5 Maggio 1976

Il cristiano deve modellare la sua mentalità sulla dottrina
per godere dello stato spirituale della certezza

Noi siamo ancora col pensiero, col cuore rivolti alla grande festa che abbiamo celebrata, la Pasqua.

Noi viviamo spiritualmente, cioè con tutta l'anima, col ricordo, con i propositi compiuti, col modo di vivere e di pensare, il nostro dopo-Pasqua; il che vuol dire il nostro dopo-battesimo.

Pasqua e battesimo, noi lo abbiamo già meditato, per noi coincidono: il battesimo ci fa vivere il mistero della morte e della risurrezione di Gesù Cristo ( Cfr. Rm 6,3; S. Augustini De Baptismo ).

Scaturisce da questa assimilazione del battesimo con la morte e con la risurrezione del Signore,

cioè con la sua opera redentrice comunicata a ciascuno di noi mediante il battesimo un duplice effetto, tutti lo sappiamo dal catechismo:

primo, siamo fatti « cristiani », cioè partecipi della vita stessa di Cristo,

siamo rinati in lui, rigenerati, santificati, destinati, se buoni, alla felicità eterna;

siamo « in grazia » di Dio, cosa questa che dovrebbe sempre riempirci di riconoscenza al Signore, di meraviglia, di gioia, di buon volere, di speranza e di amore;

dovrebbe cioè alimentare la nostra coscienza di questa stupenda novità, quella di essere e di saperci « cristiani », persone nuove, in comunione con Dio, elevati ad una dignità superiore di vita e ad un destino immortale ( Cfr. 1 Pt 2,9 );

e secondo, siamo segnati interiormente, nell'animo, nel nostro essere da un'impronta sacra, da un « carattere », da una somiglianza con Cristo, la quale non si cancella più.

Possiamo, per somma sventura, perdere la grazia, cioè la vita divina del battesimo; ma non possiamo più perdere questo sigillo, questo carattere, che stampa in noi una particolare immagine di Cristo, per la quale cristiani saremo sempre, in condizione d'essere favoriti dall'amicizia del Signore, ma anche sempre responsabili di questo rapporto nuovo e indelebile della nostra vita con quella infinita di Dio: siamo suoi, siamo per sempre cristiani ( Cfr. Denz-Schön. 1609; 1767; etc. ).

Questo è una fortuna; questo è un dovere.

Su questa fortuna, su questo dovere, il fatto cioè d'essere cristiani, sia perché oggetto d'un amore immenso di Dio, la grazia, e sia perché vincolati ad una parentela sacra con lui, il carattere, noi dovremmo meditare di più.

Dobbiamo invece spesso osservare come non sempre i cristiani si sappiano cristiani; non sempre traggano da questa realtà che li definisce la linea ispiratrice della loro vita.

Pensate innanzitutto alla scarsa e debole consapevolezza che un ragazzo ha di questa sua elezione all'ordine religioso soprannaturale: la pedagogia cattolica dovrebbe essere subito rivolta a creare nel bambino, nel ragazzo, nel giovane questa particolare avvertenza spirituale propria d'un cristiano.

Un ragazzo può avere questa consapevolezza, come egli l'ha d'essere membro d'una classe sociale, la classe operaia, la nobiltà; ovvero d'essere membro d'una tribù piuttosto che d'un'altra, oppure d'essere figlio d'un popolo, d'una nazione, d'una razza.

Tanto di più si dovrebbe coltivare nell'adolescente la coscienza della sua religione, e specialmente di quella cattolica che conferisce alla coscienza giovanile stessa il senso di comunione con Dio, con Cristo, con i Santi, con i Defunti, con la Chiesa viva, derivando subito da tale mentalità un deciso orientamento morale e sociale.

Questa pedagogia della coscienza cristiana dovrà affinarsi e affermarsi tanto di più quando il ragazzo passa dall'adolescenza alla gioventù;

passaggio questo che sconvolge la primitiva coscienza e sembra doverla affrancare, da un lato, dall'ingenua mentalità puerile e dall'autorità dell'ambiente, sia familiare, che scolastico o associativo,

per fare del giovane un soggetto libero, il quale, dall'altro lato, è inconsciamente e appassionatamente assorbito dalla servilità dell'ambiente esteriore e sociale a cui egli si dona:

sovente in questo momento, il momento della cosiddetta « crisi » giovanile, la coscienza religiosa, anche quella cristiana, se non è sostenuta appunto da un'arte pedagogica saggia, nuova e esigente e da un ambiente in sana sintonia con la fiorente vivacità giovanile,

si oscura, si riempie di dubbi e di ribellione, si spegne, almeno nel sentimento e nella pratica della prima età, e resta disarmata e inetta a reagire alle tentazioni della prima maturità e alle seduzioni d'un ambiente profano e irreligioso.

Questo possibile naufragio del cristianesimo, della integrità e della bellezza battesimale, dovrebbe formare l'oggetto principale, decisivo dell'educazione cristiana.

Esso non ha ragione d'essere, e non ha nemmeno l'infausta potenza che gli si attribuisce: un giovane deve essere preparato e capace di navigare, non solo senza perdere il tesoro di idee e di forze, di cui la prima formazione cristiana lo ha dotato, ma accrescendo piuttosto questo tesoro, e sapendone sperimentare, nella lotta e nella gioia, la superiorità, la originalità, la felicità.

Il battesimo può essere il galleggiante infallibile di queste giovanili tempeste.

Poi succede la maturità, la vita cioè nella pienezza della coscienza, nella scoperta dell'amore e del dovere, nell'esperienza della vita sociale e della sua babelica pluralità.

Allora un battesimo, coltivato dall'istruzione e sostenuto dalla ricchezza della comunità ecclesiale, rivela magnificamente la sua potenziale vitalità:

esso dà il senso della vera dignità della vita,

distende allo sguardo dell'uomo la scala dei valori autentici,

non lascia senza risposta, almeno nella vera speranza, alcun problema della vita.

Tutto questo esigerebbe un discorso senza fine.

Noi lo concluderemo con una sola parola, che riassume, sotto gli aspetti appena accennati, il nostro « dopo-battesimo »; e la parola è fedeltà.

Il battesimo si prolunga per tutta la vita nella fedeltà, alla grazia di cui è fonte, alle promesse di cui è principio.

Come dice il Signore nell'Apocalisse: « Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita » ( Ap 2,10 ).

Con la nostra Apostolica Benedizione.