Supplemento alla III parte

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Articolo 1 - Se la contrizione sia « il dolore che noi ci imponiamo per i peccati con il proposito di confessarli e di espiarli »

Pare che la contrizione non sia, come dicono alcuni, « il dolore che noi ci imponiamo per i peccati con il proposito di confessarli e di espiarli ».

Infatti:

1. Secondo S. Agostino [ De civ. Dei 14, cc. 6,15 ], « il dolore ha per oggetto cose che accadono contro il nostro volere ».

Ma i peccati non sono tali.

Quindi la contrizione non è « il dolore dei peccati ».

2. La contrizione ci viene data da Dio.

Ora, quello che ci viene dato non è imposto da noi.

Quindi la contrizione non è un dolore « imposto ».

3. La soddisfazione e la confessione sono necessarie per la remissione della pena che non viene rimessa nella contrizione.

Ma talora nella contrizione viene rimessa tutta la pena.

Quindi non è necessario che il contrito abbia sempre « il proposito di confessarsi e di espiare »

In contrario:

C'è la definizione proposta.

Dimostrazione:

« La radice di ogni peccato è la superbia » [ Sir 10,13 Vg ], con la quale l'uomo, aderendo al proprio sentire, si allontana dai precetti di Dio.

Perciò è necessario che quanto distrugge il peccato faccia recedere l'uomo dal proprio sentire.

Ora, colui che persevera nel proprio sentire è denominato in senso figurato rigido e duro: cosicché si dice che uno si lascia spezzare quando si allontana dal proprio sentire.

Però tra la frattura e lo sbriciolamento o triturazione [ contritio ] delle realtà materiali, da cui queste voci sono desunte e applicate a quelle spirituali, c'è questa differenza, come nota Aristotele [ Meteor. 4,9 ]: che si parla di frattura quando qualcosa di solido « viene diviso in pezzi di grandi dimensioni », mentre si parla di triturazione quando « viene ridotto in parti minute ».

E poiché per la remissione dei peccati si richiede che uno abbandoni totalmente l'affetto del peccato, per cui conservava una certa coerenza e solidità nel suo sentire, così l'atto col quale viene rimesso il peccato viene detto in senso figurato contrizione [ ossia sbriciolamento ].

Ora, in questa contrizione si possono considerare diverse cose: cioè la natura stessa dell'atto, il suo modo di prodursi, il suo principio e i suoi effetti.

E secondo queste varie considerazioni furono date diverse definizioni della contrizione.

Rispetto alla natura stessa dell'atto viene data la definizione sopra indicata.

E poiché l'atto della contrizione è un atto di virtù ed è insieme una parte del sacramento della penitenza, esso viene presentato in tale definizione quale atto di virtù per il fatto che vengono indicati il suo genere, ossia « il dolore », il suo oggetto, con l'espressione « per i peccati », la deliberazione richiesta per un atto virtuoso, con l'espressione « che noi ci imponiamo ».

È invece indicato quale parte del sacramento in quanto si accenna al legame che esso ha con le altre parti aggiungendo: « con il proposito di confessarli », ecc.

C'è però una seconda definizione che definisce la contrizione in quanto è soltanto un atto di virtù; ma a questa definizione viene aggiunta la differenza specifica che la inserisce in una virtù speciale, ossia nella penitenza.

Essa infatti dice che la penitenza è « il dolore volontario dei peccati, che punisce quanto uno si pente di aver commesso » [ Ps. Agost., De vera et falsa poenit. 8 ].

Poiché infatti si accenna alla punizione, essa viene delimitata a una virtù speciale.

C'è poi la definizione di S. Isidoro [ De summo bono 2,12 ]: « La contrizione è una compunzione e umiltà d'animo, accompagnata dalle lacrime, derivante dal ricordo del peccato e dal timore del giudizio ».

Questa definizione accenna all'etimologia della parola con l'espressione « umiltà d'animo »: poiché come dalla superbia uno è reso inflessibile nel proprio sentire, così per il fatto che uno recede contrito dal proprio sentire, viene a umiliarsi.

E accenna pure alle manifestazioni esterne dell'atto con le parole « accompagnata dalle lacrime », e al principio o movente che lo determina con le altre parole: « derivante dal ricordo del peccato », ecc.

Dalle parole di S. Agostino si desume poi un'altra definizione: « La contrizione è il dolore che rimette il peccato ».

E un'altra definizione ancora viene tratta dalle parole di S. Gregorio [ Mor. 33,12 ]: « La contrizione è l'umiltà dell'animo che annienta il peccato tra la speranza e il timore ».

E questa accenna all'etimologia del nome con l'espressione « umiltà dell'animo », ai suoi effetti con l'espressione « che annienta il peccato », al suo movente con le parole « tra la speranza e il timore ».

E non ricorda solo il movente principale, che è il timore, ma anche quello concomitante, ossia la speranza, senza la quale il timore potrebbe produrre la disperazione.

Analisi delle obiezioni:

1. Sebbene i peccati fossero volontari quando accaddero, tuttavia sono involontari nel momento in cui ne abbiamo la contrizione.

E quindi « accaddero contro la nostra volontà », non quella che avevamo allora, ma quella che abbiamo adesso, secondo la quale vorremmo che non fossero mai accaduti.

2. La contrizione deriva solo da Dio quanto alla forma [ ossia alla carità ] da cui è informata; quanto invece alla natura dell'atto deriva dal libero arbitrio e da Dio, che agisce in tutte le opere sia della natura che della volontà.

3. Sebbene la pena possa essere rimessa per intero dalla contrizione, tuttavia sono ancora necessarie la confessione e la soddisfazione.

Sia perché l'uomo non può raggiungere la certezza che la sua contrizione fosse sufficiente a purificarlo del tutto.

- Sia anche perché la confessione e la soddisfazione sono di precetto.

Per cui sarebbe costituito trasgressore chi non si confessasse e non compisse la soddisfazione.

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