Il potere della croce

Indice

« L'avete fatto a me »

« La passione del Signore - ha scritto san Leone Magno - si prolunga sino alla fine del mondo » ( Passio Domini usque in fìnem producitur mundi ).1

Si prolunga - spiega - nel suo corpo mistico che è la Chiesa, specie nei poveri, nei malati e nei perseguitati.

Blaise Pascal ha reso celebre questo pensiero facendolo suo: « Gesù - dice - è in agonia fino alla fine del mondo.

Non bisogna dormire durante tutto questo tempo ».2

Meditiamo un po' quest'anno su questo Gesù che soffre ed è in agonia oggi.

La liturgia è memoria, presenza e attesa.

Da essa partono sempre tre movimenti ideali: uno all'indietro, agli eventi storici commemorati; un altro in avanti, al ritorno glorioso del Signore; un altro all'intorno, all'oggi della nostra vita.

Seguiamo questo terzo movimento e da questa celebrazione liturgica spingiamo lo sguardo alla realtà che ci circonda.

Dove "soffre", dove "è in agonia" oggi Gesù? In tantissimi luoghi e situazioni.

Ma fissiamo l'attenzione su una sola di esse, per non perderci nel vago e nella molteplicità: la povertà!

Cristo è inchiodato alla croce nei poveri.

I chiodi sono le ingiustizie, le sofferenze e le umiliazioni che si infliggono a essi.

Gesù non può scendere dalla croce se non gli togliamo questi chiodi …

Che se non è in nostro potere toglierglieli, subito e dappertutto, nella realtà, cominciamo almeno a toglierglieli nel nostro cuore, a "schiodarlo" dentro di noi.

Il più grande peccato contro i poveri è forse l'indifferenza, il far finta di non vedere, il "passar oltre, dall'altra parte della strada" ( Lc 10,31 ).

Ignorare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e soprattutto senza speranza di un futuro migliore - scriveva il Papa nell'enciclica Sollicitudo rei socialis - « significa assimilarci al ricco epulone che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta» ( n. 42 ).

Noi tendiamo a mettere, tra noi e i poveri, dei doppi vetri.

L'effetto dei doppi vetri, oggi così sfruttato, è che impedisce il passaggio del freddo e dei rumori, stempera tutto, fa giungere tutto attutito, ovattato.

E infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano.

Non ci penetra al cuore.

La prima cosa da fare dunque, nei confronti dei poveri, è rompere i doppi vetri, superare l'indifferenza, l'insensibilità.

Gettare via le difese e lasciarci invadere da una sana inquietudine a causa della miseria spaventosa che c'è nel mondo.

Farci entrare i poveri nella carne.

Dobbiamo "accorgerci" dei poveri.

Accorgersi indica un improvviso aprirsi degli occhi, un soprassalto di coscienza, per cui cominciamo a vedere qualcosa che era già prima, ma che non vedevamo.

Il grido dei poveri - scriveva Paolo VI - ci obbliga « a destare le coscienze di fronte al dramma della miseria e alle esigenze di giustizia sociale del Vangelo e della Chiesa ».3

Immaginiamo che un giorno, mentre guardiamo, in televisione, le immagini di qualche sciagura ( un deragliamento di treno, un incidente stradale, il crollo o l'incendio di un edificio ) improvvisamente riconosciamo tra le vittime un parente stretto: la madre, un fratello, il marito.

Che grido ci esce dalla gola! Che mutamento di cuore rispetto a un istante prima!

Che diverso interesse all'evento! Che è successo?

Una cosa semplicissima: quello che prima percepivamo solo con gli occhi e con il cervello, ora lo percepiamo con il cuore.

Ebbene, questo è ciò che dovrebbe avvenire, almeno in qualche misura, quando vediamo scorrere davanti ai nostri occhi certi spettacoli allucinanti di miseria.

Sono, o non sono, essi, nostri fratelli? Non apparteniamo tutti alla stessa famiglia umana e non è scritto forse che siamo « membra gli uni degli altri » ( Rm 12,5 )?

Con il tempo, purtroppo, ci si abitua a tutto, e noi ci siamo assuefatti alla miseria altrui, alle immagini di corpi scheletriti dalla fame.

Non ci impressionano più di tanto, le diamo quasi per inevitabili e per scontate.

Ma mettiamoci un istante dalla parte di Dio, cerchiamo di vedere le cose come le vede lui.

Qualcuno ha paragonato la terra a un'astronave in volo nel cosmo, in cui uno dei tre cosmonauti a bordo consuma l'85% delle risorse presenti e briga per accaparrarsi anche il rimanente 15%.

Con la venuta di Gesù Cristo il problema dei poveri ha assunto, nella storia, una dimensione nuova.

È divenuto un problema anche cristologico.

Gesù di Nazaret si è identificato con i poveri.

Colui che pronunciò sul pane le parole: « Questo è il mio corpo », ha detto queste stesse parole anche dei poveri.

Le ha dette quando, parlando di quello che si è fatto, o non si è fatto, per l'affamato, l'assetato, il prigioniero, l'ignudo e l'esule, ha dichiarato solennemente: « L'avete fatto a me » e « non l'avete fatto a me » ( Mt 25,31ss ).

Questo infatti equivale a dire: « Quella certa persona lacera, bisognosa di un po' di pane, quel povero che tendeva la mano, ero io, ero io! ».

Ricordo la prima volta che questa verità "esplose" dentro di me in tutta la sua luce.

Ero in missione in un paese del Terzo mondo e a ogni nuovo spettacolo di miseria che vedevo - ora un bambino dal vestitino a brandelli, il ventre tutto gonfio e il volto ricoperto di mosche, ora gruppetti di persone che rincorrevano un carro di immondizie nella speranza di trame qualcosa appena rovesciato nella discarica, ora un corpo piagato -, sentivo come una voce rimbombarmi dentro: « Questo è il mio corpo. Questo è il mio corpo ».

C'era da rimanere senza fiato.

Il povero è anch'esso un vicarius Christi, uno che tiene le veci di Cristo.

Non nel senso che quello che fa il povero è come se lo facesse Cristo, ma nel senso che quello che si fa al povero è come se lo si facesse a Cristo: « L'avete fatto a me! ».

C'è un nesso assai stretto tra l'Eucaristia e i poveri.

Tutti e due, in senso diverso, sono il corpo di Cristo; in tutte e due le cose si ha una sua presenza.

San Giovanni Crisostomo scrive: « Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi.

Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri, quando soffre il freddo e la nudità …

Che vantaggio vuoi che abbia Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero?

Prima sazia l'affamato e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane ».4

Cristo stesso, del resto, si è premurato di confermare, lungo i secoli, questa interpretazione stretta e realistica della sua parola « l'avete fatto a me ».

Un giorno, Martino ancora soldato e catecumeno, nel nord dell'Europa dove prestava servizio, incontrò un povero nudo intirizzito dal freddo.

Non avendo altro con sé che la clamide che portava indosso, con un colpo di spada la divise in due e ne diede metà al povero.

La notte gli apparve Cristo vestito della metà della sua clamide, che, visibilmente fiero, diceva agli angeli che lo circondavano: « Martino, ancora catecumeno, mi ha ricoperto con questa veste ».5

Il povero è Gesù che gira ancora in incognito nel mondo.

Un po' come quando, dopo la risurrezione, appariva sotto altre sembianze - a Maria come giardiniere, ai discepoli di Emmaus come un pellegrino, agli apostoli sul lago come un passante in piedi sulla riva -, aspettando che "i loro occhi si aprissero".

Il primo che in questi casi lo riconosceva, gridava agli altri: « È il Signore! » ( Gv 21,7 ).

Oh, se alla vista di un povero uscisse anche a noi di bocca, una volta, lo stesso grido di riconoscimento: « È il Signore! », è Gesù!

Come fare per tradurre in pratica, almeno in qualche misura, il nostro interesse per i poveri?

Essi infatti non hanno bisogno dei nostri buoni sentimenti, ma di fatti.

Da soli, questi servirebbero solo a tranquillizzare la nostra cattiva coscienza.

« Se uno ha ricchezze in questo mondo - scrive l'evangelista Giovanni - e vedendo il fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio? Fratelli, non amiamo soltanto a parole ne con la lingua, ma coi fatti e nella verità » ( 1 Gv 3,17-18 ).

Quello che dobbiamo fare in concreto per i poveri, lo si può riassumere in tre parole: evangelizzarli, amarli, soccorrerli.

Evangelizzare i poveri: questa fu la missione che Gesù riconobbe come la sua per eccellenza ( Lc 4,18 ) e che affidò alla Chiesa.

Non dobbiamo permettere che la nostra cattiva coscienza ci spinga a commettere l'enorme ingiustizia di privare della buona notizia coloro che ne sono i primi e più naturali destinatari.

Magari, adducendo, a nostra scusa, il proverbio che "ventre affamato non ha orecchi".

Gesù moltiplicava i pani e insieme anche la parola.

Anzi prima amministrava ( a volte per tre giorni di seguito ), la Parola, poi si preoccupava anche dei pani.

Non di solo pane vive il povero, ma anche di speranza e di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

I poveri hanno il sacrosanto diritto di udire il Vangelo integrale, non in edizione ridotta, adattata e di comodo, politicizzata.

Hanno diritto di udire anche oggi la buona notizia: « Beati voi poveri ».

Sì beati, nonostante tutto. Perché a voi si apre davanti una "possibilità" immensa, preclusa, o assai difficile per i ricchi: il Regno.

Amare i poveri. L'amore di Cristo e quello dei poveri si richiamano a vicenda.

Alcuni ( come Charles de Foucauid ), partendo dall'amore per Cristo, sono giunti all'amore per i poveri; altri ( come Simone Weil ), sono partiti dall'amore per i poveri, i proletari, e da questo sono stati condotti all'amore per Cristo.

Amare i poveri significa anzitutto rispettarli e riconoscere la loro dignità.

In essi - proprio per la mancanza di altri titoli e distinzioni accessorie -, brilla di luce più viva la radicale dignità dell'essere umano.

Amare i poveri significa anche chiedere loro perdono.

Perdono per non riuscire ad andare loro incontro veramente e con gioia.

Per le distanze che, nonostante tutto, manteniamo tra noi e loro.

Per le continue umiliazioni di cui devono saziarsi.

Perdono di vivere di indignazione riflessa e passiva di fronte all'ingiustizia; della demagogia a loro riguardo; di dire ognuno la sua, cercando di legittimare così il nostro quieto vivere.

Di pretendere sempre la certezza matematica di non essere imbrogliati, prima di fare un qualsiasi gesto nei loro confronti.

Di non riconoscere in essi il tabernacolo vivente del Cristo povero e disprezzato.

Di non essere dei loro.

I poveri non meritano, del resto, soltanto la nostra compassione e commiserazione; meritano anche la nostra ammirazione.

Essi sono i veri campioni dell'umanità.

Si distribuiscono ogni anno premi Nobel, coppe, medaglie d'oro, d'argento, di bronzo; al merito, alla memoria o ai vincitori di gare.

E magari solo perché alcuni sono stati capaci di correre nel tempo più breve i cento, i duecento o quattrocento metri a ostacoli; di saltare un centimetro più alto degli altri, di vincere una maratona o uno slalom.

Ma se uno osservasse di quali salti mortali, di quale resistenza, di quali slalom, essi sono capaci, e non una volta, ma per tutta la vita, le performance dei più famosi atleti ci sembrerebbero giochetti da fanciulli.

Evangelizzare i poveri, amare i poveri, infine soccorrere i poveri.

A che serve, scrive san Giacomo, impietosirsi davanti a un fratello o una sorella privi del vestito e del cibo, dicendo loro: « Poveretto, come soffri! Va', riscaldati, saziati! », se tu non gli dai nulla di quanto ha bisogno per riscaldarsi e nutrirsi?

La compassione, come la fede, senza le opere è morta ( Gc 2,15-17 ).

Gesù nel giudizio non dirà: « Ero nudo e mi avete compatito »; ma « Ero nudo e mi avete vestito ».

Oggi però non basta più la semplice elemosina, anche se nulla ci dispensa dal fare quello che possiamo, anche a questo livello spicciolo e individuale.

Quello che occorrerebbe oggi è una nuova crociata, una mobilitazione corale di tutta la cristianità e di tutto il mondo civile, per liberare i sepolcri viventi di Cristo che sono i milioni di persone che muoiono di fame, di malattie e di stenti.

Questa sarebbe una crociata degna di tale nome, cioè della croce di Cristo.

Eliminare o ridurre l'ingiusto e scandaloso abisso che esiste tra ricchi e poveri nel mondo è il compito più urgente ( e più ingente ) che il millennio che sta per chiudersi consegna a quello che presto si aprirà.

Non bisogna prendersela con Dio davanti alla miseria del mondo, ma con noi stessi.

Ho letto da qualche parte che un giorno, vedendo una bambina tremante di freddo e che piangeva per la fame, un uomo fu preso da un moto di sdegno e di ribellione e gridò: « O Dio, dove sei? Perché non fai qualcosa per quella creatura innocente? ».

Ma una voce interiore gli rispose: « Certo che ho fatto qualche cosa per lei. Ho fatto te! ».

La Scrittura, in un salmo, proclama beati coloro che prendono a cuore la sorte del povero: Beatus vir qui intelligit super egenum et pauperem, « Beato l'uomo che si da pensiero del povero e dell'indigente » ( Sal 41,1 ).

Su costui è invocata una benedizione che nella Volgata suonava così: Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatumfaciat eum in terra, « Il Signore lo conservi, gli dia vita e lo renda felice sulla terra ».

Questa invocazione è divenuta, nella Chiesa cattolica, la preghiera liturgica ufficiale prò Summo Pontifico.

Mi sia consentito, venerabili Padri e fratelli, far risuonare di nuovo tale preghiera, al termine di queste riflessioni sui poveri.

Sono i poveri stessi che, per mio mezzo, ringraziano e benedicono nel giorno in cui commemoriamo la passione di Cristo che in essi si prolunga.

Nessuno al mondo, credo, merita più di lui questa benedizione che sale dal cuore dei poveri.

Il suo esempio non ha permesso a nessuno, dentro e fuori la Chiesa, di rimanere tranquillo nel suo egoismo e nella sua indifferenza di fronte alle masse dei diseredati della terra.

Dominus conservet eum, et vivifice! eum, et beatumfaciat eum in terra: « Il Signore lo conservi, gli dia vita e lo renda felice sulla terra ». Così sia.

Indice

1 Leone Magno, Sermo 70, 5 (PL 54, 383)
2 B. Pascal, Pensieri, n. 717
3 Paolo VI, Evangelica testificatio 17
4 Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo, 50, 3-4 (PG 58, 508 s)
5 Sulpicio Severo, Vita di san Martino, 3, Mondadori, Milano 1975, p. 13s