Summa Teologica - II-II

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Articolo 2 - Se l'ingiusto debba il suo nome al compimento di una cosa ingiusta

In 5 Ethic., lect. 13; In Psalm. 35

Pare che l'ingiusto debba il suo nome al compimento di una cosa ingiusta.

Infatti:

1. Gli abiti, come si è già dimostrato [ I-II, q. 54, a. 2 ], sono specificati dagli oggetti.

Ora, l'oggetto proprio della giustizia è la cosa giusta, e l'oggetto proprio dell'ingiustizia è la cosa ingiusta.

Perciò il giusto deve il suo nome al fatto che compie cose giuste, e l'ingiusto al fatto che compie cose ingiuste.

2. Il Filosofo [ Ethic. 5,9 ] afferma che è falsa l'opinione di quanti pensano che l'uomo abbia la facoltà di compiere improvvisamente una cosa ingiusta, e che il giusto sia capace di compiere un'ingiustizia non meno dell'ingiusto.

Ora, ciò non avverrebbe se compiere un'ingiustizia non fosse proprio dell'ingiusto.

Perciò uno deve essere considerato ingiusto per il fatto che compie una cosa ingiusta.

3. Tutte le virtù hanno il medesimo rapporto col proprio atto, e così pure i vizi contrari.

Ma chiunque compie un atto di intemperanza viene detto intemperante.

Quindi chiunque compie un'ingiustizia va detto ingiusto.

In contrario:

Il Filosofo [ Ethic. 5,6 ] afferma che uno « può commettere una cosa ingiusta e non essere ingiusto ».

Dimostrazione:

Come l'oggetto della giustizia è qualcosa di proporzionato nelle cose esterne, così anche l'oggetto dell'ingiustizia è qualcosa di sproporzionato: consiste cioè nel fatto che a uno viene dato di più o di meno di quanto gli è dovuto.

Ora, l'abito dell'ingiustizia dice rapporto a questo oggetto mediante il proprio atto, che viene detto ingiuria o torto.

Può dunque avvenire in due modi che uno nel commettere una cosa ingiusta non sia un ingiusto.

Primo, per mancanza di connessione tra l'atto e l'oggetto proprio, inquantoché l'atto riceve la specie e la denominazione dall'oggetto per se, e non dall'oggetto per accidens.

Infatti nelle azioni che vengono compiute in vista del fine è per se ciò che è intenzionale, mentre sono per accidens gli elementi preterintenzionali.

Se quindi uno compie una cosa ingiusta senza l'intenzione di fare un'ingiustizia - ad es. perché agisce per ignoranza, senza sapere di compiere una cosa ingiusta -, allora egli non compie di per sé e formalmente un'ingiustizia, ma compie solo accidentalmente, e quasi materialmente, una cosa che è ingiusta.

E questa azione non può essere considerata un torto o un'ingiuria.

Secondo, ciò può avvenire per mancanza di connessione tra l'atto stesso e l'abito correlativo.

Un torto infatti può scaturire talora da una passione, p. es. dall'ira o dalla concupiscenza, altre volte invece da una scelta deliberata, quando cioè il torto piace per se stesso: e allora propriamente esso deriva da un abito, poiché a tutti coloro che hanno un dato abito è di per sé gradevole ciò che si addice a tale abito.

- Perciò il compimento di una cosa ingiusta in maniera intenzionale e deliberata è proprio dell'ingiusto, cioè di colui che ha l'abito dell'ingiustizia, mentre il compiere cose ingiuste in maniera preterintenzionale o passionale può competere anche a chi non ha l'abito dell'ingiustizia.

Analisi delle obiezioni:

1. L'oggetto che specifica l'abito è quello formale e per se, non quello materiale e per accidens.

2. Non è facile per chiunque compiere un'ingiustizia di proposito, cioè perché essa piace di per sé e non per altri motivi, ma ciò è proprio di chi ne ha l'abito, come nota il Filosofo [ l. cit. nell'ob., c. 6 ].

3. L'oggetto della temperanza non è qualcosa di esternamente definito come quello della giustizia: poiché l'oggetto della temperanza, cioè l'atto temperato, si definisce solo in rapporto al soggetto.

Per questo un atto accidentale e preterintezionale non può essere considerato temperato, e neppure intemperato, né materialmente né formalmente.

E qui il caso della giustizia è diverso da quello delle altre virtù morali.

Invece quanto al rapporto dell'atto con l'abito, esso è simile in tutti e due i casi.

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