Come sono entrato nell'Unione

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Il redattore di questi appunti si scusa di dover mettere in pubblico dei fatti tanto personali.

Egli lo fa con estrema ripugnanza, ma sente di non poter negare al Fr. Teodoreto questo tributo di omaggio e di riconoscenza inteso a illustrare l'ampiezza e la profondità dell'opera sua.

Nella quaresima del 1917 io frequentavo il catechismo che si faceva tutti i giorni dalle 13 alle 14 in una parrocchia di Torino.

La classe a cui ero iscritto era affidata a uno dei soci dell'Unione del SS. Crocifisso e di Maria SS. Immacolata, che faceva le sue prove nell'apostolato catechistico.

Mio padre era al fronte e mia madre, con la numerosa famiglia, si era rifugiata al paese natio, nell'attesa trepida che la guerra finisse e che mio padre ritornasse.

Io solo ero stato collocato presso una famiglia amica, perché potessi continuare gli studi in città.

Avevo 15 anni, età in cui ben pochi continuano a frequentare il catechismo, e mi facevo onore.

Il catechista, non so se fedele a direttive ricevute, o se di sua iniziativa, mi invitò alle adunanze dell'Unione, che si tenevano al sabato sera, alle 21, in una classe di via Rosine 16.

lo ero allora psicologicamente un disoccupato e iniziavo in penosa solitudine l'età più critica della mia vita.

I miei genitori erano lontani e su di me si rifletteva il peso delle loro afflizioni.

La famiglia che mi ospitava non mi trattava male, ma io mi sentivo un estraneo.

La scuola che frequentavo, scuola di Stato, era quanto si può immaginare di più freddo e anonimo, esclusivamente informativa e senza il minimo raggio di idealità.

Erano i tempi della scuola agnostica, dalla quale era stato bandito ogni vestigio di religione e nella quale c'era un clima di indifferenza e di ridicolo per le cose di fede.

Gli insegnanti non erano degli educatori, ma dei funzionari.

In tutto il corso dei miei studi non ne trovai uno che mi dimostrasse qualche interessamento personale.

Più di una volta da qualche professore ricevetti in dono delle pubblicazioni, ma era un atto di preferenza non accompagnato da una parola amica: sollevava una fuggevole soddisfazione in me, una fuggevole invidia nei compagni e tutto finiva lì.

Tra i compagni non ne trovai uno che avesse una seria pratica di vita cristiana: era molto se non parlavano male e non deridevano le mie convinzioni religiose.

Correvo dei rischi gravissimi senza saperlo, e la mia anima era alla mercé del primo occupante.

Fortunatamente passò per primo il Signore.

Accettai con interesse l'invito del catechista e al sabato successivo fui puntuale all'appuntamento.

Da allora in poi, per tutto il tempo che rimasi a Torino non mancai ad alcuna adunanza dell'Unione.

L'impressione che ne ricevetti è incancellabile.

Avvertii immediatamente un'atmosfera diversa da quella degli ambienti in cui ero vissuto fino allora; sentii un benessere vivo, una pace profonda, come chi ha raggiunto la sua casa dopo un lungo peregrinare.

C'era un clima di purezza, un calore di amicizia e di rispetto, un senso di serietà e di sicurezza che io non riuscivo certo a definire, ma che mi entrava da tutti i pori e in cui mi immergevo e mi riposavo.

Donde veniva tutto ciò? Sarebbe difficile spiegarlo perché tutto era così semplice.

Alle 20,30 incominciavano ad arrivare i soci e fino alle 21 si chiacchierava fra di noi.

Non c'era neppure l'ombra dei giochi, ma quei giovani erano così gentili, così schietti, così saggi, che quella mezza ora di conversazione aveva più attrattive di qualsiasi divertimento.

Un po' prima delle 21 arrivava Fr. Teodorelo e tutti si affrettavano da lui.

Egli salutava uno per uno con un'affabilità lieta e rispettosa e una cordialità soave che conquideva tutti, si informava da ciascuno delle cose sue, diceva qualche breve parola e poi incominciava l'adunanza, sempre sullo stesso schema: divozione a Gesù Crocifisso, conferenza, avvisi e comunicazioni varie, preghiere della sera.

La preghiera veniva diretta da lui stesso.

Come si pregava bene! Come si sentiva che tutte quelle anime giovanili si elevavano veramente verso Dio!

Io mi sentivo come trasportato da quell'onda che saliva e quasi non avvertivo più distrazioni.

Del resto bastava guardare Fr. Teodoreto, che assumeva un aspetto profondamente raccolto e quasi trasfigurato: inginocchiato su di una sedia, il corpo eretto, gli occhi bassi pareva impersonare l'orazione.

Era evidente che egli era tutto immerso in un intimo colloquio con il mondo invisibile e che l'anima sua si irradiava in tutte quelle giovinezze che lo circondavano.

La conferenza era intonata a questo clima.

Il Fr. Teodoreto faceva leggere da qualche giovane l'epistola e il vangelo della domenica seguente e spesso, con mia soddisfazione, l'onore della lettura toccava a me.

Poi incominciava il commento preferibilmente sull'epistola, perché il Vangelo sarebbe stato poi già spiegato in chiesa dal Sacerdote.

Adesso mi sembra di capire che il carattere morale dell'epistola rispondesse meglio alla situazione spirituale del Fr. Teodoreto, in quegli anni tutto teso verso la perfezione, e rispondesse anche particolarmente alle mie personali esigenze.

Il Fr. Teodoreto parlava con estrema semplicità, ma raggiungeva il cuore, diritto diritto.

Tutto quello che diceva era così vero, così bello, così importante che io non perdevo una sillaba.

Sembrava che parlasse proprio per me.

E come conosceva bene l'anima umana.

Le sue parole mi destavano risonanze profonde, mi illuminavano, mi ammonivano, mi spronavano, mi entusiasmavano, mi suggerivano propositi pratici e mi seguivano durante tutta la settimana.

Ma io non riuscivo a realizzare tutto; molte luci che egli andava accendendo si spegnevano presto, cosicché desideravo di sentirlo di nuovo.

Mai che egli mi abbia deluso, o annoiato, o parlato invano: il suo discorso così semplice e spoglio aveva un tale carattere di verità e una vibrazione così alta di saggezza che costituiva per me veramente il verbo di vita.

Nessuno mi aveva mai parlato con tanta efficacia.

All'Oratorio di via delle Rosine ( 1931-32 ): il Fratel Teodoreto è il terzo seduto, da sinistra

Mezz'oretta di conferenza passava in un baleno.

I giovani non erano stanchi di sentirlo parlare, ma egli possedeva in sommo grado il senso della discrezione e in tutti i suoi interventi era tale da lasciare il desiderio del suo ritorno.

Passava agli avvisi e concedeva libertà di parola.

Si stabiliva così una conversazione ordinata e disciplinatissima, priva di qualsiasi intemperanza e mancanza di carità, dove sfilava un po' tutta la vita della giovane Unione, in perfetta unione di cuori attorno al Fr. Teodoreto: esperienze di catechisti nel loro apostolato alle prime armi, richieste di parroci, diffusione della divozione a Gesù Crocifisso, intenzioni particolari nelle preghiere, ammalati da visitare, diplomi di catechismo, scuola serale, missioni, ecc.

i giovani presenti non erano dei ragazzi, ma piuttosto degli adolescenti e dei giovanotti; con i miei 15 anni scarsi ero uno dei più teneri.

Per lo più erano studenti e quando avveniva il felice compimento degli studi di qualcuno, il Fr. Teodoreto non mancava di sottolineare il fatto all'adunanza del sabato.

In queste circostanze le sue parole, seguite dal generale battimani, erano una cosa dolcissima, come il bacio della mamma ricevuto poco prima.

Ai neo-catechisti poi si rendeva particolare onore.

Il Fratel Teodoreto allora voleva anche il discorso di qualche giovane e ricordo che qualche volta ne diede a me l'incarico.

Non avevo mai parlato in pubblico e non avevo l'idea delle difficoltà che occorre superare, specialmente se si ha un carattere impressionabile.

Il fiascone che feci me lo rilevò ottimamente.

La distribuzione dei diplomi ai neo-catechisti preferiva farla fuori dell'adunanza settimanale, durante una piccola accademia con canti, musiche, discorsi, ecc. e con l'intervento di molti Fratelli della Comunità.

Fu proprio così che io ricevetti il diploma insieme a una decina di altri giovani, ed ebbi l'onore della precedenza a motivo di quel 30 con lode che la Commissione esaminatrice mi aveva generosamente regalato.

Le adunanze del sabato terminavano con la preghiera della sera, verso le ore 22, in modo che tutti potessero rientrare a casa per tempo.

Ordine, regolarità e discrezione brillavano in tutte le manifestazioni della giovane Unione, riflettendo il clima della scuola lasalliana e il carattere del Fr. Teodoreto.

Questi, appena finite le preghiere, andava a fermarsi vicino all'uscita e salutava tutti i giovani uno per uno: stringeva la mano, faceva un leggero inchino col capo, dal quale aveva tolto lo zucchetto e salutava con un'affabilità modesta e premurosa che lasciava nell'anima un senso di dolcezza e di dignità.

Non avveniva mai che si lasciasse l'Unione senza aver salutato il Fr. Teodoreto, non solo perché egli per primo avvicinava tutti, ma anche perché nessuno avrebbe rinunciato a quella breve stretta di mano e a quel sorriso, soffusi di delicatissimo riserbo e di soavità.

Alla vigilia delle giornate di ritiro si era invitati a rientrare a casa in silenzio, recitando il rosario.

Confesso che mi costava non poco sacrificio rinunciare all'animata conversazione che si faceva normalmente per strada, tornando dall'adunanza, ma a nessuno sarebbe passato per la mente di trascurare una direttiva del Fr. Teodoreto.

Se qualche recluta poco docile non stava alla disciplina, rimaneva isolata, con la sola alternativa di uniformarsi, oppure allontanarsi.

Ci disponevamo per gruppi a seconda delle abitazioni, e ciascun drappello si incamminava salmodiando sotto voce, finché i portoni delle nostre case uno per uno ci ingoiavano tutti.

Il primo ritiro al quale io partecipai, nella primavera del 1917, fu per me un'altra grande rivelazione e l'impressione che ne ricevetti fu profonda, nonostante la grande modestia dell'iniziativa e la esiguità dei mezzi impiegati.

Non fu un luogo riservato, bensì i soliti locali della scuola.

Non avemmo colazione né pranzo in comune perché ciascuno li consumò a casa sua, e non fu invitato nemmeno un predicatore di speciale valore: tutto si ridusse ad una predica del cappellano della comunità, alle conferenze del Fr. Teodoreto, a frequenti preghiere in comune, ai brevi periodi di passeggio in silenzio.

Oggi non mi parrebbe neppure possibile pensare ad un ritiro di tal fatta, ma allora mi sembrò una cosa sublime.

Tentai di aprire il mio animo al Fr Teodoreto, cercando in lui una guida di cui avvertivo confusamente il bisogno, ma egli non me lo consentì.

Penso che questo atteggiamento suo sia stato costruttivo, perché mi richiamò ad un senso di serietà e di austerità di cui forse avevo bisogno.

Quando giunse la fine dell'anno scolastico io lasciai Torino per tornare in famiglia, e durante i quattro mesi di vacanza ( si era in tempo di guerra e il periodo delle vacanze fu lungo ) non seppi più nulla della Unione.

Nell'autunno, al mio ritorno in città, andai ad abitare lontano da via Rosine.

All'Unione non avevo propriamente alcun amico, non avendo frequentate le scuole dei Fratelli; avevo invece degli amici nelle scuole pubbliche fra i miei compagni, i quali non erano cattivi, ma desideravano solo divertirsi.

Non occorse altro perché anch'io, opponendomi alle forti attrattive sperimentate, non ritornassi più alla Unione per qualche anno.

Ma fu solo una parentesi e ci pensò il Signore a chiuderla.

Una serie di dolori da cui fu afflitta la mia giovinezza mi fece sentire più vivo il bisogno di Dio e mi ispirò la nostalgia di quell'ambiente così puro, così caldo e soave che avevo conosciuto.

Non osavo presentarmi dopo tanto tempo, ma un incontro provvidenziale con il Fr. Teodoreto risolse ogni difficoltà.

Ritornai definitivamente all'Unione al principio del 1922 e vi ritrovai alcuni dei suoi soci che avevo già conosciuto e molti altri nuovi.

L'ambiente era sempre il medesimo, ma qualche cosa vi era mutato e si avvertiva una intonazione generale più progredita e più consapevole.

I soci, che ora si chiamavano decisamente catechisti ed erano in pieno fervore di attività catechistica, avevano acquistato una personalità e davano un serio appoggio al Fr. Teodoreto, il quale li trattava da maggiorenni e non faceva nulla senza aver riunito e interrogato il suo piccolo consiglio di direzione, eletto regolarmente da tutti i soci.

Proprio in quell'anno 1922 si organizzò un turno di Esercizi Spirituali chiusi, riservati a catechisti.

Da allora si ripeterono ogni anno e costituirono il momento saliente dell'annata, il periodo delle grandi manovre, i traguardi di arrivo e di partenza nello stesso tempo.

Erano preparati con grande cura, con una settimana di preghiere e di adunanze preliminari, ed erano attesi più che le ferie, come il grande incontro con Dio.

Nel 1922 si fecero a Chieri, ove poi si continuarono per molti anni.

Vi andavamo a piedi, recitando per la strada molte decine di rosario, facendo tappa alla Madonna del Pilone, dove consegnavamo l'anima nostra alla Madonna, e Le affidavamo non solo la riuscita dei nostri esercizi, ma le sorti della nostra vita, che andavamo a trattare in quegli esercizi.

La casa dei Missionari a Chieri ci appariva il luogo santo ed ogni cosa aveva nell'anima una risonanza profonda ed arcana, che penetrava sino all'intimo e svelava prospettive nuove, orizzonti di santità divinamente belli e allettanti.

Le prediche erano semplici, le letture durante i pasti erano fatte su libri di uso comune, le pratiche di pietà erano quelle consuete; ma tutto acquistava un rilievo straordinario e persino l'ambiente esterno si legava nella nostra fantasia alle emozioni spirituali e ci diventava carissimo.

Era il romanticismo dell'età? Erano grazie speciali? Certo tutt'e due le cose, ma più queste che quello, perché le emozioni passavano, ma i frutti restavano.

Era la sete di Dio che veniva acuita e soddisfatta allo stesso tempo, era il problema centrale della vita che veniva affrontato insieme con tutti gli altri che restavano però in sottordine.

Gli altri problemi venivano a collocarsi attorno a quello e con quello venivano implicitamente risolti, cosicché ciascuno sentiva sempre più predominante l'influenza dell'Unione nella propria vita, si avvedeva di vivere in essa la parte migliore e si attaccava ad essa sempre più strettamente.

Che parte aveva in tutto questo Fr. Teodoreto?

Evidentemente era lui che aveva creato quel clima, che aveva riunito quei giovani in un organismo sociale vivo, dove la linfa spirituale circolava abbondante e questa linfa aveva la sua radice nella vita interiore di lui.

Ordinariamente egli non si faceva notare, anzi, autentica radice, aveva l'arte di scomparire; ma in certi casi si rivelava suo malgrado, e questo avveniva soprattutto durante gli esercizi spirituali.

Allora sembrava che si trasfigurasse.

Non era possibile rimanere tiepidi o indifferenti davanti a un uomo che appariva così compreso da un'idea dominante, così assorto in pensieri sublimi e formidabili, così risoluto a seguire un meraviglioso ideale, così slancialo e deciso a qualunque sacrificio.

Le conferenze che egli faceva ai catechisti, le sue pressanti esortazioni, brevi, ma frequenti, unitamente al suo esempio, impressionavano e davano il tono agli esercizi, raggiungendo sempre un alto diapason, qualunque fosse il valore delle altre prediche.

Egli si preoccupava di non rendere pesante la giornata, e dopo il pranzo e dopo cena concedeva un po' di tempo per la ricreazione, insistendo però che si parlasse di cose spirituali, oppure si cantassero lodi sacre.

Una cosa mi pesava assai: la visita in chiesa dopo cena.

Terminate le preghiere in comune ci lasciava lungamente inginocchiati, in silenzio, e io che sempre ebbi la digestione difficile con molto dispendio di energie nervose, trovavo la cosa un vero tormento.

Ma egli era là, assorto in preghiera ed immobile come una statua, nessuno fiatava, e io pur potendo uscire perché egli non imponeva nulla, ne redarguiva mai, sentivo l'influenza del suo esempio e la superiorità del suo consiglio di protrarre la preghiera e non mi occorreva di più per restare a pregare.

In quegli anni la pratica dei ritiri mensili e degli esercizi spirituali chiusi per i secolari era poco diffusa e i tentativi che si facevano qua e là riuscivano mediocremente.

Per questo l'opera del Fr. Teodoreto veniva guardata con molto interesse, e a tutti destava meraviglia la perfetta disciplina e la seria applicazione di queste cose, mentre io riflettevo: possibile che debba apparire strano il far le cose sul serio? o che dobbiamo fare i pagliacci?

Prudentemente ci pensava il Fr. Teodoreto a dissipare gli eventuali fumi della vanità, richiamandoci continuamente alla verità del nostro nulla e all'altezza della perfezione, da cui eravamo tanto lontani.

Non c'era alcuna virtù a cui tenesse tanto quanto l'umiltà e non si stancava di inculcarla.

Le poche volte in cui Io sentii usare delle espressioni alquanto stroncatrici ( e mi colpì sentirle da lui, sempre così riguardoso e gentile ) fu in occasione di qualche frase un po' vanitosa o in circostanze in cui credette necessario tagliar la cresta a qualcuno.

Non trattò mai direttamente della castità, se non per inciso e con estrema delicatezza perché era convinto che quel tema stesse meglio in bocca al sacerdote e quella virtù si inculcasse assai meglio indirettamente con la vita di pietà e lo spirito di sacrificio.

Però nel regolamento dei catechisti da lui scritto il capitolo riguardante la castità è il più lungo e il più diffuso e nell'Unione non tollerava nemmeno i giochi o gli scherzi che comportassero di mettersi le mani addosso.

Di fatto nell'Unione sotto questo rispetto non ci fu mai alcuna ombra e questa limpidezza era avvertita subito ed era certamente una ragione del fascino che l'Unione esercitava.

Altra attrattiva di quell'ambiente e una delle note dominanti dell'educazione spirituale impartita dal Fr. Teodoreto era la carità fraterna, che si esprimeva nel reciproco tratto gentile e riguardoso da parte di tutti, e con la esclusione dei modi un po' grossolani, delle ironie, delle discussioni accese e di tutte quelle manifestazioni di intemperanza e di discordia così facili e frequenti fra i giovani che, quasi galletti, ogni momento si azzuffano, anche se poi ritornano presto amici.

E non si trattava solamente di forma, ma di autentica virtù, che non trascurava alcuna occasione di dimostrarsi come io stesso constatai proprio nei primi anni della mia frequenza all'Unione.

Mi ero ammalato gravemente e fui in pericolo di vita per parecchi giorni.

Quasi contemporaneamente altri due miei famigliari furono colpiti con la stessa gravita.

Si trattava di un'epidemia, e siccome il medico non insisté per il ricovero in ospedale, la situazione in casa divenne diffìcilissima.

In quella circostanza i catechisti non esitarono e per tutto il lungo periodo di crisi vennero a vegliare tutte le notti al mio capezzale e recarono un immenso sollievo a me ed a mia madre, da poco tempo vedova e oppressa da altre pene.

Io non potrò mai dimenticare le sollecitudini intelligenti e delicate di cui fui oggetto durante il periodo della convalescenza; esse mi commossero profondamente e furono per me una delle più grandi lezioni di cristiana amicizia che abbia ricevuto.

Ne dimenticherò mai l'accoglienza affettuosa e festevole con la quale fui ricevuto quando ritornai ristabilito alle adunanze.

Dietro ai catechisti, silenzioso e attivo come lo spirito, stava sempre il Fr. Teodoreto, posto quasi mediatore fra Dio e i suoi giovani, che da Dio continuamente attingeva per distribuire e a Dio tutto riportava, in un movimento semplicissimo e svariatissimo a un tempo, umile e sublime senza neppure avvedersene.

La vita dell'Unione si svolgeva così, silenziosamente, tutta fondata esclusivamente sulla vita spirituale.

Ciascun catechista esercitava il suo apostolato presso qualche parrocchia e ci fu un periodo in cui molte parrocchie di Torino e alcune della provincia furono servite dai catechisti, ma il sabato sera si trovavano tutti riuniti per l'adunanza e il giorno del ritiro escogitavano tutti gli espedienti per parteciparvi senza pregiudizio dell'apostolato parrocchiale.

Molti giovani vennero all'Unione, ma non tutti perseverarono.

Attorno ad un nucleo sempre più affezionato si muoveva una massa alquanto fluida, che continuamente si rinnovava.

Ma il nucleo si andava confermando nella fedeltà al Fr. Teodoreto, nelle cui direttive riconosceva sempre più chiaramente le linee programmatiche della propria anima.

Gli anni passavano e la scelta definitiva del proprio stato veniva sempre rimandata o implicitamente risolta restando in quella condizione che garantiva la pace interiore e nutriva ideali così semplici, ma così puri e così alti.

Qualcuno si sposava.

C'era nell'aria come un'attesa.

Sapeva il Fr. Teodoreto che rimaneva da salire un ultimo gradino, oppure attendeva anche lui che la Provvidenza manifestasse chiaramente i suoi disegni?

Sta di fatto che nel 1925 egli aveva riveduto tutto il regolamento dei catechisti e vi aveva incluso l'osservanza dei consigli evangelici.

Che cosa mancava ormai per una autentica vita religiosa se non i voti?

Fu il Card. Gamba a fare ai catechisti la rivelazione di se stessi e a dare al Fr. Teodoreto l'ultima indicazione per il compimento dell'opera sua.

Una dozzina di catechisti accolse immediatamente l'idea del Cardinale Gamba e si legò definitivamente all'Unione con i voti religiosi.

Era lo sbocco naturale di una lunga preparazione e incominciava un periodo nuovo, quello definitivo.

La Costituzione Apostolica « Provida Mater » avrebbe ancora tardato venti anni, ma l'Istituto Secolare dei Catechisti era ormai nato.

C. T.

Il Fratel Teodoreto ottantenne ( sul terrazzo della Casa di Carità Arti e Mestieri in Torino:
sullo sfondo, la cupola di N. S, della Salute )