3 giugno 1986

« Premio internazionale della pace Giovanni XXIII »

Venerati fratelli, illustri signori.

1. È con profondo sentimento di gioia che ho consegnato il Premio Internazionale della Pace Giovanni XXIII in questo giorno in cui ricordiamo il 23° anniversario della morte di quel caro Pontefice.

Sono grato ai cardinali e ai confratelli nell’episcopato per aver voluto con la loro presenza rendere particolarmente solenne questa significativa cerimonia.

Saluto i rappresentanti del Corpo Diplomatico, e gli illustri signori, che oggi qui rappresentano le Organizzazioni Internazionali e Nazionali, le quali hanno come scopo quello di soccorrere l’uomo là dove maggiore è il suo bisogno.

A tutti i presenti va l’espressione del mio affetto.

Con viva gratitudine mi rivolgo in modo speciale al signor cardinale Michael Michai Kitbunchu e agli esponenti del Catholic Office for Emergency Relief and Refugees ( COERR ).

Voi, insieme con numerosi altri sacerdoti, suore e laici, e unitamente al direttore esecutivo, padre Bunlert Tarachatr, avete prontamente risposto alle attese di numerosi sofferenti e senza tetto di un’area tanto provata dell’Estremo Oriente.

Siate benvenuti voi, che lavorate per i poveri, i deboli, i diseredati: voi che a quanti non avevano speranza avete offerto, con la vostra operante solidarietà, aiuto, conforto e amore.

In voi e attraverso voi il mio pensiero e le mie parole intendono rivolgersi a tutti coloro che prestano la loro opera nel settore in cui voi avete tracciato la via, in Asia e in ogni parte del mondo.

Desidero indirizzare uno speciale saluto ai Tailandesi venuti a questa cerimonia accompagnati dal cardinal Kitbunchu.

Vorrei esprimere il mio apprezzamento per il lavoro portato avanti dalla Thailandia in favore degli esiliati e dei rifugiati.

Saluto anche i Tailandesi residenti a Roma e quelli provenienti dalla regione del Sudest asiatico, alcuni dei quali sono passati attraverso i campi profughi.

A tutti loro dico: Benvenuti in questa casa.

2. Il riconoscimento che oggi è stato dato al COERR pone bene in risalto l’importanza che la Sede apostolica annette sia al lavoro che tale Organizzazione svolge in una zona del mondo tra le più martoriate di questo secolo, sia alle iniziative messe in atto per celebrare il 1986 quale “Anno Internazionale della pace”.

Perché la pace è “opera della giustizia” ( Is 32,17 ), ed è promossa quando viene tutelato il bene della persona, quando le viene restituita la sua costitutiva dignità.

È perciò quanto mai opportuno incoraggiare una testimonianza cristiana, che è resa con grande amore verso ogni uomo bisognoso, senza discriminazioni etiche, sociali, religiose ( cf. Ad Gentes, 12 ).

Ispirandovi a Cristo redentore che, già profugo egli stesso nella prima infanzia ( cf. Mt 2,13-23 ), durante il ministero pubblico percorreva le città e i villaggi per soccorrere gli uomini e le donne di Palestina ( cf. Mt 9,35 ), voi vi occupate dei rifugiati, oltre 120.000 in 13 campi di profughi; a tale cifra deve poi aggiungersi quella di altre 250 mila persone fuggite o scacciate dalla loro terra e provvisoriamente accolte, per ragioni umanitarie, lungo la frontiera con la Cambogia.

Né si deve tacere dei 16.000 rifugiati Karen e dei 5.000 Mon provenienti dai confini dell’Ovest.

E così, tramite questa opera caritativa, la Chiesa di Thailandia, esercitando in tale ambito nessun altro diritto se non quello di servire con fedeltà l’uomo, assiste quanti sono stati colpiti dagli eventi naturali e politici, che affliggono il Sud-Est asiatico.

3. Il lavoro che avete intrapreso, tuttavia non è fatto solo da voi.

In esso siete aiutati da molte organizzazioni nazionali e internazionali, che manifestano l’universale desiderio e impegno di aiutare quei fratelli e sorelle sofferenti.

La Caritas d’Austria, Danimarca, Germania, Italia, Olanda, Svizzera e altri Centri di assistenza, come quello dell’Australia, gli organismi di “Misereor” e “Missio”, i “Secours Catholiques” e la Commissione Cattolica Internazionale per i migranti, con il coordinamento del Pontificio Consiglio “Cor Unum”, hanno dimostrato con tempestività e con continuità l’impegno della Chiesa Cattolica per le situazioni penose di cui siete quotidianamente a contatto.

Tali opere della Chiesa cattolica sono realizzate anche in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il cui ufficio si prodiga instancabilmente in quell’area.

4. In maniera eminente, il popolo Tailandese dà esempio di solidarietà verso tali persone in difficoltà; più di ogni altro Stato, esso ha aperto la propria porta e il proprio cuore a questi suoi vicini, dimostrando ancora una volta i grandi ideali della sua gloriosa tradizione.

Desidero qui nuovamente manifestare l’apprezzamento che ho già espresso in occasione della mia visita in Thailandia: tale Paese ha trovato nell’esempio dei suoi sovrani, le loro maestà il re e la regina, l’indicazione della giusta via su cui impegnarsi.

Penso in modo particolare al lavoro svolto nel campo di Khao Larn dalla Croce Rossa Tailandese sotto il patronato di sua maestà la regina.

Ringrazio tutti coloro che hanno merito nell’opera che in Thailandia è realizzata a favore dei fratelli che si trovano in un’indigenza estrema, essendo senza cibo e senza casa, lontani dalla loro patria.

5. In questa solenne circostanza desidero sottolineare che il popolo Tailandese non deve essere lasciato solo nel portare il pesante fardello della responsabilità e dell’assistenza in quella regione del mondo.

Dal profondo del cuore rivolgo, pertanto, un accorato invito perché, se la solidarietà ha già conosciuto convincenti manifestazioni, un ancor più ricco e adeguato sostegno internazionale offra ai rifugiati nuovi segni di generosità.

Rinnovando l’appello che espressi a Bangkok, esorto a intensificare l’impegno e a coordinare gli sforzi: il tempo e il succedersi degli eventi non diminuiscano né la generosità né la cooperazione comune.

In particolare, è necessaria la collaborazione delle varie Nazioni del mondo per poter offrire a chi lo desidera una nuova patria in cui stabilirsi.

Solo la solidarietà politica su vasta scala potrà recare una soluzione soddisfacente a questo grave e annoso problema.

6. Nella lettera enciclica Pacem in Terris, Papa Giovanni XXIII trattò pure della condizione degli esiliati per ragioni politiche ( cf. Ioannis XXIII Pacem in Terris, 53-58 ) e, al riguardo, affermò tra l’altro: “Questi rifugiati sono persone e tutti i loro diritti in quanto persone devono essere riconosciuti.

I rifugiati non possono perdere i loro diritti, nemmeno quando vengono privati della cittadinanza del loro Paese” ( Pacem in Terris, 57 ).

Con tali parole, Papa Giovanni XXIII diede le ragioni fondamentali per le quali noi cristiani dobbiamo occuparci dei rifugiati, che vengono a noi da situazioni di sofferenza e di persecuzione.

È nostro dovere garantire sempre gli inalienabili diritti, che sono inerenti a ogni essere umano e non sono condizionati da fattori naturali o da situazioni socio-politiche, ed è in questa prospettiva che desidero venga percepito e riconosciuto il lavoro che voi insieme con tante persone di buona volontà state facendo.

Mi compiaccio per le molteplici iniziative che cercate di promuovere o di incoraggiare.

Sia che si tratti di scuole elementari o di corsi per l’avviamento al lavoro, sia che si tratti di semplici scuole di taglio e cucito o di agricoltura, o anche di assistenza ospedaliera o di programmi di educazione sanitaria, ciò che voi fate è aiutare quella gente a trovare i mezzi per sopravvivere e per costruire, poi, la propria esistenza nel contesto di una vita dignitosa, come quella degli altri esseri della famiglia umana.

Il programma di aiuto materiale e di formazione culturale offrono a quelle popolazioni la possibilità di un’esistenza nuova, dove i diritti della persona sono rispettati.

Tale nobile impegno accresce la dignità di quanti vi partecipano, perché in questo lavoro meraviglioso di promozione umana ognuno scopre e riafferma il valore di ogni vita e di ogni persona.

Di quanto sto affermando ebbi un commovente riscontro l’11 maggio 1984, durante la mia visita al campo di Phanat Nikkon, dove vidi come le diversificate iniziative avevano dato ai rifugiati nuove possibilità, nuovi orizzonti e speranze.

Vidi come il vostro lavoro aveva aiutato quegli esseri a ritrovare la dignità perduta e a riaffermare il valore della propria individualità nelle sue specifiche capacità.

7. Questo lavoro è veramente un’opera di pace.

Esso è opera di pace perché prima di tutto cerca di guarire le ferite che sono state inflitte nello spirito e nei corpi di tali persone sofferenti.

È opera di pace perché offre una nuova possibilità a esseri umani che, altrimenti, sarebbero abbandonati a se stessi e alle forze distruttive della disperazione.

È opera di pace perché cerca di reinserire quelle popolazioni nella famiglia umana in un modo tale che siano rispettati la loro cultura e i loro valori, e abbiano la possibilità di costruire la propria vita in nuove e diverse culture e società.

Nel Messaggio per la Giornata Mondiale della pace di quest’anno, ho detto: “Il retto cammino verso una comunità mondiale, nella quale la giustizia e la pace regneranno senza frontiere fra tutti i popoli e in tutti i continenti, è il cammino della solidarietà, del dialogo e della fratellanza universale.

È questo l’unico cammino possibile” ( Ioannis Pauli PP. Nuntius ob XIX diem ad pacem fovendam dicatum, 4, die 8 dec. 1985 ).

Questo è il cammino che il lavoro del COERR deve aprire a quelle popolazioni.

Tale senso di solidarietà deve essere al di sopra di ogni tentazione di chiusura, comportando il ripristino di una nuova solidarietà che rispetti e valorizzi le tradizioni culturali e morali di ogni popolo e che faccia di tali tradizioni il terreno d’incontro per la mutua comprensione e il reciproco rinnovato rispetto.

Il genere di solidarietà, di cui la società contemporanea ha bisogno, va oltre le espressioni vaghe e inconcludenti ed esige l’affermazione del valore della vita, di ogni vita, poiché in ogni esistenza umana vi è un riflesso dell’Essere divino.

Non basta dunque la semplice tolleranza, e ancor meno la rassegnazione al vivere.

Non basta l’accettazione dello “status quo”.

È necessario l’impegno attivo per il rispetto e l’affermazione della dignità e dei diritti di ogni persona entro i confini della sua identità culturale.

Questo impegno attivo cerca il bene dell’altro, costruisce nuovi vincoli, offre nuova speranza, opera la pace.

Solo con la comprensione noi possiamo risolvere i conflitti e correggere le ingiustizie e siamo capaci di offrire prospettive di solidarietà nella libertà e nella speranza.

Solo così possiamo aprire la via alla concordia tra i popoli, indispensabile presupposto per la vera pace.

Per tutte queste ragioni, desidero dirvi che il vostro lavoro è un’opera di pace.

Voi siete operatori di pace e meritate di essere chiamati i benedetti da Dio, perché avete riconosciuto il volto del suo Figlio nelle migliaia di volti che avete incontrato nel vostro lavoro tra i rifugiati e in quanti sono stati provati da eventi tristi e dolorosi.

8. Cari amici, il vostro lavoro non è ancora finito.

Non terminerà fino a quando ci sarà gente che soffre attorno a voi, e voi, sensibili al loro grido, risponderete donando i mezzi per perseverare e riaffermare la loro dignità.

Non stancatevi di prodigarvi per coloro, le cui vite sono state sconvolte e il cui futuro è incerto.

Questo vostro impegno ha ancora un altro compito da svolgere.

Voi non avete solamente risposto alle loro necessità aprendo a quelle popolazioni nuove possibilità, nuova speranza, nuova vita, ma avete mostrato loro pure la via per ricostruire e riaffermare ciò che è caratteristico della loro identità culturale che esse devono portare nelle nuove condizioni di vita.

Aiutatele in tal senso ora e anche per l’avvenire.

Instillate in loro, con la parola e con l’esempio, l’amore per l’essere umano, per gli uomini e per le donne, per i bambini e per gli anziani, così che lo stesso spirito, da cui sono animati i vostri sforzi apostolici, possa ispirarli e guidarli nel loro oggi e nel loro domani.

Mossi da tale amore, dopo aver trovato il dovuto posto nel mondo, soccorreranno altri e diverranno loro stessi portatori di quella carità che li renderà costruttori di pace in questo mondo diviso.

Da parte mia, auspico per loro che possano alla fine, in un futuro non lontano, abitare nuovamente nella terra natale.

Come ebbi a dire nel mio discorso al Corpo Diplomatico a Bangkok: “Essi hanno il diritto di ritornare alle loro radici … hanno il diritto a tutti i rapporti culturali e spirituali che li nutrono e li sostengono come esseri umani” ( Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII, 1 [ 1984 ] ).

Ciascuno, dunque, mentre prega e lavora per tale giusta soluzione secondo le proprie capacità e secondo le occasioni che gli si presentano, deve continuare ad agire per la riconciliazione tra gli uomini e tra i popoli.

“In ultima analisi il problema non può essere risolto senza che siano create le condizioni mediante le quali una genuina riconciliazione può aver luogo: riconciliazione tra le nazioni, tra i vari settori di una data comunità nazionale, all’interno di ogni gruppo etnico e tra i medesimi gruppi etnici.

In una parola, c’è una urgente necessità di perdonare e di dimenticare il passato e di lavorare insieme per costruire un futuro migliore” ( Ivi ).

Il vostro lavoro è uno dei più veri e fattivi contributi alla attuazione di questa speranza di riconciliazione.

I vostri sforzi stanno facendo molto e continueranno a fare di più per costruire un avvenire migliore, che tutti desideriamo.

9. Sono convinto che se il nostro tempo sarà un giorno ricordato come un secolo di civiltà, ciò accadrà non tanto per il progresso tecnologico e culturale che avrà saputo realizzare, quanto piuttosto per lo sviluppo sociale che avrà conseguito al fine di permettere il bene completo dell’uomo.

In tale sviluppo ha un posto di primo piano la soluzione da dare al problema riguardante i milioni di rifugiati, in qualunque continente essi si trovino.

Il ricordo di quanto l’umanità ha sofferto a motivo dell’ultima guerra mondiale, che costrinse milioni di persone a fuggire, abbandonando la propria casa e la propria terra, favorisca un’acuta sensibilità alle medesime tragedie, ovunque esse accadano.

Esso porti a operare senza stancarsi affinché cessino le discordie e le divisioni, le rivalità ideologiche e di potere; perché venga abbandonata la logica inumana dell’egoismo e prevalga quella del rispetto dell’uomo.

Ciò permetterà di edificare la civiltà della verità e dell’amore, nella solidarietà tra tutti i popoli.

10. Mentre auspico che l’implorazione di aiuto che viene dai profughi e dai rifugiati tocchi la mente e il cuore di ogni uomo, affido le vostre persone e il vostro impegno quotidiano alla Vergine Maria.

Ella, con la sua materna sollecitudine, vi faccia crescere nella carità di Cristo e nel servizio ai fratelli, con la gioia dello Spirito Santo, che è “Spirito di forza, di amore e di saggezza” ( 2 Tm 1,7 ).

Formulo altresì voti, affinché le popolazioni del Sud-Est Asiatico possano riavere il loro legittimo posto nella famiglia umana, e siano a loro volta capaci di portare la vera pace a coloro, tra i quali troveranno nuove dimore.

Nell’assicurare un particolare ricordo nella preghiera per i numerosissimi rifugiati e profughi nel mondo, invoco da Dio per voi qui presenti, per i vostri collaboratori e per il nobile popolo della Thailandia una serena e operosa prosperità.

A tutti la mia benedizione.