Apofatismo

Dizionario

1) teol. concezione secondo cui Dio è del tutto inconoscibile attraverso la ragione in quanto trascende la realtà fisica e le capacità cognitive umane, ed è quindi definibile solo per quel che non è; teologia negativa


L'apofatismo ( dal greco apophatikós: negativo ) è un metodo teologico e un modello di vita spirituale che ritiene Dio superiore ad ogni capacità conoscitiva: la conoscenza intellettuale va superata da quella esperienziale dell'adorazione e della contemplazione del mistero.

La sua formulazione più alta si ebbe nei secc. V-VI con Dionigi Areopagita ( Teologia mistica ).

Il silenzio adorante di fronte al mistero del totalmente Altro evita ogni idolatria e rimanda a un Dio che esiste in pura fedeltà a se stesso: egli non è ciò che possiamo affermare di lui, perché trascendente e come tale inconoscibile, ma si manifesta e si comunica attraverso energie increate.

Questa positività rende l'apofatismo diverso dall'agnosticismo ( v. ).

Apofatica

Viene detta così la teologia che parla di Dio negando i limiti, vale a dire risalendo da ciò che conosciamo, che è limitato, all'essere totalmente positivo e trascendente.

Così, Dio è infinito ( non-finito ), immortale, immateriale, ecc.

Via apofatica o negativa

Sulla via negativa

Ecco alcune "considerazioni" sulla via negativa: Manuali e libri vedono nelle correnti mistiche cristiane una diretta dipendenza dalle scuole platoniche; quasi nessuno evidenzia – ad esempio – l'influsso considerevole di Filone d'Alessandria o la partecipazione alla medesima esperienza.

Tutti, teologi e filosofi, leggono le testimonianze della via apofatica in termini teologico-ontologici, evidenziando una trascendenza estrema e l'impossibilità assoluta di parlare di ciò che infinitamente ci trascende.

Ma qui sta l'errore: fare di Dio un "oggetto" ed evidenziare la capacità effettiva dell'uomo di giungere all'assoluto, "indirettamente" dicono gli aristotelico-tomisti, "direttamente" dice Plotino, in quanto abbiamo in noi una partecipazione alla divinità, all'emanazione.

I platonici, in questa loro posizione, presentano un dannosissimo "dualismo", che porta con sé l'idea della "purificazione" ( dalla materia macchiata dal male ), a differenza dell'ottimismo modesto degli aristotelici che, in fondo, dice: io non so incontrarlo, ma Lui sa e può incontrare me, grazie a una "nuova creazione" e mai "ex natura" ( è la posizione di molti teologi ).

Gli aristotelici si avvicinano a Dio "per correzione", attraverso l' "analogia": non conosco la luce "in sé" ma, per analogia, osservando i corpi illuminati, deduco che esiste la luce.

Quanti seguono Aristotele, "togliendo le imperfezioni", applicano il loro bene a Dio … sarà anche appropriato, ma è sempre "il loro", non "Dio".

E potendo incontrare Dio solo grazie ad una nuova creazione, Dio non sarà mai la loro felicità, perché la natura rimane esclusa, e Dio vive in un superattico al quale il loro ascensore non può arrivare.

I teologi si rifaranno tutti a Dionigi lo Pseudo-areopagita, perché in lui "tutto è soprannaturale".

La natura creata non potrà mai giungere a Dio.

Così lo Pseudo-Dionigi esprime un soprannaturalismo in cui Dio è sempre "al di là".

I mistici non si attardano su queste discussioni.

Quando Gregorio di Nissa parla di "lontananza" la pone come conseguenza del peccato originale non la riferisce alla natura creata, al "corpus mortalitatis", pur rifiutando insieme a Gregorio Magno ( che è il più chiaro in questo senso ) la spiritualizzazione estrema, tutta platonica, dell'uomo che deve liberare la scintilla divina della sua anima per incontrarsi con Dio.

Il fratello di Basilio, nella "Vita di Mosè" descrive ben 8 volte ( 3 volte non chiaramente ma sempre in maniera comprensibile ) ciò che noi chiamiamo "via negativa".

Certo, è necessaria una "familiaritas".

I platonici vi si accostano "per esclusione", attraverso l' "anamnesi": Dio è la Verità, il Bene, non lo possiedo, ma lo "riconosco", perché ho l'idea di Dio, del Bene, in me.

Il creato non è separato dal soprannaturale.

E si cade nel panteismo.

Il Nuovo Testamento afferma il "contatto diretto": "l'abbiamo toccato con le nostre mani …", ma non parla di un'estrema, lontanissima, trascendenza, né di una assoluta, semplice, immanenza.

In questo contatto, in questo incontro con Dio, si fa sempre l'esperienza del fallimento, che diventa la chiave di lettura di ogni autentica relazione d'amore.

( Se il marito di una Donna dicesse: "Ho fatto tutto ciò che potevo fare, ecco lo stipendio, frutto della mia fatica!

Ho dato tutto a mia moglie …" Povera moglie!

Se invece dicesse: "Non so come meritarmi una donna così, mi sento mancante nell'offerta di tutta la mia vita", allora la moglie sarà felice e il loro amore duraturo, perché hanno capito che nella esperienza del fallimento, nella donazione vicendevole, non si pongono limiti".

L'intimità non è un diritto, una rivendicazione, né una violenza: si riceve. )

Nella via negativa si può procedere in tre sensi:

Primo senso: "Cognoscitur Deo per id quod non est".

Dio è già posseduto, ma non ancora compreso, scoperto, afferrato; dunque si va per esclusione: non è questo, non è quello, ecc.

Guglielmo di Saint Thierry dice: "Non è questo, non è quello".

A chi gli replica: "Come fai a dire ciò con tanta sicurezza?"

Risponde: "Perché io conosco il vero. Ma non posso dimostrarlo".

"Cos'è allora il Vero?".

Risposta: "Non so comunicarlo".

Per Guglielmo la "ratio" corrisponde all' "intelletto operativo", la "mens" è qualcosa di "più intellettuale, più spirituale" e "semplificata"; la "contemplatio" è un "occhio interiore" capace di vedere Dio.

La mia ragione è in grado di distinguere il vero dal falso, ma non di una "cognitio" diretta, che è "infusa", e quindi informulabile, che non è mio possesso, ma che esiste.

"La nostra arte è essere abbagliati dalla luce", scrive Kafka.

L'uomo rifugge però da ogni bagliore accecante.

L'evidenza del vero, direbbe Ricoeur, risulta abbagliante dalla quantità di falsi.

Il falso prova l'esistenza del vero.

( Chiediamoci: perché solo negli Stati Uniti si contano un numero impressionante di falsi Corot?

Perché esistono tanti grandi capolavori del pittore francese.

È impossibile imitare ciò che non esiste.

Nessuno fabbricherebbe banconote false da una banconota non in commercio, inesistente sul mercato.

Se tu non hai mai visto un vero Tiziano non potrai mai distinguerlo dal falso!

Come sai che è falso? Perché conosco il vero.

Questa è la "via negationis".

E non è – per così dire – "correttiva", cioè: non riuscirò mai, da un falso Corot, eliminando gradatamente tutti i difetti, a produrre un vero Corot.

Forse, conoscerò sempre meglio i suoi procedimenti, ma possiederò una tela dipinta, non avrò mai un "vero Corot" ).

Non è assommando tutto ciò che non è Dio che si arriva a sapere cos'è Dio.

Non c'è prova più grande dei "valori spirituali" della sublimazione dell'istinto sessuale ( castità, verginità ecc. )

Sono "imitazione", prova, della realtà di quei valori.

Nel "De verginitate" di Gregorio di Nissa la verginità è esaltata non perché in sé abbia senso, né perchè è uno stato di vita superiore, ma solo perché è comunicata a coloro che sono chiamati.

Secondo senso

È inerente l'impossibilità di esprimere, di rendere, "Dio" nel linguaggio umano: tutti gli esseri sanno comunicare attraverso "segni", gli uomini con "gesti e parole", non si scappa: tutti, eccetto Dio.

Dio è l'unico capace di dare ciò di cui l'uomo ammette di non poter dire niente.

San Giovanni della Croce è il più severo in questo senso: "El mismo abla con su mismo" ( Subida 29 ).

La notte del Mistico carmelitano è "oscura" per le potenze naturali.

Nell'unione mistica non esco dunque dal pensiero, ma dal mio modo basso di capire.

Mi trovo in un pensiero più elevato, non in una assenza conoscitiva.

Sono una cosa sola con la divina Sapienza, entro per così dire in una nuova sfera vitale, che io da me non posso darmi.

Qui, dice Giovanni della Croce, c'è l'annientamento dell'operazione e del "trato umano" per ricevere operazione e "trato de Dios".

E l'estasi di San Paolo?

È "vera", non "negativa", ma adopera un linguaggio negativo, perché non può esprimerla.

Terzo senso

È il seguente: Dio è incomunicabile non perché è troppo trascendente, tanto è vero che dimora in noi, ma perché di Lui non posso parlare che in modo imperfetto, e l'esperienza della sua presenza non la posso comunicare che a colui che questa mia stessa esperienza l'ha già fatta.

Qui le facoltà superiori dell'anima non sono che un unico dinamismo.

L'uomo diventa "uno", non più diviso, molteplice, giustapposto.

Qui la psicologia non vale più, né si distingue più la superiorità dell'intelletto sulla volontà o viceversa.

Amore e conoscenza qui sono una cosa sola.

L'uomo, non è in grado di unificare, da solo, le sue facoltà psicologiche.

È l'incontro mistico con Dio che muta in noi il processo psicologico.

E tutti e tre questi "sensi" affermano la Via positiva, le negazioni più positive della via apofatica.

Si legge nel Libro dei ventiquattro filosofi: "Le idee delle cose presenti nell'anima, che rivelano ciò che in essa è contenuto e per le quali Dio è in qualche modo tutte le cose, è lui che le illumina nell'anima.

Ma è dopo aver deposto tutte queste forme che l'anima contempla la divinità.

Negando e rimuovendo da se stessa tutte le idee delle cose, si volge sopra di sé e vuole conoscere la causa prima.

E l'intelletto nell'anima si ottenebra, poiché non riesce a sostenere quella luce increata.

E così, quando si volge a se stesso, dice: Ecco, io sono nelle tenebre.

Le nostre facoltà sono al buio in quanto non si sa più fare attenzione alle cose che sono dentro di noi, perché non ci si ferma in niente all'infuori di Dio.

( Quando guardiamo un sole luminosissimo dobbiamo chiudere gli occhi non perché esso è invisibile, ma perché è troppo visibile e la sua luce ci acceca. )

Né i Padri Alessandrini né i Cappadoci sono "più negativi", come affermano i teologi; la via apofatica e la via katafatica non sono che due aspetti di uno stesso mistero.

È necessario saper studiare platonismo e cristianesimo, che ancora attendono una chiarificazione storica; e quelli che dicono: "Via con questo influsso greco!

Liberiamo il cristianesimo dalle categorie platoniche!"

Dimostrano di odiare il pensiero greco non perché "greco", ma perché "pensiero".

Per loro il cristianesimo dovrebbe semplicemente "non essere pensiero".

* * *

Teologia negativa

I. Definizione.

T. o apofatica ( dal greco, apó-fasis: negazione ) è quella che ritiene che a Dio non possano convenire concetti o termini del linguaggio umano e che Dio possa essere meglio conosciuto negando di lui le categorie proprie dell'ente finito.

Poiché Dio è assolutamente trascendente, nessuna creatura può conoscerlo; né può parlare di lui in modo adeguato, perciò di Dio si può dire ciò che non è, piuttosto che ciò che è.

II.

È interessante vedere come questo concetto sia già presente in diversi autori della filosofia greca:

Filone ebreo dice che Dio trascende infinitamente sia il mondo sensibile che il mondo intelligibile, poiché è creatore dell'uno e dell'altro.

Egli è, quindi, incomprensibile all'uomo che non lo può conoscere nella sua essenza, è inoltre ineffabile, poiché non si può esprimere e definire con nomi.

C'è tuttavia un nome che designa Dio e indica che egli è la fonte di tutte le cose.

Questo nome è l'Essere: " Dio rispose a Mosè: Dì loro che Io sono Colui che È, affinché, conoscendo la differenza fra ciò che è e ciò che non è, imparino anche che non c'è assolutamente alcun nome che possa essere usato per designare me, io che sono il solo cui competa l'essere " ( Vita di Mosè, I, 75 ).

Questo concetto di Dio come ineffabile si trova anche in alcuni dei medioplatonici e in particolare in Albino ( sec. II ): " È ineffabile e coglibile solo con l'intelletto, come si è detto, poiché non è né genere, né specie, né differenza specifica e nemmeno, d'altro canto, gli si addice alcuna determinazione,

né cattiva ( poiché non è lecito dire questo ),

né buona ( poiché egli sarebbe tale per partecipazione di qualche cosa, e specialmente della bontà );

né è indifferente ( poiché ciò non corrisponde alla nozione di esso ) " ( Didascalico, X, 4 ).

Questa dottrina, presente anche fra i neopitagorici e nel Corpus hermeticum, appare con molta chiarezza nel neoplatonismo.

Per Plotino l'uno, il principio supremo, scrive Reale, non solo trascende il mondo fisico, ma trascende ogni forma di finitudine, compresa quella finitudine in cui Platone e Aristotele ( 322 a.C. ) avevano imprigionato lo stesso intelligibile e la stessa Intelligenza.

Si comprende, pertanto, come dell'Uno Plotino tenda a dare determinazioni prevalentemente negative e a dichiararlo, addirittura, ineffabile: " Ond'è che Egli riesce, tra l'altro, ineffabile, nel senso vero del termine.

Poiché qualsiasi parola tu pronunzi, tu avrai pur sempre espresso "una qualche cosa".

Nondimeno, l'espressione "al di là di tutto" o quest'altra "al di là dello Spirito venerabile al sommo" è l'unica che risponde al vero tra tutte le altre, poiché essa, in definitiva, non è una denominazione che sia qualcosa di diverso da quello che è lui, né poi è una cosa tra tutte le altre cose: ed Egli è innominato appunto perché noi non sappiamo dir nulla sul conto suo, ma noi tentiamo solo, come ci viene, alla meglio, di dare qualche indicazione intorno a lui, solo per nostro uso, tra di noi ".

III. Nei Padri:

1. Tra gli apologisti greci si deve ricordare Giustino ( 165 ) che risente dell'influenza della filosofia platonica.

Nei suoi scritti in difesa della fede, Giustino sottolinea la nozione di Dio unico e trascendente.

Dio è senza origine, perciò non può essere nominato: " Il Creatore dell'universo non ha nome, perché non è generato.

Il ricevere un nome presuppone infatti qualcuno più vecchio che dia questo nome.

Queste parole Padre, Dio, Creatore, Signore e Padrone non sono nomi, ma appellativi motivati dai suoi benefici e dalle sue azioni.

La parola "Dio" non è un nome, ma una approssimazione naturale all'uomo per designare una cosa inesplicabile " ( II Apologia 6, 1, Paris 1987, 204-205 ).

Teofilo ( 180 ca. ), vescovo di Antiochia di Siria, nei tre libri Ad Autolycum, nei quali difende il cristianesimo contro le obiezioni del pagano Autolico, scrive: " L'aspetto di Dio è ineffabile, inesprimibile e invisibile agli occhi carnali.

La sua gloria è senza limiti, la sua grandezza senza confini, la sua altezza inaccessibile, la sua forza incommensurabile, la sua saggezza ineguagliabile, la sua bontà inimitabile, la sua carità indicibile " ( Ad Autolycum I, 3, Paris 1948, 62-63 ).

Clemente d'Alessandria afferma che per giungere a Dio occorre una purificazione a livello intellettivo che si ottiene attraverso l'analisi: " Noi otteniamo il modo catartico con la confessione e il modo epoptico per via d'analisi, progredendo verso l'intelligenza prima …

Se dunque, dopo aver tolto tutti gli attributi del corpo e quelli che vengono chiamati gli incorporei, noi ci lanciassimo verso la grandezza del Cristo e di là noi avanzassimo per mezzo della santità verso l'abisso, noi ci avvicineremmo in qualche modo all'intellezione dell'Onnipotente, riconoscendo non che egli è, ma che non è …

La causa prima non è in un luogo, essa è al di sopra del luogo, del tempo, del nome, dell'intellezione.

Per questo ancora Mosè dice: "Manifestati a me"; in modo più chiaro significa che Dio non può essere né insegnato, né detto fra gli uomini, ma che può solamente essere conosciuto per l'effetto della potenza che viene da lui, perché l'oggetto della ricerca è senza forma ed invisibile, e la grazia della conoscenza viene da Dio per mezzo del Figlio " ( Stromati, V, XI, 71,1-5, Paris 1981, 142-145 ).

L'uomo non può conoscere Dio che è invisibile e indicibile e, secondo Clemente, su questo punto convergono anche i filosofi tra cui Platone.

Così tutti i nomi che noi attribuiamo a Dio sono impropri.

Origene ritiene che noi non possiamo conoscere Dio nella sua sostanza, ma solo attraverso il Logos cioè il Cristo " figura expressa substantiae et subsistentiae Dei " e, inoltre, attraverso le creature.

Scrive Origene: " Talvolta i nostri occhi non possono guardare la natura della luce, cioè la sostanza del sole; ma osservando il suo splendore e i raggi che si diffondono nelle finestre o in piccoli ambienti atti a ricevere la luce, di qui possiamo arguire quanto grande sia il principio e la fonte della luce materiale.

Analogamente, le opere della provvidenza divina e la maestria che si rivela nel nostro universo sono, per così dire, i raggi di Dio in confronto della sua natura e della sua sostanza.

Pertanto, poiché con le sue forze la nostra mente non può concepire Dio quale egli è, dalla bellezza delle sue opere e dalla magnificenza delle sue creature lo riconosce padre dell'universo " ( De Principiis, I,1, 6, 132-133 ).

2. I cappadoci:

Basilio difende la dottrina di Nicea, contro i partiti ariani.

Egli professa la sua fede in Dio che è un solo essere divino ( ousia ) nelle tre Persone ( ipostasi ) del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo.

Nella polemica contro Eunomio ( 395 ), egli formula una teoria che unisce sia la negazione che l'affermazione: " Tra le parole che sono dette di Dio, alcune indicano ciò che è presente in lui, altre, al contrario, ciò che non è presente.

A partire da queste due serie, in effetti, una sorta di impronta di Dio s'imprime in noi che proviene sia dalla negazione degli attributi che non convengono, sia dalla confessione di quelli che esistono ".

Noi lo chiamiamo incorruttibile, invisibile, immutabile, ingenerato.

" Ciascuno di questi appellativi ci insegna a non cadere nell'improprietà delle nozioni quando riflettiamo su Dio " ( Adversus Eunamium, I,10, Paris 1982, 204-205 ).

Gregorio di Nissa è considerato il fondatore della mistica cristiana.

Egli utilizza le fonti classiche: Platone, i neoplatonici, gli stoici.

Il centro della sua speculazione mistica è costituito dalla dottrina dell'immagine di Dio nell'uomo.

Essa viene in aiuto alla ragione dell'uomo che, in quanto limitata, non riesce a cogliere l'essenza di Dio.

Scrive il Nisseno: " La natura divina, in ciò che essa è per se stessa secondo la propria essenza, supera ogni presa del pensiero, giacché è inaccessibile e irraggiungibile dalla penetrazione dell'intelligenza, e il potere di comprendere l'inconcepibile non è assolutamente alla portata dell'uomo, giacché il mezzo per accedere all'impossibile non è ancora stato immaginato.

Ecco perché il grande Apostolo chiama le sue vie impenetrabili, volendo esprimere con questa parola l'inaccessibilità del sentiero che porterebbe alla conoscenza dell'essenza divina.

Nessuno di coloro che hanno goduto della vita ha rivelato alla nostra intelligenza altro che un vestigio di comprensione di ciò che supera l'intelligenza " ( De Beatitudinibus, VI, ed. J.F. Callahan, Leiden 1992, 140 ).

È necessario, perciò, percorrere un cammino diverso per cogliere l'invisibile; un modo può essere quello di contemplare l'ordine presente nella creazione.

Gregorio invita però ad andare oltre per poter giungere alla visione di Dio.

Per questo motivo, il grado più alto di conoscenza di Dio avviene nell'anima dell'uomo che si è purificato da ogni passione e da ogni peccato ( cf Ibid., 142-143 ).

In Gregorio di Nissa c'è l'affermazione dell'assoluta trascendenza di Dio, quindi, dell'impossibilità del pensiero umano di poterlo conoscere e circoscrivere.

Nell'opera Vita di Mosè questo tema della trascendenza di Dio è trattato ampiamente: " In effetti Dio non si sarebbe mostrato al suo servo, se la visione fosse stata tale da porre fine al desiderio di Mosè che guardava, in quanto si vede veramente Dio quando vedendolo non si cessa mai di desiderare di vederlo " ( Ibid., II, 233, 201 ).

D'altro canto, però, c'è anche il tema dell'incontro con Dio reso possibile per l'uomo, attraverso l'immagine di Dio che è in lui.

Questi due temi in apparenza contrastanti sono in realtà collegati tra loro e sono come due aspetti della stessa realtà.

L'ascensione contemplativa, scrive Daniélou, culmina con la theôria, cioè la contemplazione del mistero nella sua sostanza intemporale.

L'opera di Gregorio supera quella dei suoi predecessori e oltrepassa l'ordine della contemplazione per entrare in quello dell'amore.

La theôria comprende un momento positivo-negativo, la contemplazione del mistero, e la notte dei sensi, così che anche all'anima che giunge fin qui, l'ousia divina resterà sempre inaccessibile.

3. Tra i Padri latini è importante ricordare Arnobio ( sec. IV ) il quale nell'opera Adversus nationes scrive: " Della natura divina questo soltanto può intendere l'uomo di veramente certo: sapere e capire che con parole mortali non può proferire niente intorno ad essa " ( Ibid., III, 19, 15 ).

Agostino nel primo libro dell'opera De doctrina christiana, dopo aver parlato della Trinità, riflette sul tema dell'ineffabilità di Dio: " Abbiamo detto qualcosa o abbiamo espresso qualcosa degna di Dio?

Certamente!

Sento di non aver avuto altra intenzione che dire questo.

Ma se ciò ho detto, non ho raggiunto l'oggetto di cui volevo parlare.

E questo come mi risulta?

Dal fatto che Dio è ineffabile, mentre quello che è stato detto da me, se fosse stato ineffabile non avrei potuto dirlo.

Ne segue che Dio non è da dirsi ineffabile poiché quando di lui si dice questa prerogativa si dice qualcosa: per cui viene fuori un contrasto di parole, in quanto, se per ineffabile intendiamo ciò di cui non si può dire nulla, non è ineffabile un essere di cui si può affermare almeno che è ineffabile.

Questo contrasto di parole è piuttosto da evitarsi col tacerne che conciliarlo col parlarne.

In effetti, Dio, di cui non si può affermare nulla che gli si adatti, ha permesso che la voce umana lo elogiasse e ha voluto farci godere della sua lode espressa dalle nostre voci.

E per questo che si è lasciato chiamare Dio " ( Ibid., I, 6, 6 ).

All'uomo, insegna il vescovo d'Ippona, rimane soltanto il canto di lode: " Il giubilo è un certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto.

E a chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile?

Ineffabile è infatti ciò che non può essere detto: e se non puoi dirlo, ma neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, in modo che il cuore si apra a una gioia senza parole, e la gioia si dilati immensamente ben al di là dei limiti delle sillabe? Bene cantate a lui nel giubilo " ( Enarrationes in Psalmos, 32, II D, 1, 8 ),

In Dionigi Areopagita sono presenti due filoni di pensiero: la tradizione neoplatonica e i Padri alessandrini e cappadoci.

Questo immenso patrimonio è da lui utilizzato in modo mirabile e costituisce una teologia originale e unica dalla quale dipendono sia la filosofia del Medioevo sia i pensatori delle generazioni successive.

Dionigi utilizza sia il metodo negativo ( apofatico ), che il metodo positivo ( catafatico ).

Con il metodo negativo si nega la possibilità di pensare Dio, di includerlo in un concetto che lo rappresenti o lo significhi alla stessa stregua degli enti finiti.

Con il metodo positivo si dice che egli è causa di tutti gli esseri, dal quale tutti emanano.

L'elenco dei nomi divini che troviamo in Dionigi è ripreso da Proclo ( 485 ), e dalla Sacra Scrittura.

Al primo posto c'è il Bene, con i nomi ad esso collegati: Luce, Bellezza, Amore.

Dopo questo nome troviamo i nomi Essere, Vita, Sapienza ( o Intelligenza, o Ragione ).

Seguono poi i nomi desunti dalla Sacra Scrittura: Potenza, Giustizia, Salvezza, Redenzione, Grande, Piccolo, Medesimo, Altro, Simile, Dissimile, Uguaglianza, Ineguaglianza, Onnipotente, Antico di giorni, Pace.

Questi nomi con i quali Dio si rivela sono intellettuali e indicano il rapporto che c'è tra Dio e il creato.

Ci sono però anche nomi divini che si ricavano dalle cose sensibili, sono i nomi simbolici di fuoco, luce, acqua: " Dicono che egli è sole, stella, fuoco, acqua, vento, rugiada, nube, perfino roccia e pietra, tutto ciò che è e niente di ciò che è " ( Nomi divini I, 6, 596 C ).

Tuttavia, questi nomi che celebrano in modo positivo Dio, sono lontani dal significarlo per quello che realmente è.

Anche la Sacra Scrittura celebra Dio con dei nomi che non hanno alcuna somiglianza con lui: Invisibile, Infinito, Incomprensibile e con altre espressioni con le quali non si indica ciò che egli è, ma ciò che non è ( Cf Gerarchia cel., II, 140 C-D ).

Così, riprendendo le teofanie dell'AT, a colui che con insistenza chiede il nome di Dio, Dionigi risponde: " È mirabile. Non è forse, in verità, un nome mirabile quello che sta al di sopra di ogni nome e che manca di ogni nome, che è situato al di sopra di ogni nome che si nomina sia in questo tempo sia nel futuro? " ( Nomi divini I, 6, 596 A ).

Dio è, perciò, innominabile.

L'istanza negativa, per la quale tutti i nomi attribuiti a Dio devono essere negati, appare qui con chiarezza.

La negazione però contiene una positività, una sorta di fecondità.

Come fa notare A. Ghisalberti la vera peculiarità di Dionigi non è la teologia negativa.

La sua originalità consiste " nell'aver colto le implicazioni derivanti dall'impossibilità per la negazione di essere definitiva.

La teologia negativa non va intesa come l'ultima parola su Dio perché, se la si considera come definitiva, la negazione viene ad essere un'affermazione rovesciata, assume cioè le medesime pretese categoriche di ogni affermazione ".

La negazione, negando ciò che vi è di improprio e di inadeguato nell'affermazione, giunge all'affermazione vera.

Occorre riconoscere che c'è una terza via ulteriore alla affermazione e alla negazione, ed è la via " del riconoscimento dell'assoluta precedenza di Dio per cui Dio non va pensato, bensì ricevuto.

Non è l'uomo a concepire Dio, ma è Dio che lo pone e lo concepisce ".

Dionigi è considerato il teorico della teologia apofatica.

Mentre in Oriente, nei secoli successivi, la teologia apofatica è presente nei diversi autori spirituali, in Occidente, lo studio di Aristotele porterà ad approfondire la teologia positiva.

Tuttavia, l'opera di Dionigi, tradotta in lingua latina prima da Ilduino ( 855-859 ), abate di Saint-Denis e poi da Giovanni Scoto Eriugena, ha un'enorme influenza sul pensiero filosofico e teologico del Medioevo.

Alberto Magno e Tommaso d'Aquino hanno commentato il trattato sui Nomi divini.

Eckhart. Nel corpus latino e tedesco del maestro di Hochheim sono numerosi i punti nei quali egli afferma che Dio è ineffabile.

Nessuno può parlare di lui perché egli è al di sopra di ogni altro nome.

Commentando il passo della Genesi dove Giacobbe chiede a Dio di rivelargli il proprio nome, Eckhart sostituisce alla risposta divina data a Giacobbe una risposta più ampia, che prende dal libro dei Giudici: Cur quaeris nomen meum, quod est mirabile? ( Gdc 13,18 )

Questa frase può essere letta in diversi modi; il più significativo tra questi è quello che si ricava dalla lettura di Fil 2,9 e, commenta V. Lossky, ci pone davanti un paradosso: il nome di Dio è mirabile, perché è un nome e tuttavia è al di sopra di ogni altro nome.

Il nome è mirabile poiché è un nome innominabile, un nome indicibile, un nome ineffabile.

Inoltre, il suo nome è mirabile poiché, come dice il profeta Isaia ( Is 45,15), la sua natura è di essere nascosto: Vere tu es Deus absconditus.

Questo nome non si può cercare all'esterno, ma è da ricercare nell'intimo dell'uomo.

Ed Eckhart cita a questo proposito il passo di Agostino: " Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas " ( De vera religione, 39,72 ).

Secondo Lossky, Dio è ineffabile proprio perché la sua natura è l'Essere nascosto: " Mirabile quaerere nomen eius, cuius natura est esse absconditum ".

Il nome innominabile è l'Uno, superiore a tutti i nomi divini; l'Uno è sorgente unica sia della Trinità, che di tutto il creato.

Conoscere Dio, dunque, è conoscere che egli è Uno.

Scrive Eckhart: " Più Dio è riconosciuto come Uno, più è riconosciuto come Tutto …

Più si conosce nitidamente e profondamente Dio come Uno, più si conosce la radice dalla quale sono uscite tutte le cose " ( Predica 54 a ).

L'Uno, commenta A. De Libera, non è un nome di Dio, ma è la designazione dell'Unico come dimora di.

L'anima che cerca Dio deve rompere con tutte le cose create e quando " trova l'Uno dove tutto è uno, essa rimane in quest'unico Uno " ( Ibid. 51 ).

" Essa è stabilita nell'unità, secondo il modo dell'unità, dove non c'è più nome " ( Ibid. 64 ).

Se Dio è ineffabile, ed il suo nome è mirabile, allora il fine ultimo della ricerca è " la tenebra, o non-conoscenza della Deità nascosta, da cui irradia la luce, … nel fondo dell'anima, dove il fondo di Dio e il fondo dell'anima sono un fondo solo.

Più lo si cerca, meno lo si trova.

Tu devi cercarlo in modo da non trovarlo in alcun luogo.

Se non lo cerchi, lo trovi.

Che Dio ci aiuti a cercarlo in maniera da restare eternamente con lui. Amen " ( Ibid. 15 ).

Tra i mistici renani Taulero riprende da Dionigi il concetto di Dio "senza nome": " L'essere divino è in se stesso senza nome; i nomi gli sono toccati da parte delle creature.

Per esempio: poiché egli ha fatto le creature noi lo chiamiamo "Gott", buono, come egli è.

Poiché la creatura è bisognosa, lo chiamiamo misericordioso, clemente e propizio, come è pure.

Poiché la creatura è manchevole, egli è chiamato giudice.

E così diversi altri nomi che non gli appartengono per la sua stessa essenza, poiché in se stesso egli è privo di nome, di immagini, di forme, di modi, ed è spoglio di tutte le cose " ( Divine Istituzioni, p. 26 delle Opere in ed.it. ).

La teologia negativa è presente anche in Giovanni Ruusbroec, mistico fiammingo.

Egli, come teologo e come autore spirituale, è da considerare il più grande tra i mistici del nord.

In lui troviamo l'influenza di s. Bernardo, Gregorio Magno, Ambrogio, Agostino.

I suoi scritti descrivono l'unione dell'uomo con Dio, fino ad esplorare i gradi più alti dell'esperienza unitiva, che inabissa l'uomo nel mistero di Dio.

L'uomo non può conoscere l'essenza divina, che supera ogni concetto umano.

In Dio Ruusbroec oppone l'essenza, cioè l'eterno riposo, l'inoperosità, all'attività nella quale Dio è principio di vita, fecondità, azione immanente e transitiva.

Questa opposizione fra essenza e attività in Dio costituisce due momenti dialettici dello stesso Essere divino.

L'uomo che si eleva alla contemplazione di Dio coglie ciò che nella divinità è proprio del Padre, ciò che è proprio del Verbo eterno e ciò che è proprio dello Spirito Santo.

Ma questa distinzione non toglie l'unità dell'Essere di Dio: " Tutto ciò viene considerato e contemplato come qualcosa di indiviso e non comunicato nell'unica e semplice natura divina.

Tuttavia, secondo il nostro modo di capire, ciò che è appropriato alle Persone, resta oggetto di molte distinzioni ".

La contemplazione più alta per l'uomo consiste nell'unirsi a Dio nell'amore.

La linea della teologia negativa prosegue nella Theologia Deutsch.

L'autore, un anonimo sacerdote teutonico di Francoforte, per parlare di Dio usa volentieri dei sinonimi: Perfetto, Uno, Verità, Bene supremo.

Nell'esposizione di questi concetti le fonti sono la Sacra Scrittura e la corrente neoplatonica cristianizzata da Dionigi.

Ecco come l'anonimo di Francoforte definisce il Perfetto: " È un essere che, in se stesso e nel suo essere, comprende e racchiude tutti gli esseri: senza di lui e fuori di lui non vi è essere vero e in lui tutto ha il suo essere perché Egli è l'essere di tutto ".

Dalla definizione di Perfetto scaturisce quella di imperfetto.

" L'imperfetto, infatti, è ciò che prende la sua origine dal Perfetto, così come lo splendore o una luce derivano dal sole o da un corpo luminoso, ed è qualcosa, questo o quello, e si chiama creatura.

E, come nessuno di tutti gli esseri particolari è il Perfetto, così il Perfetto non è nessuno di tutti gli esseri parziali.

I particolari sono comprensibili, conoscibili ed esprimibili; al contrario, il Perfetto è per tutte le creature inconoscibile, non concepibile e non dicibile.

Per questo si chiama Niente ".

Mentre l'imperfetto è comprensibile e conoscibile, " il Perfetto è chiamato Niente perché non è nessuno di questi esseri parziali; la creatura in quanto creatura non può né conoscerlo, né comprenderlo, né nominarlo, né pensarlo " ( Theologia Deutsch, I, 39 ).

L'alterità tra Perfetto e imperfetto consiste nella inconoscibilità del Perfetto, cosicché il Perfetto è chiamato Niente.

La creatura, in quanto ontologicamente limitata, non può conoscere Dio, che è sommo bene, eterno, somma perfezione, ma neppure, secondo l'autore della Theologia Deutsch, dire qualcosa su di lui.

Di fronte a Dio la creatura deve saper tacere, mantenere un silenzio adorante.

Nicola da Cusa per parlare di Dio postula una dotta ignoranza.

Egli dice che la Verità è inaccessibile e, per quanto molti filosofi abbiano cercato di indagarla, nessuno è riuscito a conoscerla.

Allora, per conoscere Dio occorre entrare in questa ignoranza.

Egli scrive: " La sacra ignoranza ci ha insegnato che Dio è indicibile, perché egli è maggiore all'infinito di tutte le cose di cui si può parlare.

E poiché questo è verissimo, con più verità parliamo di lui rimuovendo e negando, come sostiene anche Dionigi il grandissimo, il quale volle che Dio non fosse né verità, né intelletto, né luce, nessuna di quelle cose che si possono dire a parole " ( La dotta ignoranza, Milano 1988, 123 ).

L'influenza di Dionigi e della teologia negativa si snoda lungo i secoli e si evidenzia in modo particolare nella scuola carmelitana e soprattutto in Giovanni della Croce, il grande teologo mistico spagnolo del sec. XVI.

Le fonti che hanno influenzato la sua dottrina sono molteplici.

Al primo posto troviamo la Sacra Scrittura che egli conosce a memoria.

Subito dopo: il tomismo insieme all'agostinismo e al neoplatonismo, la mistica araba spagnola, i mistici del nord, la poesia spagnola e la mistica spagnola con Osuna, Laredo, Teresa d'Avila.

Giovanni percorre e addita l'essenziale via a Dio.

Il tema centrale nella sua speculazione è quello dell'unione dell'anima con Dio.

Questo cammino avviene nella notte ed è segnato da un abbandono del peccato, da una purificazione di tutto ciò che non è Dio.

Dio è assolutamente trascendente e l'espressione "raggio di luce oscura", ripresa da Dionigi, esprime la lontananza che separa l'anima da Lui.

Il cammino che l'anima compie per giungere a Dio è chiamato da Giovanni della Croce, notte "

Primo, a causa del termine da cui essa muove; l'appetito deve privarsi di tutti i beni temporali di cui gode, rinunziando ad essi: rinuncia e privazione che per tutti i sensi dell'uomo costituiscono una vera notte.

Secondo, per il mezzo o la via attraverso la quale l'anima deve tendere all'unione con Dio; tale mezzo è la fede che per l'intelletto è oscura come la notte.

Terzo, per la meta a cui essa è diretta, Dio, il quale è ugualmente notte oscura per l'anima finché questa rimane nel mondo " ( Salita del Monte Carmelo I, 2,1 ).

L'anima deve perciò mortificarsi di tutti gli appetiti, deve rinunciare al gusto sensibile in tutte le cose.

Per Giovanni della Croce Dio è trascendente, infinito, incomprensibile " non nella sua lontananza, ma soprattutto nella sua intimità e immanenza, nella sua capacità di penetrare nell'uomo per vie che nessuna creatura e nemmeno il soggetto stesso potrebbero scoprire ".

L'anima si unisce a Dio attraverso una perdita di tutto ciò che non è lui; il guadagno totale si ha nella perdita totale e i versi scritti sotto il disegno della Salita del Monte Carmelo, che permettono di giungere al vertice dell'unione, stanno a significare ciò: " Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto.

Per giungere interamente al tutto, devi totalmente rinnegarti in tutto.

E quando tu giunga ad avere il tutto, tu devi possederlo senza voler niente poiché se tu vuoi possedere qualche cosa nel tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio " ( Ibid., I, 13,12 ).

Anche in Tommaso di Gesù, un autore spirituale tra i più importanti della scuola carmelitana del sec. XVII è presente la teologia negativa.

Nella duplice conoscenza di Dio, per affermazione e per negazione, quest'ultima è la più perfetta di tutte le conoscenze, che si possono avere su Dio in questa vita ed è propria del dono dell'intelletto.

Nel trattato De Contemplatione divina libri sex, egli vuole condurre l'anima attraverso i gradi, o gerarchie della contemplazione, all'unione con Dio.

Infatti tutti i cristiani, illuminati dalla luce della fede, possono salire per divina grazia dalle creature visibili a una contemplazione del Creatore, ed è possibile penetrare un poco nei profondissimi misteri dell'ineffabile e beatissima Trinità e considerarli con l'occhio della fede.

Padre Tommaso risente dell'influsso di Dionigi Areopagita e da lui riprende la concezione gerarchica degli spiriti.

Alle tre gerarchie angeliche corrispondono nella mente umana tre gradi nei quali noi passiamo dall'immaginazione alla ragione e dalla ragione all'intelligenza.

Tommaso dedica tutto il libro V del trattato De Contemplatione divina alla contemplazione mistica che si raggiunge attraverso la conoscenza negativa e ritiene questa specie di contemplazione, che ha per oggetto l'incomprensibilità di Dio, più nobile di tutte le altre.

Questa contemplazione " è difficile da comprendere, più ancora da spiegare e difficilissima da sperimentare " ( Ibid., V, c. 11 ).

Anche per Tommaso di Gesù, dunque, la teologia negativa costituisce un grado decisivo dell'unione dell'anima con Dio, non tuttavia il definitivo.

IV. In conclusione

Il percorso storico documenta che la teologia negativa è una costante del pensiero cristiano, pur con le caratteristiche proprie di ogni epoca e di ogni autore.

Il motivo teorico sta nel valore che la teologia negativa evidenzia: l'utilità, ma anche il limite del concetto per parlare del mistero di Dio.

Se è pur vero che il linguaggio e il concetto sono inadeguati, tuttavia essi sono necessari.

Inoltre sottolineano come la teologia negativa non sia l'ultima parola su Dio, ma piuttosto un invito ad un rapporto più completo con lui.

È nell'unione dell'uomo con Dio, che si attua nell'amore, che la teologia mistica trova il suo compimento.


Magistero

Lettera Apostolica Giovanni Paolo II - Orientale Lumen 2-5-1995
L'apofatismo dell'Oriente cristiano: più l'uomo cresce nella conoscenza di Dio, più lo percepisce come mistero inaccessibile, inafferrabile nella sua essenza.