di club, centri, linee telefoniche, manuali ed altro ancora. Le percezioni soggettive, però, non sono sempre realistiche e provocano conseguenti delusioni e frustrazioni immotivate: spesso la sensazione di solitudine non dipende da quanti contatti interpersonali abbiamo, ma da quanti pensiamo che dovremmo averne. Persino l'essere a noi più familiare resta impenetrabile e misterioso nella sua interiorità profonda. C'è poi una forma di solitudine psicologica connessa con la stessa condizione dell'uomo come essere sociale: si tratta del sentimento di invidia che, sotto aspetti più o meno manifesti ed espressi, arrivando fino al risentimento e all'odio, sta alla radice di tante divisioni nella società, ovunque gli uomini lavorino o vivano insieme. È, questo, un sentimento che ci fa scoprire soli quando ne diventiamo oggetto ( e a tutti è capitato o capita! ), ma che anche, quando siamo noi ad avvertirlo nei confronti degli altri, ci isola da loro, mostrandocene solo i lati negativi. In fondo, è il cuore stesso dell'uomo, di tutti noi, che alimenta atteggiamenti divisivi e distruttivi. Da tale disarmonia e scollamento della nostra coscienza deriva la chiusura di ciascuno nel proprio interesse o nel piccolo gruppo dagli orizzonti ristretti, facile a dissolversi non appena intervengano nuove polarizzazioni all'interno sia della collettività civile e sociale sia della comunità ecclesiale, percorse tutte da divisioni di mentalità e di cultura. In noi stessi, dunque, è la dispersione: siamo tirati, sollecitati, dilaniati da mille cose; ci sentiamo come un coacervo di " pezzi "; ci sembra di naufragare in una immensa solitudine, che oggi è soprattutto un fatto interiore e psicologico, prima di essere un dato materiale riferito a condizioni e stati di vita. Molti giovani, ad esempio, affermano di essere soli anche se godono di affetto e di ogni risorsa. Essi avvertono un vuoto esistenziale perché mancano di relazioni significative, di obiettivi sicuri o dei mezzi per raggiungerli. La situazione attuale è anche in gran parte il frutto di uno sconfinato spirito di competizione. Una sana competitività può essere una molla preziosa a dare il meglio di sé, ma quando la concorrenzialità è portata all'eccesso fino a divenire aggressiva e distruttiva, allora provoca lacerazione e dà l'impressione di vivere in un mondo dove si è disposti a qualunque compromesso pur di " restare a galla " e di emergere. Esiste anche una solitudine di fronte alla missione: talvolta, quando ci sembra di averla scoperta, quando abbiamo trovato le persone con cui è possibile collaborare, tutto pare mutare e complicarsi, costringendoci a cambiare ottica e mentalità e a sintonizzarci su un'altra lunghezza d'onda. Allora, noi ci sentiamo inutili, svuotati, soli con le nostre debolezze, fragilità, speranze perdute. Anche l'uomo Gesù volle sperimentare questa condizione di angoscia estrema dopo aver provato la separazione dalla madre e dagli affetti, l'allontanamento dalla casa, il rifiuto e l'espulsione dalla sua gente e da chi viveva nel suo stesso villaggio, l'indifferenza di coloro cui prodigava benefici, l'abbandono degli amici, la falsa accusa di testimoni interessati e corrotti, il tradimento e l'incomprensione dei più intimi seguaci, perfino il silenzio di Dio: " L'anima mia è triste fino alla morte " ( Mc 14,34 ). Qualche volta, dopo che abbiamo alimentato in noi l'illusione di contare qualcosa, sia pur nel piccolo ambito di nostra competenza, ci accorgiamo che " non ce la facciamo più ": ci siamo buttati generosamente nel nostro impegno fino a presumere di essere noi a sostenerlo, ma dobbiamo penosamente constatare di aver bisogno di molti altri. Questa solitudine, derivante dalla nostra incapacità ed inadeguatezza di fronte alla missione, è una prova tanto più dolorosa quanto più forte è la consapevolezza di lavorare con tutte le energie per la realizzazione del progetto di Dio. Esiste, inoltre, il senso di solitudine nel discernimento dei segni dei tempi. L'evolversi delle situazioni e delle mentalità, così come il trasformarsi delle culture, ha assunto una accelerazione incontrollabile. La Parola di Dio e persino i valori di fondo che, fino a qualche decennio fa, erano rimasti come pilastri indistruttibili, richiedono oggi mediazioni culturali nuove e adatte. Ma come riconoscere i veri " segni dei tempi ", in mezzo alle molteplici interpretazioni che se ne danno? Quando si è oggetto di derisione, quando ci si accorge di essere esposti ad una forma di sottile persecuzione perché non si segue la mentalità corrente di tipo paganeggiante, quando attorno a noi domina una grande confusione culturale, nella quale parole, valori e significati perdono il loro senso, allora ci si scopre più che mai soli, estranei al contesto, lontani dalla falsa sicurezza dell'opinione comune, sospinti a non fermarci e a non accontentarci di ciò che abbiamo già fatto e che siamo e ad uscire da noi. Siamo allora tentati di reagire come Geremia, lamentandoci, e di lasciare spazio ad una domanda insidiosa: perché a me tocca di rendermi conto di questo stato di cose, mentre altri non vedono e non sentono e stanno in pace? Invece occorre vedere, capire, anche se ciò comporta sofferenza. Ma a questo punto non possiamo più contare su nessuno, neanche su noi stessi: la nostra solitudine si è fatta distacco, povertà e pace con la parte di noi limitata e imperfetta e si è trasformata in un vuoto che solo Dio può riempire. Anche qui Gesù ci è di guida: lotta contro la solitudine e la disperazione, rientrando nel silenzio e rivolgendosi al Padre con una preghiera insistente. La solitudine positiva Il bisogno di superare l'isolamento è profondo e radicato nell'uomo. In qualunque età e civiltà l'essere umano ha dovuto confrontarsi con un eterno problema: come rompere la prigione della solitudine e raggiungere un'autentica comunione con gli altri. I tentativi di soluzione possono essere vari: dalla lussuria sfrenata alla rinuncia ascetica, dal lavoro intenso alla creazione artistica, all'amore per Dio e per l'uomo. Anche il conformismo e la massificazione sono una alternativa; sia pur poco responsabile e matura, contro la paura e l'ansia di fronte alla diversità, quindi alla solitudine che ne consegue. Ecco qui la radice dell'uniformità sottostante allo sfrenato individualismo odierno: si scelgono i medesimi divertimenti, si coltivano gli stessi miti, si hanno gusti omologati. Ma la routine, sia essa del lavoro o del piacere, è insufficiente ed incapace di placare l'ansia. Allora, la prima ed immediata reazione è lo scoraggiamento: in fondo - siamo tentati di dire - non possiamo farci niente, la realtà storica ci supera, non resta che adattarci alla meglio, facendo buon viso a cattivo gioco e creandoci una piccola isola culturale che finisce per trasformarsi in gruppo psicologico. L'unico modo per superare il senso di isolamento e di separazione senza perdere la propria integrità, è di essere fermamente convinti di poter trascendere la solitudine subita o colpevole per tendere alla solitudine positiva, che è invece strumento di autopromozione, di crescita interiore e di liberazione da condizionamenti ambientali ed esterni. Senza tempi di solitudine l'uomo rischia di dissipare la propria umanità, di pronunciare parole non-pensate, e quindi soltanto " parlate " e non " parlanti ", secondo una famosa e centrata espressione di Mérleau-Ponty. Anche nella cultura classica è presente e radicata questa visione della solitudine come alternativa contrapposta ai contatti con gli altri uomini, visti come un fatto negativo. Moltissime potrebbero essere le citazioni al riguardo. Mi piace, almeno, riportare qui un'affermazione di L. Anneo Seneca, scrittore e filosofo del I sec. d.C., per il quale fu addirittura, anche se erroneamente, ipotizzata una relazione epistolare con san Paolo. Egli scrive all'amico Lucilie ( Ep. VII ): " Avarior redeo, ambitiosior, immo vero crudelior et inhumanior quia inter homines fui ", cioè " Torno a casa più avido, più ambizioso, anzi addirittura più crudele e disumano per il fatto che sono stato in mezzo agli uomini ". Così questo grande ingegno antico. Ma anche noi capiamo bene che la solitudine è essenziale per la vita spirituale in senso lato, soprattutto quando sono in gioco le opzioni più decisive dello spirito umano. Se vogliamo superare anche solo i condizionamenti che ci vengono dall'essere nati e vissuti in una certa famiglia, in un determinato ambiente dotato di una sua particolare cultura, e poter quindi esprimere e realizzare tutte le nostre potenzialità, dobbiamo imparare ad accettare quella che è stata definita " solitudine di condizione ", cioè la nostra singola individualità, rinunciando almeno in parte alla sicurezza che proviene dal passato e dal contesto ambientale in cui viviamo. Tanto più, allora, quando sono in gioco il pensiero originale ed autentico, il processo creativo, l'esperienza morale responsabile ed una vita interiore intensa. La disponibilità al silenzio e ad una certa separazione interiore sono indispensabili per strutturarsi e completarsi. Persino un fatto normale come il sonno ce lo dimostra: esso è una forma particolare di solitudine, in quanto il contatto con il mondo esterno viene temporaneamente sospeso ed è modello della pausa rigenerativa di energie fisiche e psichiche necessaria ad affrontare la vita. Se viene a mancare questa pausa benefica, le funzioni mentali si alterano; così, se non lasciamo mai nelle nostre giornate spazi di silenzio e di raccoglimento interiore, non riusciamo a metterci in sintonia non solo con Dio, ma nemmeno con noi stessi e quindi con gli altri, e ne scapita la stessa qualità della nostra vita. Se la solitudine fa paura, è perché provoca inevitabilmente un senso di vuoto e fa affiorare pensieri che talora ci risultano molesti e scomodi. Eppure, è la condizione per riscoprire le motivazioni profonde di alcune scelte già attuate o per sentire risuonare dentro di noi la voce misteriosa, ma ben percepibile, della coscienza. La vocazione sociale è propria dell'uomo e l'indole ecclesiale della vita umana è indubbia, tuttavia alla sorgente di entrambe sta il mistero della persona. " Anche se vivo, decido e prego in una comunità di fratelli che mi sostiene e spiritualmente mi dilata, resto sempre io in definitiva a vivere, a correre il rischio della decisione, ad affrontare … la preghiera " ( C.M. Martini, La dimensione contemplativa della vita, p. 26 ). Questa abitudine salutare a rientrare nella nostra interiorità, almeno di tanto in tanto, acuisce la capacità di avvertire ciò che non è superficiale, di cogliere il senso del nostro esistere, il bisogno di Dio e la responsabilità verso gli altri, di renderci conto dei nostri limiti ed errori, con la conseguente umiltà, ma anche la speranza dell'aiuto. Tale angolo di solitudine, questo " silenzio che ascolta, che accoglie, che si lascia animare " ( Martini, Dimensione …, p. 19 ), può quindi benissimo non essere un luogo materiale. " Tutti - diceva la grande mistica Caterina da Siena - possiamo avere dentro di noi una cella dove rimanere in contemplazione anche se siamo impegnati nell'azione ". Esigenza spirituale ed evangelica della solitudine Cercare il silenzio perché si è portati ad isolarsi dagli altri, vivere disperatamente chiusi e ripiegati su di sé, pur in mezzo alla gente, abbiamo visto che è un atteggiamento negativo, in quanto ci si sente non capiti, delusi, frustrati o tentati di evadere dal presente con le sue difficoltà e di fuggire dalla realtà in una immaginaria ed illusoria autosufficienza. D'altra parte, la solitudine positiva è un bisogno ed un valore fondamentale anche per l'uomo moderno. Come distinguerle tra loro? Dai frutti: se, cioè, rientrando in noi stessi e nell'intimo del nostro cuore, troviamo Colui che ne è l'origine e l'aspirazione ultima e ci apriamo all'amore oppure, all'opposto, ci chiudiamo in noi e nel nostro egoismo. Il deserto, emblema della solitudine, è il luogo della mancanza di mezzi, di certezza e di solidarietà, ma è anche il luogo della constatazione della propria debolezza e della ricerca di un incontro con Dio nel silenzio e nella preghiera: " La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore" proclama Osea 2,16. È nella solitudine che avviene la scoperta della propria missione per il popolo di Israele e per alcune sue grandi figure: Abramo, Mosè, Elia, Samuele, Isaia, Geremia, Maria di Nazaret, il Battista, lo stesso Gesù. Essa è occasione per l'individuazione dell'iniziativa divina sulla propria vita in una fase, che può durare anche a lungo, di apparente fallimento, di scacco o di abbandono da parte degli uomini dopo esperienze difficili. Nella vita di Mosè e di Paolo, la solitudine piena della presenza di Dio è stata frutto prima di faticosa scoperta e accettazione e poi di una scelta stupita, ma consapevole e voluta. Analogo fu il cammino dei più grandi santi: Agostino di Ippona, Francesco d'Assisi, Teresa d'Avila, Ignazio di Loyola. Tutti erano soli quando avvertirono la voce di Dio chiamarli per nome. E ciò perché la solitudine produce nel cuore dell'uomo quel silenzio e quel distacco dal contingente che sono la premessa per udire la voce di Dio ( Is 40,3: " Nel deserto aprite la via al Signore "; Lc 3,2: " La parola di Dio fu rivolta a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto " ). Solo nella solitudine si attinge la profondità del nostro essere e la presenza dell'Essere supremo, che è " dentro di noi e ci aiuta ad andare oltre di noi " ( sant'Agostino ). In essa l'uomo arriva a comprendere che niente lo soddisfa pienamente, che le sue esperienze non hanno corrisposto alle aspirazioni e che ogni speranza ha trovato una realizzazione solo parziale. Resta nell'anima una grande nostalgia. La vita tumultuosa e troppo impegnata che conduciamo non ci permette di coglierlo e toccarlo quasi con mano, perché è difficile scorgere Cristo in mezzo alla folla; tuttavia, è " nella solitudine che Dio si lascia vedere " ci ripete ancora il Vescovo di Ippona. Infatti, quando sopraggiungono lo scacco e il fallimento o ci si sente stanchi, allora nasce la domanda sul senso di tutto il nostro agitarci e ci interroghiamo se veramente lo scopo delle nostre azioni sia stato il Regno di Dio o non, forse, il successo personale. Quando i nostri sforzi e tentativi risultano vani, delusione, amarezza, dolore, perfino rabbia talvolta, montano dentro di noi e tracimano all'esterno, ma poi, a poco a poco, la contemplazione e lo spirito di preghiera emergono: all'orgogliosa sicurezza si sostituisce l'umiltà, ma anche la stupefacente scoperta che non siamo noi ad agire per Dio, bensì Egli ad interessarsi per primo a noi. È vero che noi Lo cerchiamo, ma è ancor più vero che è Lui a cercare noi, là dove siamo, ad aspettarci con pazienza e fedeltà, senza sdegnarsi per la nostra vanagloria e la nostra pochezza. La solitudine, allora, diventa processo di purificazione, manifestazione della debolezza nostra e della forza di Dio: ogni missione, piccola o grande che sia, non può trarre inizio se non da qui. Nella Annotazione 20a degli Esercizi Spirituali, sant'Ignazio ricorda che quanto più un'anima si trova sola e distaccata da tutti gli affetti e preoccupazioni materiali, tanto più diventa capace di unirsi al suo Creatore e Signore, non per isolarsi, ma per tornare ad immergersi nel mondo scoprendo Dio che vive ed opera in esso. La solitudine, allora, quando non genera abulia e passività, ma capacità di ascolto e dinamismo spirituale, è condizione esistenziale per chiunque voglia porsi alla sequela di Cristo: come per Lui, che saliva spesso solitario, all'alba, sulla montagna ( Mc 1,3; Lc 4,42; Lc 6,12; Lc 9,28 ) così anche per il cristiano essa deve essere un'esperienza non straordinaria, ma consueta ed ineliminabile. Tuttavia, l'uomo " vecchio " che ha paura del silenzio e dell'insicurezza, e l'uomo " nuovo " solitamente convivono. Anche lo stesso Gesù ha sofferto della precarietà della sua situazione: " … il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo " ( Mt 8,20 ). Sul suo esempio, una vita evangelica è sfida alla tentazione ed aspirazione generale di costruirsi un angolo di comprensione e tranquillità. Per questo, noi che ci sforziamo di seguire il Signore siamo soli e veniamo sovente considerati strani. Tra gente che vive benissimo anche senza Gesù Cristo, noi andiamo contro corrente: affidati totalmente a Lui, poggiamo la nostra speranza solo sulla Parola di Dio ed osiamo affrontare l'incognita delle Sue vie imperscrutabili. Momenti e circostanze di solitudine di Anna Riva Siamo nell'epoca detta della comunicazione, grazie allo sviluppo tecnico dei " media ", con i quali, soprattutto con la televisione, si può seguire in diretta gli avvenimenti o esserne informati in tempi brevissimi. Oltre a questi strumenti, le recenti innovazioni della Telecom, che con numeri privilegiati ( come il 144 ad es. ) fa comunicare rapidamente con organizzazioni che possono rispondere immediatamente su argomenti di vario genere, permettono una rapidità di informazione che talvolta può stupire. Più interessanti ancora sono le chat-line, con cui si comunica come se si facessero delle chiacchiere con amici e la TV interattiva, nella quale si può intervenire in uno spettacolo o trasmissione per reagire personalmente a quanto viene offerto in visione. Sembra che in questi modi sia impossibile sentirsi soli; anzi si può talvolta avere l'impressione di essere direttamente coinvolti da fenomeni esterni, che limitano la nostra libertà, fermo restando il fatto che chi non vuole esserlo deve soltanto spegnere l'apparecchio, riconquistando la sua tranquillità. È certo che questi strumenti mettono facilmente in contatto con tutto il mondo, con notevole vantaggio di allargare le nostre esperienze e farci uscire dalle ristrette barriere della vita individuale. Ma è altrettanto vero che il pericolo della solitudine è allontanato e che la singola persona si " sente " in comunicazione con il resto del mondo? Contraddittoriamente la maggior parte delle persone anche al nostro tempo soffre di solitudine; proprio i media raccontano di episodi di emarginazione, di solitudini fisiche e psichiche drammatiche, di storie di depressione, di suicidi, quando non di criminalità e abbandoni agghiaccianti. Da una parte vi sono manifestazioni di solidarietà, dall'altra esasperazioni di individualismo; poche, anche se molto valide le prime, diffuse e molteplici le seconde. E sembra che queste siano le caratteristiche prevalenti della cultura occidentale, tecnologicamente progredita, umanamente ancora in difficoltà nelle relazioni affettive. Ho finito di leggere in questi giorni un " romanzo " che a quanto afferma l'autrice rispecchia fedelmente un'esperienza reale da lei fatta presso una tribù di aborigeni dell'Australia. Non vi sono riferimenti specifici alla località in cui si sviluppa la storia, né vi sono possibilità di scoprire altri accenni che permettano di identificare i personaggi, ad eccezione di una dichiarazione riportata alla fine del racconto, firmata da Burnam Burnam, " anziano della tribù di Wurundjeri ", che attesta la veridicità di quanto narrato. La Morgan afferma di essersi impegnata a non offrire nessuna possibilità di identificazione dei luoghi e delle persone, anche se dalla situazione emergente appare il desiderio di quella gente di lasciare una testimonianza di sé nel mondo occidentalizzato dell'Australia inglese. Ciò che mi ha colpito in maniera sorprendente è il sistema di comunicazione che questa tribù, che si definisce " Vera Gente ", mette in atto per lo più nella vita quotidiana, ma in maniera ancora più intensa nei momenti di lontananza o di bisogno: la telepatia ed il linguaggio non-verbale. Vi è fra i membri del gruppo una straordinaria " unità ", che permette la circolazione delle informazioni più nel silenzio che nella conversazione. Con la conseguenza che il sentimento di solitudine sembra estraneo all'esperienza del singolo, pur nell'affermazione e nella pratica che di fronte alle difficoltà occorre impegnarsi da soli, tendere al superamento semplicemente perché così è la realtà e così ha deciso il destino. Non mi soffermo sulla filosofia e la religiosità di questo popolo, che vive nell'immersione nel Tutto e con esso comunica incessantemente. Gli aborigeni australiani si sono opposti tenacemente alla " civilizzazione " imposta dagli occidentali e si sono ritirati alla periferia delle città, conservando antichissime tradizioni e rituali, ma soprattutto vivendo in una spiritualità aliena al possesso delle cose. Riflettendo sulle condizioni psicologiche di un gruppo così vicino alla natura ( ma non disinformato sulla vita di tipo occidentale ) mi è sembrato di capire come avrebbe potuto essere il sentimento di appartenenza dell'umanità primitiva e come si potrebbe in qualche modo ricuperare il sentimento " gruppale " che in culture anche diverse, più recenti ma meno sofisticate della nostra, ha reso vivibile la vita e sorretto intere generazioni. Il recupero delle possibilità di comunicazione " effettiva " e non affidata a mezzi tecnologici è una delle preoccupazioni più vive della psicologia clinica e della psicopedagogia, oggi. Le relativamente recenti ricerche sulla dinamica di gruppo e la psicoanalisi dei gruppi ha messo in evidenza che l'essere umano nasce in un gruppo e continua ad avere bisogno di vivere in gruppo; l'ambiente primordiale, infatti, è la famiglia, che nella maggioranza dei casi è costituita da almeno due membri e con la nascita del figlio o dei figli si accresce. Di qui il bisogno esistenziale, inestinguibile di convivere con altri; di qui il penoso sentimento di frustrazione che si manifesta quando il nucleo familiare si riduce per la perdita di uno o più membri, soprattutto se il fatto avviene quando l'individuo è ancora in età infantile. Occorre molta capacità di compensazione affettiva da parte degli adulti presenti superstiti per riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa. Occorre che l'ambiente sia in grado di sostituire gli assenti, per favorire la crescita della personalità ancora in evoluzione. L'osservazione delle condizioni ambientali e del loro influsso sullo sviluppo dell'identità ha raggiunto alcuni punti fermi, ha permesso di formulare un percorso teorico del rapporto individuo/società/solitudine. Capacità di solitudine, capacità di relazione È opinione condivisa, infatti, che nel periodo della vita intrauterina, dopo la formazione delle strutture cerebrali connesse con l'attività sensoriale, si stabilisce una forma di comunicazione, di cui non è ancora stato possibile tracciare un quadro sufficientemente indicativo, che comunque si rende evidente nel rapporto tra feto e madre. Quando, infatti, il bambino nasce, il suo comportamento indica che vi sono strutture neurosensoriali bene sviluppate e che immediatamente il neonato mostra di sentirsi in contatto con le persone che si prendono cura di lui. È ormai superata la convinzione che solo dopo qualche mese si stabilisca una corrente d'intesa; se mai le sue manifestazioni sono ridotte rispetto a quelle che progressivamente si vanno organizzando nell'evoluzione del tempo. E vi sono anche indizi che esiste una forma di elaborazione mentale delle esperienze sensoriali ed emotive pur non potendosi dire quali siano le modalità nelle quali si svolge. Vi è una corrente di andata e ritorno fra il piccolo, le persone ed anche l'ambiente fisico. La mancanza di stimoli sensoriali impedisce un corretto sviluppo cognitivo: in tale caso l'attività mentale si riduce a forme primitive oppure ( o contemporaneamente ) l'elaborazione fantastica procede a vuoto, portando ad interpretazioni abnormi della realtà. L'equilibrio fra quantità/qualità degli stimoli e risposta soggettiva permette invece un'organizzazione soddisfacente delle attitudini cognitive ed emotive: nasce così e si sviluppa la personalità " normale ", con caratteristiche specifiche di ognuno, e con sufficienti supporti per la relazione interpersonale. A questo punto si pongono le domande sulla solitudine. Un discorso complesso, perché per un certo verso è necessario sviluppare la " capacità di solitudine ", per un altro verso è necessario sviluppare la " capacità di relazione " con gli altri. La vita è un'alternanza, anzi, è coesistenza delle due disponibilità. Gli eccessi dell'una o dell'altra provocano le tristi condizioni della depressione o dell'eccitazione superficiale, inconcludente. La capacità di solitudine è strettamente connessa con la stima di sé, con l'acquisizione progressiva della propria autonomia, con l'esperienza che almeno temporaneamente, si può fare da sé. Con la crescita dell'età e lo sviluppo regolare delle funzioni cognitive/affettive il piccolo diviene capace di bastare a se stesso, nel senso che acquisisce una motricità sempre più disinvolta, un potere di manipolazione che gli permette di organizzare i suoi giochi, una percettività più raffinata e un'intelligenza più adeguata all'interpretazione delle immagini che si formano nella sua mente; la memoria testimonia la continuità dell'Io e offre materiale di confronto, di riflessione e di immaginazione di ciò che potrebbe essere ed ancora non c'è. Se l'ambiente ha garantito nei limiti del possibile un sufficiente supporto affettivo, la fiducia in sé stimola alla tolleranza dell'essere soli, perché l'attività mentale crea situazioni gratificanti: o è la fantasia che riempie il vuoto o è la creazione di situazioni di " compagnia " ( i bambini si creano il compagno immaginario ) o è il gioco che assorbe l'attenzione. Il bambino " sano " difficilmente conosce la noia e la percezione di essere " materialmente solo " non disturba perché " sa " che la persona temporaneamente assente ritorna. È la fiducia nell'altro che interviene a rinforzare la fiducia in se stessi. In psicologia si parla di " interiorizzazione " o " internalizzazione " dell'oggetto di amore ( soprattutto le persone ) con la conseguenza che le persone ( o meglio la loro immagine emotivamente colorata ) restano presenti psicologicamente anche quando sono lontane. Il tutto fondato sull'esperienza " reale " che anch'esse " rispondono " nel medesimo modo. Anche se solo, l'individuo " sa " di essere in contatto con il mondo ed il mondo con lui. Fino ad arrivare a forme di telepatie, in alcuni casi di estrema sensibilità e di predisposizioni particolari ( percezioni extrasensoriali ). Forse l'esempio degli aborigeni che ho citato precedentemente si spiega con un particolare addestramento a mettersi in contatto ed a percepirsi reciprocamente sulla base dell'esperienza del forte legame che esiste nel gruppo. È comunque accertato che attraverso la trasmissione di una particolare cultura queste facoltà possono essere sviluppate in alto grado. Allo stato attuale delle ricerche, sono state organizzate tecniche terapeutiche fondate sull'attitudine al rilassamento, all'elaborazione dell'immaginario nel quale affiorano desideri e programmi di relazione, all'addestramento a percepire " realtà " che non cadono direttamente sotto i sensi, alla meditazione detta trascendentale, tutte costruite sulla conoscenza meglio approfondita di tecniche utilizzate dalle religioni orientali, che fino a non molto tempo fa venivano considerate troppo primitive e perciò rifiutate dal razionalismo in auge. Il fascino delle culture orientali ( e persino l'attrazione della droga in quantità limitate ) ha indotto a ri-scoprire le notevoli possibilità di comunicazione e la presenza nel proprio archivio di esperienze di questi " oggetti internalizzati ", che ci mantengono in contatto con chi è assente. I rari fenomeni di telepatia, di premonizione, al di là di ogni suggestione o pretesa, testimoniano che non si è soli, ma continuamente in relazione con altri, sia pure in forma difficilmente decodificabile. Le società che noi consideriamo primitive sono molto più sensibili di noi in questo campo. L'apparente solitudine, quindi, è ricca di legami ed è la condizione che permette, anzi, di scoprirli. L'aspetto costruttivo della solitudine Vi è un altro aspetto " positivo " della solitudine ed è di natura " difensiva/costruttiva ". Il rapporto con i nostri simili è spesso faticoso e la sottomissione alle leggi della convivenza e del lavoro comporta spesso un logorio delle energie; allora appare e si fa prepotente il bisogno di sottrarsi almeno temporaneamente a tutta questa fatica, per recuperare le energie. Il modello fisiologico è il sonno, che interrompe il flusso di andata e ritorno degli stimoli esterni e, attraverso il sogno, fa affiorare un insieme di pensieri e sentimenti, di cui solo in alcuni casi si riesce ad essere consapevoli. È certo che il sonno ha una funzione importantissima per il corretto funzionamento dell'organismo ed in particolare per le funzioni mentali. Quando si dorme si è " soli " totalmente soli, anche quando si dorme fisicamente vicini ad altri. La mancanza di possibilità del recupero di se stessi attraverso il sonno provoca, a lungo andare, un affaticamento e poi un logoramento globale della personalità. Una delle prove più drammatiche è la tortura applicata impedendo, a chi è stato catturato, la possibilità di sufficienti ore di sonno; spesso il risultato è il suicidio o l'esplosione della follia. Si sa ancora poco su ciò che avviene durante il sonno, ma si è concordi nell'affermare che vi si svolge una complessa attività mentale del " tutto libera " dagli influssi esterni. È un momento di grande solitudine, ma non di vuoto. Analogamente avviene quando è possibile assentarsi dagli abituali legami con la vita quotidiana, per immergersi nella percezione di se stessi: una percezione liberamente fluttuante, rilassante nella quale si " sente " di esistere, di possedere la vita; oppure si ha la possibilità di riorganizzare i propri pensieri, la propria vita e di progettare il futuro. L'esperienza religiosa ( di tutte le grandi religioni ) di stabilire dei tempi in cui la solitudine è consigliata ( mai imposta ) permette il distacco dalle comuni attività, per immergersi in una percezione ancora più vasta e significativa di se stessi, in relazione o con il Trascendente o con il Tutto, fino a giungere ad esperienze mistiche di contatto con il mistero della vita o con il mistero della divinità. L'aspetto " costruttivo " di questa solitudine appare dall'osservazione delle attività di coloro che l'hanno adottata come stile di vita: i grandi ordini monastici, gli istituti religiosi che affiancano all'attività sociale tempi lunghi di meditazione e di ritiro nell'isolamento durante la giornata o in particolari periodi dell'anno. Sono istituzioni che hanno segnato dei passi in avanti nella costruzione di una cultura sociale, per la necessità intrinseca alla persona umana, di trasferire la ricchezza della comprensione del mistero all'azione sociale di aiuto agli altri. È una solitudine che prepara la socialità e l'esercizio della carità. Avere non basta: bisogna " essere " Purtroppo il ritmo eccessivo della vita contemporanea è dettato dall'affanno di " produrre ", di accumulare possesso e potere, di stordirsi in vario modo con la velocità, con i suoni, con il movimento; anche i periodi di ferie, dedicati al recupero delle energie, divengono espressione di frenesia, di viaggi in paesi lontani, nei quali l'aspetto culturale e distensivo è soffocato dalla stimolazione intensiva degli " animatori ". Le feste si riempiono di manifestazioni che spesso ricordano il baraccone da fiera, l'eccitazione viene scambiata per felicità … Sembra uno slogan fisso accennare al consumismo come ad una deviazione del gusto e del senso della vita. Ma già più di quarant'anni fa lo psicoanalista Fromm ha pubblicato un libro, divenuto un best-seller ancor oggi molto apprezzato, dal titolo Essere o avere. Proponeva all'osservazione la differenza fra uno stile di vita prevalentemente orientato al possesso delle " cose " e spesso anche delle persone e lo stile di vita intesa a valorizzare le relazioni umane, lo sviluppo della persona, la solidarietà, pur senza svalorizzare il diritto anche ad avere. Ma l'" essere ", cioè il potere esprimere i valori fondamentali della cultura e dell'affettività, secondo l'autore, dev'essere il progetto dell'umanità, se si vuole progredire nella civiltà e nella pace. Dopo tanti anni il discorso è ancora valido. L'avidità di possedere cose e persone rende aridi, insensibili, anche quando non è forzata fino alle sue peggiori conseguenze; è nemica della collaborazione e precipita l'uomo nella solitudine dell'egoismo. Non è divertente sviluppare un discorso su questi deludenti aspetti del nostro tempo - ed è anche doveroso riconoscere che queste dinamiche non sono state estranee alle precedenti culture - ma sembra opportuno porsi nell'angolazione di chi osserva il fenomeno della solitudine. Come mai in un periodo in cui la comunicazione appare facilissima gran parte delle persone " si sente sola ", attraversa periodi di depressione, non trova pace nel desiderio di comunicare, sempre frustrato? Come mai molte persone si domandano: " chi sono "? e faticano a rispondere, non riuscendo a cogliere la presenza di se stessi nel mondo come distinte, capaci di orientarsi e sono sempre bisognose del sostegno del conformismo passivo o della ispirazione della moda prevalente? In una società che sembra offrire tutto, si sentono deprivate di qualcosa che non sanno definire, ma che crea un'attesa continua, cui gli altri non sanno rispondere. Il fenomeno della grande città moltiplica il sentimento di solitudine, di inesistenza: il grigiore delle periferie, soprattutto, della massificazione, dell'anonimato sembra schiacciare in particolare le generazioni più giovani, cui è venuta a mancare la particolare atmosfera dei piccoli gruppi, con le loro dinamiche relazionali, con il tu per tu dei giochi, dello stare insieme, del collaborare a qualche cosa. Al fenomeno della grande città si sta contrapponendo, quando possibile, il desiderio di spostarsi in luoghi più intimi, anche accettando la fatica di lunghi percorsi per recarsi al lavoro o a scuola. Nell'ultimo decennio alcune statistiche evidenziano un calo dei residenti in città in favore di paesi limitrofi, che mantengono ancora uno stile di vita considerato più umano, più comodo. La famiglia risente di tante difficoltà, perché rimane come smembrata dalle attività quotidiane. Non è esatto che la responsabilità della solitudine dei membri sia da attribuire sempre e soltanto al fatto che la madre lavori e per conseguenza manca per molte ore dalla casa. Il sentimento di solitudine colpisce anche famiglie dove la madre mantiene la sua presenza in casa; d'altronde sappiamo che la percentuale delle madri di famiglia che lavorano fuori casa ( spesso per autentiche necessità economiche ) non è elevata. Il problema è più profondo e tocca la " qualità " del rapporto umano. Si è instaurato un ritmo di vita sempre accelerato, che " mangia " gli spazi di tempo nei quali si potrebbe godere di una relativa calma e di quella intimità di cui si sente il bisogno. Se la giornata comincia prestissimo e subito si accende la televisione o la radio a tutto volume, e se per conseguenza l'attenzione è polarizzata allo spettacolo, impedendo l'interesse reciproco, a lungo andare si inaridisce la possibilità di comunicare anche per brevi accenni: si vive in un mondo " virtuale ", che invade e prevarica ogni possibilità di riflessione interiore. Oppure la ripetitività della presenza di questi strumenti rende ottusa la sensibilità, meccanico lo svolgimento delle normali attività quotidiane, la distrazione diventa un atteggiamento consolidato. Distrazione nei rapporti interpersonali, distrazione nello studio, distrazione nel lavoro, distrazione a ciò che avviene intorno. Il mezzo televisivo " invade " la vita, impedisce di percepirsi, crea dei modelli in un certo senso obbligati, impone mode che vengono seguite acriticamente. È un condizionamento implacabile. Chi ne trae profitto? Il pericolo dell'assuefazione Si parla di telecrazia come fenomeno dominante nella vita collettiva: è ovvio che il profitto è a tutto vantaggio dei gruppi che si servono di questi strumenti per raggiungere finalità o di potere politico ( come sta avvenendo in Italia attualmente ) o di potere economico. Giustamente si obietta che i media diffondono cultura e favoriscono il miglioramento globale della società. Sarebbe tuttavia più esatto dire che " potrebbero favorire ", perché il dato di fatto dimostra praticamente il contrario. La questione di fondo è nella qualità della gestione. Anche la promozione di una cultura religiosa seriamente condotta sarebbe auspicabile e qualche gruppo sta tentando di farla. Ma è insito nell'attuale stile di gestione il pericolo della trasmissione/spettacolo, che privilegia le forme più appariscenti a scapito della riflessione attraverso immagini più raffinate, che diano tempo sufficiente per l'assimilazione del messaggio. La scadente qualità delle trasmissioni anche a scopo culturale o religioso si traduce in un appiattimento delle capacità critiche e l'intelligenza viene troppo poco stimolata per produrre effetti duraturi. La personalità si svuota: scarso l'interesse, scarsa la qualità del prodotto, l'uso di un mezzo prezioso diviene una specie di routine obbligata, priva di possibilità di scelta. La TV è una presenza costante, che riempie un vuoto materiale, ma non comunica quasi nulla. Il pericolo è " l'assuefazione ". Quando uno stimolo è ripetuto continuamente perde la sua efficacia e l'organismo costruisce delle barriere, fino a non percepirlo più; è una forma di difesa per la sopravvivenza. Nel caso specifico gli effetti immediati della trasmissione divengono sempre più deboli. La reattività " personale " si va facendo meno vivace, meno sensibile. Su questa base si potrebbe anche sostenere l'inutilità della trasmissione e affidarsi alla probabilità che non vi siano effetti ne in bene ne in male. Cosa probabile, ma non certa, perché la memoria immagazzina a livello inconscio i vari stimoli, li metabolizza e non si sa quali possano essere a lungo termine gli effetti di ciò che è stato assimilato. Le preoccupazioni attuali per le trasmissioni di scene ed episodi di violenza trovano una conferma nel degrado globale della convivenza sociale. Analogamente si può dire per altri modelli di vita. Le conseguenze a breve termine non sono subito evidenti, ma a lungo termine si fa sempre più fondata la constatazione della " scomparsa " di alcuni " valori ", la difficoltà ad esercitare un giudizio personale su avvenimenti collettivi, la reattività a sollecitazioni verso appartenenze ideologiche, l'appiattimento degli interessi e la capacità di scelta. Vince chi da più spettacolo … non chi propone il messaggio più costruttivo. Come vince chi fa pubblicità più coinvolgente, non chi offre il prodotto migliore. Il fenomeno " solitudine " dilaga per un sentimento di vuoto che invade l'esistenza, non tanto perché vi siano motivazioni ben definite alla depressione ( nel senso di perdita di qualcosa di personale ), ma perché viene a mancare la percezione di sé come membro " vivo " in una comunità " viva ". È la solitudine del non-senso della vita, soffocata da troppi stimoli esterni, chiaramente percepiti come condizionanti all'essere come tutti, quasi meccanicamente inseriti in un flusso di corrente dove non c'è possibilità di scelta. È il sentimento di " essere massa " e non persona, che soffoca le aspirazioni più individuali. In una società che fittiziamente propone modelli attivi, l'adolescente in particolare si trova smarrito perché non trova in se stesso le energie per affrontare la conquista di quei valori che meritano di essere affermati e vissuti in pienezza. Il rifiorire del volontariato fra i giovani ha probabilmente il significato della riscoperta della possibilità di scelta per attività fortemente personalizzate, tali da soddisfare il bisogno di " identità " singola, di inserimento " attivo " nella società. Ma a pochi è data l'occasione di giungere a questa apertura. Le inchieste dei sociologi sulla fascia di età 18-25 rilevano una preoccupante tendenza depressiva della maggior parte, determinata dalla mancanza di legame con ideali, con progetti a distanza che assorbano l'interesse e l'impegno. Una delle problematiche più sentite è quella relativa alla propria " identità ". Alla ricerca dell'identità perduta Con questo termine si indica in psicologia il normale sentimento della propria continuità nel tempo, della propria esistenza come persona ben definita, di essere " se stessi " e non altri. Tale sentimento si sviluppa e si afferma nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza, per costituirsi definitivamente nella giovinezza. Gli stimoli esterni e la relazione con altre persone hanno una funzione modellatrice; la realtà favorisce la crescita dell'Io. Un'osservazione importante espressa già da Hartmann nel 1939 è la " non-condiscendenza " dell'ambiente come " fattore che determina il confronto interattivo e la crescita del Sé ". E già allora questo autore sottolineava che " se l'ambiente fosse totalmente accondiscendente a tutti i bisogni dell'uomo, questi non si svilupperebbe: in altri termini l'ideale di un eden di soddisfazioni naturali, istintuali, non farebbe affatto la felicità, bensì sarebbe la morte, in quanto annullerebbe la possibilità di sviluppo degli individui ". Una crescita attuata in ambiente privo di relazioni cognitive ed affettive concrete, con la variabilità di messaggi rinnovati nella relazione diretta con le difficoltà della convivenza, libera da stereotipie o da eccessive facilitazioni permette la costruzione dell'identità molto più stabilmente che non l'esposizione a messaggi poco significativi e superficiali come quelli accennati sopra: consumismo, telecrazia, eccesso di facilitazioni, ritmi troppo accelerati provocano consumo di energie con scarsa produttività psicologica. Sembra che la preoccupazione più evidente sia quella di " essere come " i modelli offerti dalla pubblicità, dalla moda o dallo sport. Contro questi modelli si erge agghiacciante lo spettro della guerra, della violenza dilagante; chi ha la fortuna di vivere in uno stato tranquillo resta però disorientato dal penoso contrasto fra i due estremi. La vera mancanza di identità costituisce un fenomeno patologico severo; più diffuse sono le situazioni intermedie, che espongono alla ricerca di punti di riferimento; d'altronde mancano, almeno nell'attuale società italiana, personalità forti e capaci di rappresentare, tradotti in realtà, ideali di coraggio, solidarietà, di pensiero critico. C'è da sperare che la percezione dell'attuale crisi stimoli alla ricerca di una via d'uscita, così da ridare fiducia e ri-valorizzare l'iniziativa personale contro il conformismo che appiattisce. Ritrovare motivazioni ideali alla propria attività quotidiana è uscire dalla solitudine depressiva, per aprirsi di nuovo alla speranza. È sentirsi vivi nella fatica di affermare se stessi non nella vanità dell'apparire, ma nella sostanzialità dell'essere. Le solitudini inaccessibili Vi sono poi solitudini più drammatiche in situazioni di malattia, di povertà, di emarginazione, di vecchiaia. Ci sono sempre state, ma oggi ci se ne accorge di più e se ne parla di più; occorre anche riconoscere che si tenta in vario modo di aiutare chi soffre, ma le persone a disposizione sono troppo poche in confronto con l'immensità delle persone che ne sono colpite. La malattia cronica, soprattutto, la malattia inguaribile, che lentamente corrode la resistenza fisica comporta anche un progressivo logorio psicologico. Cessata, infatti, per ragioni evidenti, la speranza della guarigione, lo spettro di una sopravvivenza caratterizzata dal dolore, dal bisogno di cure, dalla necessità di dipendere dagli altri può creare il sentimento di panico, di disperazione. Non rari sono i suicidi provocati dal terrore di ciò che potrebbe essere e durare a lungo. Non sempre le persone colpite hanno l'opportunità o la disponibilità a far sapere ad altri ciò che sta succedendo: vi sono solitudini " volute " per non dare troppo dolore ai familiari. È una forma di amore che ha aspetti eroici, nella tenacia con cui si mantiene il silenzio, finché le forze rimangono sufficienti a conservarlo; poi la tragedia. Che colpisce i parenti all'improvviso o quasi, quando ogni intervento di assistenza si fa praticamente impossibile o inutile. Difficile per la famiglia accettare la volontà del malato, perché è costretta a scontrarsi senza alcuna preparazione al peggio. La depressione, il sentimento di colpa per il mancato aiuto restano a lungo dopo il decesso; il silenzio così tenacemente mantenuto dal paziente viene vissuto come un rimprovero, una mancanza di fiducia, dimenticando che invece è stato motivato dall'amore e dalla pietà. Chi rimane, invece, non si dà pace, si rimprovera di non aver capito. Se poi interviene anche il suicidio, il dramma per i superstiti è straziante. Ci sono le solitudini disperate di chi apparentemente sta bene e maschera un conflitto interiore con le apparenze della normalità: ragazzi che si sentono incomprensi o addirittura abbandonati in una famiglia che non sospetta nulla, giovani disoccupati o abbandonati dal/dalla partner; anziani che hanno perduto il parentado e le amicizie per malattie o per trasferimenti; persone che sono costrette ad abitare in luoghi diversi da quelli originari e faticano ad instaurare rapporti sociali. Vengono sopraffatti dalla depressione, non reagiscono più e al massimo la reazione avviene nella direzione della chiusura in se stessi, del tirar avanti stancamente, meccanicamente, privi del sostegno della speranza o della fede nel valore della vita. Ma che valore può avere una vita trascinata solo perché manca il coraggio di farla finita? Chi sta fuori spesso assume l'atteggiamento di chi giudica in forza di principi astratti, dimenticando che il solitario non è insensibile al loro valore, ma non riesce più a sentirne il fascino o se lo sente non si considera più capace di aderirvi. Anche la fede si erode quando vengono a mancare gli stimoli della relazione sociale soddisfacente; la fede ha bisogno di essere condivisa per non assumere l'apparenza di una fantasia isolata, priva di convalida esterna. La solitudine diventa patologia mentale, abbandono alle proprie paure, desolazione profonda, per lo più smascherata da un comportamento accettabile. Per ragioni di deontologia professionale non mi è possibile documentare quanto dico con esemplificazioni tratte dalla mia esperienza; posso tuttavia testimoniare quanto sia difficile penetrare attraverso le barricate così costruite per portare un alito di speranza a chi ne soffre. Spesso il contatto è scoraggiante, per l'inaccessibilità dell'interessato. Che oppone una resistenza non sempre consapevole o che è perfino inconsapevole della propria disperazione e si nega al colloquio. Direi che sono queste le solitudini più angoscianti per chi cerca in qualche modo di dare un aiuto o almeno un sollievo. Nei ragazzi/ze e negli adolescenti le resistenze sono le più forti, fino a diventare caratterialità. Sono nate lentamente in un processo di difficoltà di rapporto e si sono consolidate con l'aiuto delle forti energie a disposizione dell'età giovane. Nel malato incurabile o inguaribile vi sono evidenti motivazioni alla depressione, ma nella persona giovane, apparentemente inserita in un contesto " normale ", quali motivazioni si possono invocare? Qui entra in gioco l'insondabile reattività individuale all'ambiente, nello scontro fra ciò che è desiderato e ciò che è ottenuto; anche lo specialista fatica a trovare una via per l'incontro. Meglio il silenzio, il rispetto della chiusura, associato ad una presenza che al di là delle parole testimonia un interessamento forse scarno ma sostanziale. Qualche volta la comunicazione si instaura; altre volte rimane la percezione che qualcuno ha tentato un aiuto ed il suo ricordo potrebbe agire in tempi lontani, quando qualche situazione particolare rompe la diga difensiva. Qualche volta dire: " prego per te " o qualcosa di simile lascia una traccia che induce alla speranza. Nell'inconscio del sofferente rimangono inespresse parole, suoni, gesti che la memoria restituisce in circostanze impensate. È importante " credere " nel valore di queste piccole cose, che possono diventare semi di rinascita. Solitudine: che fare? La domanda è allora: che fare? Che cosa può organizzare la comunità ecclesiale, il volontariato, la persona che comprende il disagio altrui e vorrebbe in qualche modo portare un contributo di solidarietà? I suggerimenti in proposito non sono generalizzabili, ma qualche orientamento può affiorare, riferendosi alle forme di solitudine accennate. 1. Anzitutto occorre valorizzare la capacità di solitudine, come espressione della " forza dell'Io ", per usare un'espressione classica. Cominciare fin dall'infanzia a fornire il necessario sostegno per superare le paure normali nei primi anni di vita, aiutare ad avere fiducia in se stessi e negli altri, guidando nei momenti difficili e lasciando soli per le piccole difficoltà. La formazione della personalità inizia con la nascita; è inutile rimandare al poi l'insieme degli interventi ed è necessario instaurare una corretta pedagogia, nella quale abbia prevalenza lo stimolo alla fiducia, libera da illusioni onnipotentistiche o da intolleranza alla frustrazione. Anche la frustrazione, se proporzionata all'età, può essere incentivo alla crescita. 2. Intervenire con tutti i mezzi possibili per modificare le tendenze al consumismo, alla ricerca del facile benessere, alla soddisfazione immediata; vigilare sui messaggi trasmessi attraverso i media dai gruppi dominanti e interessati a favorire il consumismo. È un compito immenso, poiché investe tutta la cultura attuale. È tuttavia realizzabile se si interviene nell'ambiente in cui si opera normalmente, facendo leva sul fatto che se un piccolo gruppo si convince di una certa finalità, automaticamente ne diffonde la conoscenza all'intorno. Come dilagano modelli negativi o superficiali, così possono dilagare modelli più idonei al corretto sviluppo della cultura. In particolare insistere sulla solidarietà, sulla comprensione reciproca, mostrandone la concretezza di attuazione. 3. Favorire lo sviluppo e l'estensione di specializzazioni di aiuto sociale, per programmare a livello singolo o come gruppo l'interessamento, la ricerca delle solitudini più drammatiche, con iniziative da studiare caso per caso o ambiente per ambiente. 4. Nutrire sempre la speranza che di ciò che si fa, purché fatto bene, rimane sempre un'impronta anche nel caso che apparentemente e momentaneamente non vi siano risposte positive. L'esempio dei grandi santi e dei grandi filantropi ci documenta della possibilità di successo a lungo termine. 5. Alimentare se stessi con la riflessione, la pratica della preghiera ( se si è credenti ), le relazioni di amicizia e l'informazione permanente sulle manifestazioni dell'attualità, per decifrarne il significato del momento e gli sviluppi del futuro. 6. Abituarsi, per conseguenza, alla " compassione " non in senso pietistico, ma nel significato etimologico di identificazione con l'altro per cogliere le dinamiche del suo disagio; dalla comprensione nascono intuizioni che possono divenire interventi efficaci. La compassione, tuttavia, esige anche un distacco emotivo e un equilibrio di giudizio, che si acquista con l'esperienza, oltre che con la dottrina. Questi miei appunti saranno integrati dagli altri interventi; mi auguro che possano trasmettere non lo sgomento di fronte alle difficoltà, ma l'apertura alla speranza di essere, anche in piccola parte, di sollievo alla sofferenza e di ringraziamento per averlo potuto fare a Chi regge le sorti del mondo. La solitudine nel progetto di vita per una laicità consacrata di Adriana Luppi La solitudine di tutti Nella vocazione di una laicità consacrata, il progetto di vita contempla anche la solitudine. Innanzitutto quella che ogni essere umano, prima o poi, sperimenta: persino chi gode di un'alta capacità relazionale e di un felice contesto familiare o di amicizie. Si può pensare che il rischio dell'isolamento lo corra meno chi vive insieme agli altri, ma non è detto. Ci si può sentire soli, ed esserlo di fatto, anche in mezzo a tanta gente. Certo, specie col passare degli anni, incontra maggiormente la solitudine chi vive come singolo rispetto a chi è inserito nel nucleo familiare o in una comunità o divide la sua casa con qualche persona amica. Vivere insieme agli altri in genere è di aiuto, perché risponde al nostro bisogno naturale di comunicazione e di sostegno reciproco. Avere vicino qualche persona da sicurezza anche se la convivenza richiede poi sacrifici di altra natura. Il rapporto con la solitudine si delinea quindi come un problema universale e perenne del vivere umano. Il problema però si fa più acuto quando il costume di vita, creato dalla civiltà occidentale post-moderna ( in cui noi siamo immersi! ) sospinge all'individualismo e all'isolamento delle persone. Ciò è determinato dalla ricerca dell'efficientismo, come massima affermazione di sé. In questo tipo di società si è tutti così " impegnati e frettolosi " che può accadere di abitare da anni in un condominio senza conoscere le altre persone, che vi risiedono, e di essere, ad esempio, informati della morte di una di loro a funerali avvenuti. Il ritmo di vita si fa sempre più incalzante negli ambienti professionali come in quelli familiari, ecclesiali e sociali; persino nelle attività del tempo libero, dedicate al volontariato! Sembra che non resti spazio per quelle relazioni che permettono un dialogo spontaneo ed un vero incontro tra persone. Quando ciò accade, lo si considera come un evento eccezionale, che ci colma di stupore e di gioia. Ci si abitua a pensare che il rapporto con gli altri sia strettamente legato all'attività che si svolge nei vari ambiti, sembra cioè che sia " il fare " a metterci in relazione col prossimo. Spesso si perde la percezione di quanto valga lo stare insieme e vivere il dono reciproco della nostra presenza, del nostro esserci. Occorrono circostanze particolari perché ci si decida a fare una visita di semplice amicizia! In genere, si corre … si corre … dietro alle tante cose da fare. Poi … quando la malattia o l'incombere della vecchiaia arrestano la corsa, si soffre il disagio per il " vuoto relazionale ". Si vorrebbero recuperare i rapporti amicali ma spesso si è trattenuti dal timore di disturbare: le persone non hanno tempo! Facendosi sempre più scarsa la capacità o la disponibilità o la possibilità concreta di instaurare rapporti autentici con chi cammina al nostro fianco, rischiamo di vivere in parallelo, ciascuno sul proprio binario. Questo quadro di vita è comune alla maggior parte della gente e può verificarsi in qualsiasi tipo di vocazione. Resta il fatto che la solitudine è un fenomeno esistenziale sempre più diffuso. Per saperlo affrontare occorre aver raggiunto quel livello di maturità umana, che si esprime nella capacità di autonomia. Le situazioni difficili ( e tra queste vi è la solitudine ) si riesce ad affrontarle ed assumerle in positivo, cioè senza lasciarcene schiacciare, se c'è quel minimo di equilibrio psichico, che poggia sull'accettazione di sé. La stima della propria persona consente di riconciliarsi coi limiti, che troviamo in noi e attorno a noi; mentre la certezza dell'amore ricevuto diviene forza propulsiva della capacità di amare, anche quando si resta soli. Perché la solitudine non si traduca in isolamento sterile è necessaria, prima di tutto, una maturità affettiva capace di farsi dono. Solitudine e scelta vocazionale La solitudine di tutti entra nel progetto di vita per una laicità consacrata anche in forza della condizione secolare, che implica come tale la condivisione delle comuni situazioni di vita della gente. Oggi perciò si condividono, con tutti, quelle situazioni di precarietà così diffuse e che provocano un senso di smarrimento e di abbandono. Ma nella scelta vocazionale, proposta dagli istituti secolari, la solitudine acquista una sua chiara specificità: per rispondere ad una " chiamata " si sceglie a priori di restare soli. " Soli " senza compagno di vita e senza figli, perché si dà una priorità assoluta al Regno dei cieli. " Soli " perché l'impegno per una povertà evangelica sospinge a privilegiare gli ultimi, restando spesso emarginati insieme a loro. " Soli " perché l'obbedienza al Signore si fa criterio dell'agire e ciò porta, non di rado, a muoversi controcorrente, a perdere il consenso e quindi a restare isolati. Il più delle volte si tratta di una " solitudine interiore "; sei tra la gente ma percorri da sola il tuo cammino di fede cioè senza poter condividere la ragione più profonda della tua esistenza: " seguire Cristo ". Sei con gli altri, con loro lavori, come loro assumi le tue responsabilità laicali, insieme gioisci e soffri; tuttavia c'è qualcosa che, pur senza separarti, talora ti lascia un po' estraneo, come un pellegrino che ha orizzonti di vita e prospettive che vanno " oltre ". Questo tipo di solitudine è strettamente legata alla scelta vocazionale, in forza della quale si cerca quotidianamente di fare sintesi tra secolarità e consacrazione, tra una immersione piena nella quotidianità del laico e una tensione costante verso il Regno di Cristo. In effetti è la solitudine legata anche alla vocazione propria del cristiano, che non si allontana dal mondo, ma cerca di non scendere a compromessi con ciò che nel mondo è peccato: violenza, egoismo, falsità, prepotenza, avidità del possesso ecc. Quindi la " solitudine " implicita al progetto vocazionale della laicità consacrata può trovare la sua ragione più profonda solo nella esigenza radicale di " percorrere le vie del mondo dentro la prospettiva del Regno ". Ma per comprendere meglio la valenza evangelica di questo cammino occorre entrare ( un po'! ) nella dimensione misteriosa della vocazione verginale. La solitudine della consacrazione verginale Scrive Giovanni Moioli : " La solitudine dei vergini, votata a Cristo e vissuta nella fede e nell'amore di Lui, diviene adorazione silenziosa di ciò che nessuna parola o gesto d'uomo saprebbe dire … La psicologia verginale è dominata da questo senso profondo di dedicazione all'unico Signore. È dedicazione a Colui al quale ci si abbandona poveramente, credendo alla Sua fedeltà, senza pretendere affatto che sia l'unica dedicazione totale. Gesù resta anzitutto lo sposo della Chiesa, non dei vergini ". Cristo si dona totalmente alla Chiesa, in tutti i suoi membri. La risposta alla vocazione verginale inserisce in modo vitale e totalizzante nell'unione sponsale di Cristo con la sua Chiesa. È un inserimento ( lo precisa Moioli ) che poggia sulla povertà e la " stoltezza della fede ". La verginità non può essere intesa neppure in termini di efficienza apostolica. Ad esempio: rinunciare a figli propri per dedicarsi ai bimbi abbandonati, rinunciare ad una famiglia propria per mettersi a servizio degli emarginati ecc. Inizialmente potrebbero sembrare sufficienti anche queste motivazioni, ma coll'andar del tempo regge solo quella che misteriosamente si radica nella fede: una chiamata ad essere " eunuchi " per il Regno dei cieli. Fuori dal respiro vocazionale, la verginità perderebbe a poco a poco la sua " ragion d'essere " e resterebbe schiacciata da un senso di solitudine insopportabile. È la povertà della fede, che conduce ad assumere l'aspetto sacrificale della verginità, superando ogni ambiguo psicologismo, che rischi di fare del Cristo il surrogato o la sublimazione del coniuge. " La Sua chiamata m'impegna a non concedere ad alcuno un amore di sposa. Sarò figlia affettuosa; vivrò l'amicizia; saprò essere materna: ma sposa non sarò con nessuno. Porterò me stessa in sacrificio, camminando come Abramo, nella fede. Io so come lui e più di lui che il Signore provvederà ". Certamente, il cammino di fede ha momenti di luce e di ombre. Nelle fasi di aridità, quando il Signore sembra farsi assente, diventa molto difficile riconoscere il significato e il valore della solitudine per Cristo e della sterilità dei vergini. Sono momenti di prova, che aiutano a maturare, decantando le sublimazioni, arrestando le fughe e sospingendo a ricercare, nella fede, il volto del Signore. Nell'aridità si sperimenta un tipo di solitudine che provoca un grande smarrimento ma, quando ritorna la luce, il rapporto col Signore conduce sulla soglia ineffabile del mistero. Una solitudine " aperta " In questa vocazione, la solitudine non concede spazi per il ripiegamento su se stessa: resta aperta alla relazione. Innanzitutto al rapporto personale con Cristo. Scrive ancora Moioli: " Per chi è chiamato alla verginità è importante evidenziare il rapporto personale col Cristo, che deve riempire questo silenzio, questo " non avere ". Se la ragione del " silenzio " è il Regno di Dio ( e ciò che esso può chiedere, superando addirittura il rapporto della coniugalità umana ) allora bisogna che questo " monte di Sion " si elevi sopra tutti gli altri monti ( Is 2,2 ) … Proprio perché il " silenzio " della verginità abbia il suo significato, sia riempito dal senso del riferimento al Tu, è fondamentale mantenere in rapporto la scelta della verginità con la preghiera cristiana ". È un rapporto nutrito di ascolto della Parola del Signore, di contemplazione, di abbandono, di offerta, di supplica; rapporto che presenta tutte le caratteristiche della preghiera, individuale e liturgica. Quest'ultima aiuta ad aprire la solitudine alla comunione con Dio e coi fratelli. Nella preghiera liturgica possiamo " appoggiare " la nostra poca fede sulla fede della Chiesa, la nostra scarsa capacità d'amore sulla carità di Cristo, che vivifica e sospinge il cammino della sua comunità. Aiutando a " vedere ", " udire ", " toccare " i segni della misteriosa presenza di Cristo nella sua Chiesa, la preghiera liturgica apre le porte della solitudine alla comunione con tutto il popolo di Dio e ( prima ancora! ) alla comunione di Dio col suo popolo. Durante la celebrazione eucaristica, non si è più soli! Mantenere vivo il legame vocazione-preghiera aiuta ad aprire la propria solitudine anche ad un rapporto con le persone. È il Vangelo stesso a precisare come l'effettiva nostra disponibilità verso il prossimo sia quella che può garantire l'autenticità o meno del nostro rapporto con Cristo. In una vocazione verginale il legame d'amore coi fratelli passa necessariamente attraverso l'esperienza della solitudine, anche quando si resta circondati da tante persone a cui ci si dedica in spirito di servizio. Concretamente la scelta verginale conduce ad amare tutti come fosse l'unico, rinunciando ad un legame esclusivo, che si faccia ragione di vita, àncora di sicurezza e che permetta un cammino a due. Chiunque può restare solo a causa delle molteplici vicende umane ma in forza di questa vocazione si rinuncia all'amore coniugale per rispondere ad una chiamata, disposti a " vendere tutto " per acquistare il campo della perla preziosa. Ma il " pedaggio " è la solitudine del cuore, su cui occorre vigilare perché rimane costante la tentazione ( che assume sfaccettature diverse di età in età! ) di riprendersi, giorno dopo giorno, quello che si è donato. Amare i fratelli con cuore libero, senza appropriazione affettiva, richiede anche di saper restare soli. Significa donarsi nello spirito della povertà evangelica, tenendo cioè sempre la porta aperta a chiunque bussi, per condividere il dono ricevuto: l'amore di Cristo. Una solitudine " abitata " Vivere nella presenza del Signore, porta dentro al nostro cuore " tutto " il mondo. Quello vicino, con le persone e le situazioni accolte nella loro immediatezza ed imprevedibilità, e il mondo lontano le cui vicende entrano nelle nostre case attraverso i mass-media. La " solitudine verginale " vissuta in positivo può disporre di spazi maggiori per l'attenzione verso gli altri, specie per coloro che soffrono la privazione di legami familiari o di amicizia, per quelli che " subiscono " la solitudine. In una vocazione di laicità consacrata i problemi e le attese della gente entrano a viva forza. Far parte di un istituto secolare significa, in un certo senso, legarsi ad una doppia fedeltà: a Cristo e ai fratelli, a Dio e al mondo ( nel suo cammino di salvezza! ). Materia viva della verginità, della povertà, della obbedienza promesse al Signore diventano quindi la competenza professionale, l'impegno socio-politico, la solidarietà familiare, la difesa dei diritti dei poveri, la partecipazione alla vita della comunità ecclesiale ecc. Ciò significa vivere nello spirito della radicalità evangelica le situazioni esistenziali proprie dei laici. Il Vangelo sospinge a farci " prossimi ": allora i problemi della gente, anche se non toccano direttamente la nostra persona, la nostra famiglia o cerchia di amici, non possono restarci estranei. Nasce il bisogno d'informarsi per conoscere meglio le realtà politiche, economiche, sociali, culturali. Si cerca di conoscere per interpretare con più chiarezza certi fenomeni storici, per poter discernere alla luce dei valori umani e cristiani, per saper fare ( quando sembra giusto e necessario ) una scelta di campo. Leggere giornali e riviste, ascoltare la radio, seguire programmi televisivi, partecipare ad incontri culturali diventano perciò un'esigenza, che scaturisce dal senso di responsabilità, tipicamente laicale, nel rapportarsi al mondo. E non si limitano ad essere qualcosa che può riempire la nostra solitudine! In effetti la solitudine viene " abitata " nella misura in cui si vive un rapporto di comunione con Dio e coi fratelli. Ci si relaziona a loro, forse, con maggiore consapevolezza e carica affettiva quando si rimane soli: la loro presenza continua attraverso la memoria, la riflessione, la sensibilità ed attraverso quel tipo di preghiera, che fa ripercorrere il proprio ed altrui vissuto ai piedi del Signore. Il rapporto col prossimo viene interiorizzato o almeno analizzato. Capita di esaminare con più verità il proprio modo di relazionarsi: ci si accorge, ad esempio, di essere stati troppo frettolosi e non aver saputo ascoltare. Si coglie finalmente la chiave del messaggio che quella persona ci ha inviato, cercandoci per un motivo in apparenza futile. Scopriamo in noi quella tenerezza che inibizioni, per lo più inconsapevoli, non hanno lasciato affiorare. A distanza, riconosciamo il valore della testimonianza ricevuto da quel collega di lavoro o da un'amica. Avvertiamo la provocazione al cambiamento che ci giunge da quella situazione d'ingiustizia e di violenza. E forse … maturiamo anche la disponibilità a trasformare un semplice rapporto di conoscenza e di collaborazione in un profondo legame di fraternità. La solitudine infine può essere " abitata " anche dalla presenza di noi a noi stessi. Può essere vissuta come un " tempo " che permette il " via libera " alla spontaneità dei sentimenti, al coraggio dell'autocritica, al riconoscimento delle proprie paure o delle ragioni vere dei nostri scoraggiamenti. Può essere vissuta come un tempo in cui ci si specchia con coraggio. Ma può essere anche goduta come occasione per fare, una volta tanto, ciò che piace e ci procura distensione. Questa solitudine " abitata " non può essere tuttavia dispersiva, le molteplici presenze hanno bisogno di trovare un punto di riferimento in cui armonizzarsi ossia debbono confluire verso ciò che da significato ed unità all'intera esistenza: il disegno di Dio, secondo la vocazione ricevuta. Allora … questa solitudine abitata ha bisogno di conciliarsi con la capacità di fare silenzio. Una solitudine capace di silenzio Capacità di silenzio, come condizione per fare della solitudine un momento ed un luogo di profonda interiorizzazione ( quella che va oltre la razionalità ) del rapporto personale con Cristo e con il prossimo e con la storia del mondo. Il silenzio contemplativo sta alla base di ogni cammino di fede: si carica di segreti, di espressioni suggerite dal cuore, di stupore, di emozioni ineffabili, di struggente speranza. È il silenzio dell'adorazione, dell'ascolto, della memoria-interiore: fecondo di parole essenziali. Tutto ciò nelle fasi in cui il cammino è investito dalla luce della fede; ma possono alternarsi coi tempi della prova, in cui il silenzio sperimenta solo il buio e il vuoto! Sono i tempi misteriosamente più fecondi! L'ascolto della Parola di Dio, vissuto nel silenzio, diventa la condizione più efficace perché la nostra solitudine sia " abitata " dalla presenza di Dio. Al tempo stesso è un'esperienza che ( di volta in volta ) ci aiuta ad acquisire lo spirito di preghiera. L'atteggiamento " contemplativo " dovrebbe condurci ad una specie di " forma mentis " evangelica, che ci permetta una lettura " sapienziale " delle vicende umane. È necessario il silenzio anche per prendere le distanze da noi stessi, dalle nostre suggestioni emotive e fantasiose, e per saper " discernere ". Il ritrovarci soli non fa scattare spontaneamente il silenzio. Anzi! È molto difficile raggiungerlo; richiede una severa ascesi, specialmente a chi vive nella condizione laicale. Nella solitudine silenziosa, viene spontaneo ripercorrere le sequenze immaginarie del nostro vissuto o, se ciò disturba, caricarci di altre fantasie per cacciare le prime. Il silenzio interiore, quando lo si raggiunge, rappresenta un " momento di verità " di fronte a Dio, a noi stessi, agli altri. Può far paura perché talora mette in luce dei camuffamenti che ci creiamo, o per rassicurarci o per resistere a quel cambiamento ( o conversione! ) cui non siamo disposti. È un cammino di ascesi faticosa ma liberante. Questi momenti di " verità " ci fanno ritrovare più poveri ma anche più aperti all'abbandono fiducioso nelle mani del Padre; più disponibili anche a condividere le vicende umane nella consapevolezza del tanto che ci accomuna a tutti gli esseri umani rispetto a ciò che ci differenzia e distingue. Disponibilità quindi ad un abbandono non passivo o rassegnato ma aperto alla fiducia, a prospettive di conversione e di " novità di vita ". Il silenzio ci permette di " udire " la parola del Signore, anche attraverso i messaggi che ci giungono dalla comunità ecclesiale e vocazionale, dai segni dei tempi e dalle testimonianze di tanti nostri fratelli. L'ascolto si fa più attento e profondo perché nel silenzio si vive con maggiore intensità la trasparenza della fede. Questi spazi " contemplativi " permettono di cercare più verità nelle nostre relazioni umane cioè nell'accogliere le persone così come sono, nell'amarle e servirle secondo le loro esigenze e non … le nostre ( per quanto nobili siano ). La solitudine può essere " valorizzata " come tempo di maturazione di una più autentica fraternità: quest'ultima deve prendere le mosse da una serena accettazione di noi stessi, con tutto ciò che siamo, nei doni e nei limiti. Quando facciamo tacere le voci che risuonano fuori e dentro di noi, verifichiamo con più chiarezza come in realtà viviamo il rapporto con noi stessi e con la vocazione ricevuta. Questo " sguardo " libero e coraggioso può far saltare le difese e mettere allo scoperto le ambiguità, le incoerenze, le infedeltà … ma favorisce un cammino più maturo nella sequela di Cristo. Solitudine come ricerca ed attesa È quindi nella solitudine, capace di silenzio, che si interiorizza il rapporto di comunione con Cristo e i fratelli. Rispondere alla vocazione della secolarità consacrata è protendersi nell'attesa che si realizzi la missione di salvezza di Cristo nel mondo, è cercare nell'oggi i " segni " del disegno di Dio sull'umanità. Significa porsi nel quotidiano ( cioè nella concretezza della professione, della vita sociale, dell'impegno politico ecc. ) con uno sguardo aperto alla trascendenza; attenti all'oggi senza perdere mai di vista la prospettiva escatologica, che ci è aperta dalla fede e ci fa cercare come meta prima ed ultima l'attuarsi del Regno di Cristo. È vivere, come scrive Alberto Monticone, la condizione spirituale del pellegrino. " Il pellegrino che va a Gerusalemme, come ogni pellegrino che si rispetti, sa anche come vivere per strada: ha il gusto del tempo, delle cose e delle persone nuove, perché il suo camminare, il suo cercare Gerusalemme si traduce in queste tappe quotidiane di trovare il tempo, le cose, le persone nuove. È sempre felice del nuovo, lo cerca, ne gode … al tempo stesso però sa che deve, nella congerie dei tempi, delle cose, degli incontri nuovi, riservare lo spazio motivante dello spirito e cioè quella orazione con la 'o' maiuscola che il pellegrino russo descrive nei suoi racconti. Il silenzio del mondo, l'afonia dei rumori per la voce della Parola; un'afonia di rumori che però consente di discorrere e di avere il gusto delle cose e delle persone, di percepire i nomi autentici di quella voce della Parola, che parla anche con le tecniche più avanzate. Ma il pellegrino che va a Gerusalemme sa anche un'altra cosa: sa che anche il mondo e la sua tecnica vanno verso Gerusalemme, anche se non lo sanno …, perché la storia è stata una volta per tutte redenta … L'ansia della meta è proporzionale ed incide sul ritmo del cammino … e l'impegno nel presente del cristiano, che cammina, è misura e riprova del procedere dell'uomo di spirito nell'itinerario verso il Regno. Chi è in profondità distaccato dagli interessi ( propri! ) ha la possibilità di spendersi infatti tutto nel servizio e di animare il progresso della comunità senza dissolversi in quanto servizio e senza lasciarsi distrarre da quel silenzio inferiore orante, che è il suo fondamento ". Anche queste riflessioni di Monticone confermano che le fasi e i tempi di solitudine possono essere assunti come " occasioni " di crescita dell'uomo interiore, che riconosce il primato dello spirito; possono essere valorizzati come momenti di sosta del pellegrinaggio, come " attesa " per riprendere il cammino con maggiore vitalità, per poterlo proseguire fino alla meta finale. A questa meta si desidera giungere non da soli ma col maggior numero di fratelli! Se nella solitudine, capace di silenzio, si interiorizza la nostra disponibilità all'accoglienza … allora cresce anche il desiderio d'incontrare gli altri, lasciando spazio alla tenerezza. E quando l'incontro si verifica concretamente, l'altro avverte di essere oggetto d'amore; di essere stato atteso. C'è l'attesa del fratello ma c'è anche un'attesa che dura tutta la vita e cresce col passare degli anni: vedere il volto di Dio. Quando si mantiene vivo il rapporto personale col Signore, la solitudine della malattia e della vecchiaia diventa il " luogo " in cui la speranza s'intreccia con la serena adesione alla misteriosa volontà divina. Per il credente, attendere la morte significa prepararsi a varcare definitivamente la soglia del mistero. È una preparazione che dura tutta la vita e a cui da voce il salmo 63 : " Dio, Dio mio, o amato Signore solo te fin dall'alba desidero, il mio essere ha sete di te, per te spasima l'anima mia come arida terra riarsa. Così bramo vederti nel Tempio contemplar la tua forza, la gloria: più che vita è dolce l'amore, il dolcissimo, Dio, tuo amore. Benedirti finché vita mi duri, nel tuo nome elevare le mani, e saziarmi con cibi nuziali; e la bocca riempire di canti; dalle labbra effondere laudi! Quando in veglie la notte sussurro e ti penso dal mio giaciglio! ". La solitudine, anche quando è segnata dalla sofferenza, può diventare quindi esperienza esistenziale feconda: purché sia vissuta nello spirito di accoglienza, quella che sa tenere la porta aperta ed accetta di essere abitata; purché il " silenzio " interiorizzi il rapporto con Cristo e coi fratelli, mantenendo viva l'attesa dell'incontro. La provocazione evangelica delle nuove solitudini di Rosanna Bissi Nei vari momenti di crisi che incontriamo lungo la vita è facile esaurire le nostre energie nel tentativo di analizzare, nel modo più meticoloso possibile, le cause di tale situazione. Certamente l'impostazione del problema è pregevole a condizione però che non ci si fermi alla diagnosi. Occorre affrontare la crisi in modo sistemico, come oggi si dice, comunque in modo non ingenuo e non superficiale: si tratta allora di scoprire le cause ma anche di trovare rimedi adeguati e tali da non sconfinare né nell'illusione di risolvere tutto automaticamente né nella sfiducia completa di fronte ad una sorta di condizionamento che non lascia spiragli per una ripresa. Fiducia, gradualità, costanza e concretezza devono essere gli ingredienti iniziali e necessari ad impostare un cammino di nuova crescita. In particolare, perché il sistema funzioni, ci si dovrà impegnare a cogliere la sostanza del problema, si dovrà andare alla sua radice. In questo momento storico tutti incontriamo grande difficoltà a farci una corretta immagine dell'uomo e della donna. Che cosa, in effetti, desideriamo, perché la vita quotidiana abbia un senso, ossia possa trovare una direzione con una meta sicura e riconosciuta e possibilmente condivisa da tutti o almeno da chi ci sta accanto? Di fatto, oggi, proviamo un po' tutti la " fame " di valori ma insieme abbiamo paura a scoprirci, forse viviamo inconsciamente la paura di trovarci soli anche a livello di pensiero e così neghiamo la possibilità di un confronto. A priori finiamo per dirci che non siamo capiti, che non vale la pena introdurre nelle nostre quotidiane relazioni problemi troppo profondi. E poi … c'è l'esigenza di un rispetto delle persone per cui conviene non toccare alcuni tasti che potrebbero produrre una disarmonia stridente e ridurre ancora di più le già insufficienti occasioni di relazione. In questo modo ci creiamo molti alibi che tendono a pacificare un po' la nostra coscienza e comunque coltiviamo una insoddisfazione che spesso viene somatizzata e sfocia in una delle tante depressioni che anche i medici stentano ad inquadrare in una tipologia patologica e, quello che più conta, non riescono ad affrontare con farmaci, terapie individuali e di gruppo. In uno spazio particolare, offerto anche semplicemente da queste pagine, possiamo aiutarci ad affrontare radicalmente il problema della solitudine nelle sue diverse valenze e secondo i vari aspetti in cui si manifesta. L'ambivalenza della solitudine Già in altra parte del testo appare l'ambivalenza del termine solitudine. Gesù di Nazaret può essere visto come modello anche in questa circostanza: egli più volte, nella sua vita pubblica, si isola, lascia la folla ed anche i suoi discepoli, per incontrare il Padre, per pregare, ossia per vivere la comunione, l'intimità della Trinità. Sembra proprio che, senza quei momenti di solitudine, Egli non possa realizzare la missione che gli è stata affidata, non possa essere orientato alla venuta del Regno. Potremmo in questo modo concludere che la solitudine è un valore e come tale deve essere coltivato nella vita del cristiano ed in particolare del consacrato, di colui che vuole seguire le orme del Maestro. Ma c'è anche l'altra faccia della medaglia. Provoca sempre la dinamica che Gesù vive nell'orto del Getsemani. Per ben tre volte Egli lascia i suoi in preghiera e si scosta da loro proprio nel momento più alto in cui esprime tutta la sua libertà ed accetta la sua passione per noi; per ben tre volte Egli va in cerca dei suoi " amici " come se non potesse da solo affrontare una situazione tanto difficile e scopre la loro inadeguatezza. Essi, infatti, dormono, non capiscono la gravita del momento, non sanno discernere, non sanno gratuitamente offrire l'amicizia di cui il Signore stesso dimostra di aver bisogno. E questo è il preludio del grande tradimento: essi dichiarano di non conoscere Gesù, di non essere dei suoi, di non riconoscersi neppure fra quelli che lo seguono. Questa alternanza di vicino/lontano diventa una sintesi, diventa una realtà con la quale siamo chiamati a confrontarci scoprendo quindi, anche la valenza negativa della solitudine, quella che fa soffrire, perché segno di emarginazione. In questi anni la pedagogia ha insistito molto ( e a ragione ) sull'esigenza di aiutare la persona in crescita a costruire una effettiva capacità di socializzazione. La persona è chiamata a vivere insieme con altri suoi simili, a collaborare con loro, ad incontrarli come amici, quindi ad avere fiducia in loro poiché anch'essa avverte di godere della loro fiducia. Pensiamo, ad esempio, alle numerose iniziative che si prendono a livello pubblico e privato-sociale per compensare una situazione che via via diventa sempre più pesante. Oggi, la maggior parte dei bambini vive la situazione del " figlio unico " e quindi si trova da subito immerso nella vita e nella mentalità dell'adulto, assume i modelli culturali degli adulti, affronta le esigenze del lavoro prima ancora di quelle del gioco, viene subissato di giocattoli e finisce per non sapersi divertire. Il bambino si trova ad affrontare una sorta di " obesità culturale " che nasconde tutti i pericoli di una forte deprivazione. Per questo sentiamo l'esigenza di mandare il bambino all'asilo nido per poter incontrare altri bambini con i quali condividere esperienze adeguate all'età ed ai relativi bisogni. Nel linguaggio comune diciamo che la soluzione dell'asilo nido è appunto una risposta al bisogno di socializzazione. A parte la reale incapacità di ammettere che l'asilo nido risponde in prima istanza alle esigenze degli adulti e successivamente a quelle dei bambini, impostiamo il problema in modo scorretto, perché di fatto enfatizziamo la dimensione sociale a scapito dell'autonomia intesa appunto come capacità di conoscere ed utilizzare tutte le proprie possibilità. Questa dimensione prepara anche all'accettazione di sé, al saper rimanere da soli, al provare gioia a trovarsi con se stessi e quindi a stabilire un rapporto col proprio sé. Se le statistiche danno indicazioni significative, dobbiamo pensare perché le casalinghe ormai non sanno rimanere in casa senza la radio o la televisione accesa, anche se esse non fermano la loro attività per ascoltarle. Comunemente si dice che il mezzo di comunicazione serve per non sentirsi soli. Diviene così giustificata la domanda sul perché dia fastidio, si abbia paura del silenzio, della solitudine. E questo è senza dubbio uno soltanto degli aspetti che possiamo considerare. Ci possiamo allora porre qualche domanda: - come adulti possiamo dire che siamo responsabili della nostra formazione continua e permanente. Come coltiviamo questa dimensione della nostra personalità? - La risposta può, in altri termini, essere ricondotta all'interrogativo relativo alla nostra capacità di accettazione di noi stessi. A questo proposito sappiamo guardarci con un pizzico di ironia? Sappiamo anche ridere di qualche nostro evidente limite? - Lo stare con noi stessi implica anche la capacità di saperci organizzare. Sappiamo prenderci in mano? Sappiamo gestire la nostra presenza fra gli altri in modo tale che tolleriamo il fatto che talvolta possiamo passare un po' inosservati, senza per questo sentirci infelici? Sembrano domande banali ma penso siano una spia riguardo la nostra capacità di conoscerei, la pazienza nell'accettarci, l'indice dell'espressione di una dignità che non può essere rispettata dagli altri se non trova in primo luogo una consapevolezza in noi. E tutto questo può essere ritenuto un cammino umano, una crescita che reclama attenzioni particolari a mano a mano che le varie pagine della vita si susseguono. L'accettazione di sé non si compie una sola volta: si tratta di un equilibrio da trovare continuamente. Non a caso si è parlato di formazione permanente: ogni giorno siamo creature nuove, abbiamo in noi questo grande dono della novità che segna davvero una possibilità nuova se sappiamo prenderne coscienza, se anche incontrando qualche difficoltà, possiamo riconoscere in noi stessi le immancabili positività. Maturare un'autentica consapevolezza di sé E ancora una volta sembra opportuno ribadire come tale lavoro su noi stessi abbia spazio solamente quando sappiamo isolarci dagli altri, per sostenere l'immagine della nostra personalità nel rapporto sereno tra quello che vorremmo essere, quello che gli altri dicono di noi ( e lo sappiamo anche se le persone non sono immediatamente presenti nel momento in cui ci interroghiamo ) e quello che realmente siamo. È questo un cammino suggerito anche dalla psicologia e che trova la sua attuazione generalmente in un impegno personale e, in casi particolari, può richiedere anche un aiuto esterno. Tale aiuto non si intende sempre e soltanto offerto dallo specialista: grande spazio deve essere riservato anche all'amicizia vera. Forse dovremmo tornare a riflettere sul significato profondo dell'amicizia che sostiene in ciascun elemento della relazione lo sforzo ad essere ciò che deve essere ed è quindi espressione di autentica gratuità. Le persone consacrate al Signore non possono presumere di realizzare il proprio cammino senza alcuna mediazione umana: il discorso dell'amicizia allora potrebbe essere ripreso e riconsiderato non come il rimedio, l'appagamento, il riempimento di un vuoto che si può talvolta avvertire nella vita ma, al contrario, un servizio che viene offerto alla persona perché riesca a vivere compiutamente anche questo aspetto della sua vita che può essere di sofferenza. L'amico allora non è soltanto il consolatore, ma diventa veramente il compagno che " patisce " insieme, ma che sostiene e incoraggia a trovare la forza per " leggere " in radice e compiutamente quello che in superficie sembra quasi insopportabile. Certo non sembra possibile mettersi soltanto alla ricerca dell'amico: occorre cogliere da subito l'aspetto di reciprocità che esiste nell'amicizia vera per cui i ruoli possono essere scambiati tutte le volte che sia necessario. Nessuna rigidità, allora, nelle aspettative nei confronti dell'amico: e questo significa non mettersi alla ricerca dell'appoggio bensì della relazione. La posizione di dipendenza potrebbe diventare davvero molto pericolosa per entrambe le persone. L'amicizia di per sé è espressione di libertà e di dignità: solamente persone mature riescono ad esprimere compiutamente il valore di una relazione davvero interpersonale, capace di grandi aperture, fino a quella più profonda che è la consacrazione all'Unico Signore. Ci sono tuttavia altri livelli di riflessione che ci permettono di maturare un'autentica consapevolezza di noi stessi e quindi ci possono collocare in modo corretto all'interno della realtà in cui siamo immersi. Di fatto, oggi, non si riesce a leggere una persona se non come facente parte di un sistema ecologico, cioè del suo ambiente. In esso la persona tende ad essere se stessa, a trovare la propria identità. Paolo scriveva ai Corinti: " Per grazia di Dio sono quello che sono " ( 1 Cor 15,9 ): la consapevolezza di essere in ogni momento della vita la realizzazione di un disegno d'amore, dovrebbe porre nella condizione di conoscere sempre meglio tale disegno ma soprattutto di avere un riferimento sicuro. La realizzazione della persona, infatti, non è frutto soltanto di un impegno o di un'ascosi volta a concretizzare un progetto dettato dalla sua intelligenza e fortemente voluto, ma si confronta sempre con un Tu, con un Altro che tiene in mano tutta la storia ed in particolare proprio la sua storia. Quante volte, scorrendo le pagine del Vangelo, si trovano parole incoraggianti, rivolte da Gesù nei confronti di chi si interroga, di chi autenticamente si vuole aprire ad un disegno più grande anche se non avverte immediatamente di averne tutte le forze e le capacità! Gesù dice a Pietro: " Non temere: d'ora in poi diventerai pescatore di uomini " ( Lc 5,11 ) come l'angelo aveva detto a Maria: " Non temere, hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio " ( Lc 1,20 ). L'effetto derivante dal superamento della paura è davvero sorprendente in quanto si esprime in termini di una radicalità che non ammette alcuna esitazione. Si tratta di un totale abbandono nelle mani di chi ha esortato con infinita tenerezza a non temere. D'altra parte si può considerare come l'attuazione della promessa sia altrettanto radicale: l'uomo debole, incapace, inconcludente, isolato si trova a realizzare la Parola, a dare la vita ad altri, ad aprirsi ad una nuova vita. Ancora una volta l'immagine del bambino ci può aiutare nella nostra riflessione. Dopo un sogno terribile che gli fa sperimentare l'incubo, il bambino piange e si placa soltanto quando avverte la presenza della sua mamma che gli parla, lo esorta a non aver paura. Anche qui entrano in gioco la presenza e la parola. Fiducia sembra una parola magica, purtroppo oggi quasi scomparsa dal nostro vocabolario. Nella ferialità, infatti, spesso ci diciamo che non possiamo più fidarci di chi ci sta seduto accanto in tram o vive nell'appartamento vicino. Non parliamo poi delle nostre relazioni nei confronti dei servizi, dell'amministrazione, della politica. Quante delusioni abbiamo provato nella storia più recente! Eppure il significato profondo della chiamata del Signore è proprio farci sentire la sua presenza e la sua parola. In altri termini è l'invito a fidarci della sua presenza e predisporci ad ascoltare quella parola che ci costruisce nuovi, ad accettare con disponibilità il vero cambiamento. In questo modo ognuno di noi si trova all'interno di una dinamica in cui non può assolutamente viversi solo. L'esigenza di credere È il vero problema della fede. Credere nel Signore significa dare alla nostra vita un punto di riferimento, essere in relazione, vivere una reciprocità possibile soltanto in forza dell'amore gratuito che in Gesù ci rende figli. Se avessimo sempre presente la profondità e la verità delle parole che esprimono la nostra preghiera: Padre nostro! Il credere è l'esigenza fondamentale della nostra vita e non possiamo presumere di attuarla sempre nel medesimo modo, con la medesima intensità, con la medesima presa di coscienza. Ci troviamo spesso a vivere il nostro credere nell'aridità e nel buio. Ma il credere non si può misurare sulle nostre sensazioni. Credere non è un provare, deve piuttosto riferirsi al nostro essere. Qui sta davvero il cuore di tutto il problema, la chiave di volta della relazione peculiare tra creatura e Creatore, tra figlio e Padre. Ancora una volta dobbiamo fare i conti con una mentalità comune che finisce per farci ritenere vero soltanto ciò che noi proviamo. Il sentire, cioè, la nostra soggettività, diventa misura di tutto l'esistere: e questo è profondamente illusorio ed anche erroneo. Per ciascuno la verità è soltanto Gesù di Nazaret: ci riconosciamo, prendiamo i contorni definiti in Lui, abbiamo un riferimento sicuro che non può tradire, perché Egli ha dato la sua vita per noi. Se davvero cerchiamo di conoscere questa verità, la coltiviamo, portiamo avanti pazientemente e coraggiosamente la ricerca della verità allora scopriamo di non essere mai soli. Il rimedio alla solitudine allora non si trova in una ricetta, nella ricerca di un surrogato a questa relazione fondamentale della vita, bensì si esprime in una continua tensione a riconoscere Lui come Signore della vita. Risuonano in modo intenso a questo proposito le parole di Gesù ai discepoli: " Senza di me non potete fare nulla " ( Gv 15,5 ) e qualche versetto oltre: " Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto " ( Gv 15,16 ). Certo, la tensione a " comprendere " queste parole di Gesù avviene nella preghiera che si può realizzare nella solitudine ma anche attraverso le domande che si pongono a questo Signore che appare talvolta quasi incomprensibile. Come ci rivolgiamo a Dio? Dovremmo a questo punto della riflessione chiederci come ci rivolgiamo a questo Dio che è prima di noi e che per amore prende sempre per primo l'iniziativa. Spesso le domande esprimono il nostro modo di procedere, consono all'ambiente in cui viviamo. Poniamo domande con l'intento di scoprire il tradimento nascosto, siamo sospettosi: è questo un atteggiamento che ha la sua radice nel peccato. E forse abbiamo sempre bisogno di purificare le nostre domande e chiederci se davvero tale sospetto sia giustificato nei confronti di chi si è proprio annientato per noi, di chi ha accettato una fine infamante come quella della croce per riscattare questa incredulità. Eppure è tanto facile, nel momento in cui si vive l'isolamento dal resto del mondo, credere di essere stati totalmente emarginati. Non è forse questo il momento in cui siamo noi stessi ad operare tale emarginazione, perché non ci sentiamo più radicati " come alberi lungo il fiume "? Ancora: ci sono domande che si pongono nell'indifferenza, ossia nell'atteggiamento di chi non si attende neppure la risposta. Si pone la domanda, perché la si trova all'interno di un salmo, ma di fatto non risuona nell'intimo. Spesso ci capita di " pregare " soltanto con le labbra e poi di lamentarci perché il Signore non ci ha ascoltato. L'esperienza della distrazione nei momenti di preghiera è abbastanza comune. Questo indica quanto sia difficile pregare; non a caso i discepoli hanno chiesto a Gesù di insegnare loro a pregare. E la risposta immediata è stata quella di mettersi alla presenza del Signore per ricercare la comunione con Lui. Ci possono essere infine domande tese a comprendere veramente, ad esprimere un impegno, ad allargare gli orizzonti così da inquadrare i nostri bisogni con quelli dei nostri fratelli, a cercare i criteri con i quali impostare una gerarchIa di esigenze. Ci possono essere ancora domande che ci portano a valutare le possibilità di risposta ai bisogni emergenti in base alle risorse reali della persona ( risorse che non sono mai infinite ) che si aprono a possibilità insperate, offerte ad esempio dalla collaborazione di altre persone. Tutto questo ci può aiutare a non considerarci centro di tutto l'universo come se tutto dipendesse da noi, dalle nostre capacità sia nel bene sia nel male. Ed è proprio questo uscire dalla posizione centrale che ci può consentire di trovare un interlocutore superando il presunto isolamento che, se vissuto a lungo nel tempo può apparire come prigione insopportabile. La domanda allora si pone in modo aperto, lascia spazio appunto all'intervento di Dio che certamente ha spazi diversi dai nostri, ma anche efficacia diversa dalla nostra. Diventa a questo punto inevitabile la domanda: con quale impegno cerchiamo di conoscere quel Tu che ci ha chiamati, che dovrebbe meritare tutta la nostra fiducia, che si dona completamente a tutti e a ciascuno, che opera con una misericordia infinita, che ama proprio tutti? Se si riprende l'esempio del bambino fiducioso nella parola della sua mamma, si scopre come tale fiducia non sia mai immotivata: egli sostanzialmente sa di essere ascoltato da questa mamma, perché egli avverte di contare per lei, di muovere la sua sensibilità. Di fatto ognuno di noi quando rilegge la sua storia trova tante occasioni nelle quali è stato ascoltato dal Signore che si è dimostrato tanto grande da superare ogni suo desiderio e ogni sua aspettativa. Certo, per registrare onestamente questi avvenimenti, occorre superare la nostra superficialità, la ricerca dell'immediato effetto per una richiesta miope, incapace di vedere i riflessi negativi che potrebbe avere su altri che ci stanno attorno e che pure esprimono bisogni e suppliche. La domanda vera sarà quella che chiede di verificare il senso, la dirEzione del nostro procedere. In altri termini la domanda autentica che ci fa dire: " Signore credo, ma aumenta la mia fede " è quella che si risolve in due atteggiamenti di fondo: l'abbandono, la fiducia completa di essere nelle sue mani ed il desiderio di fare soltanto la sua volontà. Sembrano due atteggiamenti antitetici ma di fatto non lo sono, costituiscono le due facce della stessa medaglia. La fiducia completa in Lui diventa allora la sintesi tra il riconoscimento della nostra autonomia, cioè il sentirsi completamente immersi in una situazione reale che reclama di mettere in gioco tutte le risorse che possediamo e la relazione con un Tu che comprende, che non giudica ma che pone la sua fiducia nelle nostre possibilità e quindi sostiene, garantisce che, comunque vadano le cose, non verrà mai meno il suo aiuto e la sua considerazione. Tale abbandono diviene allora piena condivisione di un progetto che non è fatto da noi ma che è il suo volere, l'avvento del Regno che di per sé è molto più grande rispetto a quanto noi possiamo prevedere ed anche desiderare. Il progetto di Dio reclama non soltanto un impegno, un fare delle cose " una tantum ", anche forse in modo eroico. È un progetto che si sviluppa nel tempo, che ha una continuità e che richiede la costanza di una risposta all'interno di un continuo dialogo, così che la relazione stessa sia il motivo che attrae verso la realizzazione dell'unico piano di salvezza. Se questa riflessione trova una sua autenticità allora si ha l'autorizzazione a dire che un cristiano non può sentirsi solo nel deserto del mondo, perché ha una direzione, ha un riferimento sicuro, avverte di avere Qualcuno dalla sua parte che tiene saldo il progetto e lo garantisce. Tutto questo non può essere vissuto in modo quasi automatico: sappiamo, conosciamo questo disegno e pertanto lo attuiamo. Esso ha bisogno di essere ri-conosciuto passando anche attraverso le ombre, i silenzi, le incomprensioni. Ma tutto questo porta alla domanda di fondo: " Signore, parla, il tuo servo ti ascolta ". Ed anche alla decisione che è stata dei discepoli: " allora, lasciato tutto, lo seguirono " ( Mc 1,18 . Accettare di essere un progetto Si tratta, come si vede, di accettare in verità di essere e di fare secondo un piano, un progetto di cui non ci sentiamo i diretti estensori: è il Suo volere che è sempre bene per noi. L'espressione che troviamo sul Vangelo è molto significativa: " … mio cibo è fare la tua Volontà ". Questo implica anzitutto la capacità e la volontà di immettersi in una dinamica: non esiste passività nell'accettazione del piano di Dio. Le modalità, tuttavia, possono essere molto diverse. C'è un " fare " che esprime attività, accettazione di responsabilità, di posti scomodi ed anche rischiosi, ma c'è un " fare " che è accettazione dell'inattività, dei segni talvolta pesanti di un'età avanzata, c'è il morire giorno per giorno offrendo sofferenze ed isolamento. Tutto questo nella logica del Padre che vuole solamente il nostro bene, ha un senso, trova un significato, si unisce all'annientamento di Gesù che proprio sulla croce si esplicita nell'espressione del " sì " più completo. Certamente la disponibilità ad accettare questa logica che non è del mondo, non si improvvisa e neppure si conquista con uno sforzo di volontà. Si arriva a dichiarare come Gesù che il nostro cibo è fare la Sua volontà solamente se lo Spirito da noi invocato ci mette in questa dirEzione, se sappiamo un poco alla volta esprimere la domanda di espropriazione da noi stessi, la domanda di essere veramente suoi figli e alla sequela del solo obbediente: Gesù di Nazaret. Il Diario di una donna laica e consacrata al Signore, Elena da Persico, traccia in modo esemplare questo cammino; ella arriva a scrivere che neppure l'apostolato è il motivo di una seria consacrazione al Signore. L'essere completamente disponibili a Lui significa accettare e fare propria ogni sua richiesta, anche quella di eliminare dalla nostra ferialità il lavoro, l'azione. Davvero allora si comprende come agli occhi di Dio e nella sua logica l'essere conti assai più dell'avere e del fare. In altri termini questa è la via della spogliazione e un cammino provvidenziale che ci mette nella situazione di poter constatare come il vero Assoluto della vita, l'unico valore per il cristiano sia il Signore. Molte volte la forma di rinnegamento e di spogliazione a cui siamo chiamati, soprattutto nella nostra società disattenta a tutto ciò che non indica immediatamente profitto, occasione di scambio e di contrattazione, è l'isolamento sotto diverse forme: può essere la casa di riposo, la residenza presso la propria casa ma senza alcuna possibilità di assistenza, l'attesa vana di una visita da parte di chi con noi condivide un certo cammino di fede. Dobbiamo ripeterci che queste situazioni dovrebbero non dipendere assolutamente dalla nostra indifferenza o superficialità in quanto il seguire il Signore dovrebbe senz'altro portare ad un'attenzione vera nei confronti del nostro prossimo. Ma neppure dobbiamo scandalizzarci quando tutto questo avviene. In noi come nei nostri fratelli l'uomo vecchio fatica a morire e quindi i nostri comportamenti sono sempre molto intrisi di mentalità vecchia e spesso egocentrica. Dobbiamo anche saper rispettare la solitudine che il Signore chiede a talune persone senza per questo compatirle o rappresentare accanto a loro la posizione contestatrice. Si pone qui, ancora una volta, la ricerca del significato dello stare accanto ad una persona con amicizia o ancora con un atteggiamento di condivisione che è espressione di aiuto a sopportare le fatiche più che il desiderio di togliere di mezzo tali fatiche perché, tutto sommato mandano in crisi chi nel momento non le sta affrontando. Ci capita, infatti, troppo spesso di giocare alternativamente il ruolo del consolatore o del contestatore senza peraltro avere effettive capacità di aiuto. Chi sta accanto non è chiamato a togliere o a negare le difficoltà: aiuta chi sostiene la fatica di passare proprio attraverso quel crogiuolo, sapendo che una presenza, carica d'amore, accompagna tutto il cammino e non lascia privo di significato nulla. " … sia fatta la tua Volontà " preghiamo ogni giorno: se è vero questo desiderio diciamo implicitamente che su questa scena del mondo non siamo soli, diciamo il nostro impegno a sentirci parte di un disegno grande che si compie gradualmente, anche quando ci capita di essere stanchi, di non reggere alla fatica, di essere sfiduciati … Questo cammino è difficile, spesso non presenta neppure aspetti tanto esaltanti; capita anche di non essere capiti nel nostro sforzo di credere e di trovare comportamenti coerenti, proprio dalle persone che più ci stanno vicine e che magari condividono i nostri stessi ideali. È questa una forma di solitudine molto pesante da sopportare ma non per questo imprevista o eccedente le nostre capacità. Ancora una volta se apriamo il Vangelo troviamo suggerimenti preziosi dati da Gesù ai suoi discepoli: " lo spirito è pronto ma la carne è debole. Pregate per non cadere in tentazione " ( Mc 14,38 ). Quale significato assumono queste parole, oggi? Forse abbiamo in questi ultimi tempi disatteso un discorso serio sui nostri comportamenti ma ancor più sulla nostra libertà, sulla necessità di arrivare ad un serio discernimento. È sempre vero che la sequela significa in primo luogo accoglienza di un dono grande, ma proprio in quest'ottica occorre regolare anche la nostra vita. Sarebbe ancora un grave errore ritenere che la conquista intellettiva, il sapere che l'iniziativa è sempre del Signore sia automaticamente segno di una corretta corrispondenza. Tra il sapere e l'agire sta sempre il momento della scelta, il momento decisivo nel quale, ancora una volta, si imposta una relazione. Il discernimento ci porta a collocare in una prospettiva ben determinata i valori cui intendiamo rispondere o cercare. E nell'attuazione si vuole rispettare una giusta relatività: ci sono beni da raggiungere prima di altri. È il momento nel quale per il discepolo può assumere grande rilievo anche l'atteggiamento del digiuno e di temperanza non visti nella logica negativa della rinuncia per la rinuncia, bensì nella ricerca di ciò che orienta verso l'Assoluto vero. Allora prende consistenza e significato la ricerca della pecora e della dramma smarrita. Certo non si può pretendere di orientare la propria vita secondo questi principi nel momento in cui si soffre la mancanza di una comunità che sostiene o per la quale ci si spende: il discorso richiede una maturazione che implica un cammino quotidiano, una crescita molto lenta ma continua, capace di vivere nella presenza e nell'assenza delle cose che ci sembrano indispensabili ma che tali di fatto non sono. La prospettiva allora diventa quella della sequela e non la ricerca della rinuncia quasi per dimostrare a noi stessi che siamo capaci di tanto. Quello che conta veramente è mantenere viva la relazione con quel Tu che continuamente chiama perché è vicino, perché con Lui sia davvero possibile realizzare il Regno. Gli atteggiamenti da coltivare Diventa allora necessario per il discepolo coltivare alcuni atteggiamenti che costituiscono veri rimedi suggeriti dalla radicalità di cui abbiamo fin qui parlato. In primo luogo abbiamo bisogno di ri-scoprire la vigilanza. Se scorriamo le pagine della Sacra Scrittura sia nell'AT sia nel NT troviamo numerosi riferimenti ed inviti alla vigilanza e insieme viene molte volte presentata la figura della sentinella. Forse oggi questa immagine non è più tanto familiare alla nostra cultura, tuttavia è sempre un'immagine ricca di significati. Per richiamare tale immagine alla nostra mente possiamo rileggere una pagina del profeta Abacuc: " Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza, a spiare, per vedere che cosa mi dirà che cosa risponderà ai miei lamenti. Il Signore rispose e mi disse: ' Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà '" ( Ab 2,1-3 ). L'atteggiamento che viene subito sottolineato è lo stare in piedi della sentinella. Ecco, nella nostra ferialità, siamo invitati a non cedere il nostro posto, a non adagiarci nelle comodità, nella dilatazione dei tempi così che si finisca per dichiarare di non aver mai tempo per le cose importanti, a non fidarci di avere già scoperto tutto, a non fidarci delle nostre sicurezze. Se a questa pagina accostiamo quella di Matteo che riporta il discorso della montagna in cui Gesù chiama " beati " i poveri, quelli che piangono, quelli che hanno fame … allora ci accorgiamo che lo stare di sentinella reclama una vita attenta, che non poggia sulle sicurezze umane, che non si accontenta di dare qualche cosa ma è in continua ricerca del tutto, quella della radicalità esigila dalla vita consacrata. Vigilare significa ancora saper controllare il proprio mondo affettivo, la voracità intesa nel senso dei desideri che rincorrono la nostra pretesa onnipotenza sia a livello del conoscere sia a livello del fare e dell'immaginare. Vigilare significa ancora saper guardare con coraggio alla tentazione di coltivare una sottile nostalgia per ciò che si è rinunciato fino a vivere il ruolo della vittima. Per il fatto che la sentinella sia raffigurata " in piedi " ci si rende conto come tale posizione implichi una presa di coscienza, una volontà, un riconoscimento delle forze da spendere nell'esercizio delle proprie funzioni. La sentinella è in continua tensione anche nei momenti felici in cui il nemico non sembra essere immediatamente alle porte. Anche nella nostra vita spirituale ci possono essere dei momenti sereni, di gioia, in cui l'entusiasmo sembra appagare tutti i nostri desideri; anche e forse soprattutto in questi momenti il livello di vigilanza deve essere vivo, perché non ci capiti di prendere degli abbagli ed allontanarci dall'Assoluto che è solo uno, che è Gesù Cristo. E allora dobbiamo ricordare come non ci possa essere vigilanza senza rendimento di grazie. Dobbiamo essere attenti non per paura bensì per essere in grado di accogliere il dono che ci viene fatto, per riconoscere quanto bisogno abbiamo di questo dono e per dire il nostro grazie perché Egli, lo Sposo, viene e non tarda. Riusciamo anche a comprendere come la vigilanza non possa mai andare disgiunta dalla preghiera. Essa, infatti, non può che diventare preghiera, accoglienza e comunione con quel Tu che sempre ci precede, prende iniziativa, chiama e attende soltanto che la nostra libertà si conformi alla sua volontà. Possiamo senza dubbio affermare che a questo livello non si può più parlare in termini psicologici: il discorso è davvero spirituale. Siamo chiamati ad essere nuovi ogni giorno, di una novità reale senz'altro superiore alle nostre aspettative che potrebbero rischiare di essere ancora una volta troppo limitate. Lo Sposo che viene aspetta una lampada accesa, un'attenzione a non lasciar mancare l'olio, a farne provvista per tempo, a vigilare appunto. Certo, può sconvolgere il fatto di considerare l'esiguità della richiesta a fronte dell'incapacità a rispondere talvolta camuffata da un desiderio di dare molto di più, dalla ricerca di un atto eroico mentre di fatto spesso si cade in una sorta di inerzia, di delusione, di frustrazione. Allora vigilare e pregare diventano azioni concrete che connotano la vita nella sua essenza e che pertanto richiedono modi e tempi definiti. Ciascuno è chiamato ad essere vigilante nella situazione nella quale si trova: non ha bisogno di aspettare una condizione particolare, quasi fosse una condizione necessaria per rimanere in piedi. Proprio a partire dalla condizione in cui ci si trova, impegnati nella professione, nell'amministrazione pubblica, nella politica, nel volontariato, nella casa di riposo … dobbiamo trovare il nostro posto di sentinella, sapere quali sono i nostri turni ( i tempi forti ), quali sono i nostri referenti perché il dono non è mai riservato ad una persona sola ma si riflette ed ha risonanza anche per il " popolo " di cui siamo parte. Certamente il suggerimento della vigilanza non può trovare una sorta di ricettario valido per tutti: ognuno deve trovare i " suoi " modi e cercare la sua fedeltà ad essi. Fedeltà che rimane unica nella sostanza ma che necessita di aggiustamenti lungo il cammino. Forse a questo punto si innesta un altro suggerimento di cui tenere conto. Il Signore, quando ci chiama su questa strada, ci pone accanto delle persone, utilizza delle mediazioni umane. Nella nostra fragilità, infatti, sarebbe senz'altrò molto pericoloso pretendere di camminare da soli. Anche nel cammino spirituale se Colui che fa nuovi è sempre e soltanto lo Spirito del Signore, è vero che tale aiuto incontra nella maggioranza dei casi una mediazione, una guida con la quale è possibile un confronto sereno e aperto proprio perché dovrebbe sempre essere impostato nella logica della gratuità e dell'unica ricerca significativa quella cioè della sua Volontà. Così la persona si pone in atteggiamento di umiltà. Oggi sembra ormai desueta questa espressione. Tutta la nostra cultura si pone nell'affannosa ricerca di una autosufficienza, si dice della ricerca di se stessi, della nostra valorizzazione. Certo raggiungere la consapevolezza delle nostre capacità e anche dei nostri limiti è fare verità; tutto questo dovrebbe portare la persona a riconoscersi soltanto creatura e quindi a cercare il proprio riferimento. L'atteggiamento umile diventa allora un autentico rimedio alla solitudine in quanto colloca la persona all'interno di relazioni diverse, nella posizione di vera collaborazione riconoscendo che anche altri hanno la possibilità di fare e talvolta anche meglio di noi. La caratteristica ancora più profonda di tale atteggiamento è la capacità di non voler difendere nulla come proprietà esclusiva, non avere diritti da far valere, bensì saper mettersi attivamente sul cammino insieme con altre persone cercando di spendere completamente i talenti che abbiamo. Forse l'immagine più efficace dell'umiltà ci viene ancora una volta offerta da Gesù che si accorge del gesto della vedova. Quello che conta è la radicalità del dono e la donna, nella sua semplicità, senza farsi alcuna propaganda, ha saputo dare tutto quello che possedeva. Non è forse l'invito che ogni persona consacrata riceve insieme con il dono della vocazione? L'umiltà comunque non si esprime se non attraverso una grande pazienza. Forse pensiamo troppo poco al significato di tale espressione. Nella sua etimologia pazienza racchiude la radice del patire. In ogni circostanza, infatti, se ci poniamo nella libertà di chi intende obbedire ad un progetto di amore, non si può che arrivare al dono di sé, ad assimilare completamente l'impegno per il Regno. Questo provoca di fatto una espropriazione che può richiedere dei distacchi, delle sofferenze, delle rinunce. Solamente quando abbiamo la chiarezza del perché incontriamo questi ostacoli sul nostro cammino possiamo accettarli e trovare allora una grande pace e, quando il Signore lo permette, anche una grande gioia. Il filo conduttore di tali riflessioni continua ad essere la relazione con questo Signore che ci ama tanto profondamente da farci suoi collaboratori. Diventa chiaro il fatto che non si può in quest'ottica precedere il Signore, pretendere di intuire anticipatamente che cosa Egli ci chiede, dove Egli ci pone. La pazienza è sostanzialmente la scelta di seguire Gesù, di accettare i suoi tempi che non sono i nostri spesso tanto miopi, capaci di vedere soltanto e magari neppure completamente quello che viviamo all'istante, senza saper dare spessore e profondità. In questo senso la pazienza può coincidere anche con la fiducia nel Dio fedele. Questo percorso è talmente diverso rispetto la concezione del nostro mondo che diventa necessario richiamare un altro atteggiamento necessario al discepolo: il coraggio. Finora quelli che definiamo rimedi alla nostra solitudine non sono aspetti consolatori di una vicenda quasi insolubile ed ineliminabile: siamo di fronte ad esigenze radicali per la nostra vita che richiedono una risposta decisa anche se realizzata attraverso la povertà dei nostri limiti e delle nostre fatiche. Non si può accarezzare l'illusione di mettersi nella passività per risolvere i nostri problemi. Ogni soluzione richiede la forza, il coraggio di una reazione: occorre prendersi in mano almeno con la simpatia con la quale proprio il Signore ci guarda. Il coraggio è ancora una volta espressione di una fede salda, della convinzione che non siamo soli in questo deserto spesso inospitale. Lo sguardo alla terra promessa deve essere sempre il riferimento sicuro al valore delle nostre imprese piccole o grandi che possono essere. Ci troviamo dunque in una dinamica molto interessante anche perché non dipende mai soltanto da noi. È tanto vero che ci troviamo sempre, in ogni momento della nostra vita, all'interno di un sistema molto complesso che sorge spontanea la domanda: quando avvertiamo il peso della solitudine non sarà che stiamo noi stessi estraniandoci, emarginandoci dal contesto? Sono gli altri a metterci da parte oppure siamo proprio noi a collocarci ai bordi del cammino con la pretesa di attendere che qualcuno si accorga di noi? E questa aspettativa non è forse l'equivalente di un sovvertimento di valori, di un mettere noi stessi al centro della realtà anziché il Regno che nella preghiera chiediamo di realizzare? Accettare la missione di Cristo Arriviamo così ad un'ultima serie di riflessioni. Nella sua ultima preghiera Gesù chiede al Padre di non togliere i suoi dal mondo, ma di far sì che essi non siano del mondo. Non possiamo dimenticare questa preoccupazione del Signore. Essere suoi discepoli significa accettare la sua missione, accettare di diventare " perfetti come il Padre " proprio nella situazione concreta nella quale siamo posti. La missione è data a ciascuno di noi come un dono. Nessuno può andare senza avere ricevuto un mandato, anche perché la missione comporta la testimonianza di un messaggio che non è nostro ma Suo. È significativo il fatto che nel Vangelo non troviamo specificate " le cose " che dobbiamo compiere, bensì viene continuamente richiamata la necessità di testimoniare l'amore, o, con altro termine a noi caro e pregnante, la carità. Essere carità equivale a dire con tutta la vita la sovrabbondanza di amore del Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e che fa piovere indifferentemente sui buoni e sui cattivi. Ma potremmo ancora e più profondamente ricordare che tale amore si è manifestato in Gesù che si è fatto servo di tutti fino al gesto supremo di dare la vita per tutti. Accettare la missione allora vuoi dire che ciascuno di noi non può chiudersi in se stesso, vivere una sorta di intimismo e lamentarsi poi di trovarsi solo. La missione dice immediatamente apertura, incontro, dialogo, servizio. Quando la Madonna ha ricevuto il saluto dell'Angelo ed ha dichiarato la sua disponibilità senza chiedere garanzie particolari ha avuto la gioia immensa di dare la vita al Signore. Ella cioè ha permesso a Gesù di Nazaret di incontrare tutta l'umanità. Così ogni volta che noi accettiamo la missione facilitiamo lo sbocciare di una vita, di espressioni che portano linfa vitale, acqua nell'aridità, luce fra le tenebre. Quello che è meraviglioso è che tale irruzione di vita può avvenire anche nel più oscuro nascondimento. La missione, infatti, si può realizzare sia contribuendo alla costruzione di una grande opera sociale, umanitaria, economica, politica, sia costretti in un letto senza la possibilità di muovere un dito ma con l'apertura ad affidare al Signore nella preghiera i fratelli che stanno cercando soluzioni per la loro storia personale o per il loro paese o per quelle persone che hanno imboccato strade devianti o di violenza. Quando accettiamo di essere mandati in missione accettiamo non soltanto la relazione col Signore che ci manda ma l'incontro con i nostri fratelli. Quando maturiamo la consapevolezza che nessun fratello, vicino o lontano, ci può essere indifferente in quanto ognuno fa parte del grande piano della salvezza ed è importante agli occhi del Signore, allora non possiamo percepire la nostra solitudine nella negatività dell'isolamento. Non basta dire queste verità per saperle incarnare: dobbiamo chiedere al Signore di avere occhi per vedere il povero lungo il ciglio della strada come il buon samaritano. Forse anche questi avrà dovuto fare i conti con i suoi impegni, con il tempo che lo sventurato gli sottraeva, con il disagio di interrompere un cammino e forse il pericolo di essere giudicato come l'aggressore. Servire comporta sempre disagi, espropriazioni, rischi ma consente comunque sempre di rimanere in relazione con qualcuno. Accettare la missione per un laico vuoi dire accettare di stare in un contesto spesso complicato e inospitale: sarà proprio l'obbedienza ad un piano che ci supera a darci il coraggio per rimanere all'interno della situazione, sapendo che Colui che ci invia, come dice Paolo, è l'Unico a far " crescere ". Nella crescita del Regno viene situata anche la nostra crescita, ne dobbiamo essere certi. Lo Spirito consolatore, come lo invochiamo nel Veni Creator, sarà capace di farci avvertire la sua presenza e di non lasciarci mai soli. La solitudine, le solitudini, l'isolamento di Marisa Sfondrini " Beata solitudo, sola beatitudo ": così dice un antico motto, per la verità piuttosto orgoglioso; è infatti il motto - non soltanto, ma principalmente - di chi sente di bastare a se stesso e che in se stesso esaurisce ogni desiderio di rapporto, non ritenendo gli altri alla propria ' altezza '. Non è unicamente questo il significato. La solitudine può essere una condizione beatificante, una situazione da ricercare. A certe condizioni, però. Condizioni che esaminiamo in altra parte di questo volume. Ma quando la solitudine è subita, diventa un carcere, una fonte di disperazione, una sorta di imbuto nel quale è facile scivolare e difficilissimo ( quasi impossibile? ) risalire. Questo in ogni situazione esistenziale, anche in quella del consacrato. Sono purtroppo molte le cause che oggi conducono a questo stato di cose: interne ed esterne all'essere umano. Genericamente, possiamo raggrupparle in due grandi filoni: paura, del soggetto e degli altri che lo circondano, incapacità patologica a mettersi in relazione. Siamo circondati da esseri umani che sopravvivono isolati in un loro bozzolo, per rompere il quale basterebbe forse pochissimo, un gesto, una parola, un sorriso; asseragliati dentro una fortezza di diffidenza e di indifferenza, che può arrivare ad uccidere. Chi è stato chiamato ad una vita di speciale consacrazione, come quella secolare, ha due approcci diversi alla solitudine che si ripiega in isolamento, in entrambi i casi per ' evangelizzare ' una realtà ' difettosa ': difendersi, con un opportuno discernimento, dalle possibilità di auto isolamento; aiutare i fratelli e le sorelle che scopre vittime di alcune situazioni, a non restarne schiacciati definitivamente, cercando con loro le vie d'uscita. Un primo approccio - un approccio dovuto, se non si vuole essere tagliati fuori - è conoscere queste situazioni ' difettose ', anche se non riguardano direttamente la propria condizione di vita ( non dimenticando peraltro che nessuno può mai considerarsi garantito del tutto ). Per descrivere queste situazioni umane più delle teorizzazioni sono efficaci le testimonianze. Ne abbiamo raccolte un certo numero: nomi e circostanze che potrebbero far riconoscere i protagonisti, sono rigorosamente falsi. Rigorosamente veri sono gli episodi e soprattutto l'atmosfera di isolamento, di abbandono, di disperazione. Vedova e niente affatto allegra Paola F. non ha ancora quarant'anni quando suo marito, un affermato professionista, all'improvviso muore. È indiscutibilmente una bella donna, fine, intelligente: i tre figli e le cure della casa l'hanno tenuta lontana da un lavoro professionale. Ma, a quel punto, se vuole mantenere sé e i figli, deve darsi da fare. Rispolvera una laurea in economia e commercio messa nel cassetto " causa matrimonio ", subito dopo averla conseguita, e cerca di prendere le redini dello studio professionale del marito. Il dolore per il suo amore spezzato ( quanti invidiavano quella bella e giovane coppia, così affiatata! ) è messo da parte; non ha posto nella valanga di problemi che Paola si trova ad affrontare. È una combattente, che però ha bisogno di costruirsi una professionalità. Paola, ma gli amici suoi e di suo marito, non l'hanno aiutata? " Soltanto all'inizio e nemmeno tutti. Anzi, qualcuno ha tentato persino di approfittare della mia inesperienza. Altri no, mi hanno fornito consigli preziosi, incoraggiamenti, mi hanno indicato porte da aprire, passi da compiere per aumentare la mia conoscenza della materia amministrativa. Nei primi tempi, subito dopo la morte di mio marito, mi davano quasi fastidio le telefonate quotidiane, l'interessamento di amiche e amici che davvero sembravano volersi fare carico della ' povera vedova ' e dei suoi figli ( tutti giovanissimi, come si può bene immaginare ). Poi piano piano, la metamorfosi. Ad uno ad uno, gli amici si sono allontanati, come inghiottiti dal nulla ". Per quali misteriose ragioni? " È con molta amarezza che le ricordo, oggi, dopo che tanta acqua è passata sotto i ponti, i figli sono diventati grandi e gli amici - altri - sono intorno a me. Le antiche amicizie si sono diradate fino a scomparire per pochi motivi, non molto nobili. Per gelosia, ad esempio: ero la donna sola, che nelle occasioni conviviali, non si sapeva a chi ' appioppare ' ( è il brutto verbo che ho sentito pronunciare, ovviamente non vista, da un'amica ). Le mogli degli amici di mio marito, avevano paura che io fossi una rovina famiglie, che cercassi la compagnia dei loro mariti per inconfessabili motivi. Devo ammettere, che in qualche caso avevano ragione di dubitare della fedeltà dei loro compagni. Mai, però, conoscendomi anche superficialmente, avrebbero dovuto dubitare della mia onestà e rettitudine. Per gli uomini, delusi, magari, nel non trovare in me la facile preda che avrebbero sperato, il timore che li allontanava era quello di poter essere bersaglio - da parte mia - di richieste di aiuto che li avrebbero tolti dal loro tran tran, che li avrebbero potuti caricare di sensi di colpa nel caso non avessero voluto esaudirle. Non volevano essere impaniati anche dal desiderio di affetto e di ' figura paterna ' dei miei figli, tutti e tre maschi. La sorte aveva voluto che fossi figlia unica, rimasta presto orfana; e che i parenti più prossimi di mio marito fossero tutti lontani. Così, a poco a poco, mi trovai in una situazione di isolamento: nella quale restai per parecchi anni. Soltanto il ricordo di mio marito, l'affetto gratificante dei figli, il lavoro che imparavo ogni giorno ad amare, soprattutto la fede in un Dio che sta dalla parte dello straniero, della vedova e dell'orfano, mi salvarono. Non soltanto: il Signore, nella sua bontà, mi ha permesso di scorgere in me i germi di una nuova vocazione, che si innestava perfettamente - almeno così mi è subito sembrato - in quella al matrimonio in certo senso spezzata: la vocazione ad una consacrazione secolare proprio nel mio status di vedova ". Non ha quindi mai sentito il desiderio di trovare un altro compagno? " Sì; prima di accorgermi di quanto il Signore voleva da me, ho anche penato, non mi sono mancate nemmeno le opportunità. Ma il mio matrimonio era ed è per sempre. Nemmeno la morte è riuscita ad annullare un legame tanto profondo, straordinario. Mio marito continua ad essere accanto a me, in me, misteriosamente presente. Non sono una visionaria, mi considero una donna ' positiva ', con i piedi per terra. Ma questa è per me una realtà ". Paola F. era ancora giovane e carina, poteva essere percepita con una certa ragione come una minaccia per le altre coppie di amici. C.G. è una signora ormai matura: ma dopo la morte del suo compagno, avvenuta di recente, si è trovata in condizioni di progressivo isolamento, simili a quelle di Paola. Un amico di antichissima data, che lei considerava sufficientemente sperimentato, le ha detto: " Rassegnati, non hai più tuo marito che ti fa da ' spalla ' ", facendole così capire che anche gli ottimi rapporti che da tanto tempo anche un ecclesiastico, il vescovo mons. G., aveva con la sua famiglia, andavano diradati ' opportunamente '. Lo stesso fenomeno si verifica anche nel caso in cui un uomo perda la sua compagna? Più difficilmente. E, in genere, le cause di isolamento sono endogene: è l'uomo che si richiude in se stesso, si isola, si lascia andare e si abbrutisce. Ma non subisce il sottile ostracismo sociale di cui invece sono vittime, ancora oggi, le donne. Tossicodipendenza: causa ed effetto La tossicodipendenza ( e ad essa possiamo assimilare anche la dipendenza da alcol ) è insieme effetto della solitudine e causa della medesima. Spesso il giovanissimo diventa ' tossico ' per imitazione, per non essere espulso dal ' branco ', per sentirsi allora come gli altri. La droga, però, divide, isola, ciascuno nella sua necessità di ' roba per farsi '. Non esistono affetti, non esistono interessi che possano distogliere dalla distruttiva volontà di iniettarsi una dose, di sniffare la ' neve ' ( eufemismo per indicare la cocaina ). È un fatto, però, che dietro molti giovani e giovanissimi tossicodipendenti, esistono famiglie dissestate, incapaci di essere solide radici per un virgulto che cresce. Sono, infatti, condizioni di miseria affettiva, più che economica, le cause prossime della tossicodipendenza. E nemmeno una successiva ' congiura di affetti ' riesce a modificare la situazione: soltanto uno sforzo di volontà, accompagnato, sostenuto, fatto crescere in strutture competenti ed opportunamente attrezzate, può conseguire l'obiettivo di rompere l'isolamento e di far abbandonare la perniciosa assuefazione. Quello di Guido L. è un caso emblematico. I suoi genitori, entrambi maturi d'età, ma forse non affettivamente, in ottime condizioni economiche, si separano - dichiarandosi guerra fino all'ultimo sangue - già qualche mese prima che Guido nasca. La sua nascita sembra far cessare il fuoco per un momento: ma si tratta di una breve tregua, dopo di che il bimbo diviene arma di ricatti incrociati da parte degli infelici genitori. Guido viene praticamente allevato dalla nonna materna ( papa e mamma sono troppo occupati dal lavoro professionale e dai litigi continui ), brava donna, ma debole, incapace di fornire una adeguata educazione. Messo, a sedici anni, in un elegante collegio, è iniziato alla droga. Per un po' Guido riesce a nascondere il bisogno di denaro per procurarsi le dosi: le mance di papa, soprattutto, sono ricche. Poi non bastano più. La mamma scopre ammanchi al portafoglio, facilmente immagina la causa, toglie il figlio dal collegio. Lo affida alla guida di una famiglia amica, lontana dalla città. Ma è già tardi, il veleno ha cominciato il suo effetto. La sfortuna si accanisce contro Guido: prima muore il padre, in un incidente; poi la mamma, colpita da malattia. Guido è solo: accanto a lui la nonna materna, sempre più schiacciata dal dolore per la morte dell'unica figlia e dagli anni. Guido passa di degrado in degrado: a poco a poco consuma la pur ingente eredità, sulla quale si sono accaniti anche tanti avvoltoi travestiti da amici disinteressati. La nonna cerca di opporsi, in qualche modo, ma le forze non le bastano. Guido oggi non è che la pallida immagine del bel ragazzo, sempre un po' malinconico, che era un tempo. Spettralmente magro, ha lasciato la sua giovane compagna, con la quale aveva tentato di ricostruire un minimo di focolare, è tornato a vivere con la nonna, perché è spesso malaticcio, incapace di bastare a se stesso. Non ha trovato la forza di entrare in una comunità di recupero, forse non ce la farà mai. Quelli che un tempo gli stavano intorno per carpirgli denaro, se ne sono andati. La nonna, travolta dal dolore, è arrivata a dire: " Prego Dio che se lo prenda presto, che non lo faccia morire di AIDS, perché il suo tormento finisca. E un minuto dopo, che faccia morire anche me ". Il compito di un consacrato o di una consacrata secolare è abbastanza evidente: aiutare come possibile e se possibile queste creature ad emergere. Ma è impossibile cadere in una scelta simile per il solo fatto di avere emesso voti? Questi non sono uno scudo, anche il consacrato non deve mai abbassare la guardia, non fosse altro che per il suo stare nel mondo così com'è. La peste del Duemila Si conosceva da prima, ma soltanto nel 1985 siamo tutti stati messi di fronte alla ' nuova peste ', alla sieropositività che diviene AIDS ( sindrome da immunodeficienza acquisita ). La malattia, per ora, non ha rimedi, anche il vaccino sembra lontano. Unica difesa dal contagio ( che però, come sappiamo, è possibile soltanto in determinate condizioni ) è la prevenzione. Il lato più drammatico di questa malattia è l'isolamento in cui cadono quelli che ne sono colpiti. Malati senza speranza di guarigione, sono via via abbandonati - quando ne hanno - da amici e parenti. Ma questa è condizione comune a quasi tutti i malati terminali. Per i sieropositivi e per gli affetti da AIDS conclamato, c'è una difficoltà in più: la gravita e la contagiosità della malattia, rendono ' distanti ' tutti i rapporti. Per non correre il rischio di essere contagiati ( sono il sangue ed i liquidi fisiologici i portatori del virus ) gli stessi operatori sanitari devono agire con guanti e mascherine; e non soltanto per proteggere se stessi, ma soprattutto per evitare al malato l'attacco da parte di microbi, batteri ed altri virus contro i quali non ha difese. La solitudine, l'isolamento per i malati di AIDS sembra essere una condizione insuperabile, non soltanto per la paura. Nel suo intervento ( dal titolo significativo " Vivere e morire di AIDS oggi " ) al Congresso internazionale organizzato a Milano dalla Fondazione AIDS-aiuto, AIDS-aid ( " AIDS e assistenza domiciliare. Le cure palliative " ), nel 1993, il card. Carlo M. Martini delinea chiaramente la situazione, a partire da una lettera pubblicata dal quotidiano La Stampa. Afferma infatti l'arcivescovo di Milano, che " Anzitutto [ la lettera ] lascia trasparire in tutta la sua gravità la sindrome del malato di AIDS, non soltanto medica, ma pure sentimentale e spirituale. A determinarne la sofferenza esistenziale concorrono molteplici fattori. Certo la malattia assume nello stadio finale forme clinicamente devastanti e fisicamente assai dolorose; tuttavia anche chi è soltanto infetto dal virus o agli stadi iniziali della malattia, nello spettacolo in cui è diretto osservatore, già vive in anticipo il destino che inesorabilmente lo attende ". E cita dalla lettera di un malato: " … lo scenario è da inferno dantesco, tanto nel day-hospital, quanto nei reparti di degenza. Si vedono pazienti paralitici, orbi, claudicanti, dementi, s'intravedono malati ridotti a 40 kg di peso nascosti dietro le porte, talvolta sostenuti da infermieri o trasportati su sedia a rotelle nella toeletta … Per ora io sono autosufficiente, ma vivo in uno stato di continua angoscia e paura ". E, all'angoscia provocata da questa prospettiva, si accompagna l'umiliazione indotta dalla censura morale - più o meno esplicita - proveniente dall'ambiente sociale, che aggrava la sensazione di abbandono e solitudine: " Si aggiunga lo scandalo, la vergogna della malattia, nella propria famiglia, nel proprio ambito sociale o di lavoro. Qualche volta i familiari dei pazienti sanno solo quando la malattia degenera ". Infine, la sensazione di essere, nei confronti della società, solo un peso e un costo che assorbe inutilmente preziose risorse, non fa che esasperare il senso di prostrazione: " In tempi difficili per la nostra Sanità, un flacone di Azt [ il preparato che viene utilizzato - in attesa della medicina risolutiva - per attenuare e ritardare gli effetti devastanti della malattia ] costa L. 308.000. Nel mio caso sono necessari due flaconi nel corso del mese, e alla terapia si aggiungerebbe poi il Dcd … È denaro sottratto in parte ' alla fame nel mondo '; pensi con quale ulteriore complesso di colpa per chi osserva le foto dei bambini della Somalia e degli anziani senza casa della Bosnia-Erzegovina. Oramai tutto ci angustia, tutto ci tortura. Dio che pure pareva associare noi colpevoli alla sofferenza della sua Croce, a un tratto pare abbandonarci al nostro destino di disperati ". Continua ancora il card. Martini: " Mosso da tali sentimenti, l'autore della lettera giunge a chiedersi - e chiede a tutti - se con l'AIDS non sia giunto anche il momento di ' cambiare non solo le leggi e il costume, ma la stessa morale nei confronti della morte '. Una morale, cioè, che autorizzi, o almeno non condanni troppo severamente, il suicidio e l'eutanasia: ' Dio avrà pietà del suicida, una volta constatata l'impossibilità del paziente sconvolto a proseguire nella malattia? Dio avrà pietà anche se l'atto è meditato a lungo? e se il suicidio fosse preceduto da un atto di eutanasia nei confronti di una persona troppo vicina e troppo amata, incolpevole, per ora all'oscuro di tutto, e che rischierebbe di restare non autosufficiente? ". Interessante anche la risposta che il card. Martini offre alle serie ed inquietanti domande dell'autore della lettera. Cambiare la morale, si chiede. " La risposta può essere positiva - dice Martini - ma in un senso diametralmente opposto a quello suggerito da lui stesso e a cui oggi molti sembrano tentati di consentire. L'autorizzazione morale del suicidio e dell'eutanasia sarebbe una resa disperata di fronte alla invadenza della disumanità. Proprio perché è la solitudine la ragione profonda della sofferenza e dell'angoscia del morente, sarebbe assolutamente cinico rimediare a essa concedendo di anticiparne la morte con un gesto innegabilmente violento in quanto intende togliere di mezzo l'altro o se stesso. Il rimedio alla solitudine può essere solo l'accoglienza, l'ospitalità, la compagnia, il gesto con cui non ci si allontana, ma ci si fa prossimi anche a chi non sembra avere proprio nulla da dare se non la sua presenza … Del resto, lo stesso autore della lettera inviata a La Stampa, quando si sentì fatto segno di numerosi gesti di attenzione e di solidarietà, riscrisse di nuovo per spiegare che aveva finalmente scoperto una fraternità che gli dava la forza di vivere ". Per tanti, ospiti a intermittenza delle corsie delle divisioni ospedaliere per malattie infettive, non vi sono gesti di fraternità: le famiglie, quando ci sono, spesso lasciano da parte, incapaci di affrontare positivamente la situazione. I volontari sono pochi, anche perché i malati di AIDS sono ammalati ' difficili ': non ci si può impegnare a lungo in questo pur prezioso servizio ( mediamente un volontario può portare avanti la sua opera, continuativamente, per due anni e deve essere adeguatamente supportato; anche il corpo sanitario deve essere sostenuto da una grande determinazione e forza morale ). Le strutture socio-sanitarie pubbliche sono ancora abbondantemente inadeguate: troppo, infatti, è affidato alla buona volontà del privato sociale. In questi casi estremi come portare la " buona notizia "? È evidente che l'essere disponibile come il buon Samaritano - se psicologicamente e emotivamente attrezzati in maniera adeguata - è per un consacrato quasi ovvio. Ma anche chi non si sente di affrontare la vicinanza con questo tipo di malati, può certamente agire per lo meno su due fronti: il primo, aiutando il costume corrente ad evolversi nel senso dell'accoglienza da parte della società tutta ( e in essa, della comunità cristiana in particolare ) di questo tipo di malati, avendo attenzione alle loro esigenze, al loro diritto ad una qualità di vita degna di un essere umano; il secondo, facendo in modo che la morte rientri nelle prospettive della vita umana, dopo il lungo tempo in cui essa è stata malamente esorcizzata con il tentativo di nasconderla, di relegarla nelle sole strutture sanitarie. Carcere per il corpo e l'anima Il carcere è, fra le pubbliche strutture, quella che più di altre mette in contatto con il paradosso della solitudine più terribile in una situazione di sovraffollamento. Gli istituti di pena italiani sono spesso autentiche anticamere dell'inferno. Nello spazio previsto per un detenuto, facilmente ne sono ammassati tre o quattro. Non esiste la possibilità di un minimo di privacy: e l'essere costretti a stare, inattivi, per lunghissime ore gomito a gomito tossicodipendenti, sieropositivi, omosessuali, colpevoli e probabilmente innocenti ( nel caso della carcerazione preventiva ), fa perdere il senso della propria dignità umana. Oggi, delle nostre carceri, sono spesso ' ospiti ' extra comunitari, che aggiungono - alle altre cause di isolamento - anche il non saper parlare la nostra lingua, l'avere abitudini diverse, l'appartenere ad una diversa religione. Sono ormai in molti a chiedersi se il carcere - così come oggi strutturato - sia davvero utile, non soltanto come strumento di repressione, di giusta separazione dei criminali dal resto della società, ma soprattutto come strumento di redenzione, perché chi ha compiuto un delitto possa ritrovare se stesso, e rientrare - scontata la pena - nella società essendo uomo o donna ' diversi ', nel pieno possesso della propria dignità e responsabilità di cittadino. Il carcere separa dalla società, ma anche dalla vita affettiva ( quindi spesso diventa luogo di aberrazione ), dalla vita familiare. Le relazioni con i propri cari avvengono in un ambito che dissuade da ogni normale manifestazione d'affetto, oppure ne esaspera il desiderio. Le donne - per fortuna poche, se rapportate al numero degli uomini associati alle patrie galere - se hanno figli in età inferiore ai tre anni, possono portare in carcere anche i loro bimbi, costretti però a condividere il regime di restrizione della libertà; ma una volta che questi hanno compiuto il terzo anno, devono separarsene. L'isolamento che la carcerazione provoca, è stato in parte rotto da alcune misure come la semilibertà, la ' licenza ' periodica; così come dalla costituzione di cooperative miste formate cioè da carcerati e persone libere, per organizzare possibilità di lavoro in carcere, ma da ' esportare ' dal carcere, realizzando così un ponte tra la società ' ristretta ' e il mondo libero. Uno dei più preziosi esempi è fornito da " Lombardia informatica ", una vera e propria azienda che opera nel settore informatico, appunto, fornendo la sua opera a privati ed enti pubblici. Questi istituti, però, sono ancora troppo rari: una delle più grandi difficoltà del carcere, oltre ovviamente la perdita della libertà, la promiscuità e la perdita della privacy, è l'impossibilità di impiegare utilmente, in un lavoro anche retribuito, il proprio tempo. Il lavoro professionale, insieme alla possibilità di continuare e magari completare gli itinerari scolastici, sarebbe, per i detenuti, una grande medicina. Insieme con la possibilità di instaurare un dialogo con cappellani, religiosi e religiose, volontari e volontarie che - prima ancora di togliere i corpi da dietro le sbarre - cercano di togliere gli animi. La prigionia più aberrante e devastante, infatti, è quella dello spirito, che si annichilisce. Nel caso del carcere, sia pure escludendo il fatto di provarlo anche ingiustamente, il compito di chi vive una consacrazione secolare è su un triplice fronte. Quello, ovvio, dell'esercitare l'opera di misericordia ' visitare i carcerati '. Ma anche quello di operare perché la giustizia umana non sia mera applicazione di regole, ma metta al centro l'essere umano anche colpevole di reato, come portatore del diritto alla dignità. E quello di attivare tutte le strutture di prevenzione che possano evitare - specialmente ai più giovani - di cadere nella maglie della malavita. Quei mali che ' separano ' Un noto psichiatra diceva una volta: " Noi tutti siamo spaventati dalle malattie organiche, dal cancro, dall'infarto. Non pensiamo che le malattie della mente sono ben più devastanti e agghiaccianti ". Forse quel professionista parlava in tempi lontani, prima che la malattia mentale cessasse - nella maggior parte dei casi - di essere considerata malattia, permettendo così di togliere dall'isolamento tanti uomini e tante donne costretti prima a sopravvivere, in condizioni bestiali, dentro strutture eufemisticamente definite ' sanitarie '. Oggi conosciamo la depressione. Da sempre questa malattia affligge l'umanità: si dice che Alessandro il grande e Dante Alighieri ne fossero affetti. Ma fino ai nostri giorni, non si osava parlarne a chiare lettere; anche i malati non erano ritenuti tali. Si diceva loro, spesso con irritante paternalismo, sia pure adottato in buona fede e ' per il loro bene ', che dovevano ritrovare in loro stessi la forza per uscire dalla loro malinconia. Li si prendeva in giro o sottogamba. Attualmente sappiamo che la depressione è una vera e propria malattia, che ha sue terapie collaudate, di tipo psicologico e di tipo farmaceutico. Il depresso non si vergogna più di esserlo, e ha imparato a chiedere aiuto. Ma in presenza della malattia, di un ' attacco ' di depressione ( ogni depresso sa che non si guarisce definitivamente, ma che vi sono forme recidive, che periodicamente ricorrono ) si piomba immediatamente nell'isolamento: la parte difficile del male è l'avvitamento su se stesso cui il malato è indotto. È difficile entrare nel mondo di un depresso, anche se gli si vuole bene. È lui, il malato, a costruire, mattone su mattone, una sorta di muro che lo separa da noi. Un depresso va aiutato innanzitutto dal terapeuta. Ma l'azione di chi gli sta accanto, parente, amico, amante, è comunque preziosa, per l' ' energia positiva ' che il rapporto affettivo sprigiona e che serve a demolire il muro dell'isolamento. Un'altra malattia che isola in una impenetrabile solitudine è l'autismo, che colpisce soprattutto i giovani. Ricordiamo forse tutti " Rainman ", il film americano interpretato da un sorprendente Dustin Hoffmann. E forse tutti ricordiamo quell'omino spaventato e insicuro, capace però di elaborare complicate sequenze di operazioni matematiche con velocità degna di un computer, che soltanto l'affetto di un fratello fortunosamente ritrovato e di una strana ragazza, riescono per un momento a mettere in contatto con la realtà esterna al suo mondo chiuso di rituali ripetitivi. L'isolamento dovuto alla diversità, che fa paura, che respinge i così detti normali, colpisce anche i clochard, i barboni, quel piccolo esercito di persone che hanno deciso, a loro modo, di ' scendere ' dal mondo perché forse incapaci di sopportarne i ritmi. È una umanità composita quella che ritroviamo negli scali ferroviari, sotto i cavalcavia e i ponti. Uomini e donne la cui compagnia preferita è spesso la bottiglia, chiusi ai rapporti interpersonali dalla malattia, o dall'etilismo, o dalla inadattabilità a una vita che va facendosi sempre più disumana. Nella gran parte non chiedono né vogliono niente da questa società che hanno rigettato. Così non sono nati, ma hanno voluto diventare, a volte per libera scelta, altre volte per sfortuna, per il progressivo degradarsi della loro condizione. La decisione di vivere così come vivono, o l'impossibilità di uscire dal loro stato, è una forma forte di protesta, che la società ' per bene ' non sa cogliere. Anch'essi, però, sono affamati, come tutti, d'amore; anche se rifiutano le relazioni umane, senza di esse a poco a poco muoiono. E lo sanno. Dice M.T. - una consacrata da anni responsabile di una mensa e di un centro di rifugio diurno per quelli che, dolcemente, chiama i ' carissimi ' - che gli uomini e le donne, centinaia ogni giorno, che gravitano su quel centro, sono i suoi maestri nella fede, nella speranza, oltre che nella carità. " I ' carissimi ' - dice - apprezzano la minestra calda, il bicchiere di vino, ma soprattutto la tovaglia bianca che ogni giorno trovano sopra il tavolo. Perché li fa sentire uomini. Ci sono storie bellissime: come quella di Antonio, uno fra i più scontrosi e musoni, uno che non parlava con nessuno, che un giorno all'improvviso mi chiede: ' Ma dov'è Giovanni, che non lo vedo da un pezzo '. Giovanni era un altro ' carissimo ', col quale mai aveva scambiato una parola, in quel momento ricoverato in ospedale. ' Giovanni è in ospedale ', gli rispondo. ' Allora dammi una camicia pulita e un soprabito in ordine, che vado a trovarlo ', mi apostrofa, ' non voglio che Giovanni non abbia nessuno che lo va a trovare, deve essere come gli altri '. Per andare a visitare il compagno, Antonio voleva essere in ordine, a posto, per non fare sfigurare l'amico. Così continuò ad andare avanti e indietro dall'ospedale, fino a che Giovanni non morì. Dopo di che, Antonio mi disse: ' L'ultima camicia pulita che mi hai dato non te la restituisco. Mi serve per andare a trovare Giovanni al cimitero '. Chi di noi sarebbe capace di un gesto altrettanto delicato? ". Anche nel caso di questi disagi di fronte alla vita, la testimonianza di chi si è sentito afferrato completamente da Cristo può consistere non soltanto nella ovvia dichiarazione " Se siamo tutti figli di Dio, siamo tutti fratelli con uguali diritti e doveri, con uguale amore dal Padre ", ma anche nella meno ovvia - forse - azione per fare sì che possano essere apprezzati i gesti anche minimi di delicatezza, di attenzione che proprio le persone più disagiate sono capaci di mettere in atto. Quando un altro ti cingerà la veste … " In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi " ( Gv 2,18 ). A parlare in questo modo è Gesù, il Risorto, che si rivolge a Simon Pietro, l'apostolo cui ha appena ordinato " Pasci le mie pecorelle " ( Gv 21,17 ). È, questo, del Salvatore un discorso duro e realistico, al di là di ogni possibile valutazione esegetica. La condizione anziana è certamente causa di solitudine, di isolamento, di abbandono. Ogni anno, agli inizi dell'estate, insieme alle indicazioni di nuove e sempre più ' intelligenti ' mete per le vacanze, su quotidiani e periodici compaiono le raccomandazioni: non abbandonate i cani in autostrada e i vecchietti di casa nelle corsie di un ospedale. È così frequente, infatti, l'avvenimento che persone anziane siano fatte ricoverare per permettere ai congiunti di godersi vacanze più ' libere ', che la raccomandazione affinché ciò non avvenga non ci fa più quasi effetto. È un dato di fatto che non fa quasi più notizia: proprio - e lo diciamo con estrema amarezza - come quella dell'abbandono di un cucciolo in autostrada. E diventa difficile affrontare questo argomento senza cadere negli opposti estremismi della retorica più bieca o di un cinismo altrettanto bieco. La promessa di vita si è allungata ( più di 80 anni per le donne e più di 75 per gli uomini ) e si è allungata anche la vita umana in assoluto. Ormai arzilli centenari sono spesso ospiti dei più accreditati talk show televisivi, agli spettatori dei quali appaiono generalmente circondati da affettuosi nipoti e pronipoti. Sono persone fortunate, dal cervello ancora ben sveglio, che fanno un po' di fatica a muoversi, ma che - complessivamente - godono di una buona qualità di vita. I novantenni pimpanti o gli ultra centenari arzilli sono, però, una rarità anche oggi: è vero, come si diceva, che la promessa di vita e la vita si sono allungate, ma le condizioni in cui si vivono questi anni in più, sono spesso disastrose, scoraggianti. E ciò nonostante ogni giorno, o quasi, la medicina faccia passi in avanti - grazie anche alla bioingegneria - nella scoperta di rimedi alle malattie invalidanti. Non basta sapere che la chirurgia ortopedica può rifarti a nuovo un'anca sconquassata dalla osteoporosi, o che una medicina può toglierti o per lo meno attenuare sensibilmente il tremolio del morbo di Parkinson o un trapianto di cellule rimediare al morbo di Alzheimer; della età avanzata il ' mostro ' che fa più paura è la solitudine e la conseguente necessità di affidarsi ad altri, a mani prezzolate: " Un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi ". Anche la solitudine dell'età avanzata non è sempre e soltanto frutto di casi della vita sfortunati. Sì, molto spesso, anche nelle residenze per anziani più lussuose, si trovano poveri vecchini e povere vecchine che non vedono da anni un congiunto: eppure hanno messo al mondo figli che hanno generato, a loro volta, nipoti. È però soltanto sciocca retorica attribuire la causa dell'abbandono unicamente alla cattiveria e all'egoismo dei parenti. Se indaghiamo soltanto un po', ci accorgiamo che il tenero vecchino o la indifesa vecchina in realtà hanno a volte scavato con le loro stesse mani l'abisso che li ha separati dai loro cari. Ed anche ora, che pure vivono una stessa condizione, non riescono ad allacciare rapporti decenti nemmeno con i vicini di stanza. Vecchiaia non è sinonimo di saggezza e di bontà: può anche fare rima con egoismo, con grettezza, con musoneria, con invidia per un mondo che non ci appartiene più perché così deve essere: non possiamo fermare i ritmi biologici, anche se ogni tanto qualcuno vorrebbe farci credere di avere inventato la pillola dell'eterna giovinezza. In ogni caso, però, la solitudine dell'anziano è desolante. Ma è ineludibile? Di certo, possiamo affermare che il problema di un numero alto di anziani è tipico di questa nostra società; ed è aumentato negli ultimi decenni. Fino agli inizi del nostro secolo, la presenza di un ultra ottuagenario era rara e circondata dal rispetto che si deve perlomeno alle rarità. I progressi della medicina e della chirurgia ci hanno dato anni in più da vivere: ma la società ( almeno quella occidentale ) non ha ancora saputo adeguarsi. Non è preparata ad accogliere un alto numero di anziani, spesso ancora vivaci e vogliosi di vivere. Per ora, la nostra comunità civile non ha trovato altro rimedio che quei piccoli ( e per ora provvidenziali, beninteso ) ghetti che sono le case di riposo o le residenze per anziani. Qualche volta, specialmente nei piccoli centri, offre abitazioni protette, in cui gli anziani possono vivere anche da soli, visitati periodicamente da assistenti sociali che provvedono alle varie necessità, così che l'anziano possa sentirsi inserito in un contesto sociale naturale, non un poco artificiale come quello dei luoghi a lui solo riservati. Ma questi ultimi sono centri rari. Ancora troppo costosi per una società che valuta i cittadini in base a ciò che rendono, in termini di capacità di reddito, e non per ciò che sono, uomini e donne sempre, anche se i capelli sono bianchi e le forze vengono meno. Specialmente se vista dal lontano posto d'osservazione degli anni maturi, ma non ancora da terza o quarta età, la situazione può apparire disperante: e spesso lo è davvero, nei casi più allarmanti, nei quali alla vecchiaia si assommano la malattia e la scarsità dei mezzi economici. Vista da vicino, forse lo è un po' di meno: ci sono tante piccole gioie cui aggrapparsi. A volte basta un ritratto portato da casa, una piccola suppellettile a ridarci un po' dell'intimità perduta. I ricordi, poi, possono essere compagni molesti, ma nella più parte dei casi sono conforto e sostegno. Un altro motivo di speranza è dato dal rapido evolversi della sensibilità sociale. Fino a pochi anni fa, prendendo per osservatorio l'Italia, non esistevano che pochi esempi di università della terza età: oggi i corsi di alto livello culturale, riservati agli anziani si sono moltiplicati, con grande successo, a dismisura. Le iniziative per fare incontrare nonni e nipoti, anziani fra di loro ( magari intorno ad una orchestrina che suona il ' liscio ' ) si moltiplicano nelle grandi città come nei piccoli centri. Gruppi e movimenti d'aiuto degli anziani fra di loro cominciano a diventare una realtà un po' dovunque, promossi spesso dalle parrocchie. Aumentano i presidi sanitari che rendono più confortevole la vita: dalle sedie che aiutano a spostarsi senza fatica da un piano all'altro, ai famigerati ' pannoloni '. Perfino la moda si adegua alle nuove esigenze e lancia ' linee ' e modelli per signora d'antan ben lontani dai fagottoni grigiastri di un tempo: buon taglio sartoriale e colori sobri ma vivaci. Manca ancora, invece, l'educazione all'invecchiamento: la nostra società, infatti, esalta la gioventù, fa di tutto per farci rimandare il passaggio dall'età adulta all'età avanzata, la presa di coscienza che ogni stagione della vita ha i suoi pregi accanto alle difficoltà. Una buona educazione all'invecchiamento, ci eviterebbe casi tristi come quello di Carlotta. Figlia di una grande e facoltosissima famiglia, rimasta nubile, padrona di ingenti patrimoni cui guardano con malcelata avidità lontani nipoti, ha creduto di potersi difendere dalla solitudine ' comprando ' - letteralmente - cordialità e compagnia un po' dovunque. Non l'ha mai sfiorata il sospetto che la vera amicizia, la vera cordialità sono doni gratuiti che però si devono dare, oltreché ricevere. Teniamo conto che proprio perché viviamo in una società che premia il giovane, il sano, il forte, il bello, l'efficiente ( mentre il vecchio non è forte, spesso non è nemmeno bello, certamente è inefficiente e spesso dipendente ), la testimonianza dell'accettazione della vecchiaia come un tempo che ha valore, può essere un piccolo tesoro assai apprezzabile. Tante malattie, una sola medicina Se non stiamo attenti e lasciamo che le nuove tecnologie ci prendano la mano, corriamo il serio rischio di diventare tutti un po' ' autistici '. Fantascienza? Non proprio. Pensiamo al mondo informatico e telematico, pensiamo alla ' realtà virtuale ', cioè a quella simulazione delle realtà ottenuta attraverso sofisticatissime apparecchiature. Con esse potremmo credere di stare conversando con Leonardo o con Goethe, di accarezzare un levriero o di essere accarezzati da Marilyn Monroe, solo che il software adatto sia in nostro possesso; potremmo illuderci di essere in mezzo ad una folla, pur essendo assolutamente soli, chiusi nella nostra stanza. Le simulazioni della realtà sono una formidabile opportunità che le nuove tecnologie mettono a nostra disposizione; opportunamente utilizzate, possono permetterci, senza muoverci da casa, di visitare un concentrato dei più grandi musei, analizzando alla lente d'ingrandimento le più notevoli opere dell'ingegno umano; possono permettere al chirurgo di provare e riprovare i gesti di un intervento delicato, senza far correre rischi a nessun paziente; possono permettere al pilota di simulare le condizioni di volo più pericolose, senza mettere a repentaglio la propria vita o quella dei passeggeri. Infinite sono le possibilità positive delle nuove tecniche. Ma, come sopra accennato, molti sono anche i rischi ai quali possiamo essere esposti: possiamo credere di bastare a noi stessi, possiamo illuderci di avere la compagnia soltanto di chi ci piace, di chi potrebbe, con la sua sola presenza, lusingare il nostro amor proprio; possiamo credere di poter chiudere l'universo fuori dalla porta della nostra stanza … Un delirio di onnipotenza potrebbe impadronirsi di noi. Intorno alle forme di solitudine nelle quali potremmo anche noi inciampare ( nessuno è totalmente garantito! ) è facile la retorica. È facile polemizzare su una società crudele; è facile ironizzare sulla debolezza di molti che, incapaci di resistere, si lasciano andare. È facile pensare di essere garantiti, perché " ho sempre lavorato, e sicuramente dopo i sessanta avrò la pensione ". Molte sono le ' malattie sociali ' che ci possono colpire a tradimento. Esiste una terapia? Può sembrare banale, ma l'unica e la più efficace, sia come terapia sia come prevenzione, è comunque l'amore. Un amore universale, che si appoggia unicamente alla gratuità della Trinità, incapace di possesso, e che quindi non può che donarsi totalmente e continuamente. Non c'è proprio un'altra ricetta. I laici consacrati, però, non sono i medici, bensì gli infermieri. La " compagnia " con Dio di Augustina Marchetti Dori L'uomo non è fatto per vivere da solo. Nemmeno l'eremita. Non si è creato da solo. Non nasce da solo. È stato creato da Dio. Nasce dall'incontro di un uomo e di una donna. Vive in relazione a Dio. E in relazione alle altre creature. La " compagnia con Dio " ( oltre che con le creature ) è dunque già nella natura stessa dell'uomo, nell'ordine della creazione. È. Ma questo essere, questo " in atto ", questo " di fatto " può restare sommerso al di sotto del nostro livello di coscienza, di conoscenza, di esistenzialità. Abbiamo bisogno di aiutarci da noi stessi a scoprirlo, a percepirlo, a viverlo: un cammino di coinvolgimento, impegno, ascesi, esperienza. Bisogno di essere aiutati dagli altri: nell'educazione, nella catechesi, nella comunità e nella comunione. Non c'è niente di cui abbiamo tanto bisogno quanto di Dio. Non c'è niente che in realtà conosciamo così dall'intimo come Dio. Come lo cercheremmo, ne sentiremmo il bisogno, se non lo conoscessimo già in qualche modo? C'è sempre, all'inizio di una vita secondo coscienza una qualche esperienza dell'Assoluto. Come sapremmo di averlo a volte trovato, incontrato, se non sapessimo già in qualche modo e da sempre, nel fondo dell'intimo, che Egli è? Nella nostra esistenza ci sono delle " finestre aperte " su Dio: la verità, la bellezza, l'amore. Che - appassionandoci - hanno il potere di rivelarci noi stessi, gli altri, il mondo, Dio … e anche il potere di travolgerci. Il cammino della mediazione, della rivelazione tra l'uomo e se stesso, gli altri, il mondo, Dio, si chiama: preghiera. * * * Rileggiamo l'esperienza di Elia, solo sulla montagna, dopo la strage dei profeti di Baal, a sua volta ricercato a morte: primo libro dei 1 Re 19,1-16. " In cammino verso l'Oreb " Acab riferì a Gezabele ciò che Elia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti. Gezabele inviò un messaggero a Elia per dirgli: " Gli dei mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest'ora non avrò reso tè come uno di quelli ". Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersabea di Giuda. Là fece sostare il suo ragazzo. Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: " Ora basta, Signore! Prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri ". Si coricò e si addormentò sotto un ginepro. Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: " Alzati e mangia! ". Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. Venne di nuovo l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: " Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino ". Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb. L'incontro con Dio Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco il Signore gli disse: " Che fai qui, Elia? ". Egli rispose: " Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita ". Gli fu detto: " Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore ". Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu un mormorio di vento leggero. Come l'udì Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: " Che fai qui, Elia? ". Egli rispose: " Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita ". Il Signore gli disse: " Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Hazaèl come re di Aram. Poi ungerai leu, figlio di Nimsi, come re di Israele e ungerai Eliseo figlio di Safàt, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto ". Questa esperienza di Dio vissuta dal profeta Elia, solo sul monte Oreb, sembra dirci: anche nelle circostanze più turbinose e violente della vita, anche nelle solitudini più conflittuali e dolorose, non manca a Dio la possibilità di farsi vicino a noi, di conversare con noi nell'intimità, come tra cenni e sussurri, se solo ci si ferma in ascolto del " vento leggero ". * * * Rileggiamo la preghiera della regina Ester, nel momento del massimo pericolo per lei e per il suo popolo: dal libro di Est 4,17. " Preghiera di Ester " Anche la regina Ester cercò rifugio presso il Signore, presa da un'angoscia mortale. Si tolse le vesti di lusso e indossò gli abiti di miseria e di lutto; invece dei superbi profumi si riempì la testa di ceneri e immondizie. Umiliò molto il suo corpo e con i capelli sconvolti si muoveva dove prima era abituata agli ornamenti festivi. Poi supplicò il Signore e disse: " Mio Signore, nostro re, tu sei unico! Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso se non te, perché un grande pericolo mi sovrasta … Dio, che su tutti eserciti la forza, ascolta la voce dei disperati e liberaci dalla mano dei malvagi; libera me dalla mia angoscia! ". Dove, in brevi essenziali espressioni, emerge con estrema evidenza: - per Ester, Dio è il suo Signore, l'assoluto, il tutto - per l'intero suo popolo Dio è re, salvatore benefico - la relazione con lui è unica, essenziale, risolutrice. * * * Rileggiamo le Lodi a Dio Altissimo di Francesco d'Assisi: " Tu sei santo, Signore Dio unico, che compi meraviglie. Tu sei forte. Tu sei grande. Tu sei altissimo. Tu sei Re onnipotente, tu Padre santo, Re del cielo e della terra. Tu sei Trino e Uno, Signore degli dèi. Tu sei bene, ogni bene, sommo bene, Signore Dio, vivo e vero. Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà. Tu sei pazienza. Tu sei bellezza. Tu sei sicurezza. Tu sei quiete. Tu sei gaudio e letizia. Tu sei speranza nostra. Tu sei giustizia. Tu sei temperanza. Tu sei ogni nostra sufficiente ricchezza. Tu sei bellezza. Tu sei mansuetudine. Tu sei protettore. Tu sei custode e difensore nostro. Tu sei fortezza. Tu sei refrigerio. Tu sei speranza nostra. Tu sei fede nostra. Tu sei carità nostra. Tu sei completa dolcezza nostra. Tu sei nostra vita eterna, grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente, misericordioso Salvatore ". Non è certo una " preghiera " che si possa " recitare " tutta d'un fiato. Sono parole reduci dalla contemplazione di giorni e notti, nella grotte e nelle selve, nelle strade e nei deserti, una vita intera. Parole umane che, ripetendosi, differenziandosi, articolandosi, tentano di abbracciare in qualche modo un Dio che è " cosa buona " e fa buone tutte le cose, un Dio altissimo e vicinissimo, un Dio che è fonte di vita eterna; parole umane che tentano di abbracciare e di lasciarsi attrarre, trasformare. Parole reduci dalla contemplazione di giorni e notti, che a loro volta possono alimentare, una ad una, come gocce sulla terra assetata, giorni e notti di " compagnia con Dio ". * * * Insomma, è vero che la mia vita è solo " mia ", la mia vita sono io stessa. Solo io sono io, unica irripetibile immagine. E tuttavia di questa vita non sono padrona, l'ho ricevuta da Dio, è lui solo che me la può togliere o trasformare. Nonostante che Dio sia l'assolutamente " altro " da ogni cosa creata, con niente e nessuno come lui ho un legame così intimo ed essenziale, con niente e con nessuno sono una cosa sola - vita da vita - come con lui. Solitudine, dove sei? La solitudine " da Dio " " senza Dio " di per sé non esiste. Ma per sentire questo, per viverlo occorre la preghiera, l'ascolto, la relazione con Dio nel profondo di noi stessi. " Perché Dio è ciò che abbiamo di più profondo, ciò che siamo nel più profondo … Dio dice: 'Io sono' e noi rispondiamo: 'Io sono tuo, nato dal tuo essere, dalla tua vita, dalla tua razza …' 'In Lui abbiamo la vita, il movimento e l'essere' ". L'autrice ringrazia vivamente il padre Carlo d'Andrea ofm, alla cui predicazione dei corsi O.R. in Roma, ha largamente attinto.