Summa Teologica - I

Indice

La storia del dogma trinitario nella sintesi tomistica

III

7 - L'esposizione tomistica della dottrina trinitaria sembra tendere esclusivamente a mettere in rilievo le profonde armonie del grande mistero della fede cristiana.

Tutto il presente trattato si presenta, infatti, come una esposizione limpida della dottrina cattolica sul mistero trinitario, alfine di darne una qualche intelligibilità mediante appropriate analogie tratte dalla vita dello spirito, e di eliminare l'errore mostrandone I'inconsistenza.

L'Angelico Dottore si muove con stupefacente disinvoltura su queste che sono le più alte cime del pensiero e, mentre arditamente segna le vie d'ascesa verso la verità, ha sempre presente i viottoli che conducono ai precipizi dell'eresia: arianesimo e sabellianesimo.

Egli lascia quindi intravedere tutto il faticoso lavorio dei secoli nella ricerca della grande via d'ascesa è, solo tenendo presente come lui lo sviluppo storico del pensiero cristiano, si può giustamente apprezzare il suo insegnamento.

Secondo il suo solito, non arricchisce la sua esposizione con quei molteplici riferimenti storici che si trovano altrove, ma i suoi semplici accenni sono una segnalazione precisa e sintetica.

Al di là di Sabellio ci fa risalire ( cfr. q. 34, a. 2, ad 2 ) fino allo gnostico Valentino [ sec. II ]; e con ciò si arriva a Tertulliano che, forse per il primo, prospetta un qualche rapporto tra lo Gnosticismo e il Patripassianismo ( Adversus Praxeam, 27 ).

Dopo l'eresiarca Ario, S. Tommaso ci fa discendere con i suoi accenni ( q. 42, a. 1, ad 2 ) fino a Eunomio, e con questo si apre una finestra su quell'ambiente cappadoce che vide fiorire intorno alla geniale figura di S. Basilio Magno i più efficaci oppositori dell'arianesimo nella sua forma più sottile e pericolosa.

Le più recenti ricerche hanno messo in luce l'apporto di questa scuola di Basilio alla dottrina delle relazioni e l'uso fattone da Agostino nel De Trinitate.

Ma seguiamo con ordine gli sviluppi della dottrina trinitaria.

Dalla rivelazione divina si hanno questi due dati che sembrano escludersi mutuamente: Dio è uno; Dio è trino.

« Ascolta, Israele: il Signore Dio nostro è il solo Signore » ( Dt 6,4; Mc 12,29 ).

« Andate, dunque, ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo » ( Mt 28,19 ).

Da questi due testi fondamentali, intorno ai quali se ne potrebbero raggruppare molti altri, sembra che l'insegnamento rivelato racchiuda due affermazioni incompossibili: da una parte, l'esistenza di un Dio solo; dall'altra, l'emergenza di tre ognuno dei quali, come Dio, sembrerebbe dover essere quel Dio unico.

Quindi, « uno » e « più »; « uno-solo » e « non-uno-solo », con apparente collisione mirante a escludere uno dei due dati in contrasto.

Ma se da un lato l'urto concettuale preme fortemente alla porta dell'umana ragione, dall'altro è pur doveroso riconoscere che il Maestro dal quale ci viene tale insegnamento non può ingannarsi, e non può ingannare.

La certezza della divina verità accompagna la fede nella divina autorità, ed è esclusa ogni possibilità di errore, ma non è composta l'armonia in chi anela alla sintesi.

I primi discepoli di Gesù Cristo e i primi cristiani ammettevano, con uguale fermezza, il Monoteismo che li strappava all'idolatria, e la nuova dottrina che li caratterizzava fin dal loro primo ingresso nella Chiesa col battesimo; come risulta dalle primitive formule del simbolo della fede, nelle quali è esplicita la confessione trinitaria.

Questa ferma adesione a due verità in apparenza così contrastanti tra loro, la si deve principalmente a quella stessa interiore illustrazione notata da Gesù Cristo, quando, approvando la confessione di Pietro, disse: « Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché né la carne, né il sangue te l'han rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli » ( Mt 16,17 ).

Tale interiore luce soave, che piove dall'alto nella mente e nel cuore, ha fatto sì che « i detti e i fatti del Signore », nei discepoli e in coloro che da essi li udirono e in quanti successivamente li accolsero docilmente abbiano sempre prodotto per prima cosa una convinzione profonda quale non potrebbe produrre la più potente dimostrazione, che Gesù di Nazareth è Dio.

Così, per quanto l'affermazione possa sembrare paradossale, tutte le eresie trinitarie, prima di essere errori intorno al primo grande mistero della fede cristiana, sono false interpretazioni della persona di Gesù Cristo.

Dalla seconda metà del I secolo alla seconda metà del IV, l'indocile pensiero umano, in possesso dei dati fondamentali della fede cristiana, ha seguito due direzioni caratteristiche per la loro interpretazione: il monarchianismo e il Subordinazionismo.

La prima direzione mirava a ridurre la Trinità a una rigida unità: Padre, Figlio e Spirito Santo sarebbero stati nomi o modi di un'unica Persona.

La seconda mirava a ridurre il Figlio e lo Spirito Santo alla condizione di semplici creature.

Ambedue le direzioni erano destinate al fallimento, perché nessuna delle due procedeva da una coscienza luminosa e precisa della grande novità contenuta nei dati della fede cristiana.

8 - Questa coscienza non mancò, invece, in coloro che, fissi sulla norma della fede contenuta nel Credo - già esistente come semplice formula a uso dei catecumeni -, cercavano di coglierne il senso, conservandone il valore e sviluppandone il ricco contenuto.

Anche se quei primi tentativi non furono tutti fortunati e qualche volta una espressione meno precisa tradì il pensiero, ciò però non autorizza nessuno a inglobarli nell'uno o nell'altro dei precedenti indirizzi.

Il Monarchianismo è quella eresia che afferma l'unità di Dio come unico Principio e nega la divinità personale di Gesù Cristo.

Esso ebbe due sviluppi e così ci fu il Monarchianismo dinamico - che i moderni dopo Harnack preferiscono chiamare Adozionismo - e il Monarchianismo modalista, che nella sua prima fase è il Patripassianismo, e nell'ultima sua forma è il Modalismo sabelliano.

Rappresentanti del Monarchianismo dinamico sono Teodoto di Bizanzio un conciatore di pelli, Teodoto banchiere, Artemone e Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia.

Rappresentanti del Monarchianismo modalista sono: Noeto e Prassea, difensori del Patripassianismo; Sabellio, la cui opinione, ulteriormente elaborata, venne a esprimere, con la sua propria etichetta ( Sabellianesimo ), la posizione opposta all'Arianesimo e, come tale, fu ancora modificata e difesa da Marcello d'Ancira [ m. c. 374 ].

La prima mossa antitrinitaria non venne da preoccupazioni dottrinali, ma volle essere la giustificazione teorica d'una negazione pratica.

Secondo Epifanio ( Haeres., S.4, 1 ), Teodoto, il conciatore bizantino sunnominato, in una persecuzione aveva rinnegato Gesù Cristo; e a chi più tardi gli rimproverava tale apostasia, dichiarava: « non rinnegai Dio, ma un uomo ».

La sua giustificazione di tale affermazione la troviamo riportata da Ippolito: « Gesù è un uomo nato da una vergine secondo la volontà del Padre.

Egli visse come tutti gli uomini e, divenuto il più pio, al tempo del battesimo nel Giordano ha accolto il Cristo sceso dall'alto in forma di colomba.

Perciò le potenze non hanno operato in lui, se non dopo che in lui rifulse lo Spirito che ( Teodoto ) dice essere il Cristo » ( Philosoph., VII, 3S.; cfr. X, 23 ).

Il papa Vittore [ 190-198 ] scomunicò Teodoto, ma la sua setta ebbe nuovo sviluppo secondo un programma conservatoci da Eusebio ( Hist. Eccl., V, 28 ).

9 - È probabile che anche nella teologia di Paolo di Samosata, dal 260 vescovo di Antiochia, abbiano influito motivi extra-dottrinali, non ultimo quello politico, in grazia della regina Zenobia di Palmira.

Sulla base, infatti, di un rigido monoteismo si pretese sperare di conciliare Giudaismo e Cristianesimo, attuando quello che era stato il sogno di Celso e dando soddisfazione alla tendenza monoteista di coloro che, nell'ambito dell'ellenismo, andavano a farsi una vita spirituale migliore.

Il prezzo di tale pacifica convivenza, che sembrava richiesta da una speciosa ragione di Stato, era l'eliminazione della nozione del Verbo come preesistente con la sua personalità propria in Dio, nel modo stesso che suggeriva « la memorabile confessione di Celso » quando rinfacciava ai Cristiani la impossibilità, di un Gesù « Verbo sussistente » ( Contra Celsum, II, 31 ).

Tutta la teologia di Paolo di Samosata sembra sviluppata per fondare un tale sincretismo religioso.

Nell'interesse della rigorosa unità di Dio, osserva U. Koch, egli ritiene il Verbo come una forza impersonale di Dio identica alla sapienza di Dio e allo Spirito Santo.

Questo « Verbo di su » abita quale principio ispiratore nel « Cristo di giù » cioè nel Gesù storico nato dalla Vergine Maria e dallo Spirito Santo, come in un tempio.

Ambedue sono uniti non « sostanzialmente », ma « secondo qualità »: tra loro non esiste una unità personale ( « perché altri è Gesù Cristo e altri il Verbo » e « altro è la sapienza e altro è Gesù Cristo » ), ma soltanto « una congiunzione per apprendimento e partecipazione ».

Il redentore è essenzialmente uomo e la inabitazione del Verbo in lui differisce da quella nei profeti secondo il grado, non secondo il modo; però egli è « migliore secondo ogni aspetto » e come figlio dell'uomo ha ricevuto da Dio la potestà di giudicare e la dignità divina, cosicché si può chiamarlo Dio.

In questo senso, Harnack e con lui i moderni, dà il nome di Adozionismo a tale indirizzo.

L'aspetto antitrinitario di questa cristologia risulta evidente qualora si rifletta che per Paolo di Samosata non si tratta della inabitazione in Gesù-uomo del Verbo sussistente, come nel posteriore sviluppo nestoriano.

Per lui, come nota Harnack, chi si è unito con Gesù è Dio stesso o piuttosto è Gesù che, avendo conosciuto meglio di ogni altro il Padre, meglio di ogni altro ha partecipato la sapienza di Dio e il Verbo « consostanziale » col Padre.

Paolo di Samosata fu condannato dal Concilio di Antiochia nel 268, e i Padri riprovarono pure la parola « consostanziale », di cui Paolo si serviva per negare la distinzione personale del Verbo dal Padre ( EPIFANIO, Haeres., 6S., 1; 73, 12 ), non già per affermare - come faranno più tardi i Padri del Concilio di Nicea - la identità di natura del Figlio col Padre.

Con ciò la teologia di Paolo di Samosata, secondo l'osservazione di Epifanio, ripeteva nell'ambito del Monarchianismo dinamico, l'errore di Noeto e di Sabellio ( Haeres, 65,1 ).

10 - Il Monarchianismo modalista intende difendere con l'unità di Dio la divinità personale di Gesù Cristo.

Ma non la concepisce come distinta, bensì come identica a quella del Padre.

Non per nulla Ippolito si compiace di segnalare la derivazione del pensiero teologico di Noeto dalla filosofia di Eraclito per il quale Dio apparisce come Logos ( Ragione ) che dà un senso al mondo, e « Verbo che unisce gli opposti ».

Ippolito ( Philosoph, IX,7-10 ) insiste forse troppo sul nesso genetico che sembra unire la teologia di Noeto e la filosofia di Eraclito.

Ma ciò che egli dice del teologo di Smirne rispecchia una certa somiglianza con la dottrina teologica del filosofo di Efeso.

« Uno è il Padre e il Dio dell'universo: egli che tutto ha fatto, quando vuole è nascosto agli esistenti, quando vuole si fa manifesto.

Ed è invisibile quando non si fa vedere; visibile quando si fa vedere; ingenerato, quando non è generato; generato, quando è generato da una vergine; impassibile e immortale, quando né patisce né muore; poiché s'accostò alla passione, patisce e muore » ( ibid, X,27 ).

Così, secondo gli accadimenti nel tempo, il Padre si chiama Figlio, senza nessuna distinzione di persona: « Io glorifico un solo Dio, uno solo ne conosco e non un altro, fuori di lui, che sia nato, abbia patito e sia morto » ( EPIFANIO, Haeres, 5.7,1 ).

I presbiteri che lo rimproverano e biasimano il suo errore oppongono la precisa regola della fede che confessa un solo Dio e insieme riconosce che proprio il Cristo vero Figlio di Dio è colui che patì, morì, risuscitò, ascese al cielo, siede alla destra del Padre e ritornerà alla fine dei tempi a giudicare i vivi e i morti ( cfr. ibid. ).

Dall'Asia la dottrina di Noeto fu divulgata a Roma per opera di Prassea, forse già al tempo del papa Eleuterio [ 176-190 ].

Tertulliano quando scrisse l'Adversus Praxeam [ dopo il 213 ] si era già separato dagli psichici ( cioè dai cattolici ) per entrare nella spiritualità carismatica del montanismo.

Perciò da tutta l'opera spira un'animosità che va oltre il solito stile del focoso e intollerante africano.

Prassea, facendosi propagandista del pensiero di Noeto, aveva osato toccare i feticci di Tertulliano: Montano, Prisca, Massimilla.

Di qui il suo violentissimo risentimento.

« A Roma, egli [ Prassea ] combinò due affari del diavolo: scacciò la profezia e immise l'eresia; mise in fuga il Paraclito e crocifisse il Padre » ( I ).

Però, bisogna riconoscere a Tertulliano il merito di avere fortemente affermato « l'unità che da sé fa sgorgare la trinità » ( III ), mentre per primo mette in rilievo il senso e il valore del termine persona in Dio ( VI-VII ).

Questa prima fase del Monarchianismo modalista va sotto il nome dì Patripassianismo, perché appunto sarebbe stato il Padre a patire in e con Gesù per redimere il mondo.

11 - Il passaggio dal Patripassianismo al vero e proprio Modalismo sembra dovuto all'opera di Sabellio, un africano della Libia che « Si stabilì a Roma e divenne moderatore della setta ».

Sabellio morì verso il 260, ma il suo pensiero, sviluppato nel Sabellianesimo, ebbe un'ulteriore vitalità durante quasi tutto il IV secolo come posizione antitetica all'eresia ariana.

Fedele al motto dei discepoli di Noeto e Prassea: « monarchiam tenemus » ( TERTULLIANO, Adversus Praxeam, III ), anche egli afferma la rigorosa unità di Dio; perciò spiega la trinità delle persone che si manifestano nell'economia della redenzione non come riflesso d'una trinità immanente, ma come modificazione esteriore della stessa identica realtà divina.

Così, la storia della rivelazione non si svolgerebbe rispecchiando l'immanente vita di Dio, ma attraverso una successione di modi che personificano una triplice azione di Dio.

Ecco i principi della setta secondo S. Epifanio ( Haeres, 62,1 ): « medesimo è il Padre, medesimo il Figlio, medesimo è lo Spirito Santo, così che nell'unica ipostasi ci sono tre denominazioni », le quali riflettono la successiva energia della medesima realtà.

La Trinità non sarebbe, quindi, che il triplice aspetto, la triplice manifestazione della Monade, dell'unità assoluta.

Questa si sarebbe manifestata prima nella creazione, quindi nella redenzione e infine nella santificazione.

Il Padre non sarebbe che Dio quale creatore e legislatore dell'Antico Testamento; il Figlio sarebbe lo stesso Dio che opera dall'incarnazione all'ascensione; lo Spirito Santo sarebbe ancora il medesimo Dio che dalla Pentecoste in poi rende giusti e santifica gli uomini.

Si avrebbero perciò tre aspetti, quasi tre maschere ( personae nel significato allora corrente di maschere teatrali ), con le quali e dietro le quali si nasconde sempre la stessa identica realtà divina: Dio.

Secondo il pensiero di Sabellio l'unità di Dio comporta soltanto una trinità di manifestazioni esteriori.

Dio è, perciò, tre persone diverse, come l'attore, che si presenta successivamente in teatro con tre diverse maschere sul viso, è tre diversi personaggi e, secondo la diversità della maschera adottata, è detto Achille, Ettore, Agamennone.

Questa interpretazione dell'economia della redenzione che, presentata con varie sfumature e ulteriori sviluppi, sembrava la più indicata per salvare il monoteismo cristiano dal pericolo del politeismo pagano, fu rigettata dalla Chiesa perché non corrispondente ai dati della rivelazione e non conforme alla tradizionale regola della fede.

S. Epifanio riferisce la domanda sabelliana alla gente semplice: « o tali, che s' ha a dire? Abbiamo un sol Dio o tre Dei? » ( Haeres, 62, 2 ).

E per conto suo risponde: « noi non introduciamo un politeismo, ma predichiamo un unico Principio e predicando l'unico Principio non sbagliamo, noi invece confessiamo la Trinità: Unità nella Trinità e Trinità nell' Unità » ( ibid. 3 ).

12 - L'Arianesimo è l'antitesi del Sabellianesimo; e le lotte dello spirito per l'interpretazione del grande mistero cristiano riempiono tutto il IV secolo.

Esso poté sembrare, considerato superficialmente, una « cavillazione oziosa di teologi più sottili che pii » ma, come nota giudiziosamente A. Pincherle, « erano in giuoco non solo problemi, e tra i più ardui, di metafisica e teodicea, bensì il modo stesso di rappresentarsi la redenzione e l'essenza stessa del Cristianesimo ».

Ario, africano della Libia [ 256-336 ], dette il proprio nome a questo indirizzo teologico, ma, se ne consideriamo l'intimo contenuto dottrinale, è più esatto parlare di Subordinazionismo.

Così si ha il duplice vantaggio di mettere bene in rilievo la posizione delle ipostasi ( persone) del Figlio e dello Spirito Santo riguardo al Dio supremo ( Padre ), e di notare subito che queste divine ipostasi per l'arianesimo non sono in Dio.

Il graduale sforzo del pensiero teologico cristiano, in lotta contro il Monarchianismo, aveva successivamente affermato la divinità personale e distinta del Verbo Incarnato.

Ora, sotto la pressione della dialettica ariana, tenderà tutte le sue energie, per giustificare l'affermazione che tale ipostasi è in Dio-Padre.

Ano infatti è il vero autore del Subordinazionismo, e prima di lui non si può parlare di un vero e proprio indirizzo nel senso indicato, anche se certe espressioni di Giustino, Atenagora, Teofilo di Antiochia, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene, Dionigi di Alessandria e Luciano di Antiochia, hanno l'apparenza del Subordinazionismo.

Basta paragonare il simbolo 2° di Antiochia [ 341 ] che risale a S. Luciano, secondo le accurate verifiche di G. Bardy ( conservate da Atanasio in De Synodis, 23 e da Ilario in De Synodis, 29-30 ), con la professione di fede presentata da Ario a S. Alessandro di Alessandria [ 320 ], e conservata da tre autori ( Atanasio, De Synodis, 16; EPIFANIO Haeres., 69, 7-8; EPIFANIO, De Trinitate, IV, 12-13 ), per rendersi conto dell'abisso incolmabile scavato da Ano e dai suoi aderenti tra la dottrina cristiana e la sua personale interpretazione.

Per cui, mentre Ilario ( De Synodis, 32 ) cerca di interpretare in senso ortodosso l'unità di consonanza tra le divine Persone affermata nel simbolo di Luciano, per la confessione di Ario e dei suoi compagni usa un linguaggio quanto mai forte e la chiama « istituzione mortifera » ( De Trinit, IV,14 ).

Non è pertanto del tutto sicuro che si possa chiamare Luciano « padre dell'Arianesimo.

Quanto ad Origene la questione è assai più complessa, ma dal testo citato da Atanasio nel De decretis Nicaenae Synodi risulta una netta opposizione a chi osa dire: « ci fu un quando in cui il Figlio non era » ( 27 ).

D'altra parte, la sua nozione di Dio non coincide affatto con quella di Ano, e questo è essenzialissimo per l'ulteriore sviluppo del suo pensiero teologico, anche se la preferenza per qualche elemento « platonico » poté fornire dati di rassomiglianza col pensiero ariano.

Del resto i più eccellenti discepoli e ammiratori di Origene furono Firmiliano di Cesarea in Cappadocia, Gregorio di Neo-Cesarea nel Ponto ( la cui confessione di fede trasmessa a Basilio formerà il nucleo luminoso da cui si svilupperà la vittoriosa teologia basiliana ), Atenodoro Teoteono di Cesarea in Palestina e altri che condannarono Paolo di Samosata nel Concilio di Antiochia nel 268.

Anche Dionigi di Alessandria, quantunque Basilio lo giudichi in modo assai severo ( Epist, 9,2 ), spiritualmente è fuori dell'indirizzo genetico dell'arianesimo, come risulta dalla sua risposta al richiamo del papa Dionigi di Roma [ 262 ] e dalla difesa di Atanasio ( De sententia Dionysi ).

Luciano d'Antiochia [ m. 312 ] « doveva insistere sulla distinzione delle persone e stabilire tra loro una gerarchia di subordinazione » come Origene ma, mentre il pensiero antico in queste formule nascondeva quello che nell'ulteriore sviluppo fu distinto come ordine di natura e come missione delle divine Persone, Ario lo interpreta in un modo del tutto incompossibile con l'insegnamento rivelato e con i dati della fede.

Egli già nella Lettera a Eusebio di Nicomedia ( m.c. 318 ) cerca di agganciarsi al grande martire di Nicomedia S. Luciano, creando per il suo corrispondente l'aggettivo caratteristico di « collucianista », ma si tratta di una manovra politica, non di un motivo dottrinale.

13 - L'Angelico Dottore ricorda il giudizio di S. Girolamo su Ario: egli « in Alessandria fu una scintilla e siccome non fu immediatamente soppresso, la sua fiamma devastò il mondo intero » ( II-II, q. 2, a. 3 ).

S. Girolamo esagera tanto per la sanzione quanto per le dirette responsabilità dell'incendio ariano.

Se Ario mise fuoco nei grandi centri della nascente civiltà mediterranea, lo si deve attribuire non a lui, ma alle condizioni dell'ambiente sociale.

Questo facilmente poteva adattarsi a un assetto religioso monoteista con due ipostasi divine subordinate al Primo Principio; mentre doveva con fatica rinnovarsi radicalmente sotto la forza talora sconcertante della dottrina cristiana, che era cosa ben diversa e non suscettibile di fallaci compromessi con le ideologie mistiche dei filosofi contemporanei.

Dalla teologia assiro-babilonese-egiziana era penetrata nello gnosticismo la nozione di Dio come auto-generato: i moderni direbbero come autoctisi.

Ario si oppone a questa nozione di Dio che si auto-costruisce e si auto-costituisce; e perciò nella sua confessione di fede egli dichiara esplicitamente: « conosciamo un Dio, solo ingenio, solo, eterno ».

Fisso in questa nozione di Dio, egli non può più muoversi, senza rompere qualcosa.

Non nega né vuole negare la divinità personale e distinta del Verbo - la sua affermazione della unità di Dio non è quella del Monarchianismo -, ma non riesce a interpretarla come appartenente alla vita di Dio in Dio.

Egli non può più capire che il Figlio generato sia Dio in Dio, consostanziale al Padre.

Alle dichiarazioni di S. Alessandro di Alessandria egli oppone un netto rifiuto e comincia la lotta [ m.c. 318 ].

Se egli avesse riflettuto un istante, avrebbe capito che se è da escludere in Dio ogni divenire, l'affermazione di Dio come Padre porta ad ammettere una fecondità « degna di Dio ».

Ma la distinzione tra la nozione di Dio come indivenuto e quella di Padre come ingenito sarà la conquista più bella di Atanasio e Gregorio Nazianzeno.

Ario confonde le due nozioni e perciò per giustificare la divinità personale e distinta del Figlio, la concepisce in un senso minorato: « ci fu un quando in cui egli non era »; e ulteriormente afferma che « egli venne fuori di tra i non esistenti per volontà di Dio », che così è Padre.

Per difendere l'arianesimo, il « sofista » Asterio di Cappadocia [ m. c. 335. ] metterà in rilievo che il fare è più degno del generare.

Perciò il Figlio è fatto e costituito.

Ario chiude violentemente l'unica porta che lo poteva far entrare nella giusta interpretazione della verità cristiana.

Egli nega esplicitamente che il Figlio abbia « l'essere insieme col Padre, come alcuni dicono dei relativi ».

La puntata era diretta contro Clemente Alessandrino il quale, parlando della « conoscenza simultanea del Padre e del Figlio », dice: « non c'è il Padre senza Figlio, perché insieme a ciò per cui è Padre, è Padre di Figlio.

Il Figlio poi è vero maestro riguardo al Padre e affinché uno creda al Figlio deve conoscere il Padre, al quale si riferisce pure il Figlio » ( Stromati, V,I ).

Qui la dottrina delle relazioni è germinale: la sua fioritura per mezzo dei lavori geniali di Atanasio, Basilio e Agostino darà, nei limiti consentiti alla creatura, l'intelligibilità feconda del grande mistero.

Abbandonata la nozione di Dio come « Colui che è » e chiusa la porta della « relazione », Ario non può più capire la diversità radicale tra l'« esistere avuto » ( esse acceptum ) e l'« esistere ricevuto » ( esse receptum ), che l'Angelico Dottore richiama fortemente ( q. 27, a. 2, ad 3 ) come Basilio nell'omelia sulla Fede ( cfr. q. 33, a. 3, ad 2 ), con esplicito riferimento alla nozione di Dio come Colui che è il sussistente per se stesso.

Perciò, per quanto protesti che la sua nozione del Verbo non abbassa il Figlio al livello delle altre creature, ma in realtà non lo eleva al disopra della dignità di prima creatura.

S. Tommaso si preoccupa di informare, sia pure sommariamente, gli studiosi del suo trattato « De Trinitate » su questi sviluppi storici del pensiero cristiano, fin dal primo articolo ( q. 27, a. 1 ).

14 - É noto a tutti che nel Concilio di Nicea ( 325 ) fu condannato Ario; e, usando in un senso del tutto nuovo il termine « consostanziale », fu affermata la divinità personale e distinta del Verbo-Figlio in Dio-Padre.

Nel Concilio di Costantinopoli ( 381 ) furono condannati Eunomio e tutti i vari partiti ariani e si affermò la divinità dello Spirito Santo, come persona distinta in Dio-Padre e Figlio.

I grandi dottori che lottarono efficacemente per dare alla Chiesa e al mondo la percezione cosciente della nuova dottrina portata da Gesù Cristo: Atanasio, Ilario, Ambrogio, Basilio, Gregorio Nazianzeno, Gregorio Nisseno, non compaiono tutti qui nella Somma di S. Tommaso, a rendere testimonianza positiva nella contemplazione teologica della Trinità.

Ma Ilario è un buon informatore delle cose d'Oriente, Ambrogio si serve di Basilio, e sopra tutti domina sovrano Agostino che particolarmente per la dottrina delle relazioni ha accolto nella sua grande opera sulla Trinità il frutto della contemplazione teologica greca su questo grande mistero della fede cristiana.

L'assidua meditazione dei classici del pensiero cristiano adegua l'Angelico Dottore ai grandi geni del IV secolo e lo fa erede di una dottrina che egli ordina e chiarisce nel modo più bello che sia consentito alla mente umana.

Egli può quindi prendere una posizione esatta anche contro quei maestri, come Gilberto de la Porrée, o quei mistici, come Gioacchino da Fiore che ripetendo le sottigliezze e gli ondeggiamenti del IV secolo non sfuggivano al pericolo di offuscare la verità e di inquinarla.

Con Bernardo, oppositore di Gilberto, S. Tommaso pone al vertice « l'unità della divina Trinità » ( q. 11, a. 4, 5. c. ) ; ma non c'è ombra di Sabellianesimo: la realtà divina è unica tanto nel Padre quanto nel Figlio e nello Spirito Santo.

Senza fare nessuna concessione all'Arianesimo, riconosce e giustifica le affermazioni della fede cattolica che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo si distinguono tra loro realmente.

Però, questa distinzione non esiste per un'alterità di nature, ma per un'alterità di ipostasi.

Conseguentemente la Trinità risulta formata non da tre diverse manifestazioni di un medesimo soggetto, e neppure da tre soggetti di diversa natura e perfezione, ma da tre soggetti di una identica ( ossia non ripetuta ) natura divina, da tre persone nell'ambito, per così dire, della stessa numerica Deità.

Questa considerazione profonda del pensiero tomistico mette in luce l'intimo rapporto di armonia tra il Monoteismo e la Trinità, e la soluzione che è proposta dall'Angelico Dottore elimina ogni opposizione tra i due termini della questione.

Questa è la formulazione, diremo così, scientifica di ciò che sempre fu creduto dai fedeli e, in piena armonia con tutti i dati della rivelazione, è l'espressione cosciente della stessa Fede.

Né egli dimentica l'azione delle divine Persone nella storia, ma la chiama col suo nome: Missione.

Così l'Angelico Dottore dà soddisfazione alle intuizioni mistiche di Gioacchino da Fiore, senza indulgere alle sue fantasie: « egli congetturando predisse alcune cose vere sul futuro e in alcune rimase ingannato » ( Suppl., q. 77, a. 2 ad 3 ).

Per evitare questi inganni di una spiritualità non saldamente fondata sopra una dottrina teologica sicura, egli lo ricorda a proposito di una questione in apparenza sottile: « Se i nomi essenziali espressi in astratto possano indicare le persone » ( q. 39, a. 5. ).

Le stesse espressioni teologiche vanno attentamente studiate.

L'influsso del pensiero di Gilberto de la Porrée su Gioacchino da Fiore condusse il mistico calabrese a considerare la storia della salute come sottoposta alla legge dei tre stati, ognuno dei quali è proprio di una delle tre divine Persone ( I-II, q. 106, a. 4 ).

L'Angelico Dottore vede molto bene che questa spiritualità distrugge la Chiesa gerarchica a profitto di una futura Chiesa carismatica.

Perciò, dando il giusto senso della vita intima di Dio, egli stabilisce la norma precisa della mistica trinitaria, entro la quale si svolge la storia della redenzione.

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