Salvifici doloris

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IV. Gesù Cristo: la sofferenza vinta dall'amore

14 "Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" ( Gv 3,16 ).

Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloquio con Nicodemo, ci introducono nel centro stesso dell'azione salvifica di Dio.

Esse esprimono anche l'essenza stessa della soteriologia cristiana, cioè della teologia della salvezza.

Salvezza significa liberazione dal male, e per ciò stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza.

Secondo le parole rivolte a Nicodemo, Dio dà il suo Figlio al "mondo" per liberare l'uomo dal male, che porta in sé la definitiva e assoluta prospettiva della sofferenza.

Contemporaneamente, la stessa parola "dà" ( "ha dato" ) indica che questa liberazione deve essere compiuta dal Figlio unigenito mediante la sua propria sofferenza.

E in ciò si manifesta l'amore, l'amore infinito sia di quel Figlio unigenito, sia del Padre, il quale "dà" per questo il suo Figlio.

Questo è l'amore per l'uomo, l'amore per il "mondo": è l'amore salvifico.

Ci troviamo qui - occorre rendersene conto chiaramente nella nostra comune riflessione su questo problema - in una dimensione completamente nuova del nostro tema.

È dimensione diversa da quella che determinava e, in un certo senso, chiudeva la ricerca del significato della sofferenza entro i limiti della giustizia.

Questa è la dimensione della redenzione, alla quale nell'Antico Testamento già sembrano preludere, almeno secondo il testo della Volgata, le parole del giusto Giobbe: "Io so infatti che il mio Redentore vive, e che nell'ultimo giorno… vedrò il mio Dio…" ( Gb 19,25-26 ).

Mentre finora la nostra considerazione si è concentrata prima di tutto e, in un certo senso, esclusivamente sulla sofferenza nella sua molteplice forma temporale ( come anche le sofferenze del giusto Giobbe ), invece le parole, ora riportate dal colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo senso fondamentale e definitivo.

Dio dà il suo Figlio unigenito, affinché l'uomo "non muoia", e il significato di questo "non muoia" viene precisato accuratamente dalle parole successive: "ma abbia la vita eterna".

L'uomo "muore", quando perde "la vita eterna".

Il contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l'essere respinti da Dio, la dannazione.

Il Figlio unigenito è stato dato all'umanità per proteggere l'uomo, prima di tutto, contro questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva.

Nella sua missione salvifica egli deve, dunque, toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si sviluppa nella storia dell'uomo.

Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita eterna.

La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato e la morte.

Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione.

15 Quando si dice che Cristo con la sua missione tocca il male alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente non solo il male e la sofferenza definitiva, escatologica ( perché l'uomo "non muoia, ma abbia la vita eterna" ), ma anche - almeno indirettamente - il male e la sofferenza nella loro dimensione temporale e storica.

Il male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte.

E anche se con grande cautela si deve giudicare la sofferenza dell'uomo come conseguenza di peccati concreti ( ciò indica proprio l'esempio del giusto Giobbe ), tuttavia essa non può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò che in san Giovanni è chiamato "il peccato del mondo" ( Gv 1,29 ), dallo sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella storia dell'uomo.

Se non è lecito applicare qui il criterio ristretto della diretta dipendenza ( come facevano i tre amici di Giobbe ), tuttavia non si può neanche rinunciare al criterio che, alla base delle umane sofferenze, vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato.

Similmente avviene quando si tratta della morte.

Molte volte essa è persino attesa come una liberazione dalle sofferenze di questa vita.

Al tempo stesso, non è possibile lasciarsi sfuggire che essa costituisce quasi una definitiva sintesi della loro opera distruttiva sia nell'organismo corporeo che nella psiche.

Ma, prima di tutto, la morte comporta la dissociazione dell'intera personalità psicofisica dell'uomo.

L'anima sopravvive e sussiste separata dal corpo, mentre il corpo viene sottoposto a una graduale decomposizione secondo le parole del Signore Dio, pronunciate dopo il peccato commesso dall'uomo agli inizi della sua storia terrena: "Tu sei polvere e in polvere ritornerai" ( Gen 3,19 ).

Anche se dunque la morte non è una sofferenza nel senso temporale della parola, anche se in un certo modo si trova al di là di tutte le sofferenze, contemporaneamente il male, che l'essere umano sperimenta in essa, ha un carattere definitivo e totalizzante.

Con la sua opera salvifica il Figlio unigenito libera l'uomo dal peccato e dalla morte.

Prima di tutto egli cancella dalla storia dell'uomo il dominio del peccato, che si è radicato sotto l'influsso dello spirito maligno, iniziando dal peccato originale, e dà poi all'uomo la possibilità di vivere nella grazia santificante.

Sulla scia della vittoria sul peccato egli toglie anche il dominio della morte, dando, con la sua risurrezione, l'avvio alla futura risurrezione dei corpi.

L'una e l'altra sono condizione essenziale della "vita eterna", cioè della definitiva felicità dell'uomo in unione con Dio; ciò vuol dire, per i salvati, che nella prospettiva escatologica la sofferenza è totalmente cancellata.

In conseguenza dell'opera salvifica di Cristo l'uomo esiste sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne.

E anche se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali dalla vita umana, né libera dalla sofferenza l'intera dimensione storica dell'esistenza umana, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una luce nuova, che è la luce della salvezza.

È questa la luce del Vangelo, cioè della buona novella.

Al centro di questa luce si trova la verità enunciata nel colloquio con Nicodemo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito". ( Gv 3,16 )

Questa verità cambia dalle sue fondamenta il quadro della storia dell'uomo e della sua situazione terrena: nonostante il peccato che si è radicato in questa storia e come eredità originale e come "peccato del mondo" e come somma dei peccati personali, Dio Padre ha amato il Figlio unigenito, cioè lo ama in modo durevole; nel tempo poi, proprio per quest'amore che supera tutto, egli "dà" questo Figlio, affinché tocchi le radici stesse del male umano e così si avvicini in modo salvifico all'intero mondo della sofferenza, di cui l'uomo è partecipe.

16 Nella sua attività messianica in mezzo a Israele Cristo si è avvicinato incessantemente al mondo dell'umana sofferenza.

"Passò facendo del bene" ( At 10,38 ) e questo suo operare riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che attendevano aiuto.

Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse minorazioni fisiche, tre volte restituì ai morti la vita.

Era sensibile a ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell'anima.

E al tempo stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le otto beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate sofferenze nella vita temporale.

Essi sono "i poveri in spirito" e "gli afflitti", e "quelli che hanno fame e sete della giustizia" e "i perseguitati per causa della giustizia", quando li insultano, li perseguitano e, mentendo, dicono ogni sorta di male contro di loro per causa di Cristo… ( Mt 5,3-11 )

Così secondo Matteo; Luca menziona esplicitamente coloro "che ora hanno fame". ( Lc 6,21 )

Ad ogni modo Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo dell'umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa sofferenza su di sé.

Durante la sua attività pubblica provò non solo la fatica, la mancanza di una casa, l'incomprensione persino da parte dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente circondato da un cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i preparativi per toglierlo di mezzo dai viventi.

Cristo è consapevole di ciò, e molte volte parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte che lo attendono: "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà" ( Mc 10,33-34 ).

Cristo va incontro alla sua passione e morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in questo modo.

Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far sì "che l'uomo non muoia, ma abbia la vita eterna".

Proprio per mezzo della sua croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell'uomo e nelle anime umane.

Proprio per mezzo della sua croce deve compiere l'opera della salvezza.

Quest'opera, nel disegno dell'eterno Amore, ha un carattere redentivo.

E perciò Cristo rimprovera severamente Pietro, quando vuole fargli abbandonare i pensieri sulla sofferenza e sulla morte di croce. ( Mt 16,23 )

E quando, durante la cattura nel Getsemani, lo stesso Pietro tenta di difenderlo con la spada, Cristo gli dice: "Rimetti la spada nel fodero… Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?". ( Mt 26,52.54 )

E inoltre dice: "Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?" ( Gv 18,11 ).

Questa risposta - come altre che ritornano in diversi punti del Vangelo - mostra quanto profondamente Cristo fosse penetrato dal pensiero che già aveva espresso nel colloquio con Nicodemo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" ( Gv 3,16 ).

Cristo s'incammina verso la propria sofferenza, consapevole della sua forza salvifica, va obbediente al Padre, ma prima di tutto è unito al Padre in quest'amore, col quale egli ha amato il mondo e l'uomo nel mondo.

E per questo san Paolo scriverà di Cristo: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me" ( Gal 2,20 ).

17 Le Scritture dovevano adempiersi.

Erano molti i testi messianici dell'Antico Testamento che preludevano alle sofferenze del futuro Unto di Dio.

Tra tutti particolarmente toccante è quello che di solito è chiamato il quarto carme del Servo di Jahve, contenuto nel libro di Isaia.

Il profeta, che giustamente viene chiamato "il quinto evangelista", presenta in questo carme l'immagine delle sofferenze del Servo con un realismo così acuto quasi le vedesse con i propri occhi: con gli occhi del corpo e dello spirito.

La passione di Cristo diventa, alla luce dei versetti di Isaia, quasi ancora più espressiva e toccante che non nelle descrizioni degli stessi evangelisti.

Ecco, si presenta davanti a noi il vero uomo dei dolori:

"Non ha apparenza né bellezza / per attirare i nostri sguardi…

/ Disprezzato e reietto dagli uomini, / uomo dei dolori che ben conosce il patire, / come uno davanti al quale ci si copre la faccia, / era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

/ Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze, / si è addossato i nostri dolori, / e noi lo giudicavamo castigato, / percosso da Dio e umiliato.

/ Egli è stato trafitto per i nostri delitti, / schiacciato per le nostre iniquità.

/ Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; / per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

/ Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, / ognuno di noi seguiva la sua strada; / il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti" ( Is 53,2-6 ).

Il carme del Servo sofferente contiene una descrizione nella quale si possono, in un certo senso, identificare i momenti della passione di Cristo in vari loro particolari: l'arresto, l'umiliazione, gli schiaffi, gli sputi, il vilipendio della dignità stessa del prigioniero, l'ingiusto giudizio, e poi la flagellazione, la coronazione di spine e lo scherno, il cammino con la croce, la crocifissione, l'agonia.

Più ancora di questa descrizione della passione ci colpisce nelle parole del profeta la profondità del sacrificio di Cristo.

Ecco, egli, benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini, perché si addossa i peccati di tutti.

"Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di tutti":  tutto il peccato dell'uomo nella sua estensione e profondità diventa la vera causa della sofferenza del Redentore.

Se la sofferenza "viene misurata" col male sofferto, allora le parole del profeta ci permettono di comprendere la misura di questo male e di questa sofferenza, di cui Cristo si è caricato.

Si può dire che questa è sofferenza "sostitutiva"; soprattutto, però, essa è "redentiva".

L'uomo dei dolori di quella profezia è veramente quell'"agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo"( Gv 1,29 ).

Nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell'amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale dei rapporti tra Dio e l'umanità, e riempie questo spazio col bene.

Tocchiamo qui la dualità di natura di un unico soggetto personale della sofferenza redentiva.

Colui, che con la sua passione e morte sulla croce opera la redenzione, è il Figlio unigenito che Dio "ha dato".

E nello stesso tempo questo Figlio consostanziale al Padre soffre come uomo.

La sua sofferenza ha dimensioni umane, ha anche - uniche nella storia dell'umanità - una profondità e intensità che, pur essendo umane, possono essere anche incomparabili profondità e intensità di sofferenza, in quanto l'uomo che soffre è in persona lo stesso Figlio unigenito: "Dio da Dio".

Dunque, soltanto lui - il Figlio unigenito - è capace di abbracciare la misura del male contenuta nel peccato dell'uomo: in ogni peccato e nel peccato "totale", secondo le dimensioni dell'esistenza storica dell'umanità sulla terra.

18 Si può dire che le suddette considerazioni ci conducono ormai direttamente al Getsemani e sul Golgota, dove si è adempiuto il carme del Servo sofferente, contenuto nel libro d'Isaia.

Ancora prima di andarvi, leggiamo i successivi versetti del carme, che danno un'anticipazione profetica della passione del Getsemani e del Golgota.

Il Servo sofferente - e questo a sua volta è essenziale per un'analisi della passione di Cristo - si addossa quelle sofferenze, di cui si è detto, in modo del tutto volontario:

/ "Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca.

/ Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; / chi si affligge per la sua sorte?

/ Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, / per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.

/ Gli si diede la sepoltura con gli empi, / con il ricco fu il suo tumulo, / sebbene non avesse commesso violenza, / né vi fosse inganno nella sua bocca" ( Is 53,7-9 ).

Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente.

Accoglie con la sua sofferenza quell'interrogativo, che - posto molte volte dagli uomini - è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal libro di Giobbe.

Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda ( e ciò in modo ancor più radicale, poiché egli non è solo un uomo come Giobbe, ma è l'unigenito Figlio di Dio ), ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo interrogativo.

La risposta emerge, si può dire, dalla stessa materia, di cui è costituita la domanda.

Cristo dà la risposta all'interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè con la buona novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza, che con un tale insegnamento della buona novella è integrata in modo organico e indissolubile.

E questa è l'ultima, sintetica parola di questo insegnamento: "la parola della croce", come dirà un giorno san Paolo. ( 1 Cor 1,18 )

Questa "parola della croce" riempie di una realtà definitiva l'immagine dell'antica profezia.

Molti luoghi, molti discorsi durante l'insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall'inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo.

Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani.

Le parole: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!

Però non come voglio io, ma come vuoi tu!" ( Mt 26,39 ), e in seguito: "Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà" ( Mt 26,42 ), hanno una multiforme eloquenza.

Esse provano la verità di quell'amore, che il Figlio unigenito dà al Padre nella sua obbedienza.

Al tempo stesso, attestano la verità della sua sofferenza.

Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell'amore mediante la verità della sofferenza.

Le parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male, davanti al quale l'uomo rabbrividisce.

Egli dice: "passi da me", proprio così, come dice Cristo nel Getsemani.

Le sue parole attestano insieme quest'unica e incomparabile profondità e intensità della sofferenza che poté sperimentare solamente l'Uomo che è il Figlio unigenito.

Esse attestano quella profondità e intensità, che le parole profetiche sopra riportate aiutano, a loro modo, a capire: non certo fino in fondo ( per questo si dovrebbe penetrare il mistero divino-umano del Soggetto ), ma almeno a percepire quella differenza ( e somiglianza insieme ) che si verifica tra ogni possibile sofferenza dell'uomo e quella del Dio-Uomo.

Il Getsemani è il luogo, nel quale appunto questa sofferenza, in tutta la verità, espressa dal profeta, si è rivelata quasi definitivamente davanti agli occhi dell'anima di Cristo.

Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate sul Golgota, che testimoniano questa profondità - unica nella storia del mondo - del male della sofferenza che si prova.

Quando Cristo dice: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" le sue parole non sono solo espressione di quell'abbandono che più volte si faceva sentire nell'Antico Testamento, specialmente nei salmi e, in particolare, in quel salmo 21, dal quale provengono le parole citate.

Si può dire che queste parole sull'abbandono nascono sul piano dell'inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre "fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti" ( Is 53,6 ) e sulla traccia di ciò che dirà san Paolo: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" ( 2 Cor 5,21 ).

Insieme con questo orribile peso, misurando "l'intero" male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell'unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio.

Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la redenzione, e può dire spirando: "Tutto è compiuto" ( Gv 19,30 ).

Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono state definitivamente attuate nella realtà le parole di detto carme del Servo sofferente: "Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori" ( Is 53,10 ).

L'umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo.

E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all'amore, a quell'amore del quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell'amore che crea il bene ricavandolo anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio.

La croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d'acqua viva. ( Gv 7,37-38 )

In essa dobbiamo anche riproporre l'interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino alla fine la risposta a questo interrogativo.

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