Spirit/PotCroce/PotCroce.txt Premessa C'è un giorno dell'anno in cui, per una volta, il centro della liturgia della Chiesa e il suo momento culminante non è l'Eucaristia, ma la croce; cioè non il sacramento, ma l'evento, non il segno ma il significato. È il Venerdì Santo. In esso non si celebra la Messa, ma solo si contempla e si adora il Crocifisso. Pur commemorando unitariamente, nella veglia di Pasqua, sia la morte che la risurrezione di Cristo, come momenti dell'unico mistero pasquale, la Chiesa ha sentito ben presto il bisogno di dedicare alla memoria della Passione un tempo a parte, per mettere in luce l'inesauribile ricchezza di quel momento in cui " tutto fu compiuto ". Nacquero così, fin dal IV secolo, i riti dell'adorazione della croce del Venerdì Santo, destinati a esercitare nei secoli un influsso così determinante sulla fede e la pietà del popolo cristiano. C'è una grazia tutta speciale che circola in quel giorno attraverso la Chiesa. È il giorno in cui " rifulge il mistero della croce - fulget crucis mysterium ", come canta un venerando inno della liturgia. Le riflessioni proposte in queste pagine sono nate appunto in questo clima e per questo momento. Si tratta di commenti alla lettura della Passione, tenuti nella Basilica di San Pietro, alla presenza del Papa, durante la liturgia del Venerdì Santo, dal 1980 al 1998. L'ordine - cronologico - è quello con cui le meditazioni sono state tenute, eccetto per quella su Gesù "Signore", tenuta nel 1986, ma posta all'inizio come una specie di chiave di lettura di tutto il libro. Messe insieme, esse costituiscono come una prolungata meditazione sul Crocifisso, in tono ora kerigmatico, di annuncio, ora più contemplativo, quasi altrettante stazioni di una speciale via crucis tutta centrata sulla parola di Dio. Possono servire per un duplice scopo: come meditazioni sulla Passione e come spunti per la nuova evangelizzazione. È certo infatti che anche oggi, come all'inizio della Chiesa, il Vangelo non si farà strada nel mondo per " la sapienza dei discorsi ", ma per la potenza misteriosa della croce. Conserva tutto il suo significato programmatico la frase dell'Apostolo, di cui questo libro non vuole essere che una piccola eco: " I giudei chiedono miracoli e i greci cercano la sapienza; ma noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia giudei che greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio " ( 1 Cor 1,22-24 ). " Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore! " Nel giorno più santo dell'anno, per il popolo ebraico - lo Yom Kippur, il giorno della "Grande espiazione" -, il sommo sacerdote, recando il sangue delle vittime, oltrepassava il velo del tempio, entrava nel "Santo dei santi" e qui, solo al cospetto dell'Altissimo, pronunciava il Nome divino. Si trattava del Nome rivelato a Mosè dal roveto ardente, composto di quattro lettere, che non era lecito ad alcuno di proferire in tutto il resto dell'anno, ma che veniva sostituito, nella pronuncia, con Adonai, che vuoi dire Signore. Quel Nome - che neppure io voglio pronunciare per rispettare un desiderio del popolo ebraico, per il quale la Chiesa prega nel giorno del Venerdì Santo -, proclamato in quelle circostanze, stabiliva una comunicazione tra cielo e terra, rendeva presente la persona stessa di Dio; espiava, anche se soltanto in figura, i peccati della nazione. Anche il popolo cristiano ha il suo Yom Kippur, il suo giorno della Grande espiazione, ed è questo che stiamo celebrando. Tale compimento è stato proclamato, nella seconda lettura di questa liturgia, con le parole dell'epistola agli Ebrei: " Noi abbiamo un Sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio… " ( Eb 4,14 ). Cristo - leggiamo nella stessa lettera - " entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue " ( Eb 9,12 ). Anche in questo giorno, in cui celebriamo, non più in figura, ma in realtà, la Grande espiazione, non più dei peccati di una sola nazione ma di " quelli di tutto il mondo ", ( 1 Gv 2,3; Rm 3,25 ) anche in questo giorno viene pronunciato un Nome. Nell'Acclamazione al vangelo, sono state cantate, poco fa, queste parole dell'apostolo Paolo: " Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome ". L'Apostolo si astiene anche lui dal pronunciare questo Nome ineffabile e lo sostituisce con Adonai, che in greco suona Kyrios, in latino Dominus e in italiano Signore: " Ogni ginocchio - continua il testo - si pieghi e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre " ( Fil 2,8-11 ). Ma ciò che egli intende con la parola "Signore" è precisamente quel Nome che proclama l'Essere divino. Il Padre ha dato a Cristo - anche come uomo - il suo stesso Nome e il suo stesso potere ( Mt 28,18 ): questa è la verità inaudita racchiusa nella proclamazione: " Gesù Cristo è il Signore! ". Gesù Cristo è " Colui che è ", il Vivente. San Paolo non è il solo a proclamare questa verità: " Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo - dice Gesù nel vangelo di Giovanni - allora saprete che Io Sono " ( Gv 8,28 ). E ancora: " Se non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati " ( Gv 8,24 ). La remissione dei peccati avviene ormai in questo Nome, in questa Persona. Abbiamo udito poco fa, nel racconto della passione, cosa avvenne quando i soldati si accostarono a Gesù per catturarlo: " "Chi cercate?", disse. Gli risposero: "Gesù, il Nazareno!". "Sono Io!", disse Gesù ed essi indietreggiarono e caddero a terra " ( Gv 18,4-6 ). Perché indietreggiarono e caddero a terra? Perché egli aveva pronunciato il suo Nome divino, " Ego eimi - Io sono ", ed esso, per un istante, era stato lasciato libero di sprigionare la sua potenza. Anche per l'evangelista Giovanni, il Nome divino è strettamente legato all'obbedienza di Gesù fino alla morte: " Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo allora saprete che Io Sono, e non faccio nulla da me stesso ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo " ( Gv 8,28 ). Gesù non è Signore contro il Padre, o al posto del Padre, ma " a gloria di Dio Padre ". Questa la fede che la Chiesa ha ereditato dagli apostoli, che ha santificato le sue origini, che ha plasmato il suo culto e perfino la sua arte. Sull'aureola del Cristo Pantocrator dei mosaici e delle icone antiche sono inscritte, in oro, trE lettere greche: " O O N - Colui che è ". Noi siamo qui per ridestare, se necessario, anche dalle pietre questa fede. Nei primi secoli della Chiesa, nella settimana successiva al battesimo, che era la settimana di Pasqua, avveniva lo svelamento e la consegna ai neofiti delle realtà cristiane più sacre che erano state tenute loro nascoste fino a quel momento, o indicate solo per allusione, in accordo con la "disciplina dell'arcano" allora in vigore. Venivano introdotti, un giorno dopo l'altro, alla conoscenza dei "misteri" - cioè del battesimo, dell'Eucaristia, del Padre nostro - e del loro simbolismo e per questo era chiamata catechesi "mistagogica". Era un'esperienza unica che lasciava un'impressione indelebile per tutta la vita, non tanto a causa del modo con cui avveniva, quanto a causa della grandezza delle realtà spirituali che si dischiudevano ai loro occhi. Tertulliano dice che i convErtiti " trasalivano di stupore alla luce della verità ". Oggi, tutto questo non c'è più; le cose, con l'andare del tempo, sono cambiate. Ma noi possiamo ricreare momenti come quelli. La liturgia ce ne offre ancora delle occasioni. Questa solenne liturgia del Venerdì Santo è una di esse. Questa sera, se ci trova attenti, la Chiesa ha qualcosa da "svelarci" e da "consegnarci", come a dei neofiti. Ha da consegnarci la signoria di Cristo; ha da svelarci questo segreto nascosto al mondo: che " Gesù è il Signore " e che davanti a lui si deve piegare ogni ginocchio. Che, un giorno, davanti a lui, ogni ginocchio, infallibilmente, " si piegherà "! ( Is 45,23 ). Della parola, o dabar, di Dio si dice, nell'Antico Testamento, che essa " cadeva su Israele " ( Is 9,7 ), che " veniva su qualcuno ". Ora questa parola " Gesù è il Signore ", culmine di tutte le parole, "cade" su di noi, viene su questa assemblea, diventa realtà vivente qui al centro stesso della Chiesa cattolica. Passa come la fiaccola ardente che passò tra le due metà delle vittime preparate da Abramo per il sacrifIcio di alleanza ( Gen 15,17 ). "Signore" è il nome divino che ci riguarda più direttamente. Dio era "Dio" e "Padre" prima che esistessero il mondo, gli angeli e gli uomini, ma non era ancora "Signore". Diventa Signore, Dominus, a partire dal momento in cui esistono delle creature sulle quali egli esercita il suo "dominio" e che accettano liberamente questo dominio. Nella Trinità non ci sono "signori" perché non ci sono servitori, ma tutti sono uguali. Siamo noi, in certo senso, che facciamo di Dio il "Signore"! Tale dominazione di Dio, rifiutata dal peccato, è stata ristabilita dall'obbedienza di Cristo, nuovo Adamo. Dio è diventato, in Cristo, nuovamente Signore a un titolo più forte: per creazione e per redenzione. Dio ha ripreso a regnare dalla croce! - Regnami a ligno Deus. " Per questo Cristo è morto ed è tornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi " ( Rm 14,9 ). La forza oggettiva della frase " Gesù è il Signore " sta nel fatto che essa rende presente la storia. Essa è la conclusione di due eventi fondamentali: Gesù è morto per i nostri peccati; è risorto per la nostra giustificazione: perciò Gesù è il Signore! Gli eventi che l'hanno preparata si sono, poi, racchiusi, per così dire, in questa conclusione e in essa si rendono ormai presenti e operanti, quando viene proclamata con fede: " Se confesserai con la tua bocca che Gesù Cristo è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo " ( Rm 10,9 ). Vi sono due modi fondamentali di entrare in comunione con gli eventi della salvezza: uno è il sacramento, l'altro è la parola. Questo di cui stiamo parlando è il modo della parola e della parola per eccellenza che è il kerygma. Il cristianesimo è ricco di esempi e di modelli di esperienze del divino. La spiritualità ortodossa insiste sull'esperienza di Dio nei "misteri", nella preghiera del cuore… La spiritualità occidentale insiste sull'esperienza di Dio nella contemplazione, quando ci si raccoglie in sé e ci si eleva, con la mente, al di sopra delle cose e di se stessi… Vi sono insomma tanti " itinerari della mente a Dio ". Ma la parola di Dio ce ne svela uno che è servito a dischiudere l'orizzonte di Dio alle prime generazioni cristiane, un itinerario non straordinario e riservato a pochi privilegiati, ma aperto a tutti gli uomini dal cuore retto - a quelli che credono e a quelli che sono alla ricerca della fede -; un itinerario che non sale attraverso i gradi della contemplazione, ma attraverso gli eventi divini della salvezza; che non nasce dal silenzio, ma dall'ascolto, e questo è l'itinerario del kerygma: " Gesù Cristo è morto! Gesù Cristo è risorto! Gesù Cristo è il Signore! ". Un'esperienza del genere facevano forse i primi cristiani, quando, nel culto, esclamavano: Maranatha!, che voleva dire due cose, a seconda del modo con cui veniva pronunciato, e cioè: " Vieni, Signore! ", o " Il Signore è qui ". Poteva esprimere un anelito al ritorno di Cristo, oppure la risposta entusiastica alla "epifania cultuale" del Cristo, cioè alla sua manifestazione in seno all'assemblea in preghiera. Questo sentimento della presenza del Signore risorto è una specie di illuminazione interiore che cambia, a volte, l'intero stato d'animo della persona che lo riceve. Ricorda quello che avveniva nelle apparizioni del Risorto ai discepoli. Un giorno, dopo la Pasqua, gli apostoli erano intenti a pescare sul lago di Tiberiade, quando sulla riva comparve un uomo che si mise a parlare con loro a distanza. Tutto era, fino a un certo punto, normale: si lagnavano di non aver pescato nulla, come fanno spesso i pescatori. Ma ecco che nel cuore di uno di essi - il discepolo che Gesù amava - si accese improvvisamente una luce; lo riconobbe ed esclamò: " È il Signore! " ( Gv 21,7 ). E allora tutto cambiò di colpo sulla barca. Si capisce, da qui, perché san Paolo afferma che " nessuno può dire: "Gesù è il Signore!", se non nello Spirito Santo " ( 1 Cor 12,3 ). Come il pane sull'altare diventa corpo vivo di Cristo per la potenza dello Spirito Santo che scende su di esso, così, in modo simile, questa parola diventa " viva ed efficace " ( Eb 4,12 ) per la potenza dello Spirito Santo che opera in essa. Si tratta di un avvenimento di grazia che possiamo predisporre, favorire e desiderare, ma che non possiamo, da soli, provocare. Di solito non ci si accorge di esso mentre avviene, ma solo dopo che è avvenuto, talvolta a distanza di anni. In questo momento potrebbe avvenire, per qualcuno qui presente, quello che avvenne nel cuore del discepolo amato sul lago di Tiberiade: il "riconoscimento" del Signore. Nella frase " Gesù è il Signore! " c'è anche un aspetto soggettivo, che dipende da chi la pronuncia. Mi sono chiesto, a volte, perché i demoni, nei Vangeli, non pronunciano mai questo titolo di Gesù. Essi si spingono fino a dire a Gesù: " Tu sei il Figlio di Dio! ", oppure " Tu sei il Santo di Dio! "; ( Mt 4,3; Mc 3,11; Mc 5,7; Lc 4,41 ) ma mai li sentiamo esclamare: " Tu sei il Signore! ". La risposta più plausibile mi pare questa. Dire: " Tu sei il Figlio di Dio ", è riconoscere un dato di fatto che non dipende da essi e che essi non possono cambiare. Ma dire: " Tu sei il Signore! " è ben diverso. Implica una decisione personale. Significa riconoscerlo tale, sottomettersi alla sua signoria. Se lo facessero, cesserebbero all'istante di essere quello che sono e tornerebbero angeli di luce. Questa parola divide veramente due mondi. Dire: " Gesù è il Signore! ", significa entrare liberamente nella sfera del suo dominio. È come dire: Gesù Cristo è il "mio" Signore; egli è la ragione stessa della mia vita; io vivo "per" lui, non più "per me stesso": " Nessuno di noi - scriveva Paolo ai Romani - vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore " ( Rm 14,7-8 ). La contraddizione massima che l'uomo da sempre sperimenta - quella tra la vita e la morte - è stata superata. Ora la contraddizione più radicale non è tra il vivere e il morire, ma è tra il vivere "per il Signore" e il vivere "per se stessi". Vivere per se stessi è il nuovo nome della morte. La proclamazione: " Gesù è il Signore! " prese, dopo la Pasqua, il posto che aveva avuto, nella predicazione di Gesù, l'annuncio: " È venuto a voi il regno di Dio! ". Prima che esistessero i Vangeli e prima che esistesse il progetto di scriverli, c'era questa notizia: " Gesù è risorto. È lui il Messia. È lui il Signore! ". Tutto è cominciato da qui. In questa notizia nata con la Pasqua, era racchiusa, come in un seme, tutta la forza della predicazione evangelica. La catechesi e la teologia della Chiesa sono come un albero maestoso cresciuto da quel seme. Esso, però - come avviene del seme naturale -, con l'andare del tempo, è rimasto come sepolto sotto la pianta che ha prodotto. Il kerigma, nella nostra attuale coscienza, è una delle verità di fede, un punto, per quanto importante, della catechesi e della predicazione. Non sta più a parte, all'origine della fede. La mia prima reazione davanti a un testo della Scrittura è sempre quella di andare a cercare le risonanze che esso ha avuto nella Tradizione, cioè nei Padri e nei Dottori della Chiesa, nella liturgia, nei santi. Di solito le testimonianze si affollano alla mente. Ma quando ho provato a fare questo con la parola " Gesù è il Signore! ", ho dovuto costatare con sorpresa che la Tradizione rimaneva pressoché muta. Già nel III secolo d. C. il titolo di Signore non è più compreso nel suo significato originario ed è considerato inferiore al titolo di Maestro. È considerato il titolo proprio di coloro che sono tuttora "servi" e non sono diventati ancora "amici" e corrisponde perciò allo stadio del "timore". Mentre sappiamo che esso è ben altra cosa. Per una nuova evangelizzazione del mondo, ci occorre riportare alla luce quel seme, in cui è racchiusa, ancora intatta, tutta la forza del messaggio evangelico. Occorre dissotterrare " la spada dello Spirito ", che è l'annuncio fiammeggiante di Gesù Signore. In un celebre ciclo epico del medio evo cristiano, si parla di un mondo in cui tutto langue ed è confuso, perché nessuno pone la questione essenziale, nessuno pronuncia la parola decisiva che è quella del Santo Gral, ma che rifiorisce quando tale parola viene di nuovo pronunciata e l'attenzione è richiamata alla cosa che deve stare in cima ai pensieri di tutti. Qualcosa del genere avviene, io credo, a proposito della parola del kerygma: " Gesù è il Signore! ". Tutto langue e manca di vigore là dove tale parola non è posta più, o non è posta più al centro, o non è posta più " nello Spirito ". Tutto si rianima e si riaccende là dove essa è posta in tutta la sua purezza, nella fede. Apparentemente, nulla è più familiare per noi della parola "Signore". Essa è un elemento del nome stesso con cui invochiamo Cristo al termine di ogni preghiera liturgica. Ma un conto è dire: " Nostro Signore Gesù Cristo " e un altro dire: " Gesù Cristo è il nostro Signore! " Per secoli, fino, si può dire, ai giorni nostri, la proclamazione stessa " Gesù è il Signore " che chiude l'inno dell'epistola ai Filippesi, è rimasta occultata sotto un'errata traduzione. La Volgata, infatti, traduceva: " Ogni lingua proclami che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre - Omnis lingua confiteatur quia Dominus lesus Christus in gloria est Dei Patris " mentre - come ora sappiamo -, il senso non è che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre, ma che Gesù è il Signore, e questo a gloria di Dio Padre! Ma non basta che la lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore; bisogna anche che " ogni ginocchio si pieghi ". Non sono due cose staccate, ma un'unica cosa. Bisogna che chi proclama Gesù Signore, lo faccia piegando il ginocchio, cioè sottomettendosi con amore a questa realtà, piegando la propria intelligenza nell'obbedienza alla fede. Si tratta di rinunciare a quel tipo di forza e di sicurezza che viene dalla "sapienza", cioè dalla capacità di fronteggiare il mondo incredulo e superbo con le sue stesse armi che sono la dialettica, la discussione, le infinite argomentazioni, tutte cose che consentono di " cercare sempre senza trovare mai " ( 2 Tm 3,7 ) e, quindi, senza essere mai costretti a dover obbedire alla verità, una volta che è stata trovata. Il kerygma non da spiegazioni, ma richiede obbedienza, perché in esso opera l'autorità stessa di Dio. "Dopo" e "accanto" a esso, c'è posto per tutte le ragioni e le dimostrazioni, non "dentro" di esso. La luce del sole brilla per se stessa, e non può essere rischiarata con altre luci, ma è essa che rischiara tutto. Chi dice di non vederla, non fa che proclamarsi da se stesso cieco. Bisogna accettare la "debolezza" e la "stoltezza" del kerygma - il che significa anche la propria debolezza, umiliazione e sconfitta -, per permettere alla forza e alla sapienza di Dio di venire vittoriosamente alla luce e di operare ancora. " Le armi della nostra battaglia - dice Paolo - non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo " ( 2 Cor 10,4-5 ). È necessario, in altre parole, stare sulla croce, perché la forza della signoria di Cristo si sprigiona tutta dalla croce. Bisogna stare attenti a non vergognarsi del kerygma. La tentazione di vergognarsi di esso è forte. Lo fu anche per l'apostolo Paolo, se egli sentì il bisogno di gridare a se stesso: " Io non mi vergogno del Vangelo! " ( Rm 1,16 ). Lo è ancora di più oggi. Che senso ha - ci suggerisce una parte di noi stessi - parlare di Gesù Cristo che è risorto ed è il Signore, mentre ci sono intorno a noi tanti problemi concreti che assillano l'uomo: la fame, l'ingiustizia, la guerra …? L'uomo ama che si parli di sé - fosse pure in male - assai più che sentir parlare di Dio. Al tempo di Paolo una parte del mondo chiedeva miracoli e un'altra parte chiedeva sapienza. Oggi una parte del mondo ( quella sotto i regimi capitalistici ) chiede giustizia e un'altra parte ( quella sotto i regimi totalitari comunisti ) chiede libertà. Ma noi predichiamo Cristo crocifisso e risorto ( 1 Cor 1,23 ), perché siamo convinti che su lui si fonda la vera giustizia e la vera libertà. La rivelazione dei misteri, nella catechesi mistagogica, avveniva in due modi: attraverso le parole e attraverso i riti. I neofiti udivano le spiegazioni e vedevano i riti, soprattutto il rito eucaristico, mai prima contemplato con i propri occhi. Così avviene anche in questa liturgia, in cui ci viene consegnato il mistero della signoria di Cristo. Dopo la liturgia della parola, ora seguono dei riti. Verrà solennemente scoperta l'immagine del Crocifisso e per tre volte tutti ci inginocchieremo. Mostreremo, anche visibilmente, che, nella Chiesa, ogni ginocchio si piega. Il velo violaceo che ha ricoperto fino a ora l'immagine del Crocifisso è simbolo di un altro velo che ricopre il nudo Crocifisso agli occhi del mondo. " Fino a oggi - diceva san Paolo degli ebrei del suo tempo - un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore quel velo sarà tolto " ( 2 Cor 3,15-16 ). Quel velo è steso, purtroppo, anche sugli occhi di tanti cristiani e non sarà rimosso se non " quando ci sarà la conversione al Signore ", quando si scoprirà la signoria di Cristo. Non prima. Quando verrà " innalzato " davanti ai nostri sguardi, questa sera, il nudo Crocifisso, guardiamolo bene. È quello il Gesù che proclamiamo " Signore ", non uno diverso, un Gesù facile, all'acqua di rose. È importante quello che stiamo per compiere. Perché noi potessimo avere il privilegio di salutarlo Rè e Signore vero, come ora faremo, Gesù accettò di essere salutato re da burla; perché noi potessimo avere il privilegio di piegare umilmente il ginocchio davanti a lui, egli accettò che gli si inginocchiassero davanti per scherno e derisione. " Allora i soldati - è scritto - lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo… E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui " ( Mc 15,16-19 ). Dobbiamo essere ben compresi di quello che facciamo, mettere in esso tanta adorazione e tanta gratitudine, perché troppo grande è il prezzo che egli ha pagato. Tutte le "proclamazioni"che egli udì, da vivo, furono proclamazioni di odio; tutte le "genuflessioni" che vide furono genuflessioni di ignominia. Non dobbiamo aggiungerne altre con la nostra freddezza e superficialità. Quando spirava sulla croce, aveva ancora negli orecchi l'eco assordante di quelle grida e la parola " Re " gli pendeva scritta sopra la testa come una condanna. Ora che egli vive alla destra del Padre ed è presente, nello Spirito, in mezzo a noi, che i suoi occhi vedano ogni ginocchio piegarsi e con esso piegarsi la mente, il cuore, la volontà e tutto; che i suoi orecchi odano il grido di gioia che erompe dal cuore dei redenti: " Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre! ". " Così Dio ha amato il mondo! " Con il loro stile scarno privo di qualsiasi commento teologico o edificante, i racconti della passione - specialmente i racconti sinottici - ci riportano ai primissimi giorni della Chiesa. Sono le prime parti del Vangelo che si "formarono" ( per usare il linguaggio del moderno "metodo delle forme" ) nella tradizione orale e che circolarono tra i cristiani. In questa fase, dominano i fatti; tutto si riassume in due eventi: mori - risorse. La fase dei puri fatti fu, però, ben presto superata. I credenti si posero subito la domanda sul "perché" di quei fatti, cioè della passione: perché Cristo ha patito? La risposta fu: " Per i nostri peccati! ". Nasce, in tal modo, la fede pasquale, espressa nella celebre formula paolina: " Cristo morì per i nostri peccati; è risuscitato per la nostra giustificazione ". ( 1 Cor 15,3-4; Rm 4,25 ) C'erano ormai e i fatti - morì, risorse - e il significato per noi dei fatti: per i nostri peccati, per la nostra giustificazione. La risposta sembrava completa: storia e fede formavano finalmente un unico mistero pasquale. Invece, non si era ancora toccato il vero fondo del problema. La domanda rinasceva in un'altra forma: perché è morto per i nostri peccati? La risposta che illuminò di colpo la fede della Chiesa, come con bagliore di sole, fu: " Perché ci amava! ". " Ci ha amati e per questo ha dato se stesso per noi " ( Ef 5,2 ); " Mi ha amato e per questo ha dato se stesso per me " ( Gal 2,20 ); " Ha amato la Chiesa e per questo ha dato se stesso per lei " ( Ef 5,25 ). È una verità, come si vede, pacifica, primordiale, che pervade ogni cosa e si applica sia alla Chiesa nel suo insieme, sia al singolo uomo. L'evangelista san Giovanni, che scrive dopo gli altri, fa risalire questa rivelazione allo stesso Gesù terreno; " Nessuno - dice Gesù nel Vangelo di Giovanni - ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici " ( Gv 15,13s ). Questa risposta al "perché" della passione di Cristo è veramente definitiva e non ammette altre domande. Ci ha amati perché ci ha amati e basta! L'amore di Dio infatti non ha un "perché", è gratuito. L'unico amore al mondo veramente e totalmente gratuito che non chiede nulla per sé ( ha già tutto! ), ma solo dona, o meglio, si dona. " In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi… Ci ha amati per primo! " ( 1 Gv 4,10.19 ). Gesù, dunque, ha sofferto ed è morto liberamente, per amore. Non per caso, non per necessità, non per oscure forze o ragioni della storia che lo hanno travolto a sua insaputa, o a suo malgrado. Chi afferma questo, svuota il Vangelo; gli toglie l'anima. Perché il Vangelo non è altro che questo e cioè il lieto messaggio dell'amore di Dio in Cristo Gesù. Non solo il Vangelo, ma anche l'intera Bibbia non è che questo: notizia dell'amore misterioso, incomprensibile, di Dio per l'uomo. Se tutta la Scrittura si mettesse a parlare insieme, se, per qualche prodigio, da parola scritta si tramutasse tutta in parola pronunciata, in voce, questa voce, più potente dei flutti del mare, griderebbe: " Dio vi ama! ". L'amore di Dio per l'uomo affonda le sue radici nell'eternità ( " Ci ha scelti prima della creazione del mondo ", dice l'Apostolo in Ef 1,4 ), ma si è manifestato nel tempo, in una serie di gesti concreti che costituiscono la storia della salvezza. Dio aveva già parlato, nei tempi antichi, molte volte e in diversi modi ai padri, di questo suo amore ( Eb 1,1 ). Aveva parlato creandoci, perché cos'è la creazione se non un atto d'amore, il primordiale atto d'amore di Dio per l'uomo? ( " Hai dato origine all'universo per effondere il tuo amore su tutte le creature ", diciamo nella Preghiera eucaristica, IV ). Aveva poi parlato per mezzo dei profeti, perché i profeti biblici non sono, in realtà; che i messaggeri dell'amore di Dio, gli " amici dello Sposo ". Anche quando rimproverano e minacciano, lo fanno per difendere questo amore di Dio per il suo popolo. Nei profeti, Dio paragona il suo amore a quello di una madre ( Is 49,15s ), a quello di un padre ( Os 11,4 ), a quello di uno sposo ( Is 62,5 ). Dio stesso riassume in una frase la sua condotta verso Israele, dicendo: " Ti ho amato di amore eterno! " ( Ger 31,3 ). Frase mai udita, in nessuna filosofia e in nessuna religione, sulla bocca di un dio! Il "dio dei filosofi" è un dio da amare, non un Dio che ama e che ama per primo. Ma non è bastato a Dio parlarci del suo amore " per mezzo dei profeti ". " Ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio " ( Eb 1,2 ). C'è una differenza enorme rispetto a prima: Gesù non si limita a parlarci dell'amore di Dio, come facevano i profeti: egli "è" l'amore di Dio. Perché " Dio è amore " e Gesù è Dio! Con Gesù, Dio non ci parla più da lontano, per mezzo di intermediari; ci parla da vicino e ci parla di persona. Ci parla dal di dentro della nostra condizione umana, dopo averne assaporato fino in fondo la sofferenza. L'amore di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi! Già nell'antichità c'era chi leggeva così Gv 1,14. Gesù ci ha amati con cuore divino e umano insieme; in modo perfettamente umano, anche se in misura divina. Amore pieno di forza e di delicatezza, tenerissimo e costante. Come ama i discepoli, come ama i bambini, come ama i poveri e gli ammalati, come ama i peccatori! Amando, fa crescere, ridona dignità e speranza; tutti quelli che si accostano a Gesù con cuore semplice, escono trasformati dal suo amore. Il suo amore si fa amicizia: " Non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamati amici " ( Gv 15,15 ). Ma non si arresta qui; egli giunge a un'identificazione con l'uomo, per la quale non bastano più le analogie umane, neppure quella della madre, del padre o dello sposo: " Voi in me - dice - ed io in voi " ( Gv 15,4 ). Finalmente, la prova suprema di questo amore: " Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine " ( Gv 13,1 ), cioè fino all'estremo limite dell'amore. Due cose rivelano l'amante vero e lo fanno trionfare: la prima consiste nel fare del bene all'amato, la seconda, di gran lunga superiore, consiste nel soffrire per lui. Per questo, per darci la prova del suo grande amore, Dio inventa il proprio annientamento, lo realizza e fa in modo da divenire capace di soffrire cose terribili. Così, con tutto quello che sopporta, Dio convince gli uomini del suo straordinario amore per loro e li attira nuovamente a sé, essi che fuggivano il Signore buono credendo di essere odiati da lui. Gesù ripete a noi quello che disse un giorno a una santa che meditava sulla passione: " Non ti ho amato per scherzo! ". Per sapere quanto Dio ci ama, abbiamo ormai un mezzo semplice e sicuro: guardare quanto ha sofferto! Non solo nel corpo, ma soprattutto nell'anima. Perché la vera passione di Gesù è quella che non si vede e che gli fece esclamare nel Getsemani: " L'anima mia è triste fino alla morte " ( Mc 14,34 ). Gesù morì nel suo cuore, prima che nel suo corpo. Chi può penetrare l'abbandono, la tristezza, l'angoscia dell'anima di Cristo nel sentirsi " divenuto peccato ", lui, l'innocentissimo Figlio del Padre? A ragione, la liturgia del Venerdì Santo ha messo sulle labbra di Cristo in croce quelle parole della lamentazione: " O voi tutti che passate per via, fermatevi e vedete se c'è un dolore grande come il mio! ". È pensando a questo momento che furono dette quelle parole: " Sic Deus dilexit mundum - Così Dio ha amato il mondo! " ( Gv 3,16 ). All'inizio del suo Vangelo, Giovanni esclama: " Abbiamo visto la sua gloria! " ( Gv 1,14 ). Se domandiamo all'evangelista: " Dove hai visto la sua gloria? ", egli ci risponderà: " Sotto la croce ho visto la sua gloria! ". Perché la gloria di Dio è nell'aver nascosto la sua gloria per noi, nell'averci amato. Questa è la gloria più grande che Dio ha fuori di se stesso, fuori della Trinità. Più grande di quella di averci creato e di aver creato l'universo intero. Ora che è alla destra del Padre nella gloria, il corpo di Cristo non conserva più i segni e le caratteristiche della sua condizione mortale; una cosa, però, conserva gelosamente e mostra a tutta la corte celeste, ci dice l'Apocalisse: i segni della sua passione, le sue ferite. Di esse è fiero perché sono il segno del suo grande amore per la creatura. Ha ragione Gesù di ripeterci oggi, dall'alto della sua croce, con le parole della liturgia: " Popolo mio, che cosa potevo fare di più per te che non ho fatto? Rispondimi! ". Qualcuno potrebbe dire: Sì, è vero che Gesù ci amò un tempo, quand'era su questa terra; ma ora? Ora che non è più tra noi, cosa resta di quel suo amore, se non un pallido ricordo? I discepoli di Emmaus dicevano: " Sono passati ormai tre giorni! ", e noi siamo tentati di dire: " Sono passati ormai duemila anni! ". Ma essi si sbagliavano perché Gesù era risorto e camminava con loro! E anche noi ci sbagliamo quando pensiamo come loro, infatti il suo amore è ancora in mezzo a noi, perché " l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato " ( Rm5,5 ). Ecco la seconda verità di questo giorno, non meno bella e importante della prima: Dio ha tanto amato il mondo da dare a noi lo Spirito Santo! L'acqua che sgorgò dal costato di Cristo, insieme con il sangue, era il simbolo di questo Spirito Santo. " Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi; egli ci ha fatto dono del suo Spirito " ( 1 Gv 4,13 ). Ricordiamo questa frase di Giovanni; essa è la sintesi di tutto; significa che Gesù ci ha lasciato in dono tutto se stesso, tutto il suo amore, perché egli " vive per lo Spirito " ( 1 Pt 3,18 ). Ecco, questa che ho tracciata è la rivelazione oggettiva dell'amore di Dio nella storia. Adesso veniamo a noi: che faremo, che diremo dopo aver ascoltato quanto Dio ci ama? Ci sono varie risposte possibili. Una è: riamare Dio! È questo il primo e più grande comandamento della legge! Un antico inno della Chiesa dice: " Come non riamare uno che ci ha amato tanto? - Sic nos amantem quis non redamaret? ". Ma tutto questo viene dopo. Prima c'è un'altra cosa da fare. Altra risposta possibile è: amarci tra noi come Dio ci ha amati! Non dice forse l'evangelista Giovanni che, se Dio ci ha amato, " anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri " ( 1 Gv 4,11 )? Ma anche questo, viene dopo; prima c'è un'altra cosa da fare. Cosa c'è prima? Credere nell'amore di Dio! " Noi abbiamo creduto all'amore che Dio ha per noi " ( 1 Gv 4,16 ). La fede dunque. Ma qui si tratta di una fede speciale; non è la fede, semplice assenso dell'intelletto a una verità. È ben altro. È la fede - stupore, la fede incredula ( un paradosso! ): la fede che non sa capacitarsi di quello che crede, anche se lo crede. Come è possibile che Dio, sommamente felice nella sua quieta eternità, abbia avuto il desiderio non solo di crearci, ma anche di venire di persona a soffrire in mezzo a noi? Come è possibile questo? Ecco, questa è la fede incredula, la fede - stupore. Gran parte delle frasi del Nuovo Testamento che abbiamo ascoltato fin qui sono frasi da leggere con punto esclamativo; sono frasi che esprimono lo stupore della primitiva Chiesa: " Mi ha amato e ha dato se stesso per me! ". " Così Dio ha amato il mondo! ". Cosa enorme questa fede fatta di stupore e di ammirazione; cosa difficile e rara quant'altra mai. Ci crediamo noi veramente che Dio ci ama? No che non ci crediamo veramente, o almeno che non ci crediamo abbastanza! Che se ci credessimo, subito la vita, noi stessi, le cose, gli avvenimenti, tutto si trasfigurerebbe davanti ai nostri occhi. Oggi stesso noi saremmo con lui in paradiso, perché il paradiso non è che questo: gioire dell'amore di Dio. Un detto extracanonico di Gesù dice: " Chi si stupisce regnerà ". Ecco, qui si realizza tale parola. Chi di fronte a un tale incredibile amore di Dio, è colto da meraviglia profonda, chi rimane senza parola, costui entra fin d'ora nel Regno dei cieli! Ma noi, dicevo, non crediamo veramente che Dio ci ama; il mondo ha reso sempre più difficile credere nell'amore. Troppi tradimenti, troppe delusioni. Chi è stato tradito o ferito una volta, ha paura di amare e di essere amato, perché sa quanto fa male ritrovarsi ingannato. Sicché, si va sempre più ingrossando la schiera di coloro che non riescono a credere nell'amore di Dio; anzi, in nessun amore. Il mondo e la vita entrano ( o restano ) in un'era glaciale. Sul piano personale c'è poi la tentazione della nostra indegnità che ci fa dire: " Sì, questo amore di Dio è bello, ma non è per me! Come può Dio amare uno come me che l'ha tradito, dimenticato? Io sono un essere indegno… ". Ma ascoltiamo cosa ci dice la parola di Dio: " Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore " ( 1 Gv 3,20 ). Il mondo ha bisogno di credere nell'amore di Dio. Ne ha bisogno particolarmente il nostro paese se non si vuole che continui a essere, come dice Dante, " l'aiuola che ci fa tanto feroci ". Occorre, perciò, tornare a proclamare il vangelo dell'amore di Dio in Cristo Gesù. Se non lo facciamo, noi siamo quegli uomini che mettono la fiaccola sotto il moggio. Defraudiamo il mondo della sua più segreta attesa. Altri, nel mondo, condividono con i cristiani la predicazione della giustizia sociale e del rispetto dell'uomo; ma nessuno - dico nessuno - tra i filosofi, ne tra le religioni, dice all'uomo che Dio lo ama e lo ama per primo. Eppure, tutto è retto da questa verità, essa è la forza motrice di tutto. La causa stessa del povero e dell'oppresso non è mai al sicuro, finché non riposa su questo fondamento incrollabile che Dio ci ama, che ama il povero e l'oppresso. Ma non bastano le parole e le deplorazioni. Occorre essere disposti, come Gesù, a soffrire e perdonare chi fa soffrire: " Padre, perdona loro… ". Gesù ha lasciato in eredità a noi cristiani questa sua parola pronunciata sulla croce, perché noi la tenessimo viva nei secoli e la usassimo come la nostra vera arma. Non per perdonare i nemici di Gesù di allora, che non ci sono più, ma per perdonare i nemici di Gesù di oggi, i nostri nemici, i nemici della Chiesa. Il cristianesimo è la religione del perdono dei nemici! Nessuno dovrebbe dire di conoscere l'amore di Dio riversato nel suo cuore per mezzo dello Spirito Santo, se questo amore non gli è servito, almeno una volta, a perdonare un nemico. Dobbiamo dire pubblicamente grazie a quei fratelli di fede che, raggiunti dall'odio e dalla violenza omicida, hanno sentito l'impulso dello Spirito Santo a perdonare anche pubblicamente chi aveva ucciso un loro congiunto e lo hanno seguito con umiltà. Essi hanno creduto all'amore! Hanno dato una splendida testimonianza a Cristo che il suo amore, manifestato in questo giorno sulla croce, è ancora possibile, grazie al suo Spirito, e che è l'unico, anzi, a cambiare qualcosa nel mondo, perché cambia le coscienze. Ecco, io ho raccolto l'invito del profeta Isaia che dice: " Consolate, consolate il mio popolo, parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù " ( Is 40,1s ). Come una piccolissima voce che viene dal silenzio e torna nel silenzio, ho osato parlare anch'io " al cuore di Gerusalemme ", cioè della Chiesa, per ricordarle la cosa più preziosa che ha: l'amore eterno del suo Sposo divino. Ora è lo Sposo stesso che si rivolge alla Chiesa con le parole del Cantico e le dice: " Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l'inverno è passato, è cessata la pioggia, se n'è andata; i fiori sono apparsi nei campi il tempo del canto è tornato " ( Ct 2,10-12 ). In questo giorno santissimo della morte di Cristo, un soffio di gioia solleva il mondo. " Voi avete ucciso Gesù di Nazaret! " Il giorno di Pentecoste, Pietro, levatesi in piedi con gli altri undici, tenne al popolo un discorso che si può riassumere in tre parole. Tre parole che hanno, però, ognuna la forza di un tuono: " Voi avete ucciso Gesù di Nazaret! Dio lo ha risuscitato! Pentitevi! " ( At 2,23ss ). Il mio desiderio è di raccogliere queste tre parole e farle rivivere in mezzo a noi, con la speranza che esse riescano a trafìggerci il cuore, come trafissero il cuore delle persone che le ascoltarono dalla bocca degli apostoli. Quei tremila, ai quali Pietro rivolse quella terribile accusa, non erano stati certamente tutti sul Calvario a battere i chiodi; forse, non erano stati" neppure davanti al pretorio di Pilato a gridare: " Crucifige! ". Perché allora si dice che avevano " ucciso Gesù "? Perché appartenevano al popolo che l'aveva ucciso. Perché non avevano accolto la notizia che Gesù andava recando: " È venuto il regno di Dio: convertitevi e credete al Vangelo! ". Perché, forse, quando Gesù passava per le strade di Gerusalemme, avevano abbassato la tenda del loro negozietto per non avere noie… Fin qui, noi rievochiamo queste cose, ma ci sentiamo abbastanza al sicuro. La cosa - ci sembra - riguarda coloro che vissero in Palestina al tempo di Gesù, non noi. Siamo come il re David, il giorno che ascoltò, dal profeta Natan, il racconto del grande peccato commesso in città e alla fine gridò, furibondo: " Chi ha fatto questo merita la morte! " ( 2 Sam 12,5 ). Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, ci si è appassionati molto al problema della responsabilità della morte di Cristo, anche a causa della tragedia vissuta dal popolo ebraico. I libri e le rappresentazioni sul processo di Cristo non si contano. Grandi conseguenze scaturivano dalla risposta data a quel problema, anche per la partecipazione dei cristiani alle lotte di liberazione in varie parti del mondo. Il problema della morte di Cristo è diventato un problema essenzialmente storico e, come tale, neutrale. Ci interessa, cioè, indirettamente, per le conseguenze che se ne possono trarre per Poggi; non direttamente, come parte in causa. In ogni caso, non come imputati, ma, semmai, come accusatori. Alcuni accusano, della morte di Gesù, il potere religioso, cioè gli ebrei del tempo; altri il potere politico, cioè i romani, facendo, così, di Gesù, il martire di una causa di liberazione; altri, infine, accusano gli uni e gli altri insieme. Si è come a un processo, in cui ognuno ripete, più o meno consciamente, dentro di sé, la frase di Pilato: " Io sono innocente del sangue di costui! " ( Mt 27,24 ). Ma cosa rispose, quel giorno, il profeta Natan a David? Rispose, con il dito puntato verso di lui: " Tu sei quell'uomo, o re! ". La stessa cosa la parola di Dio grida a noi che cerchiamo di sapere chi ha ucciso Gesù: " Tu sei quell'uomo! Tu hai ucciso Gesù di Nazaret! Tu eri là quel giorno; tu hai gridato con le folle: "Via, via: crocifiggilo!". Tu eri con Pietro quando lo rinnegava; eri con Giuda quando lo tradiva; eri con i soldati che lo flagellavano; tu hai aggiunto la tua spina alla sua corona, il tuo sputo al suo volto! ". Questa certezza appartiene al nucleo più essenziale della nostra fede: " Cristo è stato messo a morte per i nostri peccati " ( Rm 4,25 ). Il profeta Isaia ha dato, in anticipo, a questa verità, l'espressione più drammatica: " Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti " ( Is 53,4s ). Siamo tutti imputati della sua morte, poiché tutti abbiamo peccato e se diciamo che siamo senza peccato mentiamo. Ma dire: " Gesù è morto per i nostri peccati ", è la stessa cosa che dire: " Noi abbiamo ucciso Gesù! ". Di coloro che tornano a peccare dopo il battesimo ( cioè di noi ), l'epistola agli Ebrei dice che " crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all'infamia " ( Eb 6,6 ). Al sentire la terribile accusa: " Voi avete ucciso Gesù di Nazaret! ", quei tremila, si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: " Che dobbiamo fare, fratelli? " ( At 2,37 ). Un grande spavento si impadronì di loro e si impadronisce, in questo momento, anche di noi, se non siamo di pietra. Come non essere atterriti da questo pensiero: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito e noi, per tutta risposta, glielo abbiamo ucciso! Abbiamo ucciso la Vita! Finché non si è passati attraverso questa crisi interiore, questo " timore e tremore ", non si è dei veri cristiani maturi, ma solo embrioni di cristiani, in cammino per venire alla luce. Finché non ti sei sentito mai una volta veramente perduto, degno di condanna, un povero naufrago, tu non sai cosa significa essere salvato dal sangue di Cristo; non sai cosa dici, quando chiami Gesù tuo "salvatore". Tu non puoi, a rigore, nemmeno conoscere le sofferenze di Cristo e piangere su di esse. Sarebbe ipocrisia, perché conosce veramente le sofferenze di Cristo solo chi è persuaso nell'intimo che esse sono opera sua, che gliele ha inflitte lui. Gesù ti potrebbe dire, come alle pie donne: " Non piangere su di me; piangi su di tè e sul tuo peccato! " ( Lc 23,28 ). Questa "crisi" può avere due soluzioni: o quella di Giuda, che disse: " Ho tradito sangue innocente " e andò a impiccarsi ( Mt 27,4s ), o quella di Pietro che, uscito all'aperto, " pianse amaramente " ( Mt 26,75 ). Avendo sperimentato la forza del pentimento, Pietro può, ora, additare ai fratelli questa via di salvezza, gridando con tanta fermezza: " Pentitevi! ". Ma cosa significa questa parola? Come si realizza? Si realizza passando dallo stato di imputazione di peccato, allo stato di confessione di peccato; dall'ascoltare uno che ti dice: " Tu hai ucciso Gesù di Nazaret! ", al dire tu stesso, con una fitta al cuore e con tutta la tua sincerità: Sì, io ho ucciso Gesù di Nazaret! Questo passaggio non dipende solo da noi; è operazione dello Spirito Santo che " convince il mondo di peccato " ( Gv 16,8 ). È qualcosa di miracoloso. Quando avviene, si producono, spiritualmente, nel cuore di un uomo, gli stessi fenomeni che si verificarono, quel giorno, nella natura. Il velo che ricopre la sua mente si squarcia; il suo cuore di pietra si spezza; il sepolcro in cui è tenuto prigioniero dal peccato si apre; egli è finalmente un uomo libero. È rinato a nuova vita. Che cosa grande, degna dell'uomo, è la confessione di peccato, quando è sincera e libera! Essa permette a Dio di essere se stesso, cioè " il Dio che perdona i peccati " ( Mic 7,18 ). Schierandosi con Dio contro se stesso, l'uomo induce Dio a fare altrettanto: a schierarsi per l'uomo, contro se stesso, contro la propria giustizia. S'intende, non per necessità, ma per misericordia. Dio, infatti, vuole usare misericordia al mondo, ma non può farlo, se l'uomo nega l'oggetto stesso della misericordia di Dio che è il suo peccato. Un " cuore contrito e umiliato " è la cosa più difficile da ottenere per Dio; non gli basta, a questo scopo, la sua onnipotenza, gli occorre anche la nostra libertà. Per questo, esso è anche la cosa più preziosa e che più commuove il cuore di Dio: " Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi - dice Dio -. Su chi volgerò lo sguardo? Sull'umile e su chi ha lo spirito contrito " ( Is 66,1s ). Ma la nostra disgrazia è proprio qui: noi non riconosciamo veramente e fino in fondo il nostro peccato. Diciamo: " In fondo, che ho fatto di male? ". Ma ascoltami, fratello, perché adesso io parlo al mio cuore peccatore, ma anche al tuo. Non vedi il tuo peccato? Sappi, allora, che il tuo peccato è proprio quello di non vedere il tuo peccato! Il tuo peccato è l'autogiustificazione; è questo sentirti irrimediabilmente a posto con Dio e con gli uomini, perfino quando, a parole, ti dichiari peccatore. Questo fu il peccato che - per averlo denunciato con vigore nei farisei - portò Gesù alla croce. Sentendoti giusto, tu finisci per non capire più la croce di Cristo e la tua croce. Senti te stesso e il mondo intero vittima di un dolore, sproporzionato, troppo grande per non accusare Dio che lo permette. Oh, se capissimo una volta, ciò che dice la Scrittura, che, cioè, " contro il suo desiderio egli umilia e affligge i figli dell'uomo " ( Lam 3,33 ), che, di fronte alla sventura del suo popolo, il suo cuore si commuove dentro di lui e il suo intimo freme di compassione ( Os 11,8 )! Allora ben diversa sarebbe la nostra reazione ed esclameremmo piuttosto: " Perdonaci, Padre, se ti abbiamo costretto, con il nostro peccato, a trattare cosi duramente il tuo Figlio diletto! Perdonaci se ora ti costringiamo ad affliggere anche noi per poterci salvare, mentre tu, come ogni padre, e infinitamente di più, vorresti poter dare soltanto "cose buone" ai tuoi figli! Perdonaci se ti costringiamo a privarti della gioia di darci subito, fin da questa vita, la felicità per la quale ci hai creato ". Quand'ero ragazzo, una volta disobbedii a mio padre, andando, a piedi nudi, in un posto dove lui mi aveva raccomandato di non andare. Un grosso pezzo di vetro mi lacerò la pianta del piede. Era tempo di guerra e il mio povero babbo dovette affrontare non pochi rischi per portarmi al più vicino medico militare alleato. Mentre questi mi estraeva il vetro e medicava la ferita, vedevo mio padre torcersi le mani e voltare la faccia verso la parete per non vedere. Che figlio sarei stato se, tornando a casa, gli avessi rinfacciato di avermi lasciato soffrire così, senza fare nulla? Eppure, è questo che noi facciamo, il più delle volte, con Dio. La verità è dunque un'altra. Siamo noi che facciamo soffrire Dio, non lui che fa soffrire noi. Ma noi abbiamo stravolto questa verità, al punto da chiederci, dopo ogni nuova calamità: " Dov'è Dio? Come può Dio permettere tutto questo? ". È vero: Dio potrebbe salvarci anche senza la croce, ma sarebbe una cosa tutta diversa ed egli sa che un giorno ci vergogneremmo di essere stati salvati in tal modo, passivamente, senza aver potuto collaborare in nulla alla nostra felicità. Tutti abbiamo peccato e siamo privi della gloria di Dio ( Rm 3,23 ); a tutti perciò è rivolta la parola di Pietro: " Pentitevi! ". Pentimento: è la parola di salvezza per eccellenza di questo tempo. Nell'Apocalisse sono contenute sette lettere ad altrettante chiese dell'Asia Minore ( Ap 2-3 ). Ognuna di queste lettere termina con un ammonimento: " Chi ha orecchi, ascolti, ciò che lo Spirito dice alle Chiese ". Leggendole attentamente, si scopre che al centro di ognuna di tali lettere è contenuta, in posizione assolutamente preminente, la parola metanòeson, che significa: " Pentiti, ravvediti! ". Chi ha orecchi per intendere ciò che lo Spirito dice oggi alle Chiese, sa che esso dice anche oggi la stessa cosa: pentimento! La notte prima che crollasse, in Friuli, la diga del Vajont, il 9 ottobre 1963, provocando quell'immane sciagura, furono uditi degli scricchiolii provenire da quella parte, senza che nessuno vi facesse caso. Ebbene, qualcosa del genere sta avvenendo intorno a noi, se lo sappiamo ascoltare. Questo mondo che ci siamo costruiti, impastandolo di ingiustizia e di disinvolta ribellione ai comandamenti di Dio, scricchiola. C'è odore di bruciato nell'aria. Se fosse ancora in vita, Giovanni Battista griderebbe: " La scure è alla radice, la scure è alla radice. Ravvedetevi! " ( Mt 3,10 ). Il mondo stesso non credente avverte confusamente questa minaccia che è nell'aria, ma reagisce in maniera del tutto diversa: costruendo rifugi antiatomici! Ci sono nazioni che investono in ciò una parte notevole del loro bilancio. Come se con ciò si risolvesse il problema! Anche noi credenti siamo alla ricerca di un rifugio antiatomico, ma il nostro vero rifugio antiatomico, la nostra "arca di Noè", è proprio questo: il pentimento dei peccati. Infatti nulla e nessuno potrà far paura a chi ha posto il suo cuore sulla salda roccia che è Dio. Egli canta con il salmista: " Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce. Perciò non temiamo se trema la terra, se crollano i monti nel fondo del mare " ( Sal 46,1s ). Al mondo scatenato che mi minaccia di distruzione, io sento di poter dire, nella fede: " Tu non hai, per farmi del male, la millesima parte della forza che io ho per sopportarlo! ". Perché " tutto posso in colui che mi da la forza " ( Fil 4,13 ). Egli ha detto: " Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo " ( Gv 16,33 ). E io gli credo! Ed eccoci, ora, all'altra grande parola della predica di Pietro: " Ma Dio lo ha risuscitato! ". Risuscitando Gesù da morte, Dio ha trasformato il nostro più grande peccato nella sua più grande misericordia. Uccidendo Gesù, noi abbiamo ucciso il nostro stesso peccato di cui egli si era caricato. Soltanto chi ha accolto nel profondo del cuore la parola del pentimento è in grado di assaporare, adesso, il torrente di luce e di gioia racchiuso in questo lieto annuncio pasquale. Chi sa cosa si prova a dire con sincerità: Io ho ucciso Gesù di Nazaret!, costui sa anche cosa significa " essere rigenerati a una speranza viva, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti " ( 1 Pt 1,3 ). È come quando un uomo è convinto di avere ucciso qualcuno e fugge disperato, credendo che per lui ormai non c'è più scampo in questo mondo, quando, improvvisamente, viene a sapere che colui che credeva di aver ucciso è vivo e l'ha perdonato e che anzi lo cerca per farlo suo amico. Lo stesso peccato non ci fa più paura, perché non lo portiamo più da soli. Egli " è stato risuscitato per la nostra giustificazione " ( Rm 4,25 ), cioè perché potesse prendere il nostro peccato e donarci, in cambio, la sua giustizia. L'uomo pentito è uno che è disceso con Gesù agli inferi, che è stato " battezzato nella sua morte " ( Rm 6,3 ), e adesso è come trascinato da Gesù, con sé, fuori della tomba, verso una nuova vita: " Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati; da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo " ( Ef 2,4s ). Forse, tu credi che questo lieto annuncio non è per te, perché non hai visto squarciarsi il tuo velo e non sono sgorgate ancora lacrime di pentimento dai tuoi occhi. Non essere triste e non disperare; questo è un dono di Dio, ed egli può dartelo in un attimo, oppure a poco a poco, forse quando meno te l'aspetti. Solo continua a implorarlo e a desiderarlo, senza stancarti, come faccio anch'io. Se desideri ardentemente il pentimento, sei già pentito! Lasciati rigenerare anche tu a " una speranza viva "; comincia a vivere da risorto. Guarda le migliaia di persone che ti stanno intorno e di' a te stesso: " Sono miei fratelli; sono tutti miei fratelli! ". Uscendo fuori, guarda con occhi nuovi la gente che incontri, quelli della tua famiglia, della tua comunità, del tuo ambiente di lavoro, e di' a te stesso: " Sono miei fratelli; sono tutti miei fratelli! ". " Tutti là sono nati ", cioè nel cuore di Gesù trafitto per i nostri peccati! Ora è il Risorto stesso che ci parla. Sono parole piene di fede e di entusiasmo, pronunciate nel corso di una liturgia come questa, dal vescovo di una di quelle sette Chiese dell'Asia Minore, nei primordi stessi della Chiesa: " Sono io che ho distrutto la morte, che ho trionfato del nemico, che ho rapito l'uomo alla sommità dei cieli. Orsù, dunque, venite voi tutte stirpi umane immerse nei peccati. Ricevete la remissione dei peccati. Sono io, infatti, la vostra remissione; sono io la Pasqua della salvezza, io l'Agnello immolato per voi, io il vostro riscatto, io la vostra vita, io la vostra risurrezione, io la vostra luce, io la vostra salvezza, io il vostro re. lo vi mostrerò il Padre ". " Battezzati nella sua morte " Che significa il rito che stiamo compiendo? Perché ci siamo riuniti questa sera? La risposta più ovvia è: per commemorare la morte del Signore! Ma non basta. La Pasqua - ha scritto sant'Agostino - non si celebra a modo di anniversario, ma a modo di mistero ( sacramentum ). Ora, si ha una celebrazione a modo di mistero, quando non ci si accontenta di rievocare un avvenimento del passato nel giorno in cui esso accadde, ma lo si rievoca in modo da prendere parte a esso. I riti del triduo pasquale non hanno dunque un significato soltanto storico o morale ( commemorare degli eventi, esortarci all'imitazione ), ma hanno un significato mistico. In essi deve avvenire qualcosa. Non si può rimanerne fuori, come semplici spettatori o ascoltatori; bisogna entrarvi dentro, diventarne "attori" e parte in causa. Noi siamo dunque qui, questa sera, per compiere una "azione", e non soltanto una "rievocazione". E l'azione da compiere è questa: essere battezzati nella morte di Cristo! Ascoltiamo l'apostolo Paolo; egli scrive: "Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova" ( Rm 6,3-4 ). Viene spontaneo domandarsi: Ma tutto questo non è avvenuto già il giorno del nostro battesimo? Cosa ci resta ancora da fare che non sia già compiuto? Dobbiamo rispondere: sì e no. Tutto questo è avvenuto e deve avvenire. Se essere battezzati significa essere " sepolti insieme con Cristo nella morte ", allora il nostro battesimo non è ancora concluso. Nel rituale del battesimo c'è, da sempre, una formula breve destinata a essere usata per i bambini che vengono battezzati in articulo mortis, cioè in pericolo di morte. Una volta superato il pericolo, questi bambini devono essere condotti nuovamente in chiesa, per completare su di essi i riti mancanti. Ebbene, noi cristiani di oggi siamo un po' tutti dei battezzati in articulo mortis. Siamo stati battezzati in fretta, nei primi giorni di vita, per timore che la morte ci cogliesse senza battesimo. È una prassi legittima; risale addirittura alle soglie dell'era apostolica. Solo che, una volta diventati adulti, bisogna, anche in questo caso, completare il battesimo ricevuto. E completarlo, non con dei riti supplementari e accidentali, ma con una cosa essenziale, che decide dell'efficacia stessa del sacramento, anche se non della sua validità. Di che cosa si tratta? Gesù dice: " Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo " ( Mc 16,16 ). Chi crederà e sarà battezzato; due cose appaiono sempre unite, nel Nuovo Testamento, quando si parla dell'inizio della salvezza: fede e battesimo. ( Gv 1,12; At 16,30-33, Gal 3,26-27 ) Il battesimo è il " sigillo divino posto sulla fede del credente ". Si tratta però di una fede speciale che coinvolge tutta la persona, la fede-conversione: " Convertitevi e credete al Vangelo " ( Mc 1,15 ), o anche di una fede-pentimento: " Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo " ( At 2,38 ). All'inizio della Chiesa, si arrivava al battesimo attraverso un processo di conversione che coinvolgeva tutta la vita. La rottura con il passato e l'inizio di una vita nuova erano resi visibili dal simbolismo del rito. Il catecumeno si spogliava delle sue vesti e si calava nelle acque; per un istante, veniva a trovarsi senza luce, senza respiro, scomparso al mondo e come sepolto. Quindi riemergeva alla luce del mondo. Ma non erano più, per lui, la luce e il mondo di prima; erano una nuova luce e un nuovo mondo. Era " rinato dall'acqua e dallo Spirito ". È possibile ripetere, nell'attuale situazione, questa esperienza così forte? Sì, è possibile; anzi, è volontà di Dio che ciò avvenga una volta nella vita di ogni cristiano. Gesù disse un giorno: " Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! " ( Lc 12,49-50 ). Era alla sua morte che Gesù pensava nel pronunciare queste parole, come indica l'immagine del battesimo usata anche altre volte in tale senso ( Mc 10,38 ). Con la sua morte di croce, Gesù ha come acceso un fuoco nel mondo e inaugurato, nel suo fianco squarciato, un battistero. Essi restano aperti fino alla fine del mondo, perché Gesù " messo a morte nella carne, vive nello Spirito" ( 1 Pt 3,18 ). Anzi, quel fuoco sempre acceso è proprio il suo Spirito, di cui è detto che "resterà con noi per sempre" ( Gv 14,16 ). Grazie a questo Spirito che vive, tutto ciò che riguarda Gesù, è di oggi, è attuale. Noi possiamo dire che oggi Cristo muore, oggi scende agli inferi e fra due giorni risorgerà. Ogni anno è come se le acque di questo misterioso battistero tornassero ad agitarsi, come l'acqua della piscina di Betesda, perché chi vuole possa tuffarvisi ed essere risanato. Essere battezzati nella morte di Cristo è entrare nel roveto ardente; è passare attraverso un'agonia, perché sono purificazioni, aridità, croci. Ma un'agonia che, anziché preludere alla morte, prelude alla nascita; un'agonia-parto. Essere battezzati nella sua morte è entrare nel cuore di Cristo, prendere parte al dramma dell'amore e del dolore di Dio. Essere battezzati nella sua morte è qualcosa che non si può descrivere, ma che si deve vivere. Da esso si esce creature nuove, pronte per servire, in modo nuovo, il Regno. Ma diamo un contenuto concreto a tutto ciò. Cosa significa essere battezzati nella morte di Cristo? Paolo continua dicendo: " Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù " ( Rm 6,10-11 ). Essere battezzati nella morte di Cristo significa dunque questo: morire al peccato e vivere per Dio! Morire al peccato, o " rompere definitivamente con il peccato " ( 1 Pt 4,1 ) implica una cosa precisa: prendere la decisione ferma e, per quanto sta in noi, irrevocabile di non commettere più il peccato volontario, specialmente "quel peccato" al quale siamo ancora un po' segretamente attaccati. Lo scopo e la meta ultima non è la morte, ma la vita; anzi, la novità di vita, la risurrezione, la gioia, l'esperienza indicibile dell'amore del Padre. Ma tutto questo è la parte di Dio; è come la veste nuova che egli tiene pronta per chi risale dalle acque del battesimo. Dobbiamo lasciare a Dio di fare la sua parte, sapendo che la sua fedeltà è fondata nei cieli. Noi dobbiamo fare la nostra parte e la nostra parte è: morire al peccato; uscire dalla connivenza con il peccato, dalla solidarietà, anche tacita, con esso. Uscire da Babilonia. Babilonia - spiega sant'Agostino nel De civitate Dei - è la città costruita sull'amore di sé che si spingè fino al disprezzo di Dio; è la città di satana. Babilonia è perciò la menzogna, è il vivere per se stessi, per la propria gloria. A questa Babilonia spirituale allude la parola di Dio, quando dice: " Uscite, popolo mio, da Babilonia, per non associarvi ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli " ( Ap 18,4 ). Non si tratta di uscire materialmente dalla città e dalla solidarietà con gli uomini. Si tratta di uscire da una situazione morale, non da un luogo. Non è una fuga dal mondo, ma una fuga dal peccato. Morire al peccato significa entrare nel giudizio di Dio. Dio guarda questo mondo e lo giudica. Il suo giudizio è l'unico che traccia una linea precisa di demarcazione tra bene e male, tra luce e tenebre. Il suo giudizio non muta con le mode. Convertirci vuoi dire attraversare il muro della menzogna e andare a stare dalla parte della verità, cioè di Dio. Tutto si decide quando un uomo dice a Dio, con il salmista: " Riconosco la mia colpa…; sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio " ( Sal 51,5s ). Cioè: io accetto, o Dio, il tuo giudizio su di me; esso è retto e santo; esso è amore, è salvezza per me! Con la venuta di Gesù, questo "giudizio" di Dio si è fatto visibile, si è come materializzato e storicizzato: è la croce di Cristo! Egli disse prima di morire, alludendo proprio alla sua morte di croce: " Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori " ( Gv 12,31 ). La croce è il potente "no" di Dio al peccato. Essa è stata piantata, come albero di vita, in mezzo alla piazza della città ( Ap 22,2 ), in mezzo alla Chiesa e al mondo, e nessuno più potrà svellerla di lì, o sostituirla con altri criteri. Anche oggi, come al tempo dell'apostolo Paolo, "i greci", cioè i dotti, i filosofi, i teologi, cercano sapienza; "i giudei", cioè i pii, i credenti, cercano segni, cercano realizzazioni, efficienza, risultati; ma la Chiesa continua a predicare Cristo crocifisso, potenza di Dio e sapienza di Dio ( 1 Cor 1,22-23 ). L'11 novembre del 1215, il papa Innocenze III aprì il concilio ecumenico Lateranense IV, tenendo un memorabile discorso. Partì dalle parole di Gesù che, mettendosi a tavola prima di morire, disse: " Ho desiderato ardentemente fare questa Pasqua con voi " ( Lc 22,15 ). Pasqua - spiegò il Pontefice - significa passaggio. C'è un triplice passaggio che Gesù desidera fare con noi anche oggi: un passaggio corporale, un passaggio spirituale e un passaggio eterno. Il passaggio corporale era, per il Pontefice, il passaggio verso Gerusalemme per riconquistare il Santo Sepolcro; il passaggio spirituale era il passaggio dai vizi alla virtù, dal peccato alla grazia, dunque il rinnovamento morale della Chiesa; il passaggio eterno era il passaggio definitivo da questo mondo al Padre, la morte. Il Papa insisteva, nel suo discorso, soprattutto sul passaggio spirituale: la riforma morale dellaChiesa, e specialmente del clero; era la cosa che più gli stava a cuore. Anzi, vecchio com'era, diceva di voler passare lui stesso attraverso tutta la Chiesa, come l'uomo vestito di lino con una borsa da scriba al fianco, di cui parla il profeta Ezechiele ( Ez 9,1ss ), per segnare il Tau penitenziale sulla fronte degli uomini che, come lui, piangevano e si affliggevano per gli abomini che si commettevano nella Chiesa e nel mondo. Non potè realizzare questo sogno, perché giunse per lui, dopo pochi mesi, la morte ed egli compì il terzo passaggio, quello alla Gerusalemme celeste. Ma nella basilica del Laterano, dove Innocenze III tenne il suo discorso, confuso tra la folla e forse non conosciuto da nessuno, c'era - secondo la tradizione - un poverello: c'era Francesco d'Assisi! È certo, in ogni caso, che egli raccolse l'ardente desiderio del Papa e lo fece suo. Tornando tra i suoi, da quel giorno cominciò a predicare, ancora più intensamente di prima, la penitenza e la conversione e cominciò a segnare un Tau sulla fronte di coloro che si convenivano sinceramente a Cristo. Il Tau, questo segno profetico della croce di Cristo, divenne il suo sigillo. Con esso firmava le sue lettere, lo disegnava sulle celle dei frati, tanto che san Bonaventura potè dire, dopo la sua morte: " Egli ebbe dal cielo la missione di chiamare gli uomini a piangere, a lamentarsi, a radersi la testa e a cingere il sacco, e di imprimere, con il segno della croce penitenziale, il Tau sulla fronte di coloro che gemono e piangono ". Fu questa la "crociata" che Francesco scelse per sé: segnare la croce, non sulle vesti o sulle armi, per combattere gli "infedeli", ma segnarla nel cuore, suo e dei fratelli, per eliminare l'infedeltà dal popolo di Dio. Egli ebbe questa missione " dal cielo ", scrive san Bonaventura; ma ora sappiamo che la ebbe anche dalla Chiesa, dal Papa. Volle essere un umile strumento a servizio della Chiesa e della gerarchia, per realizzare il rinnovamento voluto dal Concilio ecumenico del suo tempo. Celebrando quest'anno l'ottavo centenario della nascita del Poverello di Assisi, noi chiediamo a Dio che mandi alla sua Chiesa di oggi, impegnata anch'essa a realizzare il rinnovamento voluto da un Concilio ecumenico, il Vaticano II, uomini come Francesco, capaci di mettersi, come lui, a servizio della Chiesa e di chiamare gli uomini a riconciliarsi con Dio e tra di loro mediante il pentimento e la conversione. " Crocifisso per la sua debolezza, Cristo vive per la potenza di Dio " In tutta la Bibbia, accanto alla rivelazione della potenza di Dio, c'è una rivelazione segreta, che potremmo chiamare la rivelazione della debolezza di Dio. La debolezza di Dio è legata a ciò che la Scrittura chiama spesso " le viscere di misericordia del nostro Dio ". ( Ger 31,20; Lc 1,78 ) Essa lo rende, per così dire, impotente di fronte all'uomo peccatore e ribelle. Il popolo è " duro a convenirsi ", " si ribella con continua ribellione ". E qual è la risposta di Dio? " Come potrei abbandonarti - dice -, come consegnarti ad altri, Israele?… Il mio cuore si commuove dentro di me, le mie viscere fremono di compassione " ( Os 11,8 ). Quasi scusandosi di questa sua debolezza, Dio dice: " Può una madre dimenticare il suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? " ( Is 49,15 ). In realtà, questo amore è, per eccellenza, l'amore della madre. Esso parte dalle profondità in cui la creatura si è formata e afferra poi tutta la persona della donna - corpo e anima -, facendole sentire il figlio come una parte di se stessa che non potrà mai tagliare via, senza profonda lacerazione del suo stesso essere. La causa della debolezza di Dio è, dunque, il suo amore per l'uomo. Vedere la persona amata distruggersi con le proprie mani e non poter fare nulla! Ne sa qualcosa il padre o la madre che vede il suo ragazzo spegnersi, un giorno dopo l'altro, a causa della droga e non può nemmeno accennare al suo vero male, per paura di perderlo del tutto. Ma Dio non potrebbe impedirlo, essendo onnipotente? Certo che potrebbe, distruggendo, però, anche la libertà dell'uomo, cioè distruggendo l'uomo! Perciò egli può soltanto ammonire, scongiurare, minacciare, ed è quello che fa tutto il tempo, per mezzo dei profeti. Ma la misura di questa sofferenza di Dio ci era nascosta, finché essa non ha preso corpo davanti ai nostri occhi nella passione di Cristo. La passione di Cristo non è che la manifestazione storica e visibile della sofferenza del Padre a causa dell'uomo. Essa è la suprema manifestazione della debolezza di Dio: Cristo - dice san Paolo - " fu crocifisso per la sua debolezza " ( 2 Cor 13,4 ). Gli uomini hanno vinto Dio, il peccato ha vinto e si erge trionfante davanti alla croce di Cristo. La luce è stata ricoperta dalle tenebre… Ma è un istante: Cristo fu crocifisso per la sua debolezza, " ma vive per la potenza di Dio ", aggiunge subito l'Apostolo. Vive, vive! È lui stesso che ripete ora alla sua Chiesa: " Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi! " ( Ap 1,18 ). Veramente, " ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini " ( 1 Cor 1,25 ). La croce è diventata, proprio essa, potenza di Dio, sapienza di Dio, vittoria di Dio. Dio ha vinto senza uscire dalla sua debolezza, ma anzi portandola all'estremo. Non si è lasciato trascinare sul terreno del nemico: " Oltraggiato, non rispondeva con oltraggi " ( 1 Pt 2,23 ). Alla volontà dell'uomo di annientarlo, ha risposto, non con altrettanta volontà di distruggerlo, ma con la volontà di salvarlo: " Io sono il vivente - dice -; non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva " ( Ez 33,11 ). Dio manifesta la sua onnipotenza con la misericordia e con il perdono ( parcendo et miserando ), dice una preghiera della Chiesa. Al grido: " Crocifiggilo! ", ha risposto con il grido: " Padre, perdona loro! " ( Lc 23,34 ). Non ci sono al mondo parole come queste tre parole: " Padre, perdona loro! ". Tutta la potenza e la santità di Dio sono racchiuse in esse; sono parole indomabili; non possono essere superate da nessun misfatto, perché pronunciate sotto il più grande dei misfatti, nel momento in cui il male ha prodotto il suo sforzo supremo, oltre il quale non può più andare. " La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte il tuo pungiglione? " ( 1 Cor 15,54-55 ). Quelle parole somigliano alle parole sacramentali. Anch'esse, a modo loro, " significando, causano ". Esprimono tutto il senso e lo scopo della passione - che è la riconciliazione del mondo con Dio - e, esprimendolo, lo attuano. Tale riconciliazione comincia subito, intorno alla croce, con i crocifissori di Cristo. Io sono persuaso che i crocifissori di Cristo si sono salvati e che li ritroveremo in paradiso. Essi saranno lì a testimoniare nei secoli eterni fin dove si è spinta la bontà del Signore. Gesù ha pregato per essi con tutta la sua autorità, e il Padre che aveva ascoltato sempre la preghiera del Figlio durante la sua vita ( Gv 11,42 ) non può non aver ascoltato questa preghiera fatta dal Figlio in punto di morte. Dietro i crocifissori viene il buon ladrone, poi il centurione romano ( Mc 15,39 ), poi le folle che si convertono il giorno di Pentecoste. È un corteo che si è andato ingrossando sempre più, fino a comprendere anche noi che siamo qui questa sera a celebrare la morte di Cristo. Del Servo sofferente, Dio aveva detto per mezzo del profeta Isaia: " Perciò io gli darò in premio le moltitudini…, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato tra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori " ( Is 53,12 ). Perché intercedeva per i peccatori dicendo: " Padre, perdona loro! ", Dio ha dato in premio a Gesù di Nazaret le moltitudini! Noi uomini abbiamo una visione distorta della redenzione e questo ci procura tante difficoltà nella fede. Pensiamo a una specie di patteggiamento: Gesù, mediatore tra Dio e l'uomo, paga al Padre il prezzo del nostro riscatto, che è il suo sangue, e il Padre, "soddisfatto", perdona agli uomini le loro colpe. Ma è una veduta molto umana, inesatta, o almeno parziale. Essa ci è intollerabile perfino umanamente parlando: un padre che ha bisogno del sangue del figlio per essere placato! La verità è un'altra: la sofferenza del Figlio viene come prima cosa ( è spontanea e libera! ) ed essa è una cosa così preziosa agli occhi del Padre che egli vi risponde, da parte sua, facendo al Figlio il dono più grande che poteva: donandogli una moltitudine di fratelli, facendolo " primogenito tra molti fratelli " ( Rm 8,29 ). " Chiedi a me - gli dice - ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra " ( Sal 2,8 ). Non è, dunque, tanto il Figlio che paga il debito al Padre, quanto piuttosto il Padre che paga il debito al Figlio, per avergli restituito " tutti i suoi figli che erano dispersi ". E lo paga da Dio, in una misura infinita, giacché nessuno di noi può, nemmeno lontanamente, immaginare la gloria e la gioia che il Padre ha dato a Cristo risorto. Un poeta credente, commentando la preghiera del "Padre nostro", mette sulla bocca di Dio queste parole che suonano ancora più vere se le applichiamo alla preghiera di Gesù sulla croce, come ora facciamo noi: " Come la scia di un bei vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi; ma comincia con una punta, ed è questa punta che viene verso di me. E il vascello è il mio stesso Figlio, carico di tutti i peccati del mondo. E questa punta sono queste tre o quattro parole: Padre, perdona loro! Ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio Figlio che li ama tanto. Quando ha messo questa barriera tra loro e me: Padre, perdona loro! Queste tre o quattro parole. Come un uomo che si getti un mantello sulle spalle. Volto verso di me s'era vestito. S'era gettato sulle spalle il mantello dei peccati del mondo. E ora dietro di lui il peccatore si nasconde al mio volto. Si sono ammassati come dei paurosi; e chi potrebbe rimproverarli di questo? Come timidi passerotti si sono ammassati dietro colui che è forte. E mi presentano questa punta. E fendono così il vento della mia collera e vincono la forza stessa delle tempeste della mia giustizia. E il soffio della mia collera non ha nessuna presa su questa massa angolare, dalle ali sfuggenti. Perché essi mi presentano quest'angolo: Padre, perdona loro! E io non posso prenderli che sotto quest'angolo ". La scia di quel " vascello " ci sta, forse, passando accanto, proprio ora, in questa Pasqua: non restiamone fuori; gettiamoci tra le braccia della misericordia di Dio; nascondiamoci al riparo di quella punta. Uniamoci al corteo gioioso dei riscattati dall'Agnello. È la Chiesa che, in questo momento, ci supplica con le parole dell'apostolo Paolo: " Lasciatevi riconciliare con Dio! " ( 2 Cor 5,20 ). Dio ha sofferto per te, per te singolarmente, e sarebbe pronto a farlo di nuovo, se fosse necessario per salvarti. Perché vuoi perderti? Perché mortifichi il tuo Dio, dicendo che tutto ciò non ti interessa? Dio non interessa a te, ma tu interessi a Dio! Al punto che è morto per te. Abbi compassione del tuo Dio, non essere crudele con lui e con te stesso. Prepara nel tuo cuore le parole da dire, come il figliol prodigo, e mettiti in cammino verso di lui che ti aspetta. Si sa qual è il motivo per cui molti non vogliono riconciliarsi con Dio. Si dice: c'è troppo dolore innocente nel mondo, troppa sofferenza ingiusta. Riconciliarsi con Dio, vorrebbe dire riconciliarsi con l'ingiustizia, accettare il dolore degli innocenti e io non voglio accettarlo! Non si può credere in un Dio che permette il dolore degli innocenti ( A. Camus ); la sofferenza degli innocenti è " la roccia dell'ateismo " ( G. Bùchner ). Ma è un terribile inganno! Quegli innocenti cantano ora il cantico di vittoria dell'Agnello: " Tu sei degno, Signore, di prendere il libro e di aprirne i sigilli perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione… " ( Ap 5,9 ). Essi seguono la "scia" dell'Agnello e noi invece ce ne stiamo su quella "roccia" infelice. Sì, c'è tanto dolore innocente nel mondo, tanto quanto non possiamo nemmeno immaginare, ma esso non tiene lontano da Dio chi lo soffre ( che, anzi, lo unisce a lui come nessun'altra cosa al mondo ), ma solo chi scrive saggi, o discute comodamente a tavolino, sul dolore degli innocenti. Gli innocenti che soffrono ( a cominciare da quei milioni di bimbi che sono uccisi nel seno materno ) fanno "massa" con l'innocente Figlio di Dio. Siano o no battezzati, essi fanno parte di quella Chiesa più vasta e nascosta che cominciò con il giusto Abele e che abbraccia tutti i perseguitati e le vittime del peccato del mondo: la Ecclesia ab Abel. La sofferenza è il loro battesimo di sangue. Come i Santi Innocenti che la liturgia festeggia subito dopo il Natale, essi confessano Cristo, non parlando, ma morendo. Essi sono il sale della terra. Come la morte di Cristo fu il più grande peccato dell'umanità e tuttavia salvò l'umanità, così la sofferenza di questi milioni di vittime della fame, dell'ingiustizia e della violenza sono la più grande colpa attuale dell'umanità e tuttavia contribuiscono a salvare l'umanità. Se non siamo ancora sprofondati, lo dobbiamo forse anche a loro e chiameremo tutto questo inutile e sprecato? Crediamo che sia sofferenza sprecata perché non crediamo più realmente alla ricompensa eterna dei giusti, alla fedeltà di Dio. Non è l'impossibilità di spiegare il dolore che fa perdere la fede, ma è la perdita della fede che rende inspiegabile il dolore. Ai pastori, poi, del suo popolo, in un giorno come questo. Dio dice: Perdonate come io perdono; io perdono nel cuore, mi impietosisco, fin nelle viscere, per la miseria del mio popolo. Anche voi non dovete pronunciare soltanto delle fredde "formule" di assoluzione con le labbra; io voglio servirmi non solo delle vostre labbra, ma anche del vostro cuore, per far passare il mio perdono e la mia compassione. Rivestitevi anche voi di " viscere di misericordia ". Nessun peccato vi sembri troppo grande, troppo spaventoso; dite sempre a voi stessi e al fratello che avete davanti: " Sì, ma la misericordia di Dio è più, più grande ". Siate voi quel padre della parabola che va incontro al figliol prodigo e gli getta le braccia al collo. Che il mondo non senta tanto su di sé il giudizio della Chiesa, quanto la misericordia e la compassione della Chiesa. Non imponete subito penitenze che il peccatore non è ancora in grado di fare; fate piuttosto voi penitenza per lui e così somiglierete al mio Figlio. Io amo questi figli traviati e perciò darò loro, a suo tempo, anche la possibilità di espiare il loro peccato. Amate, amate il mio popolo che io amo! A coloro che soffrono nell'anima o nel corpo, anziani, ammalati, che si sentono inutili e di peso alla società e guardano forse con invidia dal loro letto chi sta loro accanto ritto e sano, vorrei dire con tutta umiltà: guardate come si è comportato Dio! Ci fu un tempo, nella creazione, in cui anche Dio operava con potenza e gioia; egli diceva e tutto era fatto, comandava e tutto esisteva. Ma quando volle fare una cosa ancora più grande, allora smise di agire e cominciò a patire; inventò il proprio annientamento e così ci ha redenti. Perché anche in Dio, non solo negli uomini " la potenza si manifesta pienamente nella debolezza " ( 2 Cor 12,9 ). Voi siete guancia contro guancia con Cristo sulla croce. Se soffrite per colpa di qualcuno, dite, insieme con Gesù: " Padre, perdona loro! " e il Padre darà anche a voi "in premio" quel fratello per la vita eterna. A tutti infine voglio ripetere la grande notizia di questo giorno: Cristo è stato crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio! " E subito ne uscì sangue e acqua " Un giorno, all'epoca in cui il tempio di Gerusalemme era distrutto e il popolo in esilio a Babilonia, il profeta Ezechiele ebbe una visione. Vide davanti a sé il tempio ricostruito e vide che sotto la soglia del tempio, dal lato destro, usciva acqua verso oriente. Si mise a seguire quel rivolo d'acqua e si accorse che esso andava ingrossandosi sempre più, a mano a mano che avanzava, fino a giungergli prima alla caviglia, poi al ginocchio, poi alla cinta e fino a diventare un fiume da non potersi passare a guado. Vide che sulla sponda del fiume cresceva una grande quantità di alberi da frutto e sentì una voce che diceva: " Queste acque scendono lungo il deserto e si gettano nel Mar Morto; sboccate nel mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà, perché le acque, dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente, tutto rivivrà" ( Ez 47,1ss ). L'evangelista Giovanni ha visto realizzata questa profezia nella passione di Cristo. " Uno dei soldati - scrive - gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua " ( Gv 19,34 ). La liturgia della Chiesa ha raccolto questo insegnamento, facendo cantare, all'inizio di ogni Messa solenne nel tempo pasquale, quelle parole del profeta, riferite ormai a Cristo: " Vidi aquam egredientem de tempio - Vidi un'acqua che sgorgava dal tempio ". Gesù è il tempio che gli uomini hanno distrutto, ma che Dio ha riedificato, risuscitandolo da morte: " Distruggete questo tempio - aveva detto egli stesso - e in tre giorni lo riedificherò "; e l'evangelista spiega che " egli parlava del tempio del suo corpo " ( Gv 2,19-21 ). Il corpo di Cristo sulla croce è dunque il tempio nuovo, il centro del nuovo culto, il luogo definitivo della gloria e della presenza di Dio tra gli uomini. Ed ora, ecco che dal fianco destro di questo nuovo tempio è sgorgata l'acqua. Anche quest'acqua, come quella vista dal profeta, è cominciata come un piccolo rivolo, ma è andata ingrossandosi sempre più, fino a diventare anch'essa un grande fiume. Da quel rivolo d'acqua discende, infatti, spiritualmente, l'acqua di tutti i battisteri della Chiesa. Nel battistero del Laterano, il papa san Leone Magno fece incidere due versi latini che, tradotti, dicono: " Questa è la fonte che l'interò mondo lavò - traendo dalla ferita di Cristo il suo principio - Fons hic est qui totum diluit orbem - sumens de Christi vulnere principium ". Veramente " fiumi d'acqua viva " sono sgorgati dal suo seno, cioè dal seno di Cristo sulla croce! Ma che cosa rappresenta l'acqua? Un giorno - era l'ultimo giorno della festa delle capanne - Gesù, levatesi in piedi, esclamò a gran voce: " Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me! ". E l'evangelista commenta: " Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui " ( Gv 7,37-39 ). L'acqua simboleggia dunque lo Spirito. " Tre sono quelli che rendono testimonianza - si legge nella prima lettera di Giovanni in riferimento a questo episodio -: lo Spirito, l'acqua e il sangue " ( 1 Gv 5,7-8 ). Queste tre cose non sono sullo stesso piano: l'acqua e il sangue furono ciò che si vide uscire dal costato, erano i segni, i sacramenti; lo Spirito era la realtà invisibile nascosta in essi e che agiva in essi. Prima di questo momento, non c'era ancora lo Spirito nel mondo; ma ora che Gesù è morto per noi, purificandoci dai nostri peccati, lo Spirito aleggia di nuovo sulle acque, come agli albori della creazione ( Gen 1,2 ). Dopo aver esclamato: " Tutto è compiuto ", Gesù " emise lo spirito " ( Gv 19,30 ), cioè: diede l'ultimo respiro, morì, ma anche: effuse lo Spirito, lo Spirito Santo! L'uno e l'altro significato è inteso dall'evangelista. L'ultimo respiro di Gesù divenne il primo respiro della Chiesa! È questo il coronamento di tutta l'opera della redenzione, il suo frutto più prezioso. Perché la redenzione non è consistita soltanto nella remissione dei peccati, ma anche, positivamente, nel dono della vita nuova dello Spirito. Tutto, anzi, tendeva a questo e la stessa remissione dei peccati non si attua oggi, nella Chiesa, se non in forza dello Spirito Santo. Certo, lo Spirito Santo, in modo solenne e pubblico, viene sulla Chiesa a Pentecoste; ma Giovanni ha voluto mostrare, nel suo Vangelo, da dove proviene quello Spirito che a Pentecoste irrompe dall'alto sugli apostoli; quale ne è la sorgente nella storia. Tale sorgente è il corpo di Cristo glorificato sulla croce. Nell'incarnazione e poi, in modo nuovo, nel battesimo del Giordano, il Padre ha mandato sul suo Figlio la pienezza dello Spirito Santo. Quello Spirito si è come raccolto tutto quanto nell'umanità del Salvatore; ha santificato le sue azioni umane, ha ispirato le sue parole e ha guidato ogni sua scelta. In lui " si è abituato a vivere tra gli uomini " ( sant'Ireneo ). Ma durante la sua vita terrena era nascosto allo sguardo degli uomini, come quel profumo racchiuso nel vaso di alabastro della donna ( Gv 12,3ss ). Ora, ecco che quel vaso di alabastro, che era l'umanità purissima di Cristo, è stato infranto durante la sua passione e il profumo che si è effuso, ha riempito tutta la casa che è la Chiesa. " Là dove giungerà il torrente - diceva la profezia - tutto rivivrà ". Così è avvenuto anche di questo torrente scaturito dal costato di Cristo. Esso ha riportato nel mondo la vita, tanto che la Chiesa, volendo racchiudere in poche parole la sua fede nella terza Persona della Trinità, a Costantinopoli, nel 381, non trovò nulla di più essenziale da dire dello Spirito Santo se non che da la vita: " Credo nello Spirito Santo che è Signore e da la vita ". Questo annuncio dello Spirito che da la vita è più che mai necessario e atteso nel mondo in cui viviamo. Quando san Paolo arrivò ad Atene, vide che, in mezzo all'idolatria che imperversava nella città, c'era nascosta anche l'attesa di una divinità diversa, alla quale, senza conoscerla, avevano eretto un altare, con l'iscrizione: " Al Dio ignoto ". Allora l'Apostolo cominciò a predicare e a dire: " Cittadini Ateniesi, quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio! " ( At 17,22-23 ). E cominciò a parlare di Gesù crocifisso e risorto. Qualcosa del genere avviene anche oggi. In mezzo a tutta la nuova idolatria e al materialismo che tentano di ricoprirla, c'è, nella nostra società, il bisogno confuso di qualcosa di nuovo e di diverso, che non finisca con noi, che dia un senso eterno alla vita. C'è un'insoddisfazione profonda che non può dipendere dalla mancanza delle cose, perché spesso è maggiore proprio là dove più abbondano le cose. Il segno di ciò è la tristezza, una tristezza impressionante per chi non ci ha fatto l'abitudine e per chi viene da lontano. Anche i nostri bambini vengono educati silenziosamente alla tristezza. Un filosofo dei nostri tempi ha parlato di una " nostalgia del totalmente Altro " che affiora qua e là nel mondo d'oggi. Ebbene, la Chiesa grida agli uomini d'oggi ciò che l'Apostolo disse quel giorno ai cittadini di Atene: " Quello che voi cercate senza conoscerlo, io ve lo annunzio! ". Quella cosa "diversa", di cui avete nostalgia, esiste: è lo Spirito di Dio! Lo Spirito è libertà, è novità, è gratuità, è bellezza, è gioia. Lo Spirito è vita. Si lotta tanto, oggigiorno, per migliorare, come si dice, " la qualità della vita ". Nel fare questo, non bisognerebbe perdere di vista che esiste una vita di qualità diversa, senza la quale tutto è vano. Che giova infatti vivere bene, se non è dato vivere sempre? Come suonano dolci, perciò, le parole che Gesù ci rivolge silenziosamente, in questo giorno, dall'alto della sua croce: " O voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate, senza denaro e senza spesa, vino e latte " ( Is 55,1 ). Per voi è stata aperta questa ferita nel mio fianco. " Gustate e vedete quanto è buono il Signore ". Anche chi non ha da pagare - chi non ha meriti, chi si sente indegno e peccatore, chi non ha più nemmeno la forza per pregare -, venga ugualmente. Una cosa sola chiedo in cambio: la vostra sete, il vostro desiderio: che non vi sentiate sazi di tutto, sufficienti a voi stessi. Chiedo la fede! Ma ora il tempio che era il suo corpo non è più tra noi; dove dunque ci invita ad andare Gesù con queste parole? Ci invita alla Chiesa, ai sacramenti della Chiesa! Non esiste più, visibilmente, il tempio che era il suo corpo fisico, quello nato da Maria e inchiodato sulla croce; ma esiste ancora il suo corpo che è la Chiesa. Lo stesso evangelista Giovanni che, nel Vangelo, ci ha mostrato il compimento della profezia di Ezechiele sulla croce, nell'Apocalisse ci mostra il suo compimento nella Chiesa: " Mi mostrò - dice - un fiume d'acqua viva, limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita… " ( Ap 22,1-2 ). L'acqua della vita scorre ormai in mezzo alla città santa, la nuova Gerusalemme che è la Chiesa. A essa devono accorrere quanti hanno veramente sete dello Spirito. Sant'Ireneo - che attinse la sua dottrina dalla viva voce di un discepolo di Giovanni - ammonisce: " Alla Chiesa è affidato il Dono di Dio… Perché là dove c'è la Chiesa, lì è anche lo Spirito di Dio e dove è lo Spirito di Dio lì è anche la Chiesa. Non partecipano di lui quelli che non si nutrono alle mammelle della loro Madre per la vita e non attingono alla purissima sorgente che sgorga dal corpo di Cristo, ma si scavano "cisterne screpolate" e, facendo fosse nella terra, bevono acqua putrida di pantano ". La sera di Pasqua, Gesù entrò nel luogo dove erano i suoi discepoli, " alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo! " ( Gv 20,22 ). Egli non fece questo una volta per tutte, nella sua prima Pasqua, per poi scomparire dalla storia, lasciando che la Chiesa camminasse da sola, con i mezzi di cui l'aveva dotata, fino al suo ritorno. No. Quel giorno, nel conferire agli apostoli il potere di rimettere i peccati, egli inaugurò, in modo solenne e visibile, la sua nuova condizione di " Spirito datore di vita " ( 1 Cor 15,45 ). Ma egli vive ormai sempre in atto di "alitare" sulla Chiesa; non ha cessato un solo istante di farlo. Lo fa anche ora, in questa liturgia. Se egli " toglie il suo Spirito ", tutte le cose, nella Chiesa, " vengono meno e ritornano nella loro polvere ", esattamente come, in altro senso, la Scrittura dice che avviene nella creazione ( Sal 104,29 ). " Senza lo Spirito Santo, Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il Vangelo è lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l'autorità una dominazione, la missione una propaganda, il culto una semplice rievocazione e l'agire cristiano una morale da schiavi. Ma nello Spirito Santo, il cosmo si solleva e geme nelle doglie del Regno, il Cristo risuscitato è presente, il Vangelo è potenza di vita, la missione è una Pentecoste, la liturgia è memoriale ed attesa e l'agire cristiano è deificato " ( Ignazio di Latakia ). Gesù, dunque, "alita" sempre; siamo noi uomini che non sempre abbiamo raccolto e raccogliamo il suo soffio, che non sempre facciamo caso a esso, fiduciosi, come siamo, nei nostri sforzi e nelle nostre accortezze umane; preoccupati, come siamo, di produrre, di fare, di progettare e di discutere tra di noi. Ora, però, qualcosa ci spinge irresistibilmente a fermarci e a esporci di nuovo, a volto scoperto, con il cuore pieno di segreto desiderio, a quel soffio potente del Risorto. Un " vento gagliardo " scuote di nuovo la casa, da quando sulla Chiesa è stata invocata " come una novella Pentecoste ". " È venuto il momento ed è questo - disse un giorno Gesù - in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l'avranno ascoltata vivranno " ( Gv 5,25 ). Sì, è venuto il momento ed è questo. Oggi, pur in mezzo all'addensarsi di tante tenebre nel mondo, innumerevoli esistenze cristiane, spente o tiepide, rifioriscono al contatto dello Spirito di Cristo. Rinascono, riscoprono la grandezza del loro battesimo, sono lieti di mettersi al servizio della Chiesa per l'evangelizzazione e, pur in mezzo alle tribolazioni, intonano un canto nuovo, di lode e di giubilo, al Dio che ha fatto per loro meraviglie di grazia. Fiori bellissimi di santità stanno sbocciando qua e là, in mezzo al popolo di Dio, al calore di quel soffio divino. In questo risveglio "pentecostale" un compito determinante spetta ai sacerdoti della Chiesa che non possono perciò rimanerne fuori, come semplici spettatori, per paura del nuovo. A noi sacerdoti ricorrono spesso gli uomini che sentono quella nostalgia del totalmente Altro. Noi siamo quelli che devono amministrare ai fratelli "spirito e vita". Non li deludiamo; non diamo stanche e smorte parole su Dio, a chi è alla ricerca del Dio vivente. Che non si debba dire anche oggi, come ai tempi di Isaia: " I miseri e i poveri cercano acqua, ma non ce n'è " ( Is 41,17 ). Sotto la croce di Gesù, quel giorno, insieme con Maria, c'era il discepolo che Gesù amava, il più giovane dei discepoli; fu lui che " vide e rese testimonianza ". Anche oggi Gesù chiama i giovani accanto a sé ai piedi della croce. Giovani dal cuore puro, c'è bisogno di voi nella Chiesa per il " servizio dello Spirito "! È bello lasciare tutto per Cristo, per mettersi al suo servizio nella vita religiosa e sacerdotale. È bello formarsi una famiglia umana, ma è ancora più bello lavorare per riunire la famiglia di Dio. Oggi, perciò, se udite la sua chiamata, non indurite il cuore. Venite! Non lasciatevi scoraggiare dalla nostra mediocrità; voi potete essere - e sarete - sacerdoti migliori di noi: sacerdoti nuovi di una Chiesa nuova! Terminiamo in preghiera. Signore Gesù, alita con potenza sulla tua Chiesa, raccolta in tutto il mondo, per celebrare, in quest'ora, la tua passione; pronuncia anche su di noi quella tua sovrana parola: " Ricevete lo Spirito Santo! ". " Si è manifestata la giustizia di Dio! " Un uomo, che era anche un credente e un poeta, ha raccontato così, in terza persona, la storia del più grande atto di fede della sua vita. Un uomo - dice - ( e si sa che quest'uomo era lui stesso ) aveva tre figli e un giorno essi si ammalarono. Sua moglie aveva una tale paura, che aveva lo sguardo fisso al di dentro e la fronte sbarrata e non diceva più una parola. Ma lui era un uomo; non aveva paura di parlare. Aveva capito che le cose non potevano andare avanti cosi. Allora aveva fatto un colpo di audacia. Per esso si ammirava anche un po' e bisogna dire che era stato un colpo ardito. Come si prendono tre bambini da terra e si mettono tutti e tre insieme, contemporaneamente, quasi per gioco, nelle braccia della loro madre o della loro nutrice che ride e da in esclamazioni, perché le se ne mettono troppi e non avrà la forza di portarli, così lui, ardito come un uomo, aveva preso - con la preghiera - i suoi bambini nella malattia e tranquillamente li aveva messi nelle braccia di Colei che è carica di tutti i dolori del mondo ( aveva fatto un pellegrinaggio da Parigi a Chartres per affidare i suoi bambini alla Madonna ). " Vedi - diceva - te li do e mi voltò e scappo perché tu non me li renda. Non li voglio più, lo vedi bene! ". Come si applaudiva di aver avuto il coraggio di fare quel colpo. Da quel giorno, tutto andò bene, naturalmente, poiché era la Santa Vergine a occuparsene. È perfino curioso che non tutti i cristiani facciano altrettanto. È così semplice; non si pensa mai a ciò che è semplice. Insomma si è sciocchi, tanto vale dirlo subito. Ho iniziato, in modo un po' insolito, con questa storia di un " colpo di mano ", perché, in questo giorno, siamo invitati, dalla parola di Dio, a fare anche noi un colpo simile. Gesù, spiegando in anticipo il significato della sua morte di croce, disse un giorno: " Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna " ( Gv 3,14 ). Credere è dunque la grande opera da compiere, il Venerdì Santo, davanti a Gesù crocifisso. Egli è stato " innalzato " sulla croce ed è, misteriosamente, lì, fino alla fine del mondo ( anche se risorto ), perché l'umanità, contemplandolo, creda. Ma che cosa dobbiamo credere? San Paolo, nell'epistola ai Romani, scrive: " Ora … si è manifestata la giustizia di Dio, per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione. Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio ". Tutti, senza distinzione; l'unica distinzione è che alcuni sanno questo, altri lo ignorano ancora, altri lo hanno dimenticato. Tutti, dunque, hanno peccato. " Ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione operata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione, per mezzo della fede nel suo sangue " ( Rm 3,21-25 ). Ecco cosa dobbiamo credere: che, in Cristo, Dio ci offre la possibilità di essere giustificati mediante la fede, cioè resi giusti, perdonati, salvati, fatti creature nuove. Questo è il significato di " giustizia di Dio ". Dio si fa giustizia, usando misericordia. In questa nuova creazione, si entra mediante la fede. " Convertitevi e credete ", andava dicendo Gesù all'inizio del suo ministero ( Mc 1,15 ): convertitevi, cioè credete, convertitevi credendo! Entrate nel regno che è apparso tra voi! Ora, dopo la Pasqua, la stessa cosa ripetono gli apostoli, riferendosi al regno che è definitivamente venuto e che è Cristo Gesù crocifisso e risorto. La prima, fondamentale conversione è la fede stessa. È la fede la porta per cui si entra nella salvezza. Se ci fosse detto: la porta è l'innocenza, la porta è l'osservanza esatta dei comandamenti, è la tale o tal' altra virtù, avremmo potuto dire: Non è per me! Io non sono innocente, non ho tale virtù. Ma ci viene detto: la porta è la fede. Credi! Questa possibilità non è troppo alta per te, ne troppo lontana da te; non è al di là del mare; al contrario, " vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore, cioè la parola della fede. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo! " ( Rm 10,8-9 ). Ma ci sono tanti tipi di fede: la fede-assenso, la fede-fiducia, la fede-obbedienza. Di quale fede si tratta ora, per noi? Si tratta di una fede tutta speciale: la fede-appropriazione. La fede che fa il colpo di mano. " Io - è san Bernardo che parla - quanto mi manca, me lo approprio con fiducia dal cuore del Signore, perché è pieno di misericordia. Che, se le misericordie del Signore sono molte ( Sal 119,156 ), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia; infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio ". È scritto, infatti, che Cristo Gesù è diventato, per noi, " sapienza, giustizia, santificazione e redenzione " ( 1 Cor 1,30 ). Tutte queste cose sono "per noi", cioè sono nostre. L'obbedienza realizzata da Gesù sulla croce è mia, il suo amore per il Padre è mio. La sua morte stessa ci appartiene, è il nostro più grande tesoro, un titolo di perdono che nessun nostro peccato, per quanto grande, può annullare. È come se fossimo morti noi stessi, distruggendo così in noi " il corpo del peccato ". " Uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti " ( 2 Cor 5,14 ). Davvero non si pensa mai alla cosa più semplice! Questa è la cosa più semplice, più chiara, del Nuovo Testamento, ma prima di giungere a scoprirla, quanta strada bisogna fare! È la scoperta che si fa, di solito, al termine, non all'inizio, della propria vita spirituale. In fondo, si tratta di dire semplicemente un " si " a Dio. Dio aveva creato l'uomo libero, perché potesse accettare liberamente la vita e la grazia; accettare se stesso come creatura beneficata, graziata, da Dio. Aspettava solo il suo " sì ". Invece, ricevette da lui un " no ". Ora Dio offre all'uomo una seconda possibilità, come una seconda creazione, un nuovo inizio. Gli presenta Cristo sulla croce come sua "espiazione" e gli chiede: " Vuoi vivere in grazia di lui, in lui? " Credere, significa dirgli: " Sì, lo voglio! ", ed essere, così, una creatura nuova, " creato in Cristo Gesù " ( Ef 2,10 ). Questo è quel "colpo di mano", di cui si diceva, e c'è veramente da stupirsi al vedere come pochi lo fanno. Un Padre della Chiesa - san Cirillo di Gerusalemme - così esprimeva, in altre parole, questa idea del colpo di audacia della fede: " O bontà straordinaria di Dio verso gli uomini! I giusti dell'Antico Testamento piacquero a Dio nelle fatiche di lunghi anni; ma quello che essi giunsero a ottenere, attraverso un lungo ed eroico servizio accetto a Dio, Gesù te lo dona nel breve spazio di un'ora. Infatti, se tu credi che Gesù Cristo è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo e sarai introdotto in paradiso da quello stesso che vi introdusse il buon ladrone ". Immagina - diceva un altro scrittore antico - che si sia svolta, nello stadio, un'epica lotta. Un valoroso ha affrontato il tiranno e con immane fatica e sofferenza lo ha vinto. Tu non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite; ma se ammiri, dagli spalti, il valoroso, se ti rallegri per lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l'assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore e gli baci il capo; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, tu avrai parte certamente al premio del vincitore. Ma c'è di più: supponi che il vincitore non abbia nessun bisogno, lui, del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri come premio del suo combattimento l'incoronazione dell'amico, in tal caso quell'uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato, né sudato? Così avviene tra noi e Cristo. Pur non avendo ancora faticato e lottato ( cioè, pur non avendo ancora dei meriti ), tuttavia per mezzo della fede, noi ( come stiamo facendo in questa liturgia ) inneggiamo alla lotta di Cristo, ammiriamo la sua vittoria, onoriamo il suo trofeo e per lui, valoroso, mostriamo veemente e ineffabile amore; facciamo nostre quelle ferite e quella morte. Nell'Antico Testamento, nel libro delle Cronache, si legge che, nell'imminenza di una battaglia decisiva per la sopravvivenza del popolo d'Israele, Dio pronunciò, per bocca di un profeta, queste parole: " Non toccherà a voi combattere in tale momento; fermatevi bene ordinati e vedrete la salvezza che il Signore opererà per voi " ( 2 Cr 20,17 ). Queste parole hanno trovato il pieno compimento in questa suprema battaglia della storia, la battaglia combattuta da Gesù contro il principe del mondo. Per la fede, noi raccogliamo dove non abbiamo seminato; non siamo stati noi a sostenere la battaglia, eppure siamo noi che otteniamo il premio. Questa incredibile possibilità Dio offre all'uomo in Cristo. Essa costituisce l'unico vero "affare" della vita, perché dura in eterno, ci fa "ricchi" per l'eternità. E non è questo un inaudito colpo di fortuna? San Paolo dice: " Ora si è manifestata la giustizia di Dio ". Quell'" ora " significa, anzitutto, l'ora storica in cui Cristo morì sulla croce; significa, poi, l'ora sacramentale del nostro battesimo, quando fummo " lavati, santificati e giustificati " ( 1 Cor 6,11 ); e significa, infine, l'ora presente, Poggi della nostra vita. Quest'ora che stiamo vivendo. C'è, dunque, qualcosa che va fatto ora, subito; che io - non un altro al posto mio - devo fare e senza cui tutto resta come sospeso nel vuoto. La giustificazione mediante la fede è, sì, l'inizio della vita soprannaturale, ma non un inizio presto superato da altri atti e doveri, ma un inizio sempre attuale, da porre o ristabilire sempre di nuovo, come ogni inizio da cui nasce una vita. Dio è sempre colui che ama per primo e che giustifica per primo, gratuitamente; perciò l'uomo deve essere sempre colui che si lascia giustificare gratuitamente mediante la fede. " Per ogni uomo - si legge in un'omelia antica attribuita a san Giovanni Crisostomo - il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è immolato per lui. Ma Cristo è immolato per lui nel momento in cui egli riconosce tale grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quell'immolazione ". Ora stesso, dunque, Cristo è immolato per noi; tutto diventa vero, attuale e operante per noi se noi prendiamo coscienza di ciò che Cristo ha fatto per noi, se lo ratifichiamo con la nostra libertà, se esultiamo e ringraziamo per ciò che si è compiuto sulla croce. Io posso tornare a casa, questa sera, con il bottino più prezioso che ci sia; posso fare un colpo di mano tale da congratularmi, per esso, in eterno con me stesso. Posso mettere di nuovo i miei peccati tra le braccia di Cristo sulla croce, come fece quell'uomo che mise i suoi tre bambini malati tra le braccia della Santa Vergine e poi scappò, senza voltarsi indietro, per paura di doverli riprendere. Quindi, posso presentarmi con fiducia al Padre celeste e dirgli: " Ora guardami, guardami, Padre, perché adesso io sono il tuo Gesù! La sua giustizia è su di me; egli mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia " ( Is 61,10 ). Poiché Cristo si è addossato la mia iniquità, io ho indossato la sua santità. Mi sono " rivestito " di Cristo ( Gal 3,27 ). " Gioisca Dio nelle sue creature - Laetetur Dominus in operibus suis " ( Sal 104,31 ). Nel sesto giorno della nuova settimana creatrice, quello della morte di Cristo; Dio torna a guardare la sua creazione e vede che essa è, di nuovo, " molto buona ". Dove sta il vanto? Esso è escluso, dice l'Apostolo ( Rm 3,27 ). Non c'è più posto per questo terribile tarlo che ha guastato la prima creazione. Tutto è grazia! " Nessuno può riscattare se stesso o pagare a Dio il suo prezzo " ( Sal 49,8 ). È Dio che ci ha riscattati con il sangue di Cristo. Il vanto dunque è escluso. Eppure c'è qualcosa di cui l'uomo può vantarsi: può vantarsi " della croce del Signore nostro Gesù Cristo "; " Chi si vanta si vanti nel Signore! " ( 1 Cor 1,31 ). Potersi vantare di Dio! Quale vanto ci può essere, in cielo e in terra, più bello di questo? Chi sarà ancora così stolto da voler cambiare questo oggetto di vanto con la propria giustizia. Oh, sì, noi ci vanteremo di tè, Signore. In eterno! " Ha vinto il leone della tribù di Giuda! " Noi possediamo un commento autentico del racconto della Passione che abbiamo appena ascoltato, un commento uscito dalla mano dello stesso evangelista Giovanni, o, comunque, dalla mano di uno dei suoi intimi discepoli, vissuto nella sua cerchia e nutritesi del suo pensiero. Si tratta del capitolo quinto dell'Apocalisse. Entrambi i testi si riferiscono allo stesso avvenimento del Calvario che il Quarto Vangelo narra in forma storica e l'Apocalisse interpreta e celebra in forma profetica e liturgica. Nel capitolo quinto dell'Apocalisse l'evento pasquale è presentato nella cornice di una liturgia celeste, che si ispira però al culto reale e terreno della comunità cristiana del tempo. Tutti, leggendolo, potevano scorgervi i tratti di ciò che celebravano nelle loro assemblee liturgiche. La liturgia pasquale alla quale Giovanni si ispira, sia nel Vangelo che nell'Apocalisse, è quella Quartodecimana che celebra la Pasqua lo stesso giorno in cui la celebravano gli ebrei, il 14 di Nisan, nell'anniversario, cioè, della morte di Cristo, non della risurrezione. Quella, per intenderci, che pone al centro di tutto il Venerdì di parasceve e che vede anche la risurrezione a partire da esso. Sappiamo dalla storia che le sette chiese dell'Asia Minore, alle quali è indirizzato il libro dell'Apocalisse, seguivano tutte la prassi Quartodecimana. Di una di esse, Smirne, fu vescovo un discepolo di Giovanni, san Policarpo, che, verso la metà del II secolo, venne a Roma proprio per discutere con papa Aniceto la questione della differehte data della Pasqua. Di un'altra, Sardi, fu vescovo il noto quartodecimano Melitene. Il capitolo quinto dell'Apocalisse è, dunque, il miglior commento a ciò che stiamo celebrando. Si riferisce allo stesso momento storico e liturgico che anche noi stiamo rivivendo. Esso contiene parole di Dio, parole ispirate, rivolte a noi, ora e qui. Ascoltiamole. " E vidi - dice - nella mano destra di Colui che era assise sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli " ( Ap 5,1 ). Questo libro scritto dentro e fuori indica la storia della salvezza e, concretamente, le Scritture dell'Antico Testamento che la contengono. È scritto all'esterno e all'interno - spiegavano i Padri della Chiesa - per dire che si può leggere secondo la lettera e secondo lo Spirito, cioè o nel suo senso letterale, che è particolare e provvisorio, o nel suo senso spirituale, che è universale e definitivo. Ma per poterlo leggere anche "dentro", bisogna che il rotolo sia dissigillato, mentre esso è, al presente, sigillato con sette sigilli. La Scrittura, prima di Cristo, somiglia allo spartito di un'immensa sinfonia che giace sulla carta e di cui non si può udire il suono potente, fintanto che non viene messa, in testa a esso, l'indicazione della chiave musicale in cui leggerlo. Il funzionario della regina Candace che tornava da Gerusalemme, leggendo il capitolo 53 di Isaia, si rivolge a Filippo domandandogli: " Di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro? " ( At 8,34 ). ( Stava leggendo il passo dove si dice: " Come pecora fu condotto al macello e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa … " ). Mancava ancora la chiave di lettura. La visione di Giovanni prosegue: " Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: "Chi è degno di aprire il libro e di scioglierne i sigilli?". Ma nessuno né in cielo, né in terra né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo. Io piangevo molto … ". Giovanni - come è nella natura stessa della liturgia - ci riporta, in spirito, al momento storico in cui le cose accadono o stanno per accadere. Il pianto del profeta evoca il pianto dei discepoli al momento della morte di Gesù ( " Noi speravamo che fosse lui … " ), il pianto della Maddalena accanto al sepolcro vuoto, il pianto di tutti coloro che " aspettavano la redenzione di Israele ". " Ma uno dei vegliardi - prosegue la visione - mi disse: "Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di David, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli" ". Enikesen! Vicit! Ha vinto! Questo il grido che il veggente è incaricato di far risuonare nella Chiesa e la Chiesa nel mondo, per tutti i secoli: ha vinto il leone della tribù di Giuda! ( Il " leone della tribù di Giuda " è il Messia, cosi chiamato dalle parole che Giacobbe pronuncia, nel libro della Genesi, benedicendo il figlio Giuda ). L'evento che da sempre si aspettava e che tutto spiega è accaduto. Non si tornerà più indietro. Con un immane sforzo la storia ha spostato il suo baricentro da dietro in avanti, ha raggiunto il suo culmine. Si è instaurata la pienezza dei tempi. " È compiuto - Consummatum est ", ha gridato Gesù prima di spirare ( Gv 19,30 ). Quel semplice verbo al passato, enikesen, ha vinto, racchiude il principio stesso che da forza e assolutezza alla storia, quello che conferisce a un fatto accaduto in un punto del tempo e dello spazio un valore eterno e universale: " È impossibile che non sia accaduto ciò che è accaduto - Impossibile est factum non esse quod factum est ". Nessuno meglio del " principe di questo mondo " conosce la tremenda forza di questo principio che rappresenta, per la storia, quello che il principio di non-contraddizione rappresenta per la metafìsica. Non si potrà più tornare indietro a ciò che era prima. Niente e nessuno al mondo, per quanto si sforzi, può far sì che non sia accaduto ciò che è accaduto e cioè che Gesù Cristo non sia morto e risorto, che gli uomini non siano redenti, la Chiesa fondata, i sacramenti istituiti, il regno di Dio instaurato. " Ecco la pagina voltata che rischiara tutto, come quel grande foglio illustrato sul messale. Eccola, risplendente e pitturata in rosso, la grande Pagina che separa i due Testamenti. Tutte le porte si aprono in una volta, tutte le opposizioni si dissipano, tutte le contraddizioni si risolvono " ( P. Claudel ). Anche noi abbiamo ascoltato, nel corso di questa liturgia, la lettura di Isaia 53 sull'agnello condotto al macello, ma non abbiamo avuto più bisogno di chiederci, come faceva il ministro della regina Candace, di chi parla il profeta. Noi sappiamo ormai di chi parla, perché il libro è stato aperto. Come e quando è avvenuto tutto questo? La visione continua: " Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato ". Un Agnello immolato, cioè ucciso, che tuttavia sta in piedi, cioè è risorto! Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha dunque compiuto tutto ciò. Egli ha spiegato le Scritture compiendole; non, cioè, a parole, ma con i fatti. Giovanni si rifà apertamente alla scena del Calvario, quando, con la sua morte vittoriosa, Gesù ha " compiuto le Scritture ". " Io ho vinto - dice il Risorto stesso nell'Apocalisse - e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono " ( Ap 3,21 ). Un poeta ha immaginato questo racconto fatto dal centurione che era presente quel giorno sul Calvario. " Non ci fu mai una morte come questa e io ne ho perso ormai il conto … La sua battaglia non era con la morte. La morte era sua serva, non la sua padrona. Non era un uomo sconfitto … Sulla croce, la sua battaglia era con qualcosa di molto più serio che le lingue amare dei farisei. No, la sua era un'altra battaglia … Alla fine emise un alto grido di vittoria. Tutti si chiedevano che fosse, ma io ne so qualcosa di combattimenti e di combattenti. Riconosco un grido di vittoria, tra mille ". La vittoria è proprio quella morte accettata in totale obbedienza al Padre e amore per gli uomini. La risurrezione non ha fatto, per l'evangelista Giovanni, che portare alla luce la vittoria nascosta, realizzata sulla croce. Gesù è " vincitore perché vittima - victor quia vidima ". Come sull'altare, dopo la consacrazione, nulla apparentemente è cambiato nel pane e nel vino, mentre sappiamo che sono ormai tutt'altra cosa rispetto a prima, essendo diventati il corpo e il sangue di Cristo, così, con la Pasqua, nulla apparentemente è cambiato nel mondo, mentre in realtà tutto è cambiato e il mondo è diventato una " creazione nuova ". Ma perché Giovanni sente il bisogno di ricordare queste cose alla Chiesa del suo tempo? Ce lo domandiamo perché proprio qui, credo, è racchiuso il messaggio per noi di questa pagina del Nuovo Testamento. Qui raggiungiamo il senso e lo scopo della liturgia che stiamo celebrando. Un giorno Giovanni Battista mandò due dei suoi discepoli da Gesù a chiedergli: " Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro? " ( Mt 11,3 ). Sembra che il Precursore, condividendo, in parte, con i suoi contemporanei, l'attesa di un Messia glorioso e trionfatore, fosse rimasto disorientato dall'operato di Gesù così mite e dimesso, così poco fiammeggiante rispetto a quello che egli si era immaginato. Sembra, insomma, che ebbe anche lui la sua prova di fede, il suo "scandalo", circa Gesù, come lo ebbero, per lo stesso motivo, Pietro e gli altri apostoli. Sappiamo cosa fece rispondere Gesù a Giovanni: " Beato colui che non si scandalizza di me " ( Mt 11,6 ). Una cosa analoga si ripeté verso la fine dell'era apostolica, in seno, questa volta, alla comunità cristiana. La seconda lettera di Pietro ci riferisce una domanda che serpeggiava qua e là tra i cristiani: " Dov'è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione " ( 2 Pt 3,4 ). L'Apocalisse è scritta per una Chiesa che vive questa situazione e deve fronteggiare questo terribile dubbio. Ma è vero che colui che doveva venire è venuto? È vero che tutto è cambiato? O non è vero piuttosto il contrario, che tutto, cioè, è come prima? I discepoli del Cristo sono perseguitati, segnati a dito, esclusi dai vantaggi che offre la società. Alla bestia " è stato concesso di fare guerra ai santi e di vincerli " ( Ap 13,7 ). Spunta, su questo terreno, la divisione interna, l'eresia, che tende a spostare il centro dell'attenzione dalla vita concreta alle speculazioni ( la gnosi ), in modo da togliere alla vita cristiana quell'esigenza di radicalità e consentire di venire a patti con i costumi dei pagani. A questa Chiesa tentata di scoraggiamento e di " tiepidezza ", bisognosa di ritrovare il suo " fervore di un tempo ", per affrontare, se necessario, anche il martirio, proprio a questa Chiesa il veggente fa giungere quel grido pasquale potente come uno squillo di tromba: " Enikesen - Ha vinto! ". Giovanni vuol fare di tutti i cristiani dei " veggenti " come lui: persone che hanno occhi per vedere ciò che è diventato il mondo a causa della morte di Cristo. C'è una zona dello spettro dei colori, quella situata al di qua del rosso, che non è percepita dall'occhio umano. Con i suoi raggi, detti raggi infrarossi, si possono cogliere aspetti delle cose e del nostro stesso pianeta, altrimenti sconosciuti. L'immagine che se ne ricava è tutta diversa da quella dell'esperienza ordinaria. Avviene così anche nel campo dello spirito. C'è un aspetto della realtà, quello che non passa con il passare della figura di questo mondo, che non si vede a occhio nudo, ma solo alla luce della rivelazione divina. L'uomo naturale, anche se istruito su tutto e sapientissimo, non lo sospetta nemmeno. È l'immagine pasquale del mondo che risulta dalla morte e risurrezione di Cristo; è il mondo visto, come lo vede Dio stesso. Essa non fa vedere soltanto un aspetto in più della realtà, ma fa vedere ogni cosa in una luce nuova, anche le cose di quaggiù. Giovanni ha ricevuto questa immagine, ne è tutto imbevuto, e ora la trasmette alla Chiesa in tutta la sua potenza profetica. " Chi ha orecchi - non si stanca di ripetere - ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese " ( Ap 2,7ss ). L'interrogativo e la tentazione avvertiti, per un attimo, dal Precursore ( " Sei tu colui che deve venire? " ) e quelli avvertiti dai cristiani della seconda generazione ( " Dov'è la promessa della sua venuta? " ) sono presenti e quanto mai operanti anche oggi. Tutto sembra continuare come dalla creazione del mondo. Anche oggi alla bestia " è concesso di fare guerra ai santi e di vincerli ". I credenti e, in modo diverso, tutti i retti di cuore e gli uomini di buona volontà, sono spesso perdenti su tutti i fronti. L'antico avversario si insinua in questa situazione per fiaccare la resistenza proprio delle anime più amanti della verità e della giustizia e più sensibili al dolore e al male del mondo. E mentre la Chiesa, il Venerdì Santo, proclama al mondo che questo è il giorno della grande redenzione, egli grida a tali anime, martirizzandole: " Questo è il giorno della grande menzogna, questo è il giorno della grande menzogna! Guardatevi intorno: cosa c'è di redento nel mondo? ". L'accusatore è precipitato anche oggi " come folgore ", ogni volta che, nella fede, facciamo nostra la parola del profeta e ripetiamo: " Vicit leo de tribù ludo. - Ha vinto il leone della tribù di Giuda " e ha aperto il libro. Tutto è redento, perché anche la sofferenza e la stessa morte sono redente. Più colui che ripete quella parola è nella prova, umanamente sconfitto e debole, più il suo grido si leva puro e fa tremare dalle fondamenta il potere delle tenebre, perché allora la sua fede è purificata come l'argento nel crogiolo e soprattutto perché allora egli somiglia più da vicino all'Agnello, il quale divenne vincitore accettando di essere vittima. Dinanzi alla tomba del fratello morto, Gesù disse a Marta: " Io ti dico che se tu credi vedrai la gloria di Dio " ( Gv 11,40 ). La stessa cosa ripete a ciascuno di noi quando umanamente non sembra più esserci via d'uscita: " Io ti dico che se tu credi vedrai la gloria di Dio! ". Noi non abbiamo quaggiù soltanto fede nella vittoria, ma abbiamo anche vittoria nella fede. Nella fede, siamo già vincitori, sperimentiamo già qualcosa della vita eterna. Chi crede siede già " presso Gesù nel suo trono " e " gusta la manna nascosta ". ( Ap 2,17; Ap 3,21 ) Giovanni ce lo ricorda con forza: " Questa è la vittoria che vince il mondo: la vostra fede " ( 1 Gv 5,4 ). Ci fu un tempo in cui era più facile proclamare questa vittoria del Crocifisso. " La croce, che un tempo era segno di ignominia, brilla ora sulla corona dei re ", esclamavano alcuni Padri della Chiesa, dopo la fine dell'era delle persecuzioni. Non si sentì forse promettere, Costantino stesso, nella sua celebre visione della croce: " In questo segno vincerai - In hoc signo vinces "? Ora però non è più così e proprio nelle nazioni di antica tradizione cristiana. Il Crocifisso è rimosso da un posto dopo l'altro. Ora perciò è più che mai il tempo di proclamare che ha vinto il leone della tribù di Giuda, come quando questa parola fu recata a Giovanni ed egli era " relegato nell'isola di Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Cristo " ( Ap 1,9 ). " Beato chi non si scandalizza di me ", continua a dire Gesù. Quando stiamo per essere sopraffatti da situazioni più grandi di noi, o quando il disegno di Dio sulla nostra vita, sulle persone a noi care, o sull'intera Chiesa, ci appare come un libro sigillato con sette sigilli e noi dobbiamo eseguirlo senza capirlo, o quando vediamo anche oggi perire il povero e il debole senza che nessuno se ne dia pensiero, allora è il momento di metterci in ginocchio e gridare con tutta la fede: " Ha vinto il leone della tribù di Giuda e aprirà il libro e i suoi sette sigilli! ". In lui è stata data una speranza a tutti i vinti e le vittime del mondo di diventare anch'essi vincitori. È scritto che appena l'Agnello ebbe preso il libro dalla mano di Colui che sedeva sul trono, si udì un coro potente che riecheggiava da un capo all'altro del cielo e della terra e diceva: " Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato … Tu sei degno, tu sei degno! ", ed è scritto anche che alla fine tutti " si prostrarono in adorazione ". È quello che, fra pochi istanti, faremo anche noi, quando ci prostreremo nell'adorazione del Crocifisso, prolungando sulla terra la divina liturgia del cielo. " Io piangevo molto ", diceva il profeta di se stesso, all'inizio della visione, e anche la Chiesa oggi piange. Piange per la morte del suo Sposo sulla croce, piange in mezzo alle tribolazioni del mondo, piange per la defezione e la durezza di cuore di tanti suoi figli, piange per le sue stesse infedeltà. È a questa Chiesa, dal cuore contrito e umiliato, riunita intorno all'Agnello, dietro il suo Pastore, che è rivolta oggi quella parola piena di giubilo e di speranza: " Non piangere più! Enikesen, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide. Ha vinto!". " Schiacciato per le nostre iniquità " " Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù - scrive l'apostolo Paolo - siamo stati battezzati nella sua morte " ( Rm 6,3 ). L'essere immersi nell'acqua, al momento del battesimo, era dunque il segno esterno e visibile di un altro "bagno" e di un'altra "sepoltura": quella nella morte di Cristo. Bisogna però che ciò che accadde, all'inizio, ritualmente e simbolicamente, si realizzi una volta di fatto, mediante la fede, nel corso della vita, per non rimanere soltanto un simbolo. Dobbiamo fare un bagno salutare nella passione di Cristo, calarci, in spirito, dentro di essa, sentirne su di noi tutto il gelo e l'amarezza, per uscirne come rinnovati e ritemprati. È scritto che a Gerusalemme c'era una piscina miracolosa e il primo che vi si tuffava quando le sue acque venivano agitate, era guarito. Noi dobbiamo gettarci nella piscina, o meglio nell'oceano, che è la passione di Cristo. Perché tale è la sofferenza dell'Uomo-Dio: un oceano sconfinato, senza rive e senza fondo. C'è una passione dell'anima di Cristo che è l'anima della passione, cioè quello che conferisce a essa il suo valore unico e trascendente. Altri hanno sofferto i patimenti del corpo che ha sofferto Gesù e forse anche di maggiori. È certo, in ogni caso, che, dal punto di vista fisico, i dolori sofferti da tutti gli uomini lungo tutti i secoli, messi insieme, formano una massa più grande di quelli di Gesù presi in se stessi, mentre tutte le pene e le angosce degli uomini messe insieme non raggiungeranno mai, neppure lontanamente, là passione dell'anima del Redentore. Tale passione dell'anima è tutta racchiusa nelle seguenti parole dell'Apostolo: " Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio " ( 2 Cor 5,21 ). Il Figlio stesso di Dio, l'innocente, il santo, diventato "peccato", il peccato fatto persona! Nel Getsemani, Gesù prega dicendo: " Passi da me questo calice! " ( Mt 26,39 ). L'immagine del calice evoca quasi sempre, nella Bibbia, l'idea dell'ira di Dio contro il peccato ( Ap 14,10 ). La " coppa della vertigine " è chiamata in Isaia ( Is 51,22 ). " L'ira di Dio - scrive san Paolo - si rivela dal cielo contro ogni empietà " ( Rm 1,18 ). È una specie di principio universale. Dove c'è il peccato, là non può non appuntarsi il giudizio di Dio, il suo tremendo " no! "; altrimenti Dio stesso verrebbe a compromesso con il peccato, cadrebbe la distinzione tra bene e male e l'universo intero crollerebbe su se stesso. La collera di Dio non è come quella degli uomini; è un altro nome per indicare la santità di Dio. Ora Gesù nella sua passione, è l'empietà, tutta l'empietà del mondo. Su di lui perciò si riversa l'ira di Dio. Dio " ha condannato il peccato nella carne di Cristo " ( Rm 8,3 ). La retta comprensione della passione di Cristo è ostacolata da una visione troppo giuridica delle cose, per cui si pensa che da una parte ci sono gli uomini con i loro peccati e dall'altra Gesù che soffre ed espia la pena di quei peccati, rimanendone però a distanza; mentre il rapporto tra Gesù e il peccato non è indiretto e solo giuridico, ma ravvicinato e reale. I peccati, in altre parole, erano su di lui, li aveva misteriosamente addosso, perché se li era liberamente " addossati ". " Egli - è scritto - portò i nostri peccati nel suo corpo " ( 1 Pt 2,24 ). Egli si sentiva, in qualche modo, il peccato del mondo e questa è la passione dell'anima. Dobbiamo dare una volta un nome e un volto a questa realtà del peccato, perché non resti per noi un'idea astratta o una cosa di poca importanza, come lo è per il mondo. Gesù si è addossato tutto l'orgoglio umano, tutta la ribellione aperta o sorda a Dio, tutta la lussuria ( che è, e resta, peccato, anche se tutti gli uomini si mettessero d'accordo a sostenere il contrario ), tutta l'ipocrisia, tutta la violenza e l'ingiustizia, tutto lo sfruttamento dei poveri e dei deboli, tutta la menzogna, tutto l'odio, che è cosa tanto terribile. Nella passione di Cristo trovano la loro piena realizzazione le parole di Isaia ascoltate nella prima lettura: " Egli è stato schiacciato per le nostre iniquità; il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui " ( Is 53,5 ). È lui il " giusto sofferente " che prega nei salmi e dice al Padre: " Pesa su di me il tuo sdegno e con tutti i tuoi flutti mi sommergi … Sopra di me è passata la tua ira, i tuoi spaventi mi hanno annientato " ( Sal 88 ). Cosa avverrebbe se tutto l'universo fisico, con i suoi miliardi di galassie, poggiasse tutto su un punto solo, come un'immensa piramide rovesciata? Che pressione dovrebbe sopportare quel punto? Ebbene, tutto l'universo morale della colpa, che non è meno sconfinato di quello fisico, pesava, nella passione, sull'anima dell'Uomo-Dio. Il Signore - è scritto - fece ricadere su di lui l'iniquità di tutti noi ( Is 53,6 ); egli è l'Agnello di Dio che " porta su di sé " il peccato del mondo ( Gv 1,29 ). La vera croce che Gesù prese sulle spalle, che portò fino al Calvario e alla quale venne infine inchiodato, fu il peccato! Poiché Gesù porta su di sé il peccato, Dio è lontano. L'attrazione infinita che c'è tra il Padre e il Figlio è ora attraversata da una repulsione altrettanto infinita. Quando, d'estate, sulle Alpi, una massa d'aria fredda che scende dal nord si scontra con una massa d'aria calda che sale dal sud, scoppiano tempeste paurose che sconvolgono l'atmosfera: nembi e sibili di vento, lampi che squarciano il cielo da un capo all'altro, tuoni che fanno sobbalzare le montagne. Nell'anima del Redentore è avvenuto qualcosa di simile: la somma malizia del peccato si è scontrata in essa con la somma santità di Dio, sconvolgendola fino a procurargli sudore di sangue e a strappargli dalle labbra il lamento: " La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate " ( Mc 14,34 ). Parlando degli Ebrei, a un certo punto della lettera ai Romani, san Paolo dice di provare per essi, a causa del loro rifiuto del Vangelo, una tale sofferenza, da essere disposto a essere lui stesso " anatema ", separato da Cristo, a vantaggio dei suoi fratelli ( Rm 9,3 ). Quello che l'Apostolo ha intravisto come la suprema delle privazioni, senza tuttavia doverla subire di fatto, Gesù sulla croce l'ha vissuta realmente e fino in fondo; egli è divenuto " anatema ", separato da Dio, a vantaggio dei fratelli. " Cristo - è scritto - ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: "Maledetto chi pende dal legno" " ( Gal 3,13 ). " Maledizione - katàra ", è quasi la stessa cosa che "anatema"; indica separazione da Dio e dagli uomini, una specie di scomunica. L'esperienza del silenzio di Dio, che l'uomo moderno sente così acutamente, ci aiuta anch'essa a capire qualcosa della passione di Cristo, purché si tenga conto che, per l'uomo biblico, il silenzio di Dio non è la stessa cosa che per l'uomo d'oggi. Il silenzio di Dio si misura dall'intensità con cui si invoca il suo nome. Esso non significa nulla per chi non crede o, pur credendo, non si rivolge a lui che tiepidamente. Quanto più grande è la fiducia riposta in lui e più ardente la supplica, tanto più diventa doloroso il tacere di Dio. Possiamo da ciò intuire cosa deve essere stato per Gesù il silenzio del Padre sulla croce e quale abisso si cela dietro quel grido: " Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? " ( Mt 27,46 ). Anche Maria sotto la croce sa cos'è il silenzio di Dio. Nessuno più di lei potrebbe far sua l'esclamazione che uscì di bocca a un Padre, nel ripensare a un momento di feroce persecuzione della Chiesa sotto l'imperatore Giuliano, quando vi furono chiese profanate e vergini violate: " Come fu duro, o Dio, sopportare, quel giorno, il tuo silenzio! ". Gesù sulla croce ha sperimentato fino in fondo la conseguenza fondamentale del peccato che è la perdita di Dio. È diventato il senza-Dio, l'ateo! "Ateo" può avere un significato attivo o passivo; può indicare uno che rifiuta Dio, ma anche uno che è rifiutato da Dio. Ed è in questo secondo senso che tale parola tremenda si applica a Cristo sulla croce. Il suo non fu certo un ateismo di colpa, ma di pena, per espiare tutto l'ateismo colpevole che c'è nel mondo e in ognuno di noi, sotto forma di resistenza a Dio, di egoismo o di noncuranza di Dio. È chiaro che mai il Padre celeste è stato così vicino al Figlio come in questo momento in cui egli compie la sua suprema obbedienza, ma, in quanto uomo, c'è stato un momento in cui Gesù non ha avvertito più tale vicinanza, si è "sentito" abbandonato. Tutto questo è stato necessario " perché fosse distrutto il corpo del peccato " ( Rm 6,6 ) e perché, in cambio della maledizione, noi ricevessimo " la promessa dello Spirito mediante la fede " ( Gal 3,14 ). I Padri hanno applicato a Cristo sulla croce la figura biblica delle acque amare di Mara che si trasformano in acque dolci, al contatto con il legno gettatevi da Mosè ( Es 15,23s ). Sul legno della croce Gesù ha bevuto lui stesso le acque amare del peccato e le ha trasformate nell'acqua "dolce" del suo Spiritó, di cui è simbolo l'acqua uscita dal suo fianco. Ha trasformato l'immenso "no" degli uomini a Dio in un " sì ", in un amen, ancora più immenso, tanto che ora " attraverso di lui sale a Dio il nostro amen per la sua gloria " ( 2 Cor 1,20 ). Questo è " il grande mistero della pietà " ( 1 Tm 3,16 ). Esso consiste nel fatto che, anche in una situazione così estrema. Gesù ha conservato la sua fiducia in Dio, la sua amorevole sottomissione al Padre; sulle sue labbra mai si è spento il grido filiale: " Abba, Padre mio! " ed egli è morto dicendo: " Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito " ( Lc 23,46 ). Nel compiere questo mistero della pietà, Gesù ha avuto accanto sua Madre, alla quale volgiamo ora, con commozione, il nostro pensiero. " Ella - dice un testo del Vaticano II - soffrì profondamente con il suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all'immolazione della vittima da lei stessa generata ", diventando, in tal modo, per noi " madre nell'ordine della grazia ". Nel Nuovo Testamento il kerygma, o annuncio della passione, è sempre formato da due elementi: da un fatto: " patì ", " morì ", e dalla motivazione di questo fatto: " per noi ", " per i nostri peccati ". ( Rm 4,25; 1 Cor 15,3 ) La passione di Cristo ci rimane inevitabilmente estranea, finché non vi si entra dentro attraverso questa porticina stretta del " per noi ", poiché conosce veramente la passione di Cristo solo colui che riconosce che essa è opera sua. Senza di questo, tutto il resto può essere un parlare a vuoto. Nel Getsemani c'era dunque anche il mio peccato personale che gravava sul cuore di Gesù; sulla croce c'era anche il mio egoismo e l'abuso che faccio della mia libertà che lo teneva inchiodato. Se Cristo è morto " per i miei peccati ", allora vuoi dire - volgendo semplicemente la frase all'attivo - che io ho crocifìsso Gesù di Nazaret! Sì, io ho crocifisso Gesù di Nazaret! Le tremila persone alle quali Pietro si rivolgeva il giorno di Pentecoste non erano state tutte davanti al pretorio di Pilato o sul Calvario a battere i chiodi, eppure egli dice a esse con grande forza: " Voi avete crocifisso Gesù di Nazaret! ". E sotto l'azione dello Spirito, esse riconoscono che è vero, perché è scritto che " si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: "Che dobbiamo fare, fratelli?" " ( At 2,23-37 ). " C'eri tu, c'eri tu, quando crocifissero il Signore? - Were you there, were you there, when they crucified my Lord? ", dice uno spiritual negro pieno di fede. E prosegue: " A volte questo pensiero mi fa tremare, tremare, tremare ". Ogni volta che l'ascolto sono costretto a rispondere tra me: " Ahimè, sì, c'ero anch'io, c'ero anch'io quando crocifissero il Signore! ". È necessario che nella vita di ogni uomo avvenga una volta un terremoto e che nel suo cuore si produca qualcosa di ciò che avvenne nella natura al momento della morte di Cristo, quando il velo del tempio si squarciò da cima a fondo, le pietre si spezzarono e i sepolcri si aprirono. È necessario che il santo timore di Dio schianti una buona volta il nostro cuore sicuro di sé, nonostante tutto. L'apostolo Pietro fece un'esperienza simile e se egli poté gridare quelle parole tremende alle folle, era perché prima le aveva gridate a se stesso e, guardato da Gesù, aveva " pianto amaramente " ( Lc 22,61 ). Abbiamo ascoltato poco fa le parole del Vangelo di Giovanni: " Guarderanno a colui che hanno trafitto " ( Gv 19,37 ). Che questa profezia si realizzi anche in noi; guardiamo a colui che abbiamo trafitto, guardiamolo in modo nuovo; piangiamolo come si piange un primogenito ( Zc 12,10 ). Se il mondo non si converte sentendo parlare noi uomini di Chiesa, che si converta vedendoci piangere! È ora che si realizzi nella vita di ciascuno quell'" essere battezzati nella sua morte ", che qualcosa del vecchio uomo ci cada di dosso, si distacchi da noi e rimanga sepolto per sempre nella passione di Cristo. Basta - dice la Scrittura - con il tempo trascorso a soddisfare le passioni ( 1 Pt 4,3 ). Basta con il tempo trascorso a giustificare noi stessi e incolpare gli altri. Basta con il tempo trascorso in polemiche inutili tra noi credenti e noi cattolici. Cristo è morto " per riunire i figli di Dio che erano dispersi " ( Gv 11,52 ) e noi continuiamo a dividerci e a disperderci per cose secondarie? Come possiamo perderci ancora dietro le nostre piccole divergenze, di fronte a un Dio che muore per amore per noi e a un mondo che ancora, in gran parte, lo ignora? " Cessent jurgia maligna cessent lites - Cessino le tristi contese, cessino le liti e sia in mezzo a noi Cristo Dio ", dice un antico canto gregoriano. Buona parte dei mali e dell'infelicità che affliggono le famiglie, le comunità, la stessa società e la Chiesa, dipendono dal fatto che ognuno giudica e mette sotto accusa gli altri, anziché giudicare e mettere sotto accusa anzitutto se stesso e il proprio peccato; ognuno vuoi cambiare gli altri e ben pochi sono quelli che pensano seriamente a cambiare se stessi. Che, se decidessimo di attuare questa rivoluzione dentro di noi, questa sera stessa il mondo sarebbe migliore e la pace regnerebbe nei nostri cuori. Se è necessario difendere la verità e la giustizia contro qualcuno, dopo lo si farà meglio, con maggiore libertà e carità. Solo dopo essere passati attraverso questa specie di nuovo battesimo nella morte di Cristo, vediamo la croce cambiare completamente aspetto e, da capo di accusa contro di noi e motivo di spavento e di tristezza, trasformarsi in motivo di gioia e di sicurezza. " Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù " ( Rm 8,1 ); la condanna ha esaurito il suo corso e ha lasciato il posto alla benevolenza e al perdono. La croce appare anzi come il nostro vanto e la nostra gloria: " Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo " ( Gal 6,14 ). " Vanto " indica qui una giubilante sicurezza, accompagnata da commossa gratitudine, alla quale l'uomo si innalza nella fede. È il sentimento che pervade questa liturgia e che ispira l'inno di questo tempo di passione: " O crux ave, spes unica - Salve, o croce, unica speranza ". Come ci si può vantare di una sofferenza che non abbiamo sopportato noi, ma che, anzi, abbiamo provocato? Il motivo è che la passione di Cristo, ora è diventata "nostra", il nostro più grande tesoro, la roccia della nostra salvezza. Il "per noi", da complemento di causa, è diventato ormai complemento di termine. Se prima significava " per colpa nostra - propter nos ", ora, dopo che abbiamo riconosciuto e confessato il nostro peccato e ci siamo pentiti, significa " a nostro favore - prò nobis ": " Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui, giustizia di Dio " ( 2 Cor 5,21 ). " Presso la croce di Gesù stava Maria sua madre " " Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre. Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre!". E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa " ( Gv 19,25-27 ). Queste le parole che abbiamo ascoltato poco fa, durante il racconto della Passione. A riferircele è quello stesso che le ascoltò e che era, insieme con Maria, sotto la croce: Giovanni. Poche notizie ci giungono da una fonte altrettanto diretta e sicura come questa. Su di esse vogliamo sostare alquanto in meditazione in questo Venerdì Santo. Se Maria era " presso la croce di Gesù " sul Calvario, vuol dire che ella era a Gerusalemme in quei giorni, e, se era a Gerusalemme, vuol dire che ha visto tutto. Ha assistito a tutta la passione del figlio, alle grida: Barabba, Barabba!, all'Ecce homo! Ha visto il Figlio uscire fuori flagellato, coronato di spine, coperto di sputi; ha visto il suo corpo, denudato, sussultare, sulla croce, nel brivido della morte. Ha visto i soldati dividersi le sue vesti e tirare a sorte quella tunica che ella stessa gli aveva forse tessuto con tanto amore. Ha bevuto anche lei il calice amaro, l'ha sorbito fino alla feccia. A lei convengono le parole pronunciate dall'antica figlia di Sion nella sua desolazione: " O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c'è un dolore simile al mio dolore! " ( Lam 1,12 ). Maria non era sola presso la croce; c'erano con lei altre donne, oltre Giovanni: una sua sorella, più Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Potrebbe sembrare che Maria è una delle tante donne presenti. Ma ella è lì come " sua madre " e questo cambia tutto, collocandola in una posizione unica al mondo, diversa da tutti gli altri presenti. Ho assistito, a volte, al funerale di alcuni giovani. Penso in particolare a quello di un ragazzo. Seguivano il feretro varie donne. Tutte erano vestite di nero, tutte piangevano. Sembravano soffrire tutte allo stesso modo. Ma tra esse ce n'era una diversa, alla quale tutti i presenti pensavano, per la quale piangevano e alla quale di nascosto volgevano lo sguardo: la madre. Aveva lo sguardo fisso sulla bara come impietrito e si vedeva che le sue labbra ripetevano senza posa il nome del figlio. Quando, dietro il sacerdote, tutti, al momento del Sanctus, si misero a recitare: " Santo, santo, santo, è il Signore Dio dell'universo … ", anche lei si mise a mormorare meccanicamente: " Santo, santo, santo … ". In quel momento ho pensato a Maria ai piedi della croce. Ma a Maria fu chiesto qualcosa di molto più difficile: di perdonare gli uccisori del Figlio. Quando sentì il Figlio che diceva: " Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno " ( Lc 23,34 ), Maria comprese subito che cosa il Padre celeste si aspettava anche da lei: che dicesse anche lei, nel suo cuore, le stesse parole: " Padre, perdonali … ". E le disse, perdonò. Il concilio Vaticano II così parla di Maria ai piedi della croce. " Anche la Beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio sino alla croce. Qui, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente con il suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all'immolazione della vittima da lei stessa generata ". Consentire all'immolazione della vittima da lei generata fu come immolare se stessa. Stando " ritta " in piedi presso la croce, il capo di Maria era all'altezza del capo del Figlio reclinato. I loro sguardi si incontravano. Quando le disse " Donna, ecco tuo figlio ", Gesù guardava verso di lei e per questo non sentì il bisogno di chiamarla per nome, per individuarla tra le altre donne. Chi potrà penetrare il mistero di quello sguardo tra madre e Figlio in un'ora simile? Una gioia tremendamente sofferente passava dall'uno all'altra, come l'acqua tra vasi comunicanti, e la gioia derivava dal fatto che ormai non facevano più alcuna resistenza al dolore, erano senza più difese di fronte alla sofferenza, se ne lasciavano liberamente inondare. Alla lotta era subentrata la pace. Erano diventati una cosa sola con il dolore e il peccato di tutto il mondo. Gesù in prima persona, come " vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo " ( 1 Gv 2,2 ), Maria indirettamente, per la sua unione carnale e spirituale con il Figlio. L'ultima cosa che Gesù fece sulla croce, prima di addentrarsi nel buio dell'agonia e della morte, fu di adorare amorosamente la volontà del Padre. Maria lo seguì anche in questo: anche lei si mise ad adorare la volontà del Padre prima che una tremenda solitudine scendesse nel suo cuore e si facesse buio dentro di lei, come si fece buio " su tutta la faccia della terra " ( Mt 27,45 ). E quella solitudine e quella adorazione rimasero fisse lì, al centro della sua vita, fino alla morte, finché non giunse anche per lei l'ora della risurrezione. Un salmo che la liturgia applica a Maria dice: " Tutti là sono nati … Si dirà di Sion: "L'uno e l'altro è nato in essa …". Si scriverà nel libro dei popoli: "Là costui è nato" " ( Sal 87,2ss ). È vero: tutti là siamo nati; si dirà di Maria, la nuova Sion: l'uno e l'altro è nato in essa. Nel libro di Dio è scritto, di me, di te, di ognuno, anche di chi non lo sa ancora: " Là costui è nato! ". Ma non siamo stati rigenerati dalla " parola di Dio viva ed eterna " ( 1 Pt 1,23 )? Non siamo " nati da Dio " ( Gv 1,13 ), rinati "dall'acqua e dallo Spirito" ( Gv 3,5 )? È verissimo, ma ciò non toglie che, in senso diverso, siamo nati anche dalla fede e dalla sofferenza di Maria. Se Paolo, che è un servo di Cristo, può dire ai suoi fedeli: " Sono io che vi ho generato in Cristo, mediante il Vangelo " ( 1 Cor 4,15 ), quanto più può dirlo Maria, che ne è la madre? Chi, più di lei, può fare sue quelle parole dell'Apostolo: " Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore " ( Gal 4,19 ). Ella ci partorisce "di nuovo" in questo momento, perché ci ha già partorito, una prima volta, nell'incarnazione, quando ha dato al mondo proprio la " Parola di Dio viva ed eterna" che è Cristo, nella quale rinasciamo. Un confronto ci aiuta a capire il significato della presenza di Maria sotto la croce: quello con Abramo. Questo paragone è suggerito dallo stesso angelo Gabriele nell'Annunciazione, quando dice a Maria le stesse parole che furono dette ad Abramo: " Nulla è impossibile a Dio ". ( Gen 18,14; Lc 1,37 ) Ma esso emerge soprattutto dai fatti. Dio promise ad Abramo che avrebbe avuto un figlio, pur essendo egli fuori dell'età e sua moglie sterile. E Abramo credette. Anche a Maria, Dio annuncia che avrà un figlio, nonostante che ella non conosca uomo. E Maria credette. Ma ecco che Dio viene di nuovo nella vita di Abramo per chiedergli, questa volta, di immolargli proprio quel figlio che egli stesso gli aveva dato e del quale aveva detto: " In Isacco avrai una discendenza ". Abramo, anche questa volta, obbedì. Anche nella vita di Maria, Dio venne una seconda volta, chiedendole di consentire, e anzi assistere, all'immolazione del Figlio, del quale era stato detto che avrebbe regnato per sempre e che sarebbe stato grande. E Maria obbedì. Abramo salì con Isacco sul monte Moria e Maria salì dietro Gesù sul monte Calvario. Ma a Maria fu chiesto molto di più che ad Abramo. Con Abramo Dio si fermò all'ultimo momento ed egli riebbe il figlio vivo. Con Maria no. Ella dovette varcare anche quella linea estrema, senza ritorno, che è la morte. Riebbe il Figlio, ma solo dopo che venne deposto dalla croce. Poiché camminava anch'ella nella fede e non in visione, Maria ha sperato che da un momento all'altro il corso degli eventi cambiasse, che venisse riconosciuta l'innocenza del suo Figlio. Ha sperato davanti a Pilato, ma nulla. Ha sperato lungo il cammino verso il Calvario, ma nulla. Dio andava avanti. Ha sperato fin sotto la croce, fin prima che venisse battuto il primo chiodo. Non poteva essere. Non le era stato forse assicurato che quel Figlio sarebbe salito sul trono di David e che avrebbe regnato per sempre sulla casa di Giacobbe? Era dunque quello lì il trono di David, la croce? Maria sì che " ha sperato contro ogni speranza " ( Rm 4,18 ); ha sperato in Dio, anche quando vedeva sparire l'ultima ragione umana di sperare. Ma ora traiamo da questo paragone la necessaria conseguenza. Se Abramo, per quello che ha fatto, ha meritato di essere chiamato " padre di tutti noi " ( Rm 4,17 ) e " nostro padre nella fede " ( Canone romano ), esiteremo noi a chiamare Maria " madre di tutti noi " e " nostra madre nella fede ", o " madre della Chiesa "? Ad Abramo Dio disse: " Perché hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza … Padre di una moltitudine di popoli ti renderò ". ( Gen 17,5; Gen 22,16 ) Lo stesso, ma con molta maggiore forza, egli dice ora a Maria: " Poiché hai fatto questo e non mi hai rifiutato il tuo Figlio, il tuo unico Figlio, io ti benedirò con ogni benedizione. Madre di una moltitudine di popoli ti renderò! ". Se è comune a tutti i credenti, di tutte le confessioni cristiane, la convinzione che Abramo non è stato costituito soltanto " esempio e patrono, ma anche causa di benedizione " ( come si esprime Calvino, nel commentare Gen 12,3 ), che " ad Abramo viene riservato, nel piano salvifico di Dio, il ruolo di mediatore di benedizione per tutte le generazioni " ( G. von Rad ), perché non dovrebbe essere accolta e condivisa con gioia da tutti i cristiani la convinzione che, a maggior ragione, Maria è stata costituita da Dio causa e mediatrice di benedizione per tutte le generazioni? Non solo, insisto, esempio, ma anche " causa di salvezza ", come la chiama, appunto, sant'Ireneo? Perché non dovrebbe essere condivisa la convinzione che non solo a Giovanni, ma a tutti i discepoli è rivolta la parola di Cristo morente: " Figlio, ecco tua madre "? Maria - dice il Concilio - sotto la croce, è diventata per noi " madre nell'ordine della grazia ". Perciò, come gli israeliti, nei momenti di prova, si rivolgevano a Dio dicendo: " Ricordati di Abramo, nostro padre! ", noi possiamo rivolgerci ora a lui, dicendo: " Ricordati di Maria, nostra madre! ", e come essi dicevano a Dio: " Non ritirare da noi la tua misericordia, per amore di Abramo, tuo amico " ( Dn 3,35 ), noi possiamo dirgli: " Non ritirare da noi la tua misericordia, per amore di Maria, tua amica! ". Viene un'ora nella vita in cui ci occorre una fede e una speranza come quelle di Maria. È quando Dio sembra non ascoltare più le nostre preghiere, quando si direbbe che smentisce se stesso e le promesse, quando ci fa passare di sconfitta in sconfitta, quando ci coinvolge nella sua stessa sconfitta e le potenze delle tenebre sembrano trionfare su tutti i fronti; quando, come dice un salmo, egli sembra " aver chiuso nell'ira il suo cuore e aver dimenticato la misericordia " ( Sal 77,10 ). Quando arriva per te quest'ora, ricordati della fede di Maria e grida: " Padre mio, non ti comprendo più, ma mi fido di te! ". Forse Dio sta chiedendo proprio ora a qualcuno di sacrificargli, come Abramo, il suo "Isacco", cioè la persona, o la cosa, o il progetto, o la fondazione, o l'ufficio che gli è caro, che Dio stesso un giorno gli ha affidato, e per il quale ha lavorato tutta la vita … Questa è l'occasione che Dio ti offre per mostrargli che egli ti è più caro di tutto, anche dei suoi doni, anche del lavoro che fai per lui. Dio mise alla prova Maria sul Calvario " per vedere quello che aveva nel cuore" e nel cuore di Maria ritrovò intatto e anzi più forte che mai il " sì " e l'" eccomi! " del giorno dell'Annunciazione. Possa egli, in questi momenti, trovare anche il nostro cuore pronto a dirgli " sì " e " eccomi! ". Maria, ho detto, sul Calvario si unì al Figlio nell'adorare la santa volontà del Padre. In ciò ella ha realizzato, fino alla perfezione, la sua vocazione di figura della Chiesa. Ella è ora lì che ci aspetta. Di Cristo è stato detto che " è in agonia fino alla fine del mondo e non bisogna lasciarlo solo in questo tempo " ( B. Pascal ). E se Cristo è in agonia e sulla croce fino alla fine del mondo, in modo per noi incomprensibile ma vero, dove mai può essere Maria, in questo tempo, se non con lui, " presso la croce "? Lì ella invita e da appuntamento alle anime generose, perché si uniscano a lei nell'adorare la santa volontà del Padre. Adorarla anche senza capirla. Non bisogna lasciarla sola in questo tempo. Maria sa che questa è la cosa in assoluto più grande, più bella, più degna di Dio che possiamo fare nella vita, almeno una volta prima di morire. È scritto che quando Giuditta tornò dai suoi, dopo aver messo a repentaglio la propria vita per il suo popolo, gli abitanti della città le corsero incontro e il Sommo Sacerdote la benedisse dicendo: " Benedetta tu, figlia, davanti a Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra … Il coraggio che hai avuto non cadrà dal cuore degli uomini " ( Gdt 13,18s ). Le stesse parole noi rivolgiamo in questo giorno a Maria: Benedetta tu fra le donne! Il coraggio che hai avuto non cadrà mai dal cuore e dal ricordo della Chiesa! " Umiliò se stesso " Nell'anno 630 d.C., l'imperatore di Bisanzio, Eraclio, avendo sconfitto il re persiano Cosroe, recuperò le reliquie della Santa Croce che questi aveva portato via da Gerusalemme, quattordici anni prima. Quando si trattò di ricollocare la preziosa reliquia nella basilica eretta da Costantino sul Calvario, avvenne un fatto singolare che la liturgia ricorda con la festa dell'esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre. " Eraclio - si leggeva un tempo nell'ufficio di tale festa - tutto ricoperto di ornamenti d'oro e di pietre preziose, fece per attraversare la porta che conduceva al Calvario, ma non vi riusciva. Più si sforzava di avanzare, più si sentiva come inchiodato sul posto. Stupore generale. Il vescovo Zaccaria, allora, fece notare all'imperatore che forse quella tenuta da trionfo non si addiceva all'umiltà con cui Gesù Cristo aveva varcato quella soglia portando la croce. Immediatamente l'imperatore si spoglia dei suoi abiti lussuosi e, a piedi nudi, vestito come un uomo qualsiasi, fa senza difficoltà il resto della strada e giunge al luogo dove doveva essere riposta la croce ". Da questo episodio deriva, remotamente, il rito del Papa che tra poco, svestito dei paramenti e a piedi scalzi, si reca a baciare la croce. Ma il fatto ha anche un significato spirituale e simbolico che riguarda tutti noi qui presenti, anche chi non si reca scalzo a baciare la croce. Dice che non è possibile accostarsi al CrocifIsso, se prima non ci spogliamo di tutte le nostre pretese di grandezze, i nostri titoli; in una parola del nostro orgoglio e della nostra vanità. Semplicemente non è possibile; ne saremo invisibilmente respinti. È quello che vogliamo fare in questa liturgia. Due cose semplicissime: prima, gettare ai piedi del Crocifisso tutto il carico di orgoglio del mondo e nostro personale; secondo, rivestirci dell'umiltà di Cristo e con essa tornare a casa " giustificati ", come il pubblicano dal tempio ( Lc 18,14 ), cioè perdonati, rinnovati. Nel profeta Isaia leggiamo queste parole di Dio: " Sarà piegato l'orgoglio dell'uomo, sarà abbassata l'alterigia umana, sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno " ( Is 2,17 ). " Quel giorno " è il giorno del compimento messianico, il giorno in cui il Cristo dalla croce proclama che " tutto è compiuto " ( Gv 19,30 ). Quel giorno, insomma, è questo giorno! E come ha piegato, Dio, l'orgoglio degli uomini? Spaventandoli? Mostrando loro la sua tremenda grandezza e potenza? Annientandoli? No, l'ha piegato annientandosi: " Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma annientò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso " ( Fil 2,6-8 ). Humiliavit semetipsum: ha umiliato se stesso, non gli uomini! Ha piegato l'orgoglio e l'alterigia umana dall'interno, non dall'esterno. E quanto si è umiliato! Non ci inganni lo splendore di questo luogo, della liturgia, dei canti, tutto l'onore di cui è circondata oggi la croce. Ci fu un tempo in cui la croce non era nulla di tutto questo, ma solo infamia. Una cosa da tenere lontana non solo dagli occhi, ma perfino dalle orecchie dei cittadini romani. Come era stato predetto, così morì: " senza apparenza, né bellezza, disprezzato, reietto dagli uomini, uno davanti al quale ci si copre la faccia, giudicato da tutti castigato, percosso da Dio, umiliato " ( Is 53,2-4 ). Una sola persona al mondo sa davvero cos'è la croce, all'infuori di Gesù: Maria, sua madre. Ella ha portato con lui " l'obbrobrio della croce " ( Eb 13,13 ). Gli altri, compreso san Paolo, hanno conosciuto la " potenza della croce " ( 1 Cor 1,18 ), ella ne ha conosciuto anche la debolezza; gli altri hanno conosciuto la teologia della croce, lei la realtà della croce. La croce è la tomba in cui si inabissa ogni orgoglio umano. A esso Dio dice, come al mare: " Fin qui giungerai e non oltre e qui s'infrangerà l'orgoglio delle tue onde " ( Gb 38,11 ). Sulla roccia del Calvario vanno a infrangersi tutti i flutti dell'orgoglio umano, e non possono passare oltre. Troppo alto è il muro che Dio ha eretto contro di esso, troppo profondo l'abisso che gli ha scavato dinanzi. " Il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato " ( Rm 6,6 ). Il corpo dell'orgoglio, poiché questo è il peccato per eccellenza, il peccato che c'è dietro ogni peccato. " Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce " ( 1 Pt 2,24 ). Portò il nostro orgoglio nel suo corpo. Dov'è la parte che ci riguarda in tutto ciò? Dov'è il "vangelo", cioè la buona e lieta notizia? È che Gesù si è umiliato anche per me, in vece mia. " Uno è morto per tutti, e quindi tutti sono morti " ( 2 Cor 5,14 ): uno si è umiliato per tutti, quindi tutti si sono umiliati. Sulla croce Gesù è il nuovo Adamo che obbedisce per tutti. È il capostipite, l'inizio di un'umanità nuova. Agisce in nome di tutti e a beneficio di tutti. Come " per l'obbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti giusti " ( Rm 5,19 ), così per l'umiltà di uno solo tutti sono stati costituiti umili. La superbia, come la disobbedienza, non ci appartiene più. È roba del vecchio Adamo. È vetustà, è morte. La novità è ora l'umiltà. Essa è piena di speranza, perché dischiude la nuova esistenza, basata sul dono, sull'amore, sulla solidarietà e non più sulla competitività, sull'arrivismo e sulla sopraffazione reciproca. " Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove " ( 2 Cor 5,17 ). Una di queste meravigliose cose nuove è l'umiltà. Cosa significa, allora, celebrare il mistero della croce, " in spirito e verità "? Cosa significa, applicata ai riti che stiamo celebrando, l'antica massima: " Riconoscete ciò che fate, imitate ciò che celebrate - Agnoscite quod agitis, imitarnini quod tractatis "? Significa: realizzate dentro di voi quello che rappresentate all'esterno; compite ciò che commemorate! Bisogna che questa sera io consegni a Cristo " il corpo del mio orgoglio ", perché egli lo possa distruggere di fatto, come lo distrusse una volta per sempre, di diritto, sulla croce. Quando ero ragazzo, alla vigilia di certe solennità, c'era l'usanza, nella mia terra, di accendere nelle campagne, al calar della notte, dei grandi falò che si vedevano da una collina all'altra e ogni famiglia portava la sua parte di legna o di sarmenti per alimentare il fuoco, mentre attorno a esso si pregava e si recitava il rosario. Qualcosa del genere deve avvenire, spiritualmente, questa sera, in preparazione alla grande solennità di Pasqua. Ognuno dovrebbe venire, in spirito, a gettare nella grande fornace della passione di Cristo il suo carico di orgoglio, di vanità, di autosufficienza, di presunzione, di alterigia. Dobbiamo imitare quello che fanno gli eletti in cielo, nella loro liturgia di adorazione dell'Agnello, sulla quale è modellata la nostra qui sulla terra. Essi - dice l'Apocalisse - avanzano in processione e, giunti davanti a Colui che siede sul trono, si prostrano e " gettano le loro corone davanti al trono " ( Ap 4,10 ). Essi, le corone vere del loro martirio; noi, le false corone che ci siamo messi sul capo da soli. Dobbiamo " configgere alla croce tutti i moti della superbia ".2 Non dobbiamo avere paura di deprimerci, di abdicare alla nostra dignità di uomini, o di cadere, così, in stati d'animo morbosi. Qualcuno, all'inizio del nostro secolo, ha attaccato il cristianesimo, accusandolo di aver introdotto nel mondo quello che per lui era " il morbo " dell'umiltà ( E Nietzsche ). Ma ora è la stessa filosofia a dirci che esistenza umana " autentica " è solo quella che riconosce la propria radicale " nullità ". La superbia è una via che porta alla disperazione, perché significa non accettarsi per quello che si è, ma voler disperatamente essere ciò che, nonostante tutti gli sforzi, non si potrà mai essere, cioè indipendenti, autonomi, senza alcuno al di sopra di sé, a cui dover dire grazie per ciò che si è. La moderna psicologia del profondo è giunta, per altra via, alla stessa conclusione. Uno dei suoi massimi cultori, C.G. Jung, ha notato una cosa sorprendente. Tutti i pazienti di una certa età che si erano rivolti a lui soffrivano, dice, di qualcosa che si poteva definire assenza di umiltà, e non guarivano finché non acquistavano un atteggiamento di rispetto e di umiltà nei confronti di una realtà più grande di loro, cioè un atteggiamento religioso. L'orgoglio è una maschera che ci impedisce di essere veri uomini, prima ancora che credenti. È umano essere umili! Le parole homo e humilitas derivano entrambe da humus, che vuol dire terra, suolo. Tutto ciò che nell'uomo non è umiltà, è menzogna. " Se uno pensa di essere qualcosa, mentre è nulla, inganna se stesso " ( Gal 6,3 ). Appena decidiamo di disfarci dell'orgoglio, ci accorgiamo, con spavento, di quanto esso ci pervada dentro e fuori, di quanto siamo impastati di orgoglio. Si dice che oltre il settanta per cento del corpo umano sia costituito di acqua, ma, forse, ancor più del settanta per cento dello spirito umano è costituito di orgoglio. L'aria stessa che respiriamo è attraversata, a tutte le frequenze, da onde che trasportano parole e messaggi carichi di orgoglio. C'è perfino chi crede di poter andare "oltre" Gesù Cristo e dichiara aperta una nuova era, " a New Age ", fondata non già sull'incarnazione, ma su una costellazione, l'Acquario; non già sulla congiunzione della divinità con l'umanità, ma sulla congiunzione dei pianeti. Si fondano ogni anno nuove religioni e nuove sette e si annunciano nuove vie di salvezza, come se quella rivelata da Dio, fondata su Cristo, non bastasse più agli uomini divenuti saggi e adulti; come se fosse troppo umile. E cos'è tutto questo se non orgoglio e presunzione? " O stolti Galati - diceva san Paolo - chi vi ha ammaliati, proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? " ( Gal 3,1 ). O stolti cristiani, chi vi ha ammaliati, da farvi passare così presto a un nuovo vangelo? Tutti smaniamo per farci notare. Se potessimo rappresentarci visivamente l'intera umanità, così come essa appare agli occhi di Dio, vedremmo lo spettacolo di una folla immensa di gente che si leva sulla punta dei piedi, che cerca di innalzarsi uno al di sopra dell'altro, schiacciando magari chi gli è accanto, e tutti che gridano: " Ci sono anch'io, ci sono anch'io nel mondo! ". Fumo, vanità? Certo tutta questa superbia è fumo che la morte, come il vento, ogni giorno disperde. " Vanità di vanità ", la chiama il Qoelet. Non un grammo di essa varcherà la soglia dell'eternità con noi e, se la varcherà, sarà per trasformarsi subito in capo d'accusa e di tormento. Ma i suoi effetti sono ugualmente terribili. Essa somiglia al fungo atomico che si leva minaccioso contro il cielo, come un pugno chiuso, ma che ricade poi sulla terra, seminando distruzione e morte all'intorno. Quanta parte delle guerre passate e presenti ( compresa quella in atto tra opposte fazioni di cristiani in un martoriato paese ) non dipende dall'orgoglio? La sofferenza dei poveri non dipende anch'essa, in buona parte, dall'orgoglio di certi capi che vogliono essere potenti, sicuri sul trono, avere perciò l'esercito più forte, le armi più terribili, e impegnano per esse le risorse che dovrebbero servire a migliorare le condizioni di vita, a volte spaventose, della loro gente? Ma anche a livello di convivenza umana quotidiana, nelle famiglie e nelle istituzioni, quanta sofferenza ci provochiamo a vicenda con il nostro orgoglio, quante lacrime causate da esso! Ma non ci dobbiamo fermare qui. Se ci fermiamo a denunciare questo orgoglio collettivo, non abbiamo fatto ancora quasi niente. Può essere anzi orgoglio che si aggiunge ad altro orgoglio. La processione che dobbiamo fare questa sera non è tanto verso l'esterno, quanto verso l'interno. Dobbiamo lacerarci il cuore, non le vesti ( Gl 2,13 ). È lì, nel mio cuore, che si annida il vero orgoglio, l'unico che io possa distruggere con la mia volontà, perché l'unico prodotto dalla mia volontà. Impresa difficile quant'altra mai! Il pescatore di perle dei mari del sud, che tenta di raggiungere il fondo del mare, sperimenta la tremenda resistenza dell'acqua che lo spinge in su, con una forza pari e contraria al suo volume. Sperimenta, senza saperlo, il principio di Archimede. Chi cerca di immergersi al di sotto dello specchio d'acqua tranquillo delle proprie illusioni, di umiliarsi e di conoscersi per quello che è in verità, sperimenta la spinta, ancora più potente, dell'orgoglio che lo spinge a elevarsi, a emergere, a rimanere in superficie. Anche noi siamo in cerca di una perla preziosa, la più preziosa che ci sia per Dio. Essa si chiama un cuore " contrito e umiliato ". Come si fa ad avere un cuore contrito e umiliato? Chiediamo anzitutto l'aiuto dello Spirito Santo; abbandoniamo le difese e le resistenze. Guardiamoci adesso, per un momento, se ci riusciamo, nello specchio della nostra coscienza. Soli davanti a Dio. Quanto orgoglio, quanta vanità e autocompiacenza, quanta falsa umiltà e ipocrisia; in quella circostanza, in quell'altra, in quel mio atteggiamento, in quell'altro. Forse, ahimè, in questo stesso momento. Quanto "io", "io", "io". " Arrossisci superba cenere - erubesce superbe cinis: Dio si umilia e tu ti esalti? ", diceva a se stesso san Bernardo e sant'Agostino, prima di lui: " Il tuo Signore umile e tu superbo? Il Capo umile e un membro superbo? ". I cieli e la terra sono pieni della gloria di Dio; solo il cuore dell'uomo fa eccezione, perché è pieno della propria gloria, non di quella di Dio. Così preoccupato di sé, da far servire alla propria gloria anche le cose fatte per Dio. Anche Dio! Eppure " cos'hai che non hai ricevuto? " ( 1 Cor 4,7 ). Per avere il cuore contrito e umiliato, bisogna fare una volta l'esperienza di chi è colto in flagrante, come quella donna del Vangelo, colta in flagrante adulterio che se ne stava lì, zitta e a occhi bassi, aspettando la sua sentenza ( Gv 8,3ss ). Noi siamo ladri della gloria di Dio colti in flagrante. Se ora, anziché fuggire altrove con il pensiero o irritarci dicendo tra noi: " Questo discorso è duro e chi lo può sopportare? " ( Gv 6,60 ), abbassiamo gli occhi, ci battiamo il petto e diciamo dal profondo del cuore, come il pubblicano: " O Dio, abbi pietà di me peccatore! " ( Lc 18,13 ), allora comincerà a operarsi anche in noi il miracolo del cuore contrito e umiliato. Anche noi, come quella donna, anziché la condanna, sperimenteremo la gioia del perdono. Avremo il cuore nuovo. Le folle che assistettero alla morte di Cristo, " se ne tornarono a casa percuotendosi il petto " ( Lc 23,48 ). Come sarebbe bello se potessimo imitarle! Come sarebbe bello, se si ripetesse, anche qui tra noi, lo spettacolo di quelle tremila persone che, il giorno di Pentecoste, si sentirono " trafiggere il cuore " al pensiero di aver crocifisso Gesù di Nazaret e dissero a Pietro e agli altri apostoli: " Che dobbiamo fare, fratelli? " ( At 2,37 ). Questo sarebbe davvero " imitare ciò che celebriamo ". Un cuore affranto e umiliato " è sacrificio a Dio " ( Sal 51,19 ). Oggi la Chiesa non celebra il sacrificio della Messa, perché il sacrificio di questo giorno dev'essere il nostro cuore contrito e umiliato. " Il cielo è il mio trono, dice Dio, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora? Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie - oracolo del Signore. Su chi volgerò lo sguardo? Sull'umile e su chi ha lo spirito contrito! " ( Is 66,1-2 ). Il cuore umiliato è il paradiso di Dio sulla terra, la casa in cui ama prendere dimora e rivelare i suoi segreti. Tutti gli avvenimenti esterni, per quanto grandiosi, compresi quelli che abbiamo vissuto di recente o che stiamo vivendo con il crollo dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est, restano ambigui, senza che nessuno possa sapere, in anticipo, se di essi ci si dovrà, un giorno, rallegrare o rammaricare. Ma un cuore d'uomo che si umilia e si converte, no. Esso è, per Dio, ciò che di più importante possa accadere sulla faccia della terra, una novità assoluta. Ora che abbiamo deposto, almeno con il desiderio, tutto il nostro orgoglio ai piedi della croce, ci resta da fare brevemente la seconda cosa: rivestirci dell'umiltà di Cristo. " Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero: confiderà nel Signore il resto d'Israele " ( Sof 3,12s ). Cristo ha dato inizio sulla croce a questo popolo umile e povero che confida nel Signore; noi dobbiamo entrare ora a farne parte anche di fatto, come, per il battesimo, siamo già entrati a farne parte di diritto. Gesù dice nel Vangelo: " Imparate da me che sono mite e umile di cuore " ( Mt 11,29 ). Che cosa ha fatto mai Gesù, per dirsi umile? Ha forse sentito bassamente di sé, o parlato bassamente di sé? Al contrario, egli si è proclamato " Maestro e Signore ", uno che è dappiù di Giona, di Salomone, di Abramo, di tutti. Che cosa ha dunque fatto? " Ha preso la forma di servo " ( Fil 2,7 ). Non si è considerato piccolo, non si è dichiarato piccolo, ma si è fatto piccolo e piccolo per servirci. Si è fatto, lui per primo, " il più piccolo di tutti e il servo di tutti " ( Mc 9,35 ). Cristo non ha temuto di compromettere la sua dignità divina, abbassandosi fino ad apparire un uomo come gli altri. L'umiltà di Cristo, oltre che di servizio, è fatta di obbedienza: " Si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte " ( Fil 2,8 ). Umiltà e obbedienza appaiono qui quasi la stessa cosa. Gesù sulla croce è umile perché non oppone alcuna resistenza alla volontà del Padre. Ha " restituito a Dio il suo potere ", ha compiuto il grande " mistero della pietà ". L'orgoglio si spezza con la sottomissione e l'obbedienza a Dio e alle autorità costituite da Dio. C'è qualcuno che nella vita ha solo e sempre discusso con Dio, come se si trattasse di un suo pari. Ha finito per autoconvincersi di poter tenere in scacco anche Dio, perché ha tenuto in scacco gli uomini e i superiori. Non si è mai veramente piegato e sottomesso a Lui. Lo faccia, prima di morire, se vuole trovare finalmente la pace dell'anima. Ricordi ciò che è scritto: " È terribile cadere nelle mani del Dio vivente! " ( Eb 10,31 ). Cadervi, s'intende, da impenitenti. Sulla croce, Gesù non ha solo rivelato, o solo esercitato, l'umiltà; l'ha anche creata. L'umiltà vera, l'umiltà cristiana, consiste ormai nel partecipare allo stato inferiore di Cristo sulla croce. " Abbiate in voi - dice l'Apostolo - gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù " ( Fil 2,5 ); gli stessi, non altri simili. Fuori di questo, si possono facilmente scambiare per umiltà tante cose che sono invece o una dote naturale, o timidezza, o gusto dell'understatement, o semplice buon senso e intelligenza, quando non sono una forma raffinata di orgoglio. Rivestiti dell'umiltà di Cristo, sarà più facile, tra le altre cose, lavorare per l'unità dei cristiani, perché unità e pace sono il naturale corteo dell'umiltà. Lo sono anche in seno alla famiglia. Il matrimonio nasce da un atto di umiltà. Il giovane che si innamora e che, in ginocchio, come si usava una volta, chiede la mano della ragazza, fa il più radicale atto di umiltà della sua vita. Si fa mendicante, ed è come se dicesse: " Dammi il tuo essere, che il mio non mi basta. Io non basto a me stesso! ". Si direbbe che Dio abbia creato l'uomo maschio e femmina, perché imparassero a essere umili, a uscire da se stessi, a non essere alteri e autosufficienti, e perché scoprissero la beatitudine che c'è nel dipendere da qualcuno che ti ama. Ha inscritto l'umiltà nella nostra stessa carne. Ma, ahimè, quante volte l'orgoglio riprende, in seguito, il sopravvento e fa scontare all'altro l'iniziale bisogno che si è avuto di lui o di lei! Tra l'uomo e la donna si erge allora il terribile muro dell'orgoglio e della incomunicabilità che spegne ogni gioia. Anche ai coniugi cristiani è rivolto, questa sera, l'invito a deporre ai piedi della croce ogni risentimento, a riconciliarsi tra loro, gettandosi, se possibile, le braccia al collo, l'uno dell'altro, per amore di Cristo che in questo giorno, sulla croce, " ha distrutto in se stesso l'inimicizia " ( Ef 2,16 ). Il " popolo umile " era rappresentato, sotto la croce, da Maria, colei che un testo del concilio Vaticano II chiama " la prima di quegli umili e di quei poveri del Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza ". A lei rivolgiamo, dunque, la nostra preghiera: " O Maria, primizia del popolo umile e del resto d'Israele, serva sofferente accanto al Servo sofferente, nuova Eva obbediente accanto al nuovo Adamo, ottienici da Gesù, con la tua intercessione, la grazia di essere umili. Insegnaci a "umiliarci sotto la potente mano di Dio", come ti sei umiliata tu. Così sia! ". " E Gesù, emesso un alto grido, spirò " Gli evangelisti Matteo e Marco descrivono così la morte di Cristo: " E Gesù, emesso un alto grido, spirò ". ( Mt 27,50; Mc 15,37 ) " Kraxas phonè megale " in greco, " Clamans voce magna ", in latino. C'è un grande mistero in questo grido di Gesù morente, che non possiamo lasciar cadere nel vuoto. Se esso fu emesso, è perché fosse raccolto; se è scritto nel Vangelo, è anch'esso vangelo. Tutto quello che, nella vita di Gesù, era rimasto di non detto e di non dicibile a parole, è racchiuso in quel grido. Con esso, Cristo svuotò il suo cuore di tutto ciò che l'aveva riempito in vita. È un grido che attraversa i secoli, più alto di tutte le grida umane: di guerra, di dolore, di gioia, di disperazione. Non è presunzione cercare di entrare nel mistero di quel grido e di scoprirne il contenuto. C'è una ragione oggettiva, dogmatica, che permette di farlo. Si chiama l'ispirazione biblica. " Tutta la Scrittura è divinamente ispirata " ( 2 Tm 3,16 ); " mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio " ( 2 Pt 1,21 ). C'è dunque qualcuno che conosce il segreto di quel grido: lo Spirito Santo che ha " ispirato " tutte le Scritture. Egli è solito spiegare in un luogo ciò che ha lasciato senza spiegazione in un altro; spiega con parole intelligibili ciò che altre volte dice " con gemiti inesprimibili " ( Rm 8,26 ). Egli è l'autore unico di tutta la Bibbia, al di sotto dell'avvicendarsi degli autori umani. " Chi conosce - dice l'Apostolo - i segreti dell'uomo, se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio, nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio " ( 1 Cor 2,11 ). Dunque, i segreti di Cristo, nessuno li conosce se non lo Spirito di Cristo che era in lui e che per tutta la vita gli era stato " compagno inseparabile in tutto ". Tutto Gesù fece " nello Spirito Santo ". Tutto il suo parlare, fu un parlare " nello Spirito Santo " ( Lc 4,18 ). Anche il suo gridare sulla croce fu un gridare " nello Spirito ", non un semplice urlo di morente. Ora " noi abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato " ( 1 Cor 2,12 ), anche ciò che ci ha donato con quel grido. Nella lettera ai Romani, l'Apostolo scrive: " L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato " ( Rm 5,5 ). Non avevo mai fatto caso a una cosa: san Paolo, con queste parole, non si riferisce all'amore di Dio in generale e in astratto, ma a un momento concreto di tale amore, a un evento storico preciso che passa subito, del resto, a illustrare: " Infatti - prosegue il testo -, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi " ( Rm 5,6 ). La congiunzione " infatti - gar " indica che si tratta di una spiegazione di ciò che precede; che si sta per dire qual è quel grande amore di Dio che lo Spirito Santo ha riversato nei nostri cuori. Ma ascoltiamo bene, per intero, ciò che lo Spirito stesso ci dice per bocca dell'Apostolo. Qui ci affacciamo, credo, sull'abisso da cui salì quel grido di Cristo morente. " Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori. Cristo è morto per noi … Quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio " ( Rm 5,6-10 ). Il grido di Gesù sulla croce è un grido di parto. Nasceva, in quel momento, un mondo nuovo. Veniva abbattuto il grande "diaframma" del peccato e si operava la riconciliazione. Fu dunque un grido di sofferenza e di amore insieme. " Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine " ( Gv 13,1 ). Li amò fino all'ultimo respiro! Di quale forza divina fosse carico quel grido di Cristo, lo comprendiamo da ciò che esso provocò subito in chi lo ascoltò dal vivo. È scritto che il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: " Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! " ( Mc 15,39 ). Divenne credente. Dobbiamo solo accogliere quel grido d'amore, lasciare che esso ci scuota fin nelle viscere, che ci cambi. Se no, i nostri Venerdì Santi passano invano. Appena Gesù ebbe emesso quell'alto grido, " il velo del tempio si squarciò da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono " ( Mt 27,51 ). Era per indicare ciò che dovrebbe avvenire nei nostri cuori. Dio non ce l'ha con le rocce. Sono altre " rocce " che devono spezzarsi; sono i " cuori di pietra " degli uomini che mai, mai, si sono commossi, mai hanno pianto, mai hanno riflettuto. Gesù sapeva bene che c'è una sola chiave che apre i cuori chiusi, e questa non è il rimprovero, non è il giudizio, non è la minaccia, non è la paura, non è la vergogna, non è niente. È solo l'amore. Ed è questa l'arma che egli ha usato con noi. " L'amore di Cristo ci stringe al pensiero che uno è morto per tutti " ( 2 Cor 5,14 ). La parola usata qui da san Paolo, synechei, significa, in senso circolare: ci stringe da tutte le parti, ci assedia, ci avvolge; oppure, in senso lineare: ci incalza, non ci dà tregua, " urget nos ", come traduceva la Volgata. Dobbiamo lasciarci afferrare da questo abbraccio. " Forte come la morte è l'amore; le sue vampe sono vampe di fuoco " ( Ct 8,6 ). Potessero queste vampe lambirci in questo giorno santo, lambire almeno qualcuno di noi e farlo decidere ad arrendersi finalmente all'amore di Dio! Quando si tratta di Dio, lasciarsi comprendere e afferrare, è più importante che comprendere. Queste cose sono rivelate ai piccoli, e sono tenute nascoste ai prudenti e ai saggi. Diamo dunque tempo al pensiero dell'amore di Cristo di avvolgerci e di penetrarci nell'intimo. Esponiamoci a questo amore, come alla luce di un sole estivo. Com'è questo amore del Redentore? La prima qualità è che è un amore dei nemici. " Quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati ". Gesù aveva detto che " non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici " ( Gv 15,13 ). Ma bisogna intendere bene che cosa vuoi dire qui la parola amici. Lui stesso dimostra che c'è un amore più grande ancora di questo, più grande che dare la vita per i propri amici, ed è dare la vita per i propri nemici. Allora che vuol dire, lì, amici? Non coloro che ti amano, ma coloro che tu ami. ( Amici ha il senso passivo di "amati", non il senso attivo di "amanti" ). Gesù chiamò Giuda amico ( Mt 26,50 ), non perché questi lo amasse ( lo stava tradendo ), ma perché lui lo amava. E che vuol dire qui, la parola nemici? Non coloro che tu odi, ma coloro che ti odiano. ( Nemici, al contrario, ha il senso attivo di "odianti", non quello passivo di "odiati"! ). Dio non odia nessuno, non considera alcuno, per parte sua, nemico. Buoni e cattivi siamo tutti ugualmente suoi figli. Questa è la cima più alta, l'Everest dell'amore. L'amore di cui non si può, davvero, pensare uno più grande al mondo. Morire per dei nemici, amare chi ti odia e ti vuoi distruggere e anzi ti sta distruggendo! " Padre perdonali! Padre perdonali ". E quei nemici eravamo noi. Noi peccatori, noi " empi ", noi che da Adamo abbiamo imparato quella terribile forma di amore che si chiama egoismo, l'" amore di sé che si spinge, se necessario, fino al disprezzo di Dio ". " Egli si è caricato delle nostre sofferenze … Dio ha fatto ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti … ed egli non aprì la sua bocca " ( Is 53,4.6-7 ). Quanto ci hai amato, o Redentore nostro, quanto ci hai amato! Non permettere che torniamo a casa per l'ennesima volta senza aver capito il mistero di questo giorno. Fa' che possiamo dirti anche noi con gioia e commozione: " Tu hai gridato, o Dio, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. E ora anelo a te ". Che il grido di Cristo morente squarci anche la nostra sordità! In un giorno come questo, tanti secoli orsono, una grande mistica stava meditando intensamente la passione di Cristo quando udì nell'anima queste parole divenute celebri: " Non ti ho amato per scherzo! " ( Beata Angela da Foligno ). La seconda qualità è che è un amore attuale. Non è un fuoco spento, non è cosa del passato, di duemila anni fa, di cui resta solo il ricordo. È in atto, è vivo. Se fosse necessario, egli morirebbe ancora per noi, perché l'amore che lo portò a morire perdura immutato. " Io ti sono più amico del tale e del tal'altro - ci dice il Cristo, con le parole che fece udire un giorno al credente B. Pascal - Io ho fatto per te più di loro, ed essi non soffrirebbero mai quel che ho sofferto da te, non morirebbero mai per te nel tempo della tua infedeltà e delle tue crudeltà, come io ho fatto e sono pronto a fare ancora per i miei eletti ". Gesù ha dato fondo ai segni del suo amore. Non c'è più nulla che possa fare per manifestare il suo amore, perché non c'è prova più grande che dare la vita. Ma ha esaurito i segni dell'amore, non l'amore. Il suo amore è affidato ora a un segno speciale, diverso, un segno che è una realtà, anzi una persona: lo Spirito Santo. " L'amore di Dio - quell'amore di Dio che ora conosciamo - è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo ". È dunque un amore vivo, attuale, palpitante, come è vivo, attuale e palpitante lo Spirito Santo. Là dove gli altri evangelisti avevano detto che Gesù " emesso un alto grido, spirò", Giovanni dice che " chinato il capo emise lo Spirito " ( Gv 19,30 ). Cioè, non solo spirò, ma donò lo Spirito, lo Spirito Santo, il suo Spirito. Ora conosciamo cosa c'era racchiuso in quell'alto grido che Gesù emise morendo. Il suo mistero è finalmente svelato! Terza qualità: l'amore del Redentore è un amore personale. Cristo è morto " per noi ", ci ha detto l'Apostolo. Se intendiamo quel " per noi " in senso solo collettivo, esso perde qualcosa della sua grandezza. La sproporzione numerica ristabilisce una certa qual proporzione di valore. È vero che Gesù è l'innocente e noi i colpevoli, che lui è Dio e noi uomini; ma dopo tutto egli è uno solo e noi siamo miliardi. Potrebbe sembrare meno esagerato che uno solo muoia per salvare la vita di miliardi di creature. Ma non è così. Morì " per noi " significa " per ciascuno di noi ". Va preso in senso distributivo, non solo collettivo. " Mi ha amato e ha dato se stesso per me ", dice altrove lo stesso Apostolo ( Gal 2,20 ). Egli non ha dunque amato la massa, ma gli individui, le persone. Egli è morto anche per me e devo concludere che sarebbe morto ugualmente, anche se non ci fossi stato che io da salvare sulla faccia della terra. Questa è certezza di fede. L'amore di Cristo è un amore infinito perché divino, non solo umano. ( Cristo è anche Dio, non lo dobbiamo dimenticare mai, neppure un istante! ). Ma l'infinito non si divide in parti. È tutto in tutti. Ci sono milioni di particole che vengono consacrate ogni giorno nella Chiesa. Ma ognuna di esse non contiene solo una particella del corpo di Cristo, ma tutto Cristo. Così è del suo amore. Ci sono miliardi di uomini, ma ognuno non riceve in sorte una particella dell'amore di Cristo, ma tutto intero tale amore. Tutto l'amore di Cristo è in me, e questo mi deve ispirare gioia. Ma tutto l'amore di Cristo è anche nel fratello, e questo mi deve ispirare rispetto per lui, stima e carità. Anch'io posso dire: " Mi ha amato e ha dato se stesso per me! ". Egli conosce le sue pecorelle per nome, le chiama " una a una " ( Gv 10,3 ). Nessuno è solo un numero per lui. Come suonano nuove e vere, poste sulle labbra di Cristo sulla croce, le parole di Dio che si leggono nel profeta Isaia: " Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni … Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo " ( Is 43,1.4 ). Tu sei degno di stima, perché io ti amo: tutto qui è al singolare. Come sono dolci queste parole per colui che si sente miserabile, indegno, abbandonato da tutti, se solo avrà il coraggio di credere a esse! " Chi ci separerà dall'amore di Cristo? ", esclama a questo punto l'Apostolo. La tribolazione? L'angoscia? La vita? La morte? No! Niente ci può separare " ( Rm 8,35-38 ). È questa la scoperta che può cambiare la vita di un uomo, la buona notizia che non dobbiamo mai stancarci di gridare agli uomini d'oggi. È questa la sola cosa certa e incrollabile al mondo: che Dio ci ama! Ho detto che il grido di Cristo sulla croce è un grido di partoriente. Ma questo è un parto singolare. Tempo fa, durante un soggiorno all'estero, venni a conoscenza di un caso commovente. Una giovane sposa era in attesa del suo primo figlio, quando le diagnosticarono un tumore. Sottoponendosi subito a chemioterapia, avrebbe potuto arrestare il tumore, ma fu avvertita che, ahimè!, quasi certamente avrebbe perso il bambino. Si trattava di scegliere. I parenti e l'opinione pubblica premevano perché salvasse la sua vita, dicendole che avrebbe potuto avere altri bambini in seguito. Ma lei fu irremovibile e rifiutò la cura. Era diventato un caso nazionale, di cui si occuparono a più riprese stampa e televisione, anche perché in quel paese si era in piena discussione sull'aborto. Per sottrarsi alla curiosità, ella lasciò il paese e si rifugiò nella terra di origine dei suoi genitori. Giunta lì, dopo alcuni giorni partorì una bella bambina e dopo una settimana morì. Mi sono chiesto: che cosa proverà, da grande, quella bambina, quando verrà a sapere? Tutto nella vita le sembrerà cosa da nulla, in confronto a ciò che ha fatto la mamma. Si incontrano, a volte, dei bambini, la cui mamma è morta nel darli alla luce. Hanno qualcosa di diverso; custodiscono come un mistero. Sembrano non sapere e non voler sapere nulla, ma in realtà sono attentissimi a cogliere ogni ricordo, ogni parola che si dice di lei. Per essi, le persone si distinguono da come parlano della loro mamma. Quella morte è iscritta nel loro stesso essere; sono nati da essa. Ebbene, siamo noi quella bambina; siamo noi queste creature nate da una morte! " Signore Gesù Cristo - dice il sacerdote nella Messa, prima di ricevere la comunione -, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l'opera dello Spirito Santo, morendo hai dato la vita al mondo … - per mortem tuoan mundum vivificasti … ". Il grido di Gesù sulla croce è il grido di uno che muore partorendo una vita. Questo modo "materno" di spiegare la redenzione ha un vantaggio; dice qualcosa di nuovo che integra e corregge, in parte, la visione "giuridica" che si basa sull'idea del prezzo del "riscatto". Nel caso della madre che muore per dare la vita, il nesso tra la sua morte e la vita del figlio non è estrinseco, ma intrinseco. Non risiede in un altro - il Padre - che, tenendo conto di quella morte, dà la vita; ma risiede nell'amore stesso di colui che dà la vita. La vita nasce davvero dalla morte. " Morendo, hai dato la vita al mondo ". Ma neppure questa spiegazione basta da sola, senza l'altra del "riscatto". Il figlio infatti, prima di nascere, non ha fatto nulla contro la madre, non è "nemico" ed "empio", come invece eravamo noi, prima che Cristo ci donasse la vita. Quale sarà la nostra risposta a questa rivelazione dell'amore di Cristo? Non affrettiamoci subito a formulare propositi e cercare di ripagare. Non ne saremmo capaci e non è, del resto, la cosa più importante da fare in questo giorno. C'è una cosa che dobbiamo fare prima di ogni altra, l'unica che attesta che abbiamo capito: commuoverci. Non disprezziamo la commozione. Quando viene dal cuore ed è genuina, essa è la risposta più eloquente e più degna che ci possa essere, davanti alla rivelazione di un grande amore o di un grande dolore. Nella commozione si sperimenta che non ci apparteniamo più. È un aprire l'intimo del proprio essere all'altro. Per questo si ha pudore di essa. Ma non si ha diritto di nascondere la propria commozione a colui che ne è l'oggetto. Essa gli appartiene, è sua, è lui che l'ha suscitata, è a lui che è destinata. Gesù non nascose la propria commozione alla vedova di Naim e alle sorelle di Lazzaro, anzi " scoppiò a piangere " ( Gv 11,35 ). E noi ci vergogneremo di mostrare la nostra commozione per lui? A che serve la commozione? È preziosa, perché è come l'aratura che rompe la dura crosta e permette così al seme di annidarsi in profondità nel terreno. La commozione è spesso l'inizio di una vera conversione e di una vita nuova. Abbiamo pianto mai noi - o almeno desiderato di piangere - per la passione di Cristo? Ci sono stati santi che si sono consumati gli occhi a forza di piangere per questo. " Io piango la passione del mio Signore ", rispondeva Francesco d'Assisi a chi gli chiedeva il motivo di tante lacrime. " Guarderanno - è scritto - a colui che hanno trafitto … Lo piangeranno come si piange un figlio primogenito " ( Zc 12,10; Gv 19,37 ) Questa non è solo una profezia, è anche un invito, un ordine di Dio. Basta versare lacrime su noi stessi, lacrime inquinate, di autocommiserazione. È tempo di altre lacrime. Lacrime belle, di stupore, di gioia, di gratitudine. Di commozione, prima ancora che di pentimento. È anche questo un " rinascere dall'acqua ". Quante volte, sentendo rievocare la passione, o accingendomi a farlo io stesso, mi sono ricordato di quel verso celebre di Dante e me lo sono ripetuto, pieno quasi di ira contro me stesso: " E se non piangi di che pianger suoli? ". La liturgia della Chiesa ci da l'esempio. A Pasqua essa si commuove. " O meravigliosa condiscendenza della tua bontà per noi! - esclama nell'Exsultet. O inestimabile tenerezza di carità … O felice colpa che ci hai procurato un tale e così grande Redentore! ". Ripetiamolo anche noi questa sera, dopo aver rievocato il grido di Cristo morente sulla croce: " O felice colpa che ci hai procurato un tale e così grande Redentore! ". " Dio non ha risparmiato il proprio figlio " La parola di Dio ha da farci un dono questa sera: un dono così grande che io già mi rattristo al pensiero che lo sciuperò e che, anzi, non potrò fare a meno di sciuparlo. Così voglio premunirmi, consegnandovi subito, per intero, questo dono. Voglio pronunciare il suo nome e metterlo al sicuro nel vostro cuore, prima che questa pienezza vada dispersa nel tentativo di tradurla in parole. Il Padre, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo! Come vorrei gridarlo con purezza e amore questo nome, dal quale " ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome " ( Ef 3,14 ). Solo Gesù è in grado di parlare del Padre. Quando Gesù parla del Padre gli occhi dei discepoli si spalancano, viene una grande nostalgia e Filippo esclama: " Mostraci il Padre e ci basta! " ( Gv 14,8 ). Ma perché parliamo del Padre oggi che è il giorno della morte di Cristo? San Paolo ha scritto: " Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi " ( Rm 5,8 ). E ancora: " Dio non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha dato per tutti noi " ( Rm 8,32 ). Questa è un'affermazione sorprendente. Per la ragione umana, il fatto che Gesù è morto sulla croce non dimostra l'amore del Padre, ma semmai la sua crudeltà, o almeno la sua inflessibile giustizia. E infatti la conoscenza del Padre è come sbarrata, anche nei credenti, da una selva di pregiudizi umani. Gesù avrebbe ragione di ripetere anche oggi: " Padre santo, il mondo non ti ha conosciuto! " ( Gv 17,25 ). La difficoltà di conciliare la bontà del Padre celeste con la morte di Cristo nasce da una duplice serie di fatti. Una serie è di ordine teologico. Di essa siamo responsabili, diciamolo pure, noi teologi e predicatori. Noi abbiamo dato talvolta, in passato, un'immagine del mistero della redenzione concepita più o meno in questi termini. L'uomo, peccando, ha accumulato un immenso debito con Dio e Dio esige che esso venga pagato. Si fa avanti Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, e paga l'immenso debito, versando il proprio sangue. Il Padre allora, " soddisfatto " ( parola pericolosa! ), " placato " ( altra parola pericolosa! ), perdona. Ma è chiaro che queste immagini così freddamente giuridiche, non potevano, a lungo andare, non generare, un senso di segreta ripulsa verso questo Padre che, dal cielo, aspetta impassibile che gli venga versato il prezzo che è il sangue del suo figlio. L'altra serie di difficoltà è invece di ordine culturale ed è tipicamente moderna. La psicologia ha avuto buon gioco nel mettere in luce tutte le deviazioni con cui la figura paterna è realizzata nell'ambito umano: mascolinismo, autoritarismo, paternalismo … Ci sarebbe nascosto nel cuore di ogni figlio - si dice - il segreto desiderio di uccidere il proprio padre. Questi sospetti, dal padre terreno, sono stati trasferiti anche al Padre celeste ed ecco che tutto un filone della cultura moderna ha creduto di dover sposare la causa di Gesù contro il Padre, fino a giungere alla cosiddetta " teologia della morte di Dio ". Finalmente - si direbbe - l'umanità ha realizzato il segreto desiderio di uccidere il Padre. La causa principale di tutto questo risentimento è il dolore umano, il fatto che l'uomo soffre e Dio no. Non possiamo accettare, si dice, un Dio che permette il dolore di tanti bambini innocenti. E se si prova a far osservare che anche Gesù ha sofferto, essi ribattono: " Proprio lui è il nostro argomento principale! Lui almeno è sicuro che era innocente. Perché ha dovuto soffrire? ". Si arriva così al colmo dell'aberrazione di mettere Gesù, proprio lui, contro il Padre, come una specie di prova a suo carico. Dobbiamo reagire, come reagirebbe un figlio amantissimo a cui è stato offeso il proprio genitore. Dobbiamo riscoprire il vero volto del Padre, quel volto silenzioso e velato, e non c'è occasione più bella del Venerdì Santo per farlo. San Paolo ci dice dunque che " Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi ". La liturgia della Chiesa, in una domenica dell'anno, accosta questo brano a quello di Genesi 22 ed è probabile che l'Apostolo stesso abbia inteso fare questo accostamento. Ora, di chi si parla in quel passo? Si parla di Abramo. Ad Abramo Dio dice: " Poiché tu hai fatto questo e non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione; in tE saranno benedette tutte le nazioni della terra ". Il vecchio Abramo che cammina silenzioso verso il monte Moria, dietro il figlio Isacco, era dunque figura e simbolo di un altro padre. Era simbolo di Dio Padre che accompagna Gesù nel suo viaggio verso il Calvario. Uscendo dal cenacolo, Gesù, rivolto ai discepoli, aveva detto: " Voi mi lascerete solo, ma io non sono solo perché il Padre è con me " ( Gv 16,32 ). Chi può descrivere i sentimenti di Abramo, mentre conduce il suo ragazzo al monte, per esservi immolato? Origene diceva che il momento di maggior pericolo per Abramo fu quando, cammin facendo, Isacco, ignaro di tutto, si rivolse al padre e disse: " Padre mio, ecco la legna per il sacrificio, ma la vittima dov'è? ". Non sapeva che la vittima era lui. Quelle parole " padre, padre mio ", scrive Origene, quelle sì che furono voce di tentazione per Abramo, e quale violenza dovette fare a se stesso per non tradirsi e tornare indietro! E quando anche Gesù nel Getsemani disse: " Padre mio, tutto è possibile a tE, allontana da me questo calice! " ( Mc 14,36 ), chi può dire che cosa si produsse nel cuore di Dio Padre? Abramo avrebbe certamente preferito mille volte morire lui, anziché far morire il figlio. Insieme, dunque, il Padre celeste e il Figlio suo Gesù, erano nella passione, insieme furono sulla croce. Più che ai bracci di legno della croce, Gesù era inchiodato alle braccia del Padre, cioè alla sua volontà. E come, nell'eternità, dall'abbraccio ineffabile e gaudioso del Padre e del Figlio procede lo Spirito Santo, dono reciproco d'amore, così ora, nel tempo, dall'abbraccio doloroso del Padre e del Figlio sulla croce è sgorgato lo Spirito Santo, dono del Padre e del Figlio per noi. Chinato il capo, Gesù " emise lo Spirito " ( Gv 19,30 ). Ma, viene da chiedersi, è lecito parlare così di Dio Padre? È lecito parlare di sofferenza in Dio? Dio non è immutabile, impassibile, eterno? I primi cristiani parlavano tranquillamente di "passioni" e di sofferenza in Dio. Dicevano: " Se il Figlio ha patito, il Padre ha compatito. Come avrebbe potuto il Figlio patire, senza che il Padre con-patisse? ". " Il Padre stesso, Dio dell'universo, lui che è pieno di longanimità, di misericordia e di pietà, non soffre forse, in qualche modo? O forse tu ignori che, quando si occupa delle cose umane, egli soffre una passione umana? Egli soffre una passione d'amore ". A scrivere queste ultime parole fu uno dei padri più gelosi delle prerogative di Dio e della sua trascendenza. La passione di Cristo è la manifestazione storica, e come una specie di epifania, di questa misteriosa passione del cuore di Dio. La stessa che gli faceva esclamare, nell'Antico Testamento, quelle parole che tra poco riascolteremo nel canto degli improperi: " Popolo mio, che male ti ho fatto? In che cosa ti ho contristato? Rispondimi " ( Mi 6,3 ). La risposta alla domanda " Perché Dio soffre? ", ce la da lui stesso in queste parole con cui inizia il libro del profeta Isaia: " Ho allevato e fatto crescere dei figli, ma essi mi si sono ribellati " ( Is 1,2 ). Certo la sofferenza di Dio è ben diversa dalla nostra, perché la nostra è sempre, in qualche misura, subita, costretta, mentre quella di Dio è sovranamente libera e non compromette la sua incorruttibilità e immutabilità. È " la passione dell'impassibile ", come la definiva un padre antico ( San Gregorio Taumaturgo ). Il Dio della Bibbia è amore e " non si vive in amore senza dolore ". Ben presto però sorse un'eresia che stravolse la dottrina della compassione di Dio. Essa negava ogni distinzione, in Dio, tra Padre e Figlio; negava, in altre parole, la Trinità. Padre e Figlio erano, per questi eretici, nomi diversi di una stessa persona. Furono perciò chiamati Patripassiani, cioè coloro che attribuiscono la passione al Padre. Era, questa, un'idea ben diversa da quella ortodossa, secondo cui il Padre, rimanendo Padre, cioè persona distinta, partecipa alla sofferenza del Figlio che rimane il Figlio. Per togliere ogni pretesto all'errore, si preferì non parlare più affatto della sofferenza di Dio, anche perché la nuova cultura in cui la Chiesa era chiamata ad annunciare il Vangelo, quella greca, non comprendeva un Dio che si appassiona e che entra in contatto con la storia. Da tempo qualcosa sta però cambiando, forse anche a seguito delle esperienze nuove e terribili conosciute dall'uomo in fatto di sofferenza. I più attenti tra i teologi hanno ricominciato a parlare, con la Bibbia e i Padri più antichi, della sofferenza di Dio. " Occorre - ha scritto, a questo proposito, uno di essi - che il mondo lo sappia: la rivelazione del Dio-amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito intorno alla divinità " ( H. De Lubac ). Nell'enciclica Dominum et vivificantem, di Giovanni Paolo II, si legge, in questo senso, che " nella umanità di Gesù redentore, si invera la sofferenza di Dio " ( n. 39 ). Ma chi è la causa ultima di questa sofferenza? Dobbiamo forse pensare, come certi filosofi greci, che esiste al di sopra di noi e dello stesso Dio, una Necessità, un Fato, al quale tutto e tutti sono sottomessi? Non sia mai! Dio è Dio, al di sopra di lui non c'è niente e nessuno. Dov'è allora la causa? Essa è racchiusa in due parole: l'amore di Dio e la libertà dell'uomo. I genitori umani che hanno dovuto soffrire per il traviamento e l'ingratitudine dei figli ( e ce ne sono tanti oggi ) sanno cosa significa essere disprezzati dai propri figli. Dio aveva concepito per l'uomo un meraviglioso disegno di grazia. Ma venne il peccato; l'uomo si sganciò da Dio, disse: " Non serviam - Non ti servirò! ". Abbandonarono tutti la casa paterna come altrettanti figli prodighi. Ma la realtà è stata ancora più bella della parabola. Il figlio maggiore, infatti, qui non rimane tranquillo nella casa paterna. L'Unigenito " che era nel seno del Padre " lesse l'ardente desiderio di lui di riavere i figli dispersi e non aspettò l'ordine: " Va' e muori per i tuoi fratelli! ", ma, rivolto al Padre, disse: " Tu non hai voluto ne olocausti ne sacrifici per il peccato. Allora io ho detto: Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà " ( Eb 10,5-7 ). La tua volontà che tutti gli uomini siano salvi ( 1 Tm 2,4 ). L'obbedienza più perfetta è quella che previene il comando e obbedisce al semplice desiderio. Così è stata l'obbedienza di Cristo. Dio - scrive san Tommaso - ha consegnato il Figlio suo alla morte " in quanto gli ha ispirato la volontà di soffrire per noi, infondendogli l'amore ". " Dio Padre - diceva san Bernardo - non ha preteso il sangue del Figlio, ma lo ha accettato offertogli - Non requisivit Poter sanguinem Filii, sed accepit oblatum ". Ecco da dove scaturisce il mistero che celebriamo questa sera: dal cuore stesso della Trinità; nasce dall'amore del Padre per noi e dall'amore del Figlio per il Padre. Uscendo dal cenacolo Gesù disse: " Affinché il mondo sappia che io amo il Padre, alzatevi, andiamo " ( Gv 14,31 ). Dunque abbiamo ragione di esclamare con le parole dell'Exsuket: " O meravigliosa condiscendenza della tua bontà per noi! O inestimabile tenerezza di carità: per redimere il servo hai dato il Figlio! ". Ecco cosa vuole dire che Dio " non ha risparmiato " il proprio Figlio: vuoi dire che non se lo è risparmiato, non l'ha tenuto per sé come un tesoro geloso. Il Padre non è solo colui che riceve il sacrificio del Figlio, ma anche colui che fa il sacrificio di darci suo Figlio! " Quanto ci hai amato, o Padre buono, che non risparmiasti il tuo unico Figlio, ma lo consegnasti per noi peccatori Quanto ci hai amato! ". E noi che fuggivamo dalla tua presenza, credendo che tu ci odiavi! Date a un bambino la certezza che il suo papa lo ama e avrete fatto di lui una creatura forte, sicura, gioiosa e libera nella vita. E la parola di Dio questo vuole fare di noi: ci vuole restituire questa sicurezza. Non si vince la solitudine dell'uomo nel mondo, se non con la fede nell'amore di Dio Padre. " L'amore paterno di Dio - ha scritto un grande filosofo - è l'unica cosa incrollabile nella vita, il vero punto di Archimede ". Osservate un bambino che va a passeggio, tenuto per mano dal suo papa, o che il papa fa volteggiare intorno a sé, tenendolo per le braccia, e avrete l'immagine stessa della fierezza, della libertà, della gioia. Ho letto da qualche parte che un giorno un acrobata fece un esercizio: si sporse nel vuoto dall'ultimo piano di un grattacielo, appoggiato solo sulle punte dei piedi e tenendo tra le braccia il suo bambino. Discesi a terra, qualcuno chiese al bambino se non aveva avuto paura di stare nel vuoto a quell'altezza e il bambino, sorpreso della domanda, rispose: " No, ero nelle braccia del papa ". Così, ripeto, ci vuole la parola di Dio. Dopo aver ricordato che Dio non ha risparmiato il proprio Figlio per noi, san Paolo esce in un grido di giubilo e di vittoria: " Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? Chi ci accuserà? Chi ci condannerà? Chi ci separerà dall'amore di Dio: la spada, la paura, l'angoscia, i complessi, il mondo, le malattie, la morte? Ma in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, grazie a colui che ci ha amato! " ( Rm 8,31-37 ). Via dunque le paure, via gli scoraggiamenti, via le pusillanimità. Il Padre sa e il Padre vi ama, dice Gesù! Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli, con il quale gridare: " Abbà- Padre! ". Di fronte a questo amore cosi incomprensibile, viene spontaneo rivolgerci a Gesù e domandargli: " Gesù, tu che sei il nostro fratello maggiore, dicci: che cosa possiamo fare per essere degni, o almeno riconoscenti di fronte a tanto dolore e a tanto amore? "; E Gesù risponde dall'alto della sua croce, risponde con i fatti, non con le parole. " C'è una cosa - dice - che potete fare, che anch'io ho fatto e che fa felice il Padre: dategli fiducia, fidatevi di lui, contro tutto, contro tutti, contro voi stessi! Quando siete nel buio, quando le difficoltà minacciano di soffocarvi e state sul punto di arrendervi, riprendetevi e gridate: "Padre mio, non ti comprendo più, ma mi fido di te!". E ritroverete la pace ". C'è, nel mondo d'oggi, una situazione di sofferenza tutta particolare che questo annuncio sul Padre può lenire. Descrivendo la missione di Giovanni Battista, l'angelo disse a Zaccaria, suo padre, che egli avrebbe "convertito il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri ". ( Lc 1,17; MI 3,24 ) Abbiamo bisogno che si rinnovi questa conversione. Colui il cui nome, diabolos, significa il divisore, il separatore, non si contenta più di mettere un popolo contro un altro popolo, una classe sociale contro un'altra, un sesso contro l'altro: gli uomini contro le donne e le donne contro gli uomini. Vuole colpire ancora più in profondità: mettere i padri contro i figli e i figli contro i padri e le madri. Quanta sofferenza, quanta tristezza nel mondo per questo, quanti misfatti che lasciano senza parola! Noi commemoriamo questa sera la storia dell'amore divino di un padre per il figlio e di un figlio per il proprio padre. Che da questo mistero sgorghi per la Chiesa e per il mondo una grazia di guarigione che converta di nuovo il cuore dei padri verso i figli e dei figli verso i padri. Che intenerisca i cuori induriti. " Scrivo a voi, padri - diceva l'evangelista san Giovanni ai cristiani di allora - perché avete conosciuto colui che è fin da principio …, scrivo a voi figli perché avete conosciuto il Padre " ( 1 Gv 2,13 ). E anch'io, in questo momento, parlo a voi padri e parlo a voi figli. Bisogna ripartire da Dio per non soccombere al male. Per ritrovare la gioia di essere uomo, di essere donna, di essere padre o madre, di essere figlio o figlia. La gioia di essere al mondo, di esistere. È scritto che nel sesto giorno della creazione Dio guardò quanto aveva fatto e vide che " era cosa molto buona " ( Gen 1,31 ). Nel sesto giorno della nuova settimana creatrice, che è il Venerdì Santo, Dio Padre torna a guardare la sua creazione e vede che, grazie al sacrificio del Figlio suo, tutto è di nuovo " molto buono ". Si rallegri di nuovo Dio nelle sue opere ( Sal 104,31 ). E se da questo nostro mondo malato si levano verso il cielo tanti gridi di rivolta, tante bestemmie, tante maledizioni, noi facciamo nostre, in questo giorno santissimo dell'anno, le parole dell'Apostolo e gridiamo dal profondo del cuore, in nome di tutti gli uomini della terra: " Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo! " ( Ef 1,3 ). Benedetto sia Dio Padre! Benedetto, Benedetto! " E di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti " " Gesù di Nazaret: essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno … E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio " ( At 10,39-42 ). Il racconto della passione ci ha presentato tutto il tempo un Gesù giudicato. I processi contro di lui si moltiplicano: Anna, Caifa, Pilato. E non è finito. Il procuratore romano si è ritirato, la folla si è dispersa, il tribunale è rimasto deserto, ma il processo continua. Anche oggi Gesù di Nazaret è al centro di un processo. Filosofi, storici, cineasti, semplici studenti di teologia: tutti si sentono autorizzati a giudicare la sua persona, le sue dottrine, la sua rivendicazione messianica, la sua Chiesa … Ma ecco che le parole di Pietro appena ascoltate e le parole che Gesù stesso pronuncia davanti al Sinedrio sollevano d'improvviso come un velo, lasciando intravedere una scena tutta diversa. " D'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo " ( Mt 26,64 ). Quale contrasto! Ora, tutti seduti e lui in piedi, incatenato; allora tutti in piedi e lui seduto alla destra di Dio. Ora gli uomini e la storia che giudicano il Cristo, allora il Cristo che giudica gli uomini e la storia. Da quando il Messia ha compiuto la salvezza immolandosi sulla croce come agnello, egli è diventato il giudice universale. Egli "pesa" uomini e popoli. Davanti a lui si decide chi sta e chi cade. Non c'è appello. Egli è l'istanza suprema. Questa è la fede immutabile della Chiesa che nel Credo continua a proclamare: " E di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti. E il suo regno non avrà fine ". In tanti millenni di vita sulla terra, l'uomo si è assuefatto a tutto; si è adattato a ogni clima, immunizzato da ogni malattia. A una cosa non si è assuefatto mai: all'ingiustizia. Continua a sentirla come intollerabile. " Questa fame di giustizia e di confessione travaglia le viscere del pianeta e si traduce in eruzioni e convulsioni, come quei nodi e quelle coliche della natura che hanno dato origine alle catene montuose ". Come abbiamo bisogno di misericordia, così, e forse più, abbiamo bisogno di giustizia. Ed è a questa sete di giustizia che risponderà il giudizio. Esso non sarà voluto solo da Dio, ma, paradossalmente, anche dagli uomini, anche dagli empi. " Nel giorno del giudizio universale, non è solo il Giudice che scenderà dal cielo, ma sarà tutta la terra a precipitarglisi incontro " ( P. Claudel ). Il Venerdì Santo è l'occasione propizia per far rivivere la verità del giudizio finale, senza la quale tutto il mondo e la storia divengono incomprensibili, scandalosi. Al visitatore che giungein piazza San Pietro, il colonnato del Bernini appare, a prima vista, uno spettacolo abbastanza confuso. I quattro ordini di colonne che cingono la piazza si presentano tutti asimmetrici, quasi una selva di alberi giganteschi piantati lì a casaccio. Ma si sa che c'è un punto, segnato in terra da un cerchio, nel quale bisogna collocarsi. Da quel punto di osservazione il colpo d'occhio cambia completamente. Appare una mirabile armonia; i quattro ordini di colonne si allineano come per incanto, quasi fossero una colonna sola. È un simbolo di ciò che avviene in quella piazza più grande che è il mondo. In esso tutto ci appare confuso, assurdo, frutto più di un capriccio del caso che di una provvidenza divina. Lo notava già il saggio dell'Antico Testamento: " Tutto - diceva - succede del pari al giusto e all'empio … Ho notato che, sotto il sole, al posto del diritto c'è l'iniquità e al posto della giustizia c'è l'empietà " ( Qo 3,16; Qo 9,2 ). E infatti in tutti i tempi si è vista l'iniquità trionfante e l'innocenza umiliata. Ma perché non si creda che al mondo c'è qualcosa di fisso e di sicuro, notava il Bossuet, ecco che talvolta si vede il contrario e cioè l'innocenza sul trono e l'iniquità sul patibolo. Ma cosa concludeva quel saggio dell'Antico Testamento da tutto ciò? " Allora ho pensato: Dio giudicherà il giusto e l'empio, perché c'è un tempo per ogni cosa " ( Qo 3,17 ). Ecco, ha scoperto anche lui il punto di osservazione giusto: il giudizio finale. " È stato stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio " ( Eb 9,27 ). Come cambiano aspetto le vicende umane, viste da questa angolatura, anche quelle in atto nel mondo d'oggi! Ci giungono ogni giorno notizie di atrocità contro i deboli e gli inermi che rimangono impunite. Vediamo persone della mafia accusate di crimini orrendi, difendersi con il sorriso sulle labbra, tenere in scacco giudici e tribunali, farsi forti della mancanza di prove. Come se, facendola franca davanti ai giudici umani, avessero risolto tutto. Non avete fatto nulla, poveri fratelli, non avete fatto nulla! Il vero giudizio deve ancora cominciare. Doveste anche finire i vostri giorni in libertà, temuti, onorati, perfino con uno splendido funerale religioso, dopo aver lasciato larghe offerte per opere pie, non avreste fatto nulla. Il vero Giudice vi aspetta dietro l'uscio, e a lui non la si fa. Dio non si lascia corrompere. È terribile cadere, in questo stato, " nelle mani del Dio vivente " ( Eb 10,31 ). Sappiamo come si svolgerà il giudizio. " Poi dirà a quelli alla sua sinistra: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato" " ( Mt 25,41-43 ). Che sarà dunque di coloro che non solo non hanno dato da mangiare a chi aveva fame, ma glielo hanno tolto; non solo non hanno ospitato il forestiero, ma lo hanno reso forestiero, esule e ramingo; non solo non hanno visitato il carcerato, ma lo hanno messo ingiustamente in carcere, sequestrato, seviziato, ucciso? Ma ci sono anche altri fatti nella nostra società, che ci riguardano tutti. Abbiamo visto recentemente come è possibile che si instauri un senso generale di impunità, per cui si fa a gara nel violare la legge, nel corrompere o lasciarsi corrompere, con la scusa che lo fanno tutti, che è la prassi comune, il sistema. Ma intanto la legge non è stata mai abrogata. Ed ecco che un giorno qualcuno comincia un'inchiesta ed è una ecatombe. Non si parla d'altro in questi tempi. Ma chi si ferma a riflettere che questa è, di fatto, la situazione in cui viviamo un po' tutti, inquisiti e inquisitori, nei confronti della legge di Dio? Si violano allegramente i comandamenti di Dio, uno dopo l'altro, compreso quello che dice di non uccidere, con il pretesto che tanto lo fanno tutti, che la cultura, il progresso, perfino la legge umana, ormai lo consentono. Ma Dio non ha mai inteso abrogare né i comandamenti né il Vangelo, e questo generale senso di impunità è tutto fittizio ed è un terribile inganno. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è una pallida immagine di un'altra inchiesta, ben più drammatica, che pende sul capo di tutti. Ma chi se ne dà pensiero? Sul piano terreno, si reagisce indignati all'ipotesi del "colpo di spugna" che cancelli tutte le responsabilità penali, ma poi questo è quello che tacitamente pretendiamo da Dio, sul piano spirituale: un colpo di spugna su tutto. Non ci basta un Dio misericordioso, vogliamo un Dio anche iniquo, che avalli l'ingiustizia e il peccato. Tanto - si dice - Dio è buono e perdona tutto. Se no che Dio è? Senza pensare che, se Dio scendesse a patti con il peccato, crollerebbe la distinzione tra bene e male e con essa l'universo intero. Non dobbiamo lasciar cadere nell'oblio le parole che le generazioni passate ci hanno tramandato: " Dies ime dies lila … - Giorno d'ira, quel giorno … Ci sarà da tremare quando il Giudice apparirà per vagliare tutto con rigore - Liber scriptus proferetur - Un libro sarà aperto in cui tutto è contenuto e in base al quale il mondo sarà giudicato ". Quale libro? Anzitutto il " libro scritto" che è appunto la Scrittura, la parola di Dio. " La parola che ho annunciato lo condannerà nell'ultimo giorno", ha detto Gesù ( Gv 12,48 ). Poi, specie per quelli che non hanno conosciuto il Cristo, il libro che è la propria coscienza. Un libro che, come un diario, uscirà con l'uomo dalla tomba. " Ogni segreto sarà allora svelato, niente rimarrà impunito - mi inultum remanebit ". Sarà la fine di tutta la ribellione umana. Non ne resterà pietra su pietra, niente di niente. Che è successo al popolo cristiano? Un tempo si ascoltavano queste parole con salutare tremore. Ora la gente va al teatro dell'opera, ascolta la " Messa da Requiem " di Verdi o di Mozart, si appassiona alle note del " Dies irae ", esce canticchiandole e mimandone forse i movimenti con il capo. Ma l'ultima cosa a cui ognuno pensa è che quelle parole lo riguardano personalmente, che è anche di lui che si sta parlando. Oppure, la gente entra nella Cappella Sistina, qui in Vaticano; si siede, guarda il " Giudizio universale " di Michelangelo e rimane senza fiato. Ma per la rappresentazione, non per la realtà rappresentata! Anche l'adultero, l'ambizioso, il sacrilego, si siede e scambia commenti con il vicino. Ma che qualcuno di quei volti dagli occhi pieni di terrore abbia qualcosa da dire proprio a lui, non gli passa nemmeno per la mente. Michelangelo, lui, era soggiogato dalla realtà ( " Venite benedetti … Andate maledetti " ); noi ci contentiamo della sua rappresentazione. Si è parlato molto del restauro del " Giudizio universale " di Michelangelo. Ma c'è un altro giudizio universale da restaurare al più presto, quello dipinto non su pareti di mattoni, ma sui cuori dei cristiani. Anch'esso infatti è tutto sbiadito e sta andando in rovina. " L'aldilà ( e con esso il giudizio ) è diventato uno scherzo, un'esigenza così incerta che ci si diverte perfino al pensiero che c'era un tempo in cui questa idea trasformava l'intera esistenza " ( S. Kierkegaard ). In alcune antiche basiliche, il giudizio universale non era rappresentato sul davanti, ma sulla parete di fondo, dietro l'assemblea. In tal modo, essa era la visione che la gente aveva uscendo di chiesa, quella che portava con sé rientrando nella vita. L'idea del giudizio plasmava davvero l'intera esistenza. Ho visto da ragazzo la scena di un film che non ho dimenticato più. Un ponte della ferrovia è crollato su un fiume in piena; da una parte e dall'altra penzolano nel vuoto i due tronconi di binari. Il guardiano del più vicino passaggio a livello, accortosi, corre incontro al treno che arriva a tutta velocità, sul fare della sera e, stando in mezzo ai binari, agita una lanterna, gridando disperatamente: " Ferma, ferma; indietro, indietro! ". Quel treno ci rappresenta al vivo. È l'immagine di una società che avanza spensierata, al ritmo di Rock 'n roll, inebriata delle sue conquiste, senza sapere che cosa l'aspetta. La Chiesa deve fare come quel guardiano: ripetere le parole che Gesù pronunciò un giorno, alla notizia di un disastro nel quale avevano perso la vita diverse persone: " Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo " ( Lc 13,5 ). Oppure le parole che i profeti andavano ripetendo a loro tempo: " Convertitevi, tornate indietro dalle vostre vie perverse. Perché volete morire, o Israeliti? " ( Ez 18,30-31 ). Potrebbe essere, questo, uno dei punti da cui partire in vista di una nuova evangelizzazione. Qualcuno può tentare di consolarsi, dicendo che, dopo tutto, il giorno del giudizio è lontano, forse milioni di anni. Ma è ancora Gesù che, dal Vangelo, gli risponde: " Stolto, chi ti assicura che questa notte stessa non ti verrà chiesto il conto della tua vita? " ( Lc 12,20 ). Veramente, " il Giudice è alle porte " ( Gc 5,9 ). Non si è finito di dare l'ultimo respiro, che già il giudizio è avvenuto. Un lampo ed è la verità su tutto. " Giudizio particolare " lo chiama la teologia; ma è ugualmente definitivo. Non c'è possibilità di revisione. A questo punto è necessario dissipare un possibile malinteso. Per chi suona la campana? Chi è chiamato in causa da questa parola sul giudizio? Solo gli increduli, quelli di fuori? No di certo! " È giunto il momento - scrive l'apostolo Pietro - in cui inizia il giudizio dalla casa di Dio. E se comincia da noi quale sarà la fine di coloro che rifiutano di credere al Vangelo di Dio? " ( 1 Pt 4,17 ). Il giudizio inizia dunque dalla Chiesa. Anzi, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. Anche nella Chiesa c'è chi non serve Dio, ma si serve di Dio. Allora sarà la fine di ogni distinzione, anche di quella tra Chiesa docente e Chiesa discente, tra pastori e pecore. Ci sarà posto per un'unica distinzione, quella tra "pecore" e "capri", cioè tra giusti e reprobi. La campana, o la tromba, del giudizio suona dunque per tutti. " Non c'è parzialità presso Dio " ( Rm 2,11 ). " Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo " ( 2 Cor 5,10 ). Nel vangelo di Matteo si legge che i sommi sacerdoti, raccolte le trenta monete d'argento che Giuda aveva gettate nel tempio, dissero: " Non è lecito mettere questo denaro nel tesoro del tempio, perché è prezzo di sangue " ( Mt 27,3ss ). Temo che in qualche luogo, da parte di noi ministri della Chiesa, non si sia stati abbastanza attenti e nel tesoro del tempio siano finiti a volte, senza saperlo, denaro e offerte che erano, anch'essi, " prezzo di sangue ". Non solo dunque il giudizio finale, ma anche quello attuale deve cominciare dalla casa di Dio! Perché questo richiamo austero proprio durante la liturgia del Venerdì Santo? Perché il giudizio è stato anticipato nella morte di Gesù. " Ora è il giudizio di questo mondo ", disse egli stesso nell'imminenza della passione ( Gv 12,31 ). Il giudizio finale non sarà che la rivelazione e l'applicazione di questo giudizio irrevocabile, di questo "no!" assoluto, pronunciato da Dio su tutto il peccato del mondo. Al punto che esiste ormai un mezzo sicuro per sfuggire, se lo vogliamo, al futuro giudizio e assicurarcene in anticipo l'esito favorevole: quello di sottoporci al giudizio della croce. Il Giudice futuro sta ora davanti a noi come Salvatore e come Re. C'è una differenza essenziale tra il re e il giudice. Il re può, se vuole, fare grazia: è suo diritto; il giudice deve, anche se non vuole, fare giustizia: è suo dovere. Gesù " ha tolto di mezzo, inchiodandolo alla croce, il documento scritto - il chirographum - del nostro debito " ( Col 2,14 ). Gettiamo dunque tra le braccia del Crocifisso tutto il male che abbiamo commesso, quel " libro scritto " che ci portiamo dentro, pronto ad accusarci. Che nessuno torni a casa con la volontà di continuare a peccare, con l'impenitenza del cuore. Giudichiamoci da soli, per non essere giudicati da Dio. Chi si accusa, Dio lo scusa; chi si scusa, Dio lo accusa. Lasciamo qui sul Calvario ogni ribellione, ogni rancore, ogni abitudine impura, ogni avarizia, ogni invidia, ogni volontà di farci giustizia da soli. Perdoniamoci gli uni gli altri, perché è scritto che " il giudizio sarà senza misericordia per coloro che non avranno usato misericordia " ( Gc 2,13 ). Facciamo la Pasqua, passando attraverso questo nuovo mar "rosso", che è il sangue di Cristo. L'invito è rivolto a tutti, anche a quelli che la società, non so con quale diritto, definisce " belve ". Sul Calvario c'erano con Gesù due briganti: uno morì bestemmiando, l'altro chiedendo perdono. Il ricordo del primo è ancora oggi oggetto di spavento, quello del secondo, di benedizione e di speranza. Qualcuno ha oggi la possibilità di scegliere quale dei due egli sarà un domani per i figli, per la società e la storia. Dio ti aspetta per mostrare in tè la potenza della sua grazia. " C'è gioia in cielo per un peccatore che si pente ". Ma che si pente davvero, perché ha offeso Dio e ferito la società; non per ottenere solo una riduzione di pena. Da a Dio questa gioia. Dopo Cristo, nessuno deve dire più ciò che disse Caino dopo aver ucciso Abele: " Il mio peccato è troppo grande perché possa essere perdonato " ( Gen 4,13 ). A un certo punto del " Dies irae ", c'è un cambiamento di tono: il tremore si trasforma in una struggente preghiera che sembra scritta per questo giorno dell'anno. " Recordare, Jesu pie, quod sum causa tuae viae - Ricordati, o buon Gesù, che è per me che sei venuto in terra. Non condannarmi in quel giorno. Tu mi hai redento salendo sulla croce: tanto dolore non sia sprecato - Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me, fons pietatis - O Rè di tremenda maestà, che salvi gratuitamente quelli che si salvano, salva me, fonte della pietà ". Salva tutti noi, quando verrai di nuovo nella gloria, per giudicare i vivi e i morti. " Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei " " Uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua " ( Gv 19,34 ). Nel riflettere su queste parole, ci fu un momento in cui la Chiesa antica fu come folgorata da una rivelazione. " Non passare oltre troppo in fretta, o diletto, su questo mistero - esclama san Giovanni Crisostomo -, perché io ho una interpretazione mistica da esporti. Quel sangue e quell'acqua sono simboli del battesimo e dell'Eucaristia da cui viene generata la Chiesa. Dal fianco dunque di Cristo fu formata la Chiesa, come dal fianco di Adamo fu formata Eva … E come allora prese dal fianco durante il sonno, mentre Adamo dormiva, così ora, dopo la sua morte, diede il sangue e l'acqua. La morte è ora ciò che fu allora il sonno. Vedete come Cristo ha congiunto a se stesso la sposa? ". In occidente gli fece eco sant'Agostino: " La prima donna fu formata dal fianco dell'uomo che dormiva, e fu chiamata vita e madre dei viventi. Qui il secondo Adamo, chinato il capo, si addormenta sulla croce, perché così, con il sangue e l'acqua che sgorgano dal suo fianco, fosse formata la sua sposa ". Tutto ciò ci aiuta a vedere sotto una luce nuova la liturgia che stiamo celebrando. A prima vista, si potrebbe pensare che la liturgia del Venerdì Santo appartenga, o si ispiri, al genere dei threnoi, cioè delle lamentazioni che si levavano su un morto; oppure al genere dell'epinicio con cui si celebrava una vittoria. È vera l'una e l'altra cosa: noi piangiamo su una morte e celebriamo una vittoria, poiché sulla croce " ha vinto - enikesen - il leone della tribù di Giuda " ( Ap 5,5 ). Ma la liturgia del Venerdì Santo è soprattutto un epitalamio, un canto di nozze. Esiste nella Bibbia un salmo intitolato " epitalamio regale ", composto per le nozze di un figlio di re e di una regina, che la tradizione ha applicato a Cristo e alla Chiesa. Esso comincia così: " Effonde il mio cuore liete parole, io canto al re il mio poema ". Allo sposo si dice: " Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo " e alla sposa: " Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; al re piacerà la tua bellezza " ( Sal 45 ). Nell'epitalamio tutto parla di bellezza. Ma esiste un epitalamio anche nel Nuovo Testamento, scritto appositamente per queste nozze nuove di Cristo e della Chiesa. È la lettera agli Efesini. In essa si dice: " Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa …, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata … Nessuno ha mai preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa … Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola. Questo mistero è grande per il suo riferimento a Cristo e alla Chiesa " ( Ef 5,25-32 ). C'è una progressione significativa, a proposito della Chiesa, nella lettera agli Efesini, una specie di tentativo di penetrare sempre più in profondità nel suo mistero. Dapprima, essa è presentata con l'immagine della costruzione, come l'edificio di Dio, che ha " per pietra angolare lo stesso Gesù " ( Ef 2,20 ). Il rapporto tra Gesù e la Chiesa è assimilato a quello tra il fondamento e la casa costruitavi sopra. Andando avanti, la chiesa è presentata come il corpo di Cristo: Dio ha stabilito - si legge - alcuni come apostoli, altri come profeti, " al fine di edificare il corpo di Cristo " ( Ef 4,11-12 ). Qui il rapporto tra i due è assimilato a quello tra capo e corpo: " … cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui che è il capo, Cristo " ( Ef 4,15 ). Ma l'Apostolo non sembra ancora soddisfatto di queste immagini dell'edificio e del corpo, ed ecco che ce ne dona un'altra, quella della sposa. Quando Adamo vide Eva, esclamò: " Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa " ( Gen 2,23 ). Così dice ora Cristo della sua Chiesa. In che consiste la differenza? L'edificio non è un "partner", un interlocutore, con cui si possa dialogare. Anche il proprio corpo non è una persona che mi sta davanti con la sua libertà, che posso amare e da cui posso essere riamato. La sposa è tutto questo! Anche il nuovo Adamo cercava " un aiuto simile a lui " e l'ha avuto! Ma a questo punto devo riprendere e fare mie le parole di quell'antico Padre e dire: " Non passare oltre troppo in fretta, o diletto, perché io ho un'altra considerazione da proporti ". L'affermazione dell'Apostolo, " Cristo ha amato la Chiesa ", sottintende una domanda; la fa quasi risuonare nell'aria. Cristo ha amato la Chiesa: e tu? Ami tu la Chiesa? " Nessuno ha in odio la propria carne ", cioè la propria sposa, tanto meno Cristo. Allora perché, fratello, tu dici: " Dio sì, la Chiesa no "? Perché punti con tanta facilità il dito accusatore contro tua madre, dicendo: " La Chiesa sbaglia qui, la Chiesa sbaglia là; la Chiesa dovrebbe dire, la Chiesa dovrebbe fare … "? Chi sei tu che osi puntare il dito contro la mia sposa che amo? dice il Signore. " Dov'è il documento di ripudio di vostra madre, con cui l'ho scacciata? ", dice Dio nel profeta Isaia ( Is 50,1 ). Penso che questa parola è rivolta anche a tanti cristiani di oggi: " Dove sta scritto che io ho ripudiato vostra madre, la Chiesa; che essa non è più la mia sposa "? La Chiesa è anch'essa " la pietra scartata dai costruttori " ( i costruttori della moderna civiltà secolare ). È " la sposa ripudiata ", ma ripudiata dagli uomini, non da Dio, Dio è fedele. In alcune parti del mondo esiste un termine apposito per designare questa categoria di credenti: gli unchurched Christians, i cristiani senza Chiesa. E non si avvedono che, in questo modo, non si privano solo della Chiesa, ma anche di Cristo ( a meno che li scusi l'ignoranza o la buona fede ). Vale a maggior ragione per Cristo e la Chiesa ciò che Gesù ha detto di ogni matrimonio: " L'uomo non separi ciò che Dio ha congiunto " ( Mt 19,6 ). Chi non ama la Chiesa ( almeno una volta che l'ha conosciuta ) non ama Cristo. " Non può avere Dio per Padre - diceva san Cipriano - chi non ha la Chiesa per madre ". E avere la Chiesa per madre non significa soltanto essere stati battezzati una volta nella Chiesa, ma anche stimarla, rispettarla, amarla come madre, sentirsi solidali con lei nel bene e nel male. Se uno guarda la vetrata di un'antica cattedrale dalla pubblica via, non vedrà che pezzi di vetri oscuri tenuti insieme da strisce di nero piombo; ma se varca la soglia e la guarda dal di dentro, contro luce, allora è uno spettacolo di colori e di forme che fa rimanere senza respiro. Così succede con la Chiesa. Chi la guarda dall'esterno, con gli occhi del mondo, non vede che lati oscuri e miserie, ma chi la guarda dal di dentro, con gli occhi della fede, sentendosi parte di essa, vedrà quello che vedeva Paolo: un meraviglioso edificio, un corpo ben compaginato, una sposa senza macchia, un " grande mistero "! Chi guarda dal retro di questa Basilica il finestrone che abbiamo di fronte a noi, non vede nulla di speciale, solo vetro oscuro; ma noi che siamo qui vi scorgiamo una colomba luminosissima, lo Spirito Santo. Forse tu dici: " Ma come, e l'incoerenza della Chiesa? E gli scandali, perfino di alcuni papi? ". Dici questo, però, perché ragioni umanamente, da uomo carnale, e non riesci ad accettare che Dio manifesti la sua potenza e il suo amore attraverso la debolezza. Non riuscendo a ottenere l'innocenza da te stesso, la pretendi dalla Chiesa, mentre Dio ha deciso di manifestare la sua gloria e la sua onnipotenza proprio attraverso questa terribile debolezza e imperfezione degli uomini, compresi gli "uomini di Chiesa", e con essa ha formato la sua sposa, che è meravigliosa proprio perché esalta la sua misericordia. Il Figlio di Dio è venuto in questo mondo e, da buon falegname qual era diventato alla scuola di Giuseppe, ha raccolto i pezzetti di tavole più sgangherati e bitorzoluti che ha trovato e con essi ha costruito una barca che tiene il mare da duemila anni. I peccati della Chiesa! Credi tu che Gesù non li conosca meglio di te? Non sapeva egli per chi moriva, dove erano in quel momento i suoi apostoli? Ma egli ha amato questa Chiesa reale, non quella immaginaria e ideale. È morto " per renderla santa e immacolata ", non perché era santa e immacolata. Cristo ha amato la Chiesa " in speranza "; non solo per quello che "è", ma anche per quello che "sarà": la Gerusalemme celeste " pronta come sposa adorna per il suo sposo " ( Ap 21,2 ). Ma perché, poi, questa nostra Chiesa è così povera e lenta? Ce lo siamo mai domandato? Don Primo Mazzolari, che non era certo un uomo abituato a lusingare la Chiesa istituzionale, ha scritto: " Signore, sono la tua carne inferma; ti peso come croce che pesa, come spalla che non regge. Per non lasciarmi a terra, ti carichi anche del mio fardello e cammini come puoi. E tra coloro che tu porti c'è qualcuno che ti fa colpa di non camminare secondo le regole e accusa di lentezza anche la tua Chiesa, dimenticando che, carica com'è di scorie umane che non può né vuole buttare a mare ( sono i suoi figlioli! ), il portare vale più dell'arrivare ". La Chiesa va lenta, certo. Va lenta nell'evangelizzazione, nel rispondere ai segni dei tempi, nella difesa dei poveri e in tante altre cose. Ma sapete perché va lenta? Perché porta sulle spalle noi che siamo ancora pieni di zavorra di peccato. I figli accusano la madre di essere piena di rughe e queste rughe, come avviene anche sul piano naturale, sono proprio essi che gliele hanno procurate. Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei perché fosse " senza macchia ", e la Chiesa sarebbe senza macchia, se non avesse noi! La Chiesa avrebbe una ruga in meno, se io avessi commesso un peccato in meno. A uno dei Riformatori che lo rimproverava di rimanere nella Chiesa cattolica, nonostante la sua "corruzione", Erasmo di Rotterdam rispose un giorno: " Sopporto questa Chiesa, in attesa che divenga migliore, dal momento che anch'essa è costretta a sopportare me, in attesa che io divenga migliore ". Dobbiamo chiedere perdono tutti a Cristo di tanti giudizi sconsiderati e di tante offese arrecate alla sua sposa e, per conseguenza, a lui stesso. Provate a dire a un uomo veramente innamorato che la sua sposa è brutta, o che è una " poco di buono ", e vedrete se potete fargli offesa più grande e se potete sostenere la sua collera. Bisogna che ci imponiamo subito, tutti, un nuovo modo di parlare, più consapevole di chi è la Chiesa. " Poiché io sono uno di essi - scriveva Saint-Exupéry della sua patria terrena, in un momento buio della sua storia - io non rinnegherò i miei, qualunque cosa facciano. Non predicherò contro di essi davanti ad estranei. Se è possibile prendere la loro difesa, li difenderò. Se mi coprono di vergogna, nasconderò questa vergogna nel mio cuore e tacerò. Qualunque cosa io pensi di essi allora, non servirò mai di testimone a carico. Un marito non va di casa in casa a informare, lui stesso, i vicini che sua moglie è una sgualdrina: non salverebbe in tal modo il suo onore. Poiché la sua sposa è della sua casa, non può farsi bello contro di essa. Piuttosto, una volta rientrato in casa sua, egli darà sfogo alla sua collera ". C'è il pericolo che qualcuno faccia esattamente quello che qui si condanna. Che, avendo rotto con la Chiesa, si vada di università in università, di rivista in rivista, di congresso in congresso, ripetendo le proprie amare accuse contro la Chiesa "istituzionale", come se essa fosse tutt'altra cosa rispetto all'ideale di Chiesa coltivato nella propria mente, credendo di salvare così il proprio onore contro di essa. Il mondo, si sa, fa ponti d'oro a chi volta le spalle alla Chiesa. " Quanto è facile far carriera, quando si passa all'accampamento dei nemici! " diceva Tertulliano, parlando di coloro che abbandonavano la Chiesa per passare a qualche setta eretica e venivano subito insigniti di onori e cariche.5 Spesso non si fa che nascondere, dietro un polverone di accuse contro la Chiesa e i superiori, il proprio naufragio nella fede. Si dovrà dunque tacere, tutti e sempre, nella Chiesa? No, una volta " rientrato in casa ", una volta che hai pianto con la Chiesa, che ti sei umiliato sotto i suoi piedi, Dio ti può comandare, come ha fatto con altri nel passato, di alzare la voce contro " le piaghe della Chiesa ". Ma non prima di allora, e non senza che tu, in qualche modo, muoia in questa pericolosa missione. I santi hanno applicato anche alla Chiesa, ciò che Giobbe diceva di Dio: " Anche se mi uccidesse, voglio ricorrere a lui " ( Gb 13,15 ). Da quello che abbiamo contemplato in questo Venerdì Santo si leva un appello particolare per le anime consacrate. Esse sono coloro che hanno "sposato" la causa del Regno, che hanno avvertito, per pura grazia, il bisogno di " qualcosa di maestoso " da amare e l'hanno trovato nel Cristo. Sono chiamate perciò a essere segno visibile dell'amore sponsale della Chiesa per Cristo. Si parla molto oggi di un disagio, in atto in seno alla vita religiosa tradizionale, di una crisi di identità. Sono cose su cui cercherà di fare luce e indicare soluzioni il prossimo Sinodo dei vescovi che ha come tema " La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo ". Io credo che ci sono tante spiegazioni di quel disagio, ma che una è quella fondamentale: si è raffreddato, in molti di noi, l'amore per Cristo che è alla base della nostra scelta. C'è una lettera per noi religiosi nell'Apocalisse; è quella scritta alla Chiesa di Efeso. Dice: " Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza … Però ho una cosa da rimproverarti: hai abbandonato il tuo amore di un tempo. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti! " ( Ap 2,2-5 ). Anche a noi sono rimaste spesso " le opere, la fatica e la costanza " ( tutte cose preziose da non perdere ), ma forse è venuta a mancare l'anima, che è l'amore sponsale per Cristo. L'amore ha bisogno di preghiera per sopravvivere, come il fuoco dell'ossigeno per ardere. " Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese " ( e alle comunità religiose )! Da quello che contempliamo in questo giorno si leva, infine, un appello anche per gli sposi cristiani. È l'Apostolo stesso che lo ha formulato: " Le mogli siano sottomesse ai mariti … E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa " ( Ef 5,22.25 ). ( Oggi diremmo che anche la moglie deve "amare" il marito, esattamente come deve fare l'uomo con lei ). Non si sentano diminuite le donne, come se, in questo simbolismo, esse fossero chiamate a rappresentare la Chiesa, e gli uomini invece Gesù Cristo. Si sentano piuttosto onorate per il fatto che tutta l'umanità è qui rappresentata da una donna, dall'Eva che è la Chiesa. Sul piano della realtà, anche gli uomini non sono rappresentati qui da Cristo, ma dalla Chiesa; non sono lo sposo, ma la sposa. Siamo nell'anno internazionale della famiglia e la Chiesa dedica ogni sforzo per difenderne i diritti e promuoverne la santità. Ma la famiglia non sarà sana se la sua radice, il rapporto di coppia, è malata. È qui che si decide tutto. Quando quel rapporto si spezza, è come quando si rompe la fune in una cordata alpina: tutti quelli che a essa erano appesi precipitano nel vuoto, e in primo luogo i figli. Che cosa può imparare una coppia di sposi cristiani dal modello Cristo-Chiesa? Soprattutto una cosa. Ci sono, al mondo, due tipi di amore: un amore di munificenza e un amore di sofferenza. Il primo consiste nel fare regali e donativi alla persona amata; il secondo nell'essere capaci di soffrire per essa e di soffrire a causa di essa. Dio, nella creazione, ci ha amato di un amore di munificenza, ma sulla croce ci ha amato anche di un amore di sofferenza, che è infinitamente più esigente. Non dimentichiamo però, per non pensare che tutto sia sempre e solo sofferenza, ciò che ha detto una volta Gesù stesso: che " c'è più gioia nel dare che nel ricevere " ( At 20,35 ). Gioia di scoprire tutto un nuovo piano nell'amore, di amare come ama Dio, di conoscere l'amore che è ricompensa e gioia a se stesso. Nel libro di Geremia si legge questo oracolo misterioso: " Il Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l'uomo " ( Ger 31,22 ). Fino a oggi - vuoi dire il profeta -, è stato lo sposo, Dio, a ricercare e rincorrere la donna infedele che andava dietro agli idoli. Ma verrà un giorno in cui non sarà più così. Anzi sarà la donna stessa, la comunità dell'alleanza, a ricercare il suo sposo e a stringersi a lui. Quel giorno è venuto! Ora tutto ciò si è compiuto. Non perché l'umanità sia improvvisamente divenuta saggia e fedele, no, ma perché il Verbo l'ha assunta e unita a sé, nella sua stessa persona, in un'alleanza nuova ed eterna. Tutta la liturgia del Venerdì Santo esprime il compimento di quell'oracolo. Esso è cominciato sul Calvario, con Maria che stringe tra le mani e bacia il volto del Figlio deposto dalla croce, e prosegue ora nella Chiesa, di cui ella era, in ciò, figura e primizia. La Chiesa che, con in testa il successore di Pietro, sfilerà ora a baciare il Crocifisso, è la Donna che " cinge l'uomo ", che lo abbraccia, piena di gratitudine e di commozione. Che dice, con la sposa del Cantico: " Ho trovato l'amato del mio cuore; l'ho stretto fortemente e non lo lascerò mai " ( Ct 3,4 ). " Rifulge il mistero della croce " La parte centrale della liturgia che stiamo celebrando è l'adorazione della croce che inizierà, tra breve, con il rito dello svela mento. Il Santo Padre riceve dal diacono la croce coperta da un velo viola e ne scopre ogni volta una parte, per tre volte, fino al suo pieno svelamento. Il gesto è accompagnato dalle solenni parole: " Ecce lignum crucis in quo salus mundi pependit ": " Ecco il legno della croce a cui fu appesa la salvezza del mondo ". Io vedo simboleggiata in questo antico rito la progressiva rivelazione del mistero della croce nel corso dei secoli. Ognuno dei tre svelamenti rappresenta un'epoca o una fase della storia della salvezza: il primo svelamento rappresenta la croce prefigurata nell'Antico Testamento; il secondo, la croce realizzata nella vita di Gesù, la "croce della storia"; il terzo, la croce celebrata nel tempo della Chiesa, la "croce della fede". La croce attraversa, come si vede, l'interà storia della salvezza. È presente nell'Antico Testamento come figura, è presente nel Nuovo Testamento come evento ed è presente nel tempo della Chiesa come sacramento, o come mistero. Cosa rappresenta il "legno", o "l'albero" nell'Antico Testamento? Esso è l'albero della vita piantato in mezzo al giardino, l'albero della conoscenza del bene e del male, intorno al quale si consuma la ribellione, pretendendo l'uomo di stabilire lui stesso ciò che è bene e ciò che è male. Nel Deuteronomio ricompare il legno associato alla maledizione: " Maledetto - è scritto - colui che pende dal legno " ( Dt 21,23 ). Ma si annuncia anche un ruolo positivo del legno in passi che, alla luce del futuro compimento, saranno visti come profezie della croce. Con il legno fu fabbricata l'arca nella quale l'umanità si salvò dal diluvio; con il legno di un bastone Mosè percosse le acque del Mar Rosso che si aprirono ( Es 14,16 ) e con un legno rese dolci le acque amare di Mara ( Es 15,25ss ). Cosa rappresenta il legno della croce nella vita di Gesù, cioè non più nella figura, ma nella realtà della storia? Rappresenta lo strumento della sua condanna, della sua distruzione totale come uomo, il punto più basso della sua kenosis. Il "legno" ( xulon ) ( così era spesso chiamata la croce ) era il supplizio più infame, riservato agli schiavi colpevoli dei maggiori delitti. Cicerone dice che perfino il suo nome doveva essere tenuto lontano dagli orecchi di un cittadino romano. Tutto vi era predisposto per rendere tale supplizio degradante al massimo. Il condannato veniva prima frustato, caricato, fino al luogo dell'esecuzione, se non della croce intera, almeno del palo trasversale, legato nudo, quindi inchiodato al patibolo, dove agonizzava in preda a convulsioni e sofferenze atroci, con tutto il corpo che faceva peso sulle ferite. " Crocifisso! ": non si poteva, al tempo degli apostoli, ascoltare questa parola senza che un brivido di spavento passasse per tutto il corpo. Per un giudeo, a tutto ciò si aggiungeva la maledizione di Dio, poiché stava scritto, appunto: " Maledetto colui che pende dal legno " ( Gal 3,13 ). Ma cosa rappresenta la croce alla luce della risurrezione, nella rivelazione che lo Spirito fa di essa, per mezzo degli apostoli, nel tempo della Chiesa? Essa è il luogo dove si è compiuto "il mistero della pietà", dove il nuovo Adamo ha detto sì a Dio per tutti e per sempre. Dove il vero Mosè, con il legno, ha aperto il nuovo Mar Rosso e, con la sua obbedienza, ha trasformato le acque amare della ribellione nelle acque dolci della grazia e del battesimo. Dove Cristo " ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi " ( Gal 3,13 ). La croce è potenza di Dio e sapienza di Dio ( 1 Cor 1,24 ). È il nuovo albero della vita piantato in mezzo alla piazza della città ( Ap 22,2 ). Che cosa è avvenuto di tanto decisivo sulla croce da giustificare queste affermazioni? È avvenuto che Dio ha vinto definitivamente il male, senza distruggere con esso la libertà che l'ha prodotto. Non lo ha vinto sbaragliandolo con la sua onnipotenza e ricacciandolo fuori dei confini del suo regno, ma prendendolo su di sé, soffrendone lui, in Cristo, le conseguenze e vincendo il male con il bene, che è come dire: l'odio con l'amore, la ribellione con l'obbedienza, la violenza con la mitezza, la menzogna con la verità. Sulla croce, Gesù " ha fatto la pace, distruggendo in se stesso l'inimicizia " ( Ef 2,15s ). Distruggendo "l'inimicizia", non il nemico; distruggendola "in se stesso", non negli altri. Questa, in breve, la rivelazione del mistero della croce a opera degli apostoli. Essa continuerà sotto altra forma - non più come Scrittura, ma come Tradizione - nella vita della Chiesa. In un'omelia tenuta nel II secolo, durante una liturgia come la nostra, in onore della Passione, un vescovo elevava questo ispirato inno alla croce nuovo albero di vita: " Quest'albero è per me salvezza eterna: di esso mi nutro, di esso mi pasco. Per le sue radici affondo le mie radici, per i suoi rami mi espando, della sua rugiada mi inebrio, del suo Spirito, come da soffio delizioso, sono fecondato. Quest'albero è nutrimento alla mia fame, sorgente per la mia sete, manto per la mia nudità … Quest'albero è mia protezione quando temo Dio, appoggio quando vacillo, premio quando combatto, trofeo quando vinco. Quest'albero è per me "il sentiero angusto e la via stretta" ( Mt 7,13s ), la scala di Giacobbe, la via degli angeli, alla cui sommità è davvero "appoggiato il Signore" ( Gen 28,13 ) " La croce assume, agli occhi della Chiesa, dimensioni cosmiche. Non è più solo un episodio della storia, ma qualcosa che ha cambiato la faccia della terra. " Quest'albero dalle dimensioni celesti - prosegue quell'inno - si è elevato dalla terra al cielo, fondamento di tutte le cose, sostegno dell'universo, supporto del mondo intero, vincolo cosmico che tiene unita l'instabile natura umana, assicurandola con i chiodi invisibili dello Spirito, affinché, stretta alla divinità, non possa più distaccarsene ". Negli atti del martirio di sant'Andrea che si leggevano una volta nel Breviario, l'Apostolo, prima di stendersi sopra la croce, le rivolge questo saluto: " O croce strumento di salvezza dell'Altissimo! O croce trofeo della vittoria di Cristo sui nemici! O croce che sei piantata sulla terra e hai il tuo frutto nel cielo! O nome della croce che sei pieno di ogni cosa! Conosco il tuo mistero! ". L'arte cristiana ha dato il suo contributo a questa celebrazione del mistero della croce. In certi mosaici absidali, come in Sant'Apollinare a Ravenna, sullo sfondo di un cielo stellato, si staglia, a tutto campo, una grande croce gemmata, con in basso la scritta Salus mundi: Salvezza del mondo. Nell'anno 569 dopo Cristo una reliquia della croce fu mandata in dono dall'imperatore bizantino Giustino II alla regina Radegonda a Poitiers. Per l'occasione, un poeta cristiano, Venanzio Fortunato, compose due inni in cui tutta questa comprensione del mistero della croce, raggiunta dalla Chiesa, si trasformò in canto. Sono gli inni che stanno accompagnando anche questa nostra liturgia. Da allora, essi sono serviti ininterrottamente, a generazioni e generazioni di cristiani, per esprimere la loro Commossa gratitudine e il loro entusiasmo per la croce di Cristo. Per la comunione dei santi, tali inni giungono a noi impregnati di tutta questa ricchezza di fede e di pietà. E Dio li ascolta così, con questo immenso accompagnamento, come un unico coro che attraversa i secoli. " Vexilla Regis prodeunt, fulget crucis mysterium ": " Avanza il vessillo del Re, rifulge il mistero della croce ". " O crux, ave spes ùnica ": " Salve, o croce, unica nostra speranza! ". Il tema della croce albero di vita percorre da cima a fondo il secondo dei due inni: " O croce fedele, il più nobile tra gli alberi, nessuna selva ne produce di simili quanto a fronde, fiori e frutti ". " Dulce lignum, dulces davos, dulcepondus sustinet ", sentiremo cantare tra breve: " Dolce legno, dolci chiodi che sostengono l'amato peso ". Neppure il tema della croce cosmica va perduto: " Terra, pontus, astro., mundus: quo lavantur flamine! ": " La terra, il mare, gli astri, il mondo: da quale fiume sono lavati! ". A un certo punto il poeta si rivolge alla croce, come a una creatura vivente, con quest'apostrofe commossa: " Flecte ramos arbor alta, tensa laxa viscera ": " Piega i rami, albero eccelso, allenta alquanto le tue fibre. Ammorbidisci la tua durezza naturale e sostieni con mite stipite le membra del nostro Re ". Questo lo "svelamento" del mistero della croce nel corso della storia della salvezza. Ma esso deve rinnovarsi a ogni epoca. Anche oggi, agli occhi della nostra generazione, bisogna che "rifulga il mistero della croce". Lo svelamento rituale che ha luogo nella liturgia deve essere accompagnato da uno svelamento esistenziale che avviene nella vita e nel cuore di ognuno. Dell'albero della vita piantato al centro della nuova Gerusalemme, si legge che " da dodici raccolti e produce frutti ogni mese " ( Ap 22,2 ). La croce ha in serbo un raccolto e un frutto anche per la presente stagione della storia e dobbiamo cercare di raccoglierlo. Ma come far comprendere il mistero della croce a una società, come la nostra, che alla croce oppone, a tutti i livelli, il piacere; che crede di aver finalmente riscattato il piacere, di averlo sottratto all'ingiusto sospetto e alla condanna che gravavano su di esso; che eleva inni al piacere, come in passato si elevavano inni alla croce? Una cultura che dal piacere, edonè in greco, ha ricevuto addirittura l'appellativo di "edonistica" e della quale purtroppo, chi più chi meno, tutti facciamo parte, almeno di fatto, anche se a parole la condanniamo? Molti nodi, molte incomprensioni tra la Chiesa e la cosiddetta cultura laica odierna si radicano qui. Noi possiamo almeno tentare di individuare dove risiede il vero nocciolo del problema e scoprire che forse c'è un punto da cui partire per un sereno dialogo. Il punto comune è la constatazione che in questa vita piacere e dolore si seguono l'un l'altro con la stessa regolarità con cui al sollevarsi di un'onda nel mare segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago che tenta di raggiungere la riva. Piacere e dolore sono contenuti l'uno nell'altro, inestricabilmente. L'uomo cerca disperatamente di staccare questi due fratelli siamesi, di isolare il piacere dal dolore. A volte si illude di esserci riuscito e nell'ebbrezza del godimento dimentica tutto e celebra la sua vittoria. Ma per poco tempo. Il dolore è lì, come una bevanda inebriante che, ossidandosi, si trasforma in veleno. Non un dolore diverso, indipendente, o dipendente da altra causa, ma proprio il dolore derivante dal piacere. È lo stesso piacere disordinato che si trasforma in sofferenza. E questo, o improvvisamente, tragicamente, o un po' alla volta, a causa della sua incapacità di durare e della morte. È un fatto che l'uomo ha constatato per conto suo e rappresentato in mille modi nella sua arte e nella sua letteratura. " Un non so che d'amaro sorge dall'intimo stesso d'ogni piacere e ci angoscia anche in mezzo alle delizie ". I "fiori del male" - ci assicura il loro stesso cantore - non hanno finito di spuntare che già mandano odore di decomposizione e di morte. La Chiesa dice di avere una risposta a questo che è il vero dramma dell'esistenza umana. Perché rifiutare la sua spiegazione, prima ancora di averla una volta veramente ascoltata? La spiegazione è questa. C'è stata, fin dall'inizio, una scelta volontaria dell'uomo, resa possibile dalla sua stessa natura composita, che lo ha portato a orientare esclusivamente verso le cose visibili la capacità di gioia, di cui era stato dotato perché aspirasse a godere di Dio. Al piacere, scelto contro Dio e contro ragione, Dio, attraverso la stessa natura, ha legato il dolore e la morte ( Gen 3,16ss ), più come rimedio che come punizione: perché non avvenisse che, seguendo a briglie sciolte il suo egoismo, l'uomo si distruggesse del tutto e distruggesse ognuno il suo prossimo. Così al piacere vediamo ormai aderire, come la sua ombra, la sofferenza. Ma piacere e dolore non si compensano a vicenda; questo dolore non redime il piacere, perché è esso stesso frutto del piacere, parte della stessa dialettica di peccato. La croce di Cristo ha finalmente spezzato questa catena. Egli, " in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce " ( Eb 12,2 ). ( Secondo un'altra traduzione possibile che però viene a dire la stessa cosa: " in vista della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce " ). Fece, insomma, il contrario di ciò che fece Adamo e che fa ogni uomo. Introdusse cosi nel mondo una nuova qualità di dolore: il dolore che non è frutto di piacere e di colpa, dolore puramente subito, ma dolore innocente e volontario. " La morte del Signore - ha scritto uno dei pensatori più profondi del cristianesimo, san Massimo il Confessore -, a differenza di quella degli altri uomini, non era un debito pagato per il piacere, ma piuttosto qualcosa che era gettato contro il piacere stesso. E così, attraverso questa morte, cambiò il destino meritato dall'uomo ". Ma non tutto finisce qui. Cristo è risorto. La croce è inghiottita dalla vittoria. Egli ha inaugurato una nuova gioia, una nuova qualità di piacere: quello che non precede il dolore, come sua causa, ma lo segue come suo frutto; quello che trova nella croce la sua sorgente e la speranza di non finire neppure con la morte, di essere eterno. E non solo il piacere puramente spirituale, ma ogni piacere onesto, anche quello che l'uomo e la donna sperimentano nel dono reciproco, nel generare la vita e nel vedere crescere i propri figli, il piacere dell'arte e della creatività, della bellezza, dell'amicizia, del lavoro felicemente portato a termine. Ogni gioia. Cristo soltanto può redimere davvero il piacere e la gioia umana dalla condanna che pesava, e pesa, su di essi, dovuta non solo al peccato, ma anche alla loro stessa natura di realtà corruttibili, destinate alla morte: " La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte " ( Rm 8,2 ). La croce non ti obbliga a rinnegare il piacere, ma a sottomettere il piacere alla volontà di Dio, a perseguirlo e a viverlo in obbedienza alla sua Parola e alla legge che egli ha dato non per rovinare all'uomo il piacere, ma per preservarglielo dal dolore e dalla morte. Perché attraverso le piccole gioie che l'uomo incontra sul suo cammino, aspiri alla gioia che non ha fine. La volontà di Dio è la "croce" del piacere. Ma se cadi ancora, se non sei stato pronto ad accettare subito tutta la volontà di Dio, ti ricordi che la croce è anche promessa di perdono e di misericordia per chi è caduto. Non sei costretto a consumarti nella colpa. Nel nostro secolo è stato scritto un romanzo intitolato Il Processo. In esso si parla di un uomo che un giorno, senza che nessuno sappia il perché, viene dichiarato in arresto, pur continuando la sua solita vita e il suo lavoro. Comincia un'estenuante ricerca per conoscere i motivi, il tribunale, le imputazioni, le procedure. Ma nessuno sa dirgli niente, se non che c'è veramente un processo in corso a suo carico. Finché un giorno verranno a prelevarlo per l'esecuzione. È la storia dell'umanità che lotta, fino alla morte, con il senso di un'oscura colpa, di cui non riesce a liberarsi. Nel corso della vicenda si viene a sapere che vi sarebbero, per quest'uomo, tre possibilità: l'assoluzione vera, l'assoluzione apparente e il rinvio. L'assoluzione apparente e il rinvio però non risolverebbero nulla; servirebbero solo a tenere l'imputato in un'incertezza mortale per tutta la vita. Nell'assoluzione vera invece " gli atti processuali devono essere totalmente eliminati, scompaiono del tutto dal procedimento, non solo l'accusa, ma anche il processo e persino la sentenza vengono distrutti, tutto viene distrutto ". Ma di queste assoluzioni vere, tanto sospirate, non si sa se ne sia esistita mai alcuna; ci sono solo voci in proposito, null'altro che "bellissime leggende". L'opera finisce così, come tutte quelle di questo autore: con qualcosa che si intravede da lontano, si sogna, ma che non c'è possibilità alcuna di raggiungere. Nel giorno del Venerdì Santo, noi possiamo gridare ai milioni di uomini che si vedono rappresentati in quell'imputato: l'assoluzione vera esiste, non è solo una leggenda, una cosa bellissima ma irraggiungibile. No. Gesù ha distrutto il " documento scritto della nostra colpa; lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce " ( Col 2,14 ). Ha distrutto tutto. " Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù " ( Rm 8,1 ). Nessuna condanna! Di nessun genere! Per quelli che credono in Cristo Gesù! Rifulge così, anche oggi, il mistero della croce: " Fidget crucis my stermini ". Continua a rischiarare il nostro cammino. Un sociologo ha scritto di recente, a proposito della crisi attuale del sacro: " L'anima dell'occidente si è inaridita. C'è un pantheon aperto a tutti gli dei, ma povero di sacralità. La religione formale, la religione sociale, la religione delle buone opere non parlano a tutti. Dal profondo della società appare il bisogno di un nuovo contatto col divino. Che espanda l'anima e dia forza, gioia, speranza e un senso glorioso dell'esistenza ". Questo fu ciò che la predicazione della croce operò agli inizi del cristianesimo. Come un'ondata di incontenibile speranza e di gioia, essa spazzò via tutto ciò in cui l'uomo del decadente impero romano cercava rifugio: culti misterici, magia, teurgia, nuove religioni. Si ebbe la sensazione come di una "nuova primavera del mondo". Questo può fare anche oggi, nella nostra "epoca di angoscia", la predicazione della croce di Cristo, se solo sappiamo ridare a essa l'afflato, l'entusiasmo, la fede di allora. Una Chiesa nazionale europea si è rivolta di recente a un'agenzia pubblicitaria per sapere come presentare il messaggio cristiano in occasione della Pasqua e il consiglio che si è sentita dare è stato di eliminare, come prima cosa, il simbolo della croce perché troppo antiquato e triste! Quale terribile fraintendimento! Quello che occorre è che avvenga uno "svelamento" della croce anche nel cuore dei cristiani, come è avvenuto nella storia e avviene nella liturgia. Che passiamo anche noi dalla croce segno di condanna e di maledizione, alla croce salvezza, perdono, " unica speranza ", vanto. Fino a sentirci spinti a gridare, giubilanti, con san Paolo: " Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo! " ( Gal 6,14 ). Il Papa che ora eleverà sopra il nostro capo la croce e che, nel giubileo del Duemila, varcherà la porta santa recando innanzi a sé la croce di Cristo, è il simbolo della Chiesa che da un anno all'altro, da un secolo all'altro e, fra poco, da un millennio all'altro, consegna intatta al mondo la cosa più preziosa che ha: il mistero della croce di Gesù Cristo. Davvero, rifulge in questo giorno il mistero della croce: " Fulget crucis my stermini ". " Uno è morto per tutti! " Uno storico greco narra che il re Damocle volle un giorno far provare come vive un re, a un suddito che invidiava la sua condizione. Lo invitò alla sua mensa e gli fece servire un lauto pranzo. La vita a corte sembra all'uomo sempre più invidiabile. Ma a un certo punto il re lo invita a sollevare lo sguardo sopra di sé, e che cosa vede il servo? Una spada pendeva sulla sua testa, con la punta in giù, appesa a un crine di cavallo! Di colpo, impallidì, il boccone gli si fermò in gola e cominciò a tremare. Così - voleva dire Damocle - vivono i re: con una spada che incombe notte e giorno sul loro capo. Ma non solo i re, aggiungiamo noi. Una spada di Damocle pende sulla testa di tutti gli uomini, nessuno escluso. Solo che essi non vi badano, tutti intenti come sono alle loro occupazioni e distrazioni. E questa spada si chiama la morte. È per amore, non per odio, verso gli uomini che la Chiesa deve assumersi ogni tanto l'ingrato compito di invitare a sollevare lo sguardo per vedere quella spada che pende sul capo, perché essa non ci cada addosso all'improvviso, trovandoci impreparati. Ma non siamo già abbastanza assillati dal pensiero della morte per conto nostro? Che bisogno c'è di rigirare il coltello nella piaga? È verissimo. Il timore della morte è confitto nel più profondo di ogni essere umano. L'angoscia della morte, ha detto un grande psicologo, è " il verme al centro " di ogni pensiero. Essa è l'espressione immediata del più potente degli istinti umani, l'istinto di autoconservazione. Se si potesse udire il grido silenzioso che sale dall'umanità intera, si ascolterebbe l'urlo tremendo: " Non voglio morire! ". Allora perché invitare gli uomini a pensare alla morte, se essa ci è già tanto presente? È semplice. Perché noi abbiamo scelto di rimuovere il pensiero della morte. Di far finta che non esista, o che esista solo per gli altri, non per noi. In una grande città d'Italia è sorto, dopo la guerra, un nuovo quartiere residenziale di lusso. I costruttori hanno deciso che non doveva esserci in esso alcuna chiesa e il motivo era che il rintocco delle campane a morto e la vista dei funerali avrebbe potuto turbare la serenità degli inquilini. Ma il pensiero della morte non si lascia accantonare o rimuovere con questi poveri mezzi. Allora non resta che reprimerlo ed è quello che la maggioranza di noi fa. E reprimere costa fatica, attenzione costante, un continuo sforzo psicologico come per tener chiuso un coperchio che preme con forza per sollevarsi. Noi impieghiamo una parte notevole delle nostre energie per tener lontano il pensiero della morte. Alcuni ostentano sicurezza a questo riguardo, dicono che sanno di dover morire, ma che non se ne preoccupano eccessivamente; che pensano alla vita e non alla morte … Ma è una posa dell'uomo secolarizzato; in realtà questo non è che uno dei tanti modi con cui la paura viene repressa. È per questo che occorre parlare una buona volta della morte e parlarne proprio il Venerdì Santo, il giorno in cui essa fu vinta. Parlarne non per accrescere la paura, ma per esserne liberati da colui che solo può farlo. Quali risposte hanno trovato gli uomini al problema della morte? I poeti sono stati i più sinceri. Non avendo soluzioni da proporre, essi ci aiutano almeno a prendere coscienza della nostra situazione e a intenerirci di fronte alla nostra sorte e a quella dei nostri simili. " Si sta / come d'autunno / sugli alberi / le foglie ", ha scritto uno di essi ( G. Ungaretti ). L'uomo, ha detto un altro, è come un'onda che rulla e avanza spumeggiando sul mare e non sa su quale spiaggia si infrangerà. È una luce prossima a spegnersi che brilla in piccoli cerchi tremolanti senza sapere quale di essi per ultimo brillerà ( G. Becquer ). " Uomini, pace! Nella prona terra / troppo è il mistero ", ha esclamato un nostro poeta di fronte all'enigma della morte ( G. Pascoli ). I filosofi invece hanno tentato di "spiegare" la morte. Uno di essi, Epicuro, ha affermato che la morte è un falso problema, perché - diceva - " quando ci sono io non c'è ancora la morte e quando c'è la morte non ci sono più io ". Anche il marxismo ha tentato di eliminare il problema della morte. La morte, dice, è affare della persona, e proprio questo dimostra che ciò che conta non è la persona umana, ma la società, la specie che non muore. Il marxismo però è finito e il problema della morte resta. Prima che all'esterno, nella corsa agli armamenti o sui mercati mondiali, il comunismo aveva perso la sua battaglia nei cuori. Non aveva saputo far altro, di fronte alla morte, se non costruire grandi mausolei. La stessa Bibbia, prima di Gesù Cristo, era rimasta quasi muta sul problema della morte. " Vanità di vanità, tutto è vanità ", concludeva sconsolatamente il Qoelet ( Qo 12,8 ). L'uomo che muore è paragonato a una lucerna che s'infrange e si spegne, a un'anfora che si rompe alla fonte, a una carrucola che si spezza, lasciando cadere definitivamente il secchio nel pozzo ( Qo 12,1-8 ). Il contatto con Dio si interrompe con la morte. " Non i morti lodano il Signore, ne quanti scendono nella tomba " ( Sal 115,17 ). " O morte, come è amaro il tuo pensiero! ", concludeva il Siracide ( Sir 41,1 ). Cosa ha da dire la fede cristiana su tutto ciò? Una cosa semplice e grandiosa: che la morte c'è, che è il più grande dei nostri problemi, ma che Cristo ha vinto la morte! La morte umana non è più la stessa di prima, un fatto decisivo è intervenuto. Nella fede si coglie l'incredibile novità che solo la venuta di Dio stesso sulla terra poteva provocare. Essa ha perso il suo pungiglione, come un serpente il cui veleno ormai è capace solo di addormentare la vittima per qualche ora, ma non di ucciderla. " La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? " ( 1 Cor 15,55 ). Nei Vangeli, è un centurione romano che proclama la novità di questa morte: " Allora - è scritto -, il centurione che gli stava di fronte, vedendolo morire in quel modo, disse: Veramente quest'uomo era figlio di Dio! " ( Mc 15,39 ). Egli se ne intendeva di combattenti e di combattimenti; aveva riconosciuto subito che l'" alto grido " emesso da Gesù al momento di spirare, era il grido di un vincitore, non di uno sconfitto. Ma come ha vinto Gesù la morte? Non evitandola, ricacciandola indietro come un nemico in fuga. L'ha vinta subendola, assaporandone in sé tutta l'amarezza. L'ha vinta dall'interno, non dall'esterno. Richiamiamo alla mente le parole della seconda lettura: " Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte … " ( Eb 5,7 ). Non abbiamo davvero un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, soprattutto la nostra paura della morte. Egli sa bene cos'è la morte! Tre volte nei Vangeli si legge che Gesù pianse e, di queste, due furono davanti al dolore per un morto. Nel Getsemani Gesù ha vissuto fino in fondo la nostra esperienza umana di fronte alla morte. " Cominciò a sentire paura e angoscia ", dicono i Vangeli. E i due verbi usati a questo punto suggeriscono l'idea di un uomo in preda a uno smarrimento profondo, a una specie di terrore solitario, come chi si sente tagliato fuori dal consorzio umano. Gesù non si è addentrato nella morte come chi sa di avere un asso nella manica che tirerà fuori al momento giusto. Se durante la sua vita, egli mostra a volte di sapere che sarebbe risorto, questa era una conoscenza speciale, di cui non disponeva come e quando voleva. Il grido sulla croce: " Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato? " indica che, in questo momento, come uomo, egli non disponeva di tale certezza. Gesù si è addentrato nella morte come noi, come chi varca una soglia al buio e non vede che cosa l'attende al di là. Solo lo sosteneva l'incrollabile fiducia nel Padre che gli fece esclamare: " Padre, nelle tue mani affido il mio spirito! " ( Lc 23,46 ). Ma che è successo, varcata quella soglia oscura? I Padri erano soliti spiegarlo con un'immagine. La morte, come una bestia vorace, si è attaccata anche a Cristo e l'ha ingoiato, pensando che le appartenesse come ogni mortale. Ma è stata presa all'amo. Quell'umanità nascondeva dentro di sé del "granito", il Verbo di Dio che non può morire. La morte ne ha avuto i denti spezzati per sempre. In un'omelia tenuta in questo stesso giorno del Venerdì Santo, un vescovo del II secolo esclamava: " Con il suo Spirito non soggetto alla morte, Cristo uccise la morte che uccideva l'uomo ". Gesù ha vinto la morte, "morendo". Mortem nostram moriendo destruxit: è il grido pasquale che si leva all'unisono dalla Chiesa d'Oriente e d'Occidente in questo giorno. La morte non è più un muro davanti al quale tutto si infrange; è un passaggio, cioè una Pasqua. È una specie di "ponte dei sospiri", attraverso il quale si entra nella vita vera che non conosce la morte. Gesù infatti - e qui sta il grande annuncio cristiano - non è morto solo per sé, non ci ha lasciato solo un esempio di morte eroica, come Socrate. Ha fatto ben altro: " Uno è morto per tutti " ( 2 Cor 5,14 ), esclama san Paolo, e ancora: " Egli ha provato la morte a vantaggio di tutti " ( Eb 2,9 ). Affermazioni straordinarie che non ci fanno gridare di gioia solo perché non le prendiamo abbastanza sul serio e abbastanza alla lettera come dovremmo. " Battezzati nella morte di Cristo " ( Rm 6,3 ), noi siamo entrati in un rapporto reale, anche se mistico, con tale morte, ne siamo diventati partecipi, tanto che l'Apostolo ha il coraggio di proclamare nella fede: " Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio " ( Col 3,3 ). " Uno è morto per tutti, quindi tutti sono morti " ( 2 Cor 5,14 ). Ed eccone la ragione molto semplice. Poiché noi apparteniamo ormai a Cristo ben più che a noi stessi ( 1 Cor 6,19s ), ne consegue che, inversamente, ciò che è di Cristo ci appartiene ben più di ciò che è nostro. La sua morte è più nostra che la nostra stessa morte. " Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro, perché voi siete di Cristo ", dice ancora san Paolo ( 1 Cor 3,22s ). La morte è nostra, più di quanto noi siamo della morte; ci appartiene, più di quanto noi apparteniamo a essa. In Cristo abbiamo vinto anche noi la morte. Quando si tratta della morte, la cosa più importante, nel cristianesimo, non è il fatto che dobbiamo morire, ma il fatto che Cristo è morto. Il cristianesimo non si fa strada nelle coscienze con la paura della morte; si fa strada con la morte di Cristo. Gesù è venuto a liberare gli uomini dalla paura della morte, non ad accrescerla. Il Figlio di Dio ha assunto carne e sangue come noi, " per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita " ( Eb 2,14s ). Quello che forse più spaventa, della morte, è la solitudine in cui dobbiamo affrontarla. " Nessuno - è stato detto - può morire per l'altro, ma ciascuno dovrà lottare personalmente con la morte. Possiamo gridare quanto vogliamo alle orecchie di chi ci sta vicino, ma in quel momento ognuno dovrà vedersela con se stesso ". Ma questo non è più del tutto vero. " Se moriamo con lui, vivremo anche con lui " ( 2 Tm 2,11 ). È possibile dunque morire in due! Qui si scopre che cosa vi è di veramente grave nell'eutanasia, dal punto di vista cristiano. Essa toglie alla morte dell'uomo il suo legame con la morte di Cristo; la spoglia del suo carattere pasquale; la riporta indietro a ciò che era prima di Cristo. La morte è privata della sua austera maestà, diventando opera dell'uomo, decisione di una libertà finita. È letteralmente "profanata", cioè spogliata del suo carattere sacro. Gli uomini non hanno mai cessato, da che mondo è mondo, di cercare rimedi contro la morte. Uno di questi, tipico dell'Antico Testamento, si chiama la prole: sopravvivere nei figli. Un altro è la fama. Non morirò del tutto, canta il poeta pagano, non omnis, moriar. " Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo ( aere perennius ) " ( Grazio ). Ai nostri giorni si va diffondendo un nuovo pseudorimedio: la dottrina della reincarnazione. Ma " è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio " ( Eb 9,27 ). Una sola volta, semel! La dottrina della reincarnazione è incompatibile con la fede cristiana. Come viene proposta trnoi in Occidente essa è frutto, tra l'altro, di un madornale errore. All'origine, e in tutte le religioni in cui essa è professata come parte del proprio credo, la reincarnazione non significa un supplemento di vita, ma di sofferenza; non è motivo di consolazione, ma di spavento. Con essa si viene a dire all'uomo: " Bada, che sei fai il male, dovrai rinascere per espiarlo! ". È una minaccia e un castigo. È come dire a un carcerato, alla fine della sua detenzione, che la sua pena è stata raddoppiata e tutto deve ricominciare da capo. Noi abbiamo addomesticato tutto, adattandolo alla nostra mentalità occidentale materialistica e secolarizzata. Abbiamo fatto della dottrina della reincarnazione, inventata quando non si conosceva ancora la risurrezione di Cristo, un alibi per sfuggire alla serietà della vita e della morte. Il rimedio vero è quello che la Chiesa ricorda in questo giorno dell'anno: " Uno è morto per tutti! ". " Cristo ha sperimentato la morte a vantaggio di tutti! ". Per premunirsi contro la morte, non dobbiamo fare altro ormai che stringerci a lui. Ancorarci a Cristo, mediante la fede, come si àncora una barca al fondo marino, perché possa resistere nella tempesta che sta per sopraggiungere. Una volta si inculcavano molti mezzi per "apparecchiarsi" alla morte. Il principale era quello di pensare spesso a essa, di rappresentarsela nei particolari più raccapriccianti. Ma l'importante non è tanto tenere davanti agli occhi la nostra morte, quanto la morte di Cristo, non il teschio ma il crocifisso. Il grado di unione con lui sarà il grado della nostra sicurezza dinanzi alla morte. Dobbiamo fare in modo che l'attaccamento a Cristo sia più forte di quello alle cose, all'ufficio, alle persone care, a tutto, di modo che nulla abbia il potere di trattenerci, quando giungerà " il momento di sciogliere le vele " ( 2 Tm 4,6 ). Francesco d'Assisi, che aveva realizzato in grado perfetto questa unione con Cristo, vicino alla morte, aggiunse al suo Cantico delle creature una strofa: " Laudato sii, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullo homo vivente po' scappare ". E quando gli annunciarono che era prossimo alla fine, esclamò: " Ben venga mia sorella Morte! ". La morte ha cambiato volto: è diventata una sorella. Egli non è stato il solo. Dopo l'ultima guerra, fu pubblicato un libro intitolato Ultime lettere da Stalingrado. Erano lettere di soldati tedeschi stretti nella sacca di Stalingrado, partite con l'ultimo convoglio, prima dell'attacco finale dell'esercito russo in cui tutti perirono. In una di esse, un giovane soldato scriveva ai genitori: " Non ho paura della morte. La mia fede mi dà questa bella sicurezza! ". Gesù, prima di morire, istituì l'Eucaristia e in essa anticipò la propria morte; la sottrasse al caso, agli eventi e alle spiegazioni contingenti. Le diede un senso, il senso che intendeva lui, non i suoi nemici: fare di essa il memoriale della nuova alleanza, l'espiazione dei peccati, la suprema offerta d'amore al Padre per gli uomini. " Prendete - disse -, mangiate: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi ". In ogni Messa egli offre anche a noi questa meravigliosa possibilità di dare in anticipo un senso alla nostra morte, di unirci a lui per fare di essa un'offerta viva in Cristo, una libagione per il sacrifico, come diceva san Paolo ( 2 Tm 4,6 ). Un giorno, sul far della sera, sulla sponda del lago, Gesù disse ai discepoli: " Passiamo all'altra riva! " ( Mc 4,35 ). Ci sarà un giorno e una sera in cui egli dirà anche a noi queste parole: " Passiamo all'altra riva ". Beati quelli che, come i discepoli, saranno pronti a prenderlo con sé sulla barca, " così com'è ", e salpare con lui nella fede. Un grazie profondo erompe, in questo giorno, dal cuore dei credenti e di tutto il genere umano: Grazie, Signore Gesù Cristo, a nome di chi sa e di chi non sa che tu sei morto per lui. Grazie per il tuo sudore di sangue, la tua angoscia, e il grido di vittoria dalla croce. Sii vicino a coloro che stanno lasciando ora questo mondo e ripeti a essi ciò che dicesti al buon ladrone dalla croce: " Oggi sarai con me in paradiso! ". Rimani con noi, Signore, perché si fa sera, e la vita già volge al declino … " L'avete fatto a me " " La passione del Signore - ha scritto san Leone Magno - si prolunga sino alla fine del mondo " ( Passio Domini usque in fìnem producitur mundi ). Si prolunga - spiega - nel suo corpo mistico che è la Chiesa, specie nei poveri, nei malati e nei perseguitati. Blaise Pascal ha reso celebre questo pensiero facendolo suo: " Gesù - dice - è in agonia fino alla fine del mondo. Non bisogna dormire durante tutto questo tempo ". Meditiamo un po' quest'anno su questo Gesù che soffre ed è in agonia oggi. La liturgia è memoria, presenza e attesa. Da essa partono sempre tre movimenti ideali: uno all'indietro, agli eventi storici commemorati; un altro in avanti, al ritorno glorioso del Signore; un altro all'intorno, all'oggi della nostra vita. Seguiamo questo terzo movimento e da questa celebrazione liturgica spingiamo lo sguardo alla realtà che ci circonda. Dove "soffre", dove "è in agonia" oggi Gesù? In tantissimi luoghi e situazioni. Ma fissiamo l'attenzione su una sola di esse, per non perderci nel vago e nella molteplicità: la povertà! Cristo è inchiodato alla croce nei poveri. I chiodi sono le ingiustizie, le sofferenze e le umiliazioni che si infliggono a essi. Gesù non può scendere dalla croce se non gli togliamo questi chiodi … Che se non è in nostro potere toglierglieli, subito e dappertutto, nella realtà, cominciamo almeno a toglierglieli nel nostro cuore, a "schiodarlo" dentro di noi. Il più grande peccato contro i poveri è forse l'indifferenza, il far finta di non vedere, il "passar oltre, dall'altra parte della strada" ( Lc 10,31 ). Ignorare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e soprattutto senza speranza di un futuro migliore - scriveva il Papa nell'enciclica Sollicitudo rei sociolis - " significa assimilarci al ricco epulone che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta" ( n. 42 ). Noi tendiamo a mettere, tra noi e i poveri, dei doppi vetri. L'effetto dei doppi vetri, oggi così sfruttato, è che impedisce il passaggio del freddo e dei rumori, stempera tutto, fa giungere tutto attutito, ovattato. E infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano. Non ci penetra al cuore. La prima cosa da fare dunque, nei confronti dei poveri, è rompere i doppi vetri, superare l'indifferenza, l'insensibilità. Gettare via le difese e lasciarci invadere da una sana inquietudine a causa della miseria spaventosa che c'è nel mondo. Farci entrare i poveri nella carne. Dobbiamo "accorgerci" dei poveri. Accorgersi indica un improvviso aprirsi degli occhi, un soprassalto di coscienza, per cui cominciamo a vedere qualcosa che era già prima, ma che non vedevamo. Il grido dei poveri - scriveva Paolo VI - ci obbliga " a destare le coscienze di fronte al dramma della miseria e alle esigenze di giustizia sociale del Vangelo e della Chiesa ". Immaginiamo che un giorno, mentre guardiamo, in televisione, le immagini di qualche sciagura ( un deragliamento di treno, un incidente stradale, il crollo o l'incendio di un edificio ) improvvisamente riconosciamo tra le vittime un parente stretto: la madre, un fratello, il marito. Che grido ci esce dalla gola! Che mutamento di cuore rispetto a un istante prima! Che diverso interesse all'evento! Che è successo? Una cosa semplicissima: quello che prima percepivamo solo con gli occhi e con il cervello, ora lo percepiamo con il cuore. Ebbene, questo è ciò che dovrebbe avvenire, almeno in qualche misura, quando vediamo scorrere davanti ai nostri occhi certi spettacoli allucinanti di miseria. Sono, o non sono, essi, nostri fratelli? Non apparteniamo tutti alla stessa famiglia umana e non è scritto forse che siamo " membra gli uni degli altri " ( Rm 12,5 )? Con il tempo, purtroppo, ci si abitua a tutto, e noi ci siamo assuefatti alla miseria altrui, alle immagini di corpi scheletriti dalla fame. Non ci impressionano più di tanto, le diamo quasi per inevitabili e per scontate. Ma mettiamoci un istante dalla parte di Dio, cerchiamo di vedere le cose come le vede lui. Qualcuno ha paragonato la terra a un'astronave in volo nel cosmo, in cui uno dei tre cosmonauti a bordo consuma l'85% delle risorse presenti e briga per accaparrarsi anche il rimanente 15%. Con la venuta di Gesù Cristo il problema dei poveri ha assunto, nella storia, una dimensione nuova. È divenuto un problema anche cristologico. Gesù di Nazaret si è identificato con i poveri. Colui che pronunciò sul pane le parole: " Questo è il mio corpo ", ha detto queste stesse parole anche dei poveri. Le ha dette quando, parlando di quello che si è fatto, o non si è fatto, per l'affamato, l'assetato, il prigioniero, l'ignudo e l'esule, ha dichiarato solennemente: " L'avete fatto a me " e " non l'avete fatto a me " ( Mt 25,31ss ). Questo infatti equivale a dire: " Quella certa persona lacera, bisognosa di un po' di pane, quel povero che tendeva la mano, ero io, ero io! ". Ricordo la prima volta che questa verità "esplose" dentro di me in tutta la sua luce. Ero in missione in un paese del Terzo mondo e a ogni nuovo spettacolo di miseria che vedevo - ora un bambino dal vestitino a brandelli, il ventre tutto gonfio e il volto ricoperto di mosche, ora gruppetti di persone che rincorrevano un carro di immondizie nella speranza di trame qualcosa appena rovesciato nella discarica, ora un corpo piagato -, sentivo come una voce rimbombarmi dentro: " Questo è il mio corpo. Questo è il mio corpo ". C'era da rimanere senza fiato. Il povero è anch'esso un vicarius Christi, uno che tiene le veci di Cristo. Non nel senso che quello che fa il povero è come se lo facesse Cristo, ma nel senso che quello che si fa al povero è come se lo si facesse a Cristo: " L'avete fatto a me! ". C'è un nesso assai stretto tra l'Eucaristia e i poveri. Tutti e due, in senso diverso, sono il corpo di Cristo; in tutte e due le cose si ha una sua presenza. San Giovanni Crisostomo scrive: " Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri, quando soffre il freddo e la nudità … Che vantaggio vuoi che abbia Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane ". Cristo stesso, del resto, si è premurato di confermare, lungo i secoli, questa interpretazione stretta e realistica della sua parola " l'avete fatto a me ". Un giorno, Martino ancora soldato e catecumeno, nel nord dell'Europa dove prestava servizio, incontrò un povero nudo intirizzito dal freddo. Non avendo altro con sé che la clamide che portava indosso, con un colpo di spada la divise in due e ne diede metà al povero. La notte gli apparve Cristo vestito della metà della sua clamide, che, visibilmente fiero, diceva agli angeli che lo circondavano: " Martino, ancora catecumeno, mi ha ricoperto con questa veste ". Il povero è Gesù che gira ancora in incognito nel mondo. Un po' come quando, dopo la risurrezione, appariva sotto altre sembianze - a Maria come giardiniere, ai discepoli di Emmaus come un pellegrino, agli apostoli sul lago come un passante in piedi sulla riva -, aspettando che "i loro occhi si aprissero". Il primo che in questi casi lo riconosceva, gridava agli altri: " È il Signore! " ( Gv 21,7 ). Oh, se alla vista di un povero uscisse anche a noi di bocca, una volta, lo stesso grido di riconoscimento: " È il Signore! ", è Gesù! Come fare per tradurre in pratica, almeno in qualche misura, il nostro interesse per i poveri? Essi infatti non hanno bisogno dei nostri buoni sentimenti, ma di fatti. Da soli, questi servirebbero solo a tranquillizzare la nostra cattiva coscienza. " Se uno ha ricchezze in questo mondo - scrive l'evangelista Giovanni - e vedendo il fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio? Fratelli, non amiamo soltanto a parole ne con la lingua, ma coi fatti e nella verità " ( 1 Gv 3,17-18 ). Quello che dobbiamo fare in concreto per i poveri, lo si può riassumere in tre parole: evangelizzarli, amarli, soccorrerli. Evangelizzare i poveri: questa fu la missione che Gesù riconobbe come la sua per eccellenza ( Lc 4,18 ) e che affidò alla Chiesa. Non dobbiamo permettere che la nostra cattiva coscienza ci spinga a commettere l'enorme ingiustizia di privare della buona notizia coloro che ne sono i primi e più naturali destinatari. Magari, adducendo, a nostra scusa, il proverbio che "ventre affamato non ha orecchi". Gesù moltiplicava i pani e insieme anche la parola. Anzi prima amministrava ( a volte per tre giorni di seguito ), la Parola, poi si preoccupava anche dei pani. Non di solo pane vive il povero, ma anche di speranza e di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. I poveri hanno il sacrosanto diritto di udire il Vangelo integrale, non in edizione ridotta, adattata e di comodo, politicizzata. Hanno diritto di udire anche oggi la buona notizia: " Beati voi poveri ". Sì beati, nonostante tutto. Perché a voi si apre davanti una "possibilità" immensa, preclusa, o assai difficile per i ricchi: il Regno. Amare i poveri. L'amore di Cristo e quello dei poveri si richiamano a vicenda. Alcuni ( come Charles de Foucauid ), partendo dall'amore per Cristo, sono giunti all'amore per i poveri; altri ( come Simone Weil ), sono partiti dall'amore per i poveri, i proletari, e da questo sono stati condotti all'amore per Cristo. Amare i poveri significa anzitutto rispettarli e riconoscere la loro dignità. In essi - proprio per la mancanza di altri titoli e distinzioni accessorie -, brilla di luce più viva la radicale dignità dell'essere umano. Amare i poveri significa anche chiedere loro perdono. Perdono per non riuscire ad andare loro incontro veramente e con gioia. Per le distanze che, nonostante tutto, manteniamo tra noi e loro. Per le continue umiliazioni di cui devono saziarsi. Perdono di vivere di indignazione riflessa e passiva di fronte all'ingiustizia; della demagogia a loro riguardo; di dire ognuno la sua, cercando di legittimare così il nostro quieto vivere. Di pretendere sempre la certezza matematica di non essere imbrogliati, prima di fare un qualsiasi gesto nei loro confronti. Di non riconoscere in essi il tabernacolo vivente del Cristo povero e disprezzato. Di non essere dei loro. I poveri non meritano, del resto, soltanto la nostra compassione e commiserazione; meritano anche la nostra ammirazione. Essi sono i veri campioni dell'umanità. Si distribuiscono ogni anno premi Nobel, coppe, medaglie d'oro, d'argento, di bronzo; al merito, alla memoria o ai vincitori di gare. E magari solo perché alcuni sono stati capaci di correre nel tempo più breve i cento, i duecento o quattrocento metri a ostacoli; di saltare un centimetro più alto degli altri, di vincere una maratona o uno slalom. Ma se uno osservasse di quali salti mortali, di quale resistenza, di quali slalom, essi sono capaci, e non una volta, ma per tutta la vita, le performance dei più famosi atleti ci sembrerebbero giochetti da fanciulli. Evangelizzare i poveri, amare i poveri, infine soccorrere i poveri. A che serve, scrive san Giacomo, impietosirsi davanti a un fratello o una sorella privi del vestito e del cibo, dicendo loro: " Poveretto, come soffri! Va', riscaldati, saziati! ", se tu non gli dai nulla di quanto ha bisogno per riscaldarsi e nutrirsi? La compassione, come la fede, senza le opere è morta ( Gc 2,15-17 ). Gesù nel giudizio non dirà: " Ero nudo e mi avete compatito "; ma " Ero nudo e mi avete vestito ". Oggi però non basta più la semplice elemosina, anche se nulla ci dispensa dal fare quello che possiamo, anche a questo livello spicciolo e individuale. Quello che occorrerebbe oggi è una nuova crociata, una mobilitazione corale di tutta la cristianità e di tutto il mondo civile, per liberare i sepolcri viventi di Cristo che sono i milioni di persone che muoiono di fame, di malattie e di stenti. Questa sarebbe una crociata degna di tale nome, cioè della croce di Cristo. Eliminare o ridurre l'ingiusto e scandaloso abisso che esiste tra ricchi e poveri nel mondo è il compito più urgente ( e più ingente ) che il millennio che sta per chiudersi consegna a quello che presto si aprirà. Non bisogna prendersela con Dio davanti alla miseria del mondo, ma con noi stessi. Ho letto da qualche parte che un giorno, vedendo una bambina tremante di freddo e che piangeva per la fame, un uomo fu preso da un moto di sdegno e di ribellione e gridò: " O Dio, dove sei? Perché non fai qualcosa per quella creatura innocente? ". Ma una voce interiore gli rispose: " Certo che ho fatto qualche cosa per lei. Ho fatto te! ". La Scrittura, in un salmo, proclama beati coloro che prendono a cuore la sorte del povero: Beatus vir qui intelligit super egenum et pauperem, " Beato l'uomo che si da pensiero del povero e dell'indigente " ( Sal 41,1 ). Su costui è invocata una benedizione che nella Volgata suonava così: Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatumfaciat eum in terra, " Il Signore lo conservi, gli dia vita e lo renda felice sulla terra ". Questa invocazione è divenuta, nella Chiesa cattolica, la preghiera liturgica ufficiale prò Summo Pontifico. Mi sia consentito, venerabili Padri e fratelli, far risuonare di nuovo tale preghiera, al termine di queste riflessioni sui poveri. Sono i poveri stessi che, per mio mezzo, ringraziano e benedicono nel giorno in cui commemoriamo la passione di Cristo che in essi si prolunga. Nessuno al mondo, credo, merita più di lui questa benedizione che sale dal cuore dei poveri. Il suo esempio non ha permesso a nessuno, dentro e fuori la Chiesa, di rimanere tranquillo nel suo egoismo e nella sua indifferenza di fronte alle masse dei diseredati della terra. Dominus conservet eum, et vivifice! eum, et beatumfaciat eum in terra: " Il Signore lo conservi, gli dia vita e lo renda felice sulla terra ". Così sia. " Ho abbattuto il muro di separazione " Nella sua lettera apostolica Tertio millennio adveniente, che, come stella cometa, sta guidando la Chiesa cattolica verso il giubileo del Duemila, Giovanni Paolo II ha scritto: " È giusto che, mentre il secondo Millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli … Essa non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi " ( n. 33 ). Tra questi peccati assume un rilievo particolare quello commesso nei confronti del popolo ebraico. A conclusione del Simposio che si è tenuto in Vaticano dal 30 ottobre al 1° novembre dell'anno scorso sui cristiani e l'antisemitismo, il Papa affermava: " Nel mondo cristiano sono troppo a lungo circolate interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico e alla sua pretesa colpevolezza, generando sentimenti di ostilità verso questo popolo. Essi hanno contribuito ad addormentare le coscienze, di modo che, quando si è scatenata sull'Europa l'ondata delle persecuzioni ispirate da un antisemitismo pagano … la resistenza spirituale di molti non è stata quella che l'umanità era in diritto di aspettarsi da parte dei discepoli di Cristo ". Da tempo sono stati messi in chiaro i fondamenti teologici che permettono questa coraggiosa assunzione di responsabilità, senza intaccare minimamente la nostra fede nella Chiesa, per se stessa, " santa e immacolata ". Ma in queste richieste di perdono da parte della Chiesa c'è un significato anche teologico che non deve passare inosservato. Quando la Chiesa si assume la responsabilità delle colpe dei suoi membri, compie l'atto forse più bello che possa fare sulla terra: scagiona Dio, proclama: Dio è innocente, anaitios o Theos!, Dio non ha colpa; siamo noi che abbiamo peccato. Dice col profeta: " Al Signore Dio nostro la giustizia; a noi il disonore sul volto " ( Bar 1,15 ). Il Venerdì Santo è stato, lungo i secoli, il terreno di cultura privilegiato dell'incomprensione e ostilità verso gli ebrei. È giusto dunque che dal Venerdì Santo parta l'opera di riconciliazione e di "purificazione della memoria". San Paolo ci da questa interpretazione dell'evento della croce: " Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia [ … ], per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia [ … ]. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito " ( Ef 2,14-18 ). I "due popoli", si sa, sono i Giudei e i pagani. Questa visione profetica dell'Apostolo è stata fortemente oscurata nei fatti. Fu proprio nel corso di un'omelia tenuta un "Venerdì Santo" in Asia Minore, nel II secolo ( ne abbiamo letto un brano nella Liturgia delle Ore di ieri ) che fu lanciata, per la prima volta, da Melitene di Sardi l'accusa indiscriminata di deicidio nei confronti degli ebrei: " Che hai fatto, Israele? Hai ucciso il tuo Signore, durante la grande festa … Ascoltate, o voi stirpi delle genti e vedete. Il Sovrano è oltraggiato, Dio è assassinato … dalla mano di Israele ". È nel contesto di questa polemica antigiudaica, che viene formandosi, già in Melitene, il genere degli Improperio, o Rimproveri, entrato più tardi anche nella liturgia latina dell'adorazione della croce. Si elencano uno a uno i benefici di Dio per Israele e a ognuno si oppone l'ingratitudine del popolo. " Lui ti ha fatto uscire dall'Egitto … Tu invece … Lui ti ha nutrito di manna nel deserto … Tu invece … ". È vero che in questo e altri testi simili bisogna fare una larga parte alla retorica, in particolare al genere della diatriba allora in voga. Ma il seme era gettato e lascerà il suo segno nella liturgia ( si pensi al famoso aggettivo usato nella preghiera riguardo agli ebrei e ora soppresso ), nell'arte e nello stesso folclore, contribuendo a diffondere lo stereotipo negativo dell'Ebreo. L'icona bizantina della crocifissione quasi sempre mostra ai lati della croce di Cristo due figure femminili. In alcuni casi, tutte e due sono rivolte verso la croce, ma più spesso una guarda la croce, l'altra le volta le spalle, o è addirittura spinta da un angelo ad allontanarsi dalla croce. Sono la Chiesa e la Sinagoga. Si è persa di vista l'affermazione di Paolo che Cristo è morto sulla croce per unire le due realtà, non per dividerle. Tutto ciò, come notava il Santo Padre, ha reso meno vigilanti i cristiani quando, nel nostro secolo, si è scatenato contro gli ebrei il furore nazista. Ha favorito, insomma, indirettamente, la Shoah, l'Olocausto. Ma già ben prima di questo epilogo fatale, la polemica è servita a giustificare molteplici vessazioni e ha causato al popolo ebraico non poca sofferenza da parte delle popolazioni cristiane e delle stesse istituzioni della Chiesa. Ma vengo alla cosa che mi sembra più urgente chiarire. In occasione del recente dibattito seguito alla pubblicazione del documento del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani Weremember, un autorevole uomo di cultura ha formulato un giudizio radicale su tutta la questione: " La fonte di ogni antigiudaismo - ha scritto sulla prima pagina di un grande quotidiano - sta nel Nuovo Testamento: specie nelle lettere di san Paolo e nell'Apocalisse. Un figlio d'Israele non può dimenticare che l'epoca dei Patriarchi, nei quali egli è abituato a vedere l'instaurazione della legge e il culmine del fiducioso rapporto con Dio, venga giudicata da Paolo come un tempo dominato dal Peccato e dalla Morte. E non può tollerare che Gerusalemme, il luogo sacro per eccellenza, venga considerato dall'autore dell'Apocalisse come la concentrazione del male fisico e metafisico, dove regnano il Dragone e la Bestia ". L'unico rimedio - prosegue l'autore - sarebbe " censurare san Paolo, censurare l'Apocalisse, e quei brani del Vangelo dove il sentimento antiebraico si esprime più intensamente ". Siccome, però, non si può chiedere ai cristiani di fare questo ( e sarebbe anzi una perdita se lo facessero ), non resta che coltivare ognuno le proprie radici religiose, in spirito di tolleranza, tendendo a quei valori universali che sono al di là di ogni religione e che tutte le accomuna. Un discorso, come si vede, di grande pacatezza. Ma a me sembra di scorgere in esso un equivoco fondamentale. Paolo non considera " un tempo dominato dal peccato e dalla morte " solo quello dei Patriarchi, ma quello di tutta l'umanità prima di Cristo. " Giudei e Greci - afferma nella Lettera ai Romani - tutti, sono sotto il dominio del peccato " ( Rm 3,9 ). All'interno di questa comune situazione di peccato e di morte, viene anzi riconosciuta al popolo ebraico una chiara superiorità. " Qual è dunque la superiorità del giudeo? O quale l'utilità della circoncisione? Grande, sotto ogni aspetto. Anzitutto perché a loro sono affidate le rivelazioni di Dio " ( Rm 3,1-2 ). Come si può accusare Paolo di non riconoscere in Abramo il "culmine del fiducioso rapporto con Dio", se proprio per questo egli è definito da lui "padre di tutti i credenti"? ( Rm 4,16 ). Molta confusione, a proposito di san Paolo, deriva dall'aver scambiato per polemica "contro i giudei", quella che è, in realtà, polemica contro "i giudeo-cristiani". D'altra parte, le cose che Paolo e Giovanni dicono degli ebrei sono un niente, in confronto a quello che dicono dei pagani. Questi sono definiti " senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei alle promesse, senza speranza e senza Dio in questo mondo " ( Ef 2,12 ). La stessa "Babilonia" dell'Apocalisse, sede della bestia e del Dragone, sappiamo che non è da identificarsi primariamente con Gerusalemme, ma con la Roma pagana, la città " dei sette colli " ( Ap 17,9 ). La risposta giusta al problema sollevato, credo sia nelle parole del Papa ricordate sopra: " Nel mondo cristiano sono troppo a lungo circolate interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico ". L'antisemitismo non nasce da fedeltà alle Scritture cristiane, ma da infedeltà a esse. In questo senso, la situazione nuova che si è creata nel dialogo tra ebrei e cristiani si rivela utile per capire meglio le stesse nostre Scritture. E anch'essa un segno dei tempi. E vediamo in che senso. Rifacciamoci alla più antica formulazione del mistero pasquale, al kerigma. Esso non menziona mai gli Ebrei come causa della morte di Cristo, ma "i nostri peccati": " Cristo è morto per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione ". ( Rm 4,25; 1 Cor 15,3 ) Gli stessi simboli di fede, che pure fanno il nome di Ponzio Pilato, mai menzionano gli Ebrei, parlando della crocifissione e morte di Cristo. Certo, alcuni capi giudei hanno svolto un ruolo attivo nella condanna di Gesù. Ce lo ha ricordato il racconto della passione che abbiamo appena ascoltato. Ma sono state cause materiali. Nella misura in cui si insiste su queste circostanze concrete, dando loro un valore teologico, oltre che storico, si perde di vista la portata universale e cosmica della morte di Cristo. Si banalizza il dramma della redenzione, facendone il risultato di circostanze contingenti. " Egli - scrive Giovanni - è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo " ( 1 Gv 2,2 ). Di tutto il mondo: anche di chi non lo sa, o non lo crede! Un altro fatto viene dimenticato nella polemica contro gli Ebrei: essi hanno agito per ignoranza ( anche se questo non vuole dire senza colpa ). Lo dice Cristo sulla croce: " Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno " ( Lc 23,34 ). " Ora, fratelli, io so che avete agito per ignoranza, così come i vostri capi ", dice Pietro dopo la Pentecoste. ( At 3,17; At 13,27 ) " Se l'avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria ", dice Paolo ( 1 Cor 2,8 ). Vogliamo dunque continuare a parlare di deicidio? Facciamolo pure, dal momento che un deicidio, secondo le Scritture e la nostra dommatica, c'è stato. Ma sappiamo che a commetterlo non sono stati solo gli ebrei: siamo stati tutti noi. Ma se "le radici dell'odio contro gli Ebrei" non sono nel Nuovo Testamento, dove sono? Come e quando si è prodotta la frattura? Io credo che non sia difficile scoprirlo. Gesù, gli apostoli, il diacono Stefano ( At 7 ) hanno polemizzato contro i capi giudei, usando, a volte, toni durissimi. Ma con che animo lo facevano? Gesù, quando annunciava la distruzione di Gerusalemme piangeva, come sulla morte dell'amico Lazzaro. Stefano moriva gridando: " Signore, non imputare a essi questo peccato! ". Paolo, il principale imputato in tutta questa vicenda, arriva a dire parole che fanno venire i brividi: " Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne " ( Rm 9,1-3 ). Paolo, per il quale Cristo è "il vivere stesso" ( mihi vivere Christus est ), accetterebbe di essere separato da lui, scomunicato, se questo potesse servire a fare accettare il Messia dai suoi consanguinei secondo la carne! Questi uomini parlavano dall'interno del popolo ebraico, sentendosi solidali con esso, appartenenti alla stessa realtà religiosa e umana. Potevano dire: " Sono ebrei? Anch'io! ". Quando si ama, si può parlare anche così. I profeti, Mosè stesso, erano stati forse meno severi nei confronti di Israele? A volte lo erano stati assai di più! È da essi che sono mutuate le espressioni più severe del Nuovo Testamento. Gli stessi "Improperi", dove hanno la loro fonte ultima, se non nel genere letterario del processo sacrale ( il rìb ) che Dio intenta, nell'Antico Testamento, nei confronti del suo popolo? ( Dt 32; Mic 6,3-4; Sal 77; Sal 105 ) Ma forse che gli Ebrei si sono sentiti offesi da Mosè e dai profeti e li hanno accusati, per questo, di antisemitismo? Sanno bene che, all'occorrenza, Mosè è pronto a farsi radiare lui stesso dal libro della vita, piuttosto che salvarsi da solo, senza il suo popolo. In fondo, non è diverso da quello che avviene anche tra noi. Dante Alighieri rivolge agli italiani invettive tali che, se uno straniero si azzardasse a farne propria una minima parte, ne faremmo una tragedia. Da lui le accettiamo; sentiamo che è dei nostri, che parla con amore, non con disprezzo. Cosa è successo, invece, nel passaggio dalla primitiva Chiesa giudeo-cristiana alla Chiesa dei gentili? I gentili hanno raccolto la polemica di Gesù e degli apostoli contro il giudaismo, ma non il loro amore per i Giudei! La polemica si è trasmessa, l'amore no. Quando parleranno dell'avvenuta distruzione di Gerusalemme, i Padri della Chiesa non lo faranno piangendo. Tutt'altro! La radice del problema è tutta qui: mancanza d'amore, cioè infedeltà al precetto centrale del Vangelo. Noi cristiani abbiamo continuato a lagnarci fino alla vigilia della Shoah, dell'odio anticristiano degli Ebrei, della loro opposizione alla diffusione del Vangelo ( ciò che, specie agli inizi, fu certamente vero ), ma non ci accorgevamo della trave che c'era nel nostro cuore! Non si tratta di fare un processo sommario al passato. " Un corretto giudizio storico - scrive il Papa nella Tertio millennio avveniente - non può prescindere da un'attenta considerazione dei condizionamenti culturali del momento ". Si riteneva infatti unanimemente, allora, che i diritti della verità venissero prima di quelli della persona. Non si tratta dunque di intentare un processo al passato. E tuttavia, prosegue la lettera del Papa, " la considerazione delle circostanze attenuanti non esonera la Chiesa dal dovere rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto, impedendole di riflettere pienamente l'immagine del suo Signore crocifisso, testimone insuperabile di amore paziente e di umile mitezza ". ( Quando la Chiesa parla dei suoi "figli", sappiamo che include in essi anche i suoi "padri"! ). Quando io parlo della colpa contro i fratelli Ebrei, non penso solo a quella degli altri, delle generazioni che mi hanno preceduto. Penso anche alla mia. Ricorderò sempre il momento in cui iniziò la mia conversione su questo punto. Ero sull'aereo di ritorno dal mio primo pellegrinaggio in Terra Santa. Leggevo la Bibbia e mi cadde sotto gli occhi la frase della Lettera agli Efesini: " Nessuno ha mai preso in odio la propria carne " ( Ef 5,29 ). Capii che essa si applica anche al rapporto di Gesù con il suo popolo. E di colpo i miei pregiudizi, se non proprio ostilità, nei confronti degli Ebrei, assorbiti insensibilmente negli anni di formazione, mi apparvero una offesa recata a Gesù stesso. Egli ha assunto tutto di noi, eccetto il peccato. Ma l'amore della propria patria e la solidarietà con la propria gente non è un peccato, è un valore. Dunque, in forza della stessa incarnazione, Gesù - chiamiamolo ormai con il suo nome ebraico Yeshua - ama il popolo d'Israele. Di un amore cosi forte e puro quale nessun patriota al mondo ha mai avuto per la sua patria. Il peccato contro gli ebrei è anche un peccato contro l'umanità di Cristo. Ho capito che dovevo convertirmi a Israele, " l'Israele di Dio ", come lo chiama l'Apostolo, che non coincide necessariamente e in tutto con l'Israele politico, anche se non si può neppure separare da esso. Ho capito che questo amore non è una minaccia per nessun altro popolo, non forma alleanze e blocchi contro nessuno, perché Gesù ci ha insegnato che il nostro cuore cristiano deve aprirsi all'universalità e aiutare Israele stesso a farlo. " Forse Dio, è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche di tutti gli altri? " ( Rm 3,29 ). Questo mi ha reso particolarmente cara la figura di Edith Stein, questa nuova Rebecca che ha portato nel suo grembo due nazioni e due popoli in lotta tra loro, la Chiesa e la Sinagoga, e le ha riconciliate, versando il suo sangue per l'una e per l'altra. Edith Stein è il modello del nuovo amore cristiano per Israele, che trova in Gesù di Nazaret, non un ostacolo, ma il suo più grande incentivo. " Lei non può credere - scriveva a un sacerdote suo amico - cosa significhi per me essere figlia del popolo eletto, appartenere a Cristo, non solo per lo spirito, ma anche per il sangue ". Sentire scorrere nelle proprie vene lo stesso sangue di Cristo, la riempiva di commozione e di fierezza. Sono diventate celebri le parole da lei scritte alle prime avvisaglie della persecuzione nazista contro gli Ebrei: " Lì, sotto la croce, capii il destino del popolo di Dio. Pensai: coloro che sanno che questa è la croce di Cristo hanno il dovere di prenderla su di sé, in nome di tutti gli altri ". Quando lei e sua sorella Rosa escono dalla porta della clausura tra due gendarmi, per essere deportate ad Auschwitz, qualcuno dei presenti vede Edith stringere forte la mano della sorella e sussurrarle: " Vieni, noi andiamo a morire per il nostro popolo ". Ma abbiamo un modello più grande di Edith Stein, Maria - chiamiamo anche lei con il suo bei nome ebraico Miriam -, la Madre di Gesù. Ella è "figura della Chiesa" anche in questo. Modello di una Chiesa non ancora macchiata di alcuna colpa contro Israele, non sfiorata da alcuna ostilità. I sentimenti di Maria verso il suo popolo sono espressi nel Magnificat: " Ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia. Come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre ". "Israele, Abramo, i nostri padri": stessa commozione di appartenere al popolo dell'alleanza. "Alla sua discendenza per sempre": stessa certezza, come in Paolo, della irrevocabilità della promessa fatta a Israele. Ritorniamo, per finire, al passo della Lettera agli Efesini. Il muro di inimicizia, abbattuto sulla croce, si è riformato e ispessito nei secoli. Dobbiamo abbatterlo di nuovo, mediante il pentimento e la richiesta di perdono a Dio e ai fratelli Ebrei. Bisogna che i gesti e le parole di riconciliazione posti ai vertici della Chiesa non restino nei documenti, ma arrivino al cuore di tutti i battezzati. Solo per questo ho osato parlarne qui. Un tempo, in occasioni di grandi missioni, si faceva il falò delle vanità. Noi, in questo Venerdì Santo, facciamo il falò delle ostilità. "Distruggiamo in noi stessi l'inimicizia". In noi stessi, non negli altri! Quando si realizzerà il desiderio di Gesù di riunire i figli del suo popolo, come la chioccia raccoglie sotto le ali i suoi pulcini? Noi cristiani possiamo affrettare o ritardare il giorno in cui, per le strade di Gerusalemme, si griderà di nuovo, come il giorno delle Palme: " Benedetto colui che viene nel nome del Signore! ". ( Lc 13,34-35; Lc 19,38 ) Il giorno in cui Gesù di Nazaret potrà essere riconosciuto dal suo popolo, se non ancora il Messia atteso e il Figlio di Dio come da noi, almeno come uno dei suoi grandi profeti. Quest'anno, per una rara coincidenza, la Pasqua ebraica cade alla stessa data della nostra. Celebriamo insieme, in questo giorno, il memoriale della salvezza. La Pasqua è il segno visibile e istituzionale della continuità tra Israele e la Chiesa. C'è un testo che gli Ebrei recitavano ( e recitano tuttora ) durante il Seder pasquale. Melitene di Sardi lo ha fatto suo e lo ha introdotto nella liturgia cristiana, proprio nel brano dell'omelia che abbiamo letto ieri ( segno che, nonostante la polemica verbale, c'era ancora, a quel tempo, una notevole conoscenza e osmosi tra le due comunità ). Lo recitiamo insieme, in questo giorno, noi e loro, in spirito di comune lode e ringraziamento a Dio: " Egli ci ha fatti passare: dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre alla luce, dalla servitù alla redenzione ". Aggiungiamo: Ci ha fatti passare dall'ostilità alla amicizia. Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo. Possiamo prepararci a varcare, riconciliati, la soglia del nuovo millennio.