Manuale sulla fede, speranza e carità

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4.12 - Genesi e forme di corruzione in ogni natura creata buona dal sommo bene

Insomma tutte le nature, poiché effettivamente colui che le ha costituite tutte quante è sommamente buono, sono buone.

Ma dal momento che non lo sono nel modo sommo e immutabile proprio di colui che le ha costituite, il bene in esse può diminuire e aumentare.

Tuttavia la diminuzione di bene è un male, anche se, quale che sia il grado di diminuzione, è necessario che resti qualcosa ( se una natura ancora sussiste ), a partire dal quale quella natura sussista.

Infatti, quale che sia una natura e per quel poco che essa sia, non può consumarsi il bene che la fa sussistere, a meno che non si consumi essa stessa.

Certo, si deve giustamente magnificare una natura incorrotta: d'altra parte non c'è dubbio che la si deve di gran lunga magnificare di più se essa è anche incorruttibile, essendo nell'assoluta impossibilità di corrompersi.

In quanto si corrompe, è male la sua corruzione, poiché la priva di un qualche bene.

È innocua infatti se non la priva di nessun bene; di fatto però è nociva: dunque essa toglie il bene.

Pertanto, finché una natura è soggetta a corruzione, le appartiene un bene di cui potrebbe essere privata; perciò, se resta un residuo di natura che non può più corrompersi, sarà certamente una natura incorruttibile, giunta ad un bene tanto grande attraverso la corruzione.

Se però il processo di corruzione sarà incessante, sarà certamente incessante il possesso di quel bene, di cui la corruzione possa privarla.

Una volta consumata radicalmente e completamente, allora non sussisterà più alcun bene, poiché non sussisterà più alcuna natura.

Di conseguenza la corruzione può consumare il bene unicamente consumando la natura.

Dunque ogni natura è un bene: un grande bene se incorruttibile, piccolo se corruttibile; non si può però negare che sia un bene, se non in modo insensato e sprovveduto.

Se infatti è consumato dalla corruzione, neppure la corruzione stessa avrà un futuro, venendo meno ogni sostanza cui essa possa appartenere.

4.13 - Non c'è alcun male senza bene, come ci avverte anche la Scrittura

Perciò se non c'è alcun bene, non c'è neppure nulla di quel che viene chiamato male.

Ma il bene che è privo di ogni male è un bene pieno; se invece ad esso appartiene un male, si tratta di un bene che ha o può avere un difetto.

E non può esserci alcun male se non c'è alcun bene.

Si giunge così ad una conseguenza sorprendente: poiché ogni natura, in quanto tale, è un bene, affermare che una natura difettosa è una natura cattiva sembra equivalga all'affermazione che è male ciò che è bene, e solo ciò che è bene; poiché ogni natura è bene, non ci sarebbero cose cattive, se la cosa stessa che è cattiva non fosse una natura.

Dunque il male non può essere altro che un qualche bene: conclusione verosimilmente assurda, ma che tuttavia siamo quasi costretti a trarre da questa concatenazione logica.

Eppure guardiamoci bene dall'incappare nel giudizio del Profeta: Guai a coloro che chiamano male il bene e bene il male, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro. ( Is 5,20 )

D'altra parte il Signore dice: L'uomo cattivo dal tesoro cattivo del suo cuore trae cose cattive. ( Lc 6,45; Mt 12,35 )

Ma che cos'è un uomo cattivo se non una cattiva natura, dal momento che l'uomo è una natura?

Se quindi l'uomo è un qualche bene in quanto è una natura, che cos'è un uomo cattivo se non un male che è un bene?

Se d'altra parte riusciamo a distinguere i due aspetti, possiamo constatare che non si tratta di un male in quanto uomo, e non si tratta di un bene in quanto egli è iniquo; al contrario è un bene in quanto è un uomo, è cattivo in quanto iniquo.

Chi dunque dice: " È male essere un uomo ", o: " È bene essere iniquo ", costui incappa nel giudizio del Profeta: Guai a coloro che chiamano male il bene e bene il male.

Egli infatti accusa un'opera di Dio, qual è l'uomo, e magnifica un difetto dell'uomo, qual è l'iniquità.

Pertanto ogni natura, anche se difettosa, in quanto natura è buona, in quanto difettosa è cattiva.

4.14 - I limiti della logica dinanzi alla corruzione e alla genesi del male dal bene

Perciò in questi contrari chiamati bene e male non si applica quella regola dei dialettici, in base alla quale si dice che a nessuna cosa appartengono contemporaneamente due contrari.

L'aria non è mai contemporaneamente oscura e luminosa; nessun cibo o bevanda è contemporaneamente dolce e amaro; nessun corpo dove è bianco è contemporaneamente anche nero, dove è deforme anche ben formato.

E così l'impossibilità di una presenza simultanea in una medesima cosa si scopre in molti contrari, praticamente in tutti.

Eppure, anche se nessuno mette in dubbio che bene e male siano contrari, non soltanto essi possono coesistere, ma è assolutamente impossibile che il male sussista senza bene e all'infuori di esso, pur essendo possibile che il bene sussista senza male.

Un uomo o un angelo, infatti, possono non essere ingiusti, mentre è impossibile essere ingiusto se non si è uomo o angelo; il bene sussiste in quanto si tratta di uomo o di angelo, il male in quanto ingiusto.

I due contrari convivono a tal punto che se non ci fosse un bene a cui appartenere, evidentemente non avrebbe potuto esserci nemmeno il male, poiché, se non ci fosse qualcosa di corruttibile, la corruzione non solo non avrebbe un posto dove stabilirsi, ma nemmeno da dove scaturire; e se questo non fosse un bene, non potrebbe corrompersi, poiché la corruzione non è altro che distruzione di bene.

È dal bene, dunque, che è scaturito il male, il quale non sussiste all'infuori di esso, né poteva esserci un'altra natura del male con un'origine diversa.

Se infatti ci fosse una tale natura, in quanto natura sarebbe senz'altro buona; o quindi, in quanto natura incorruttibile, sarebbe un grande bene, oppure, anche in quanto natura corruttibile, non sarebbe assolutamente altro che un qualche bene, e il danno della corruzione consisterebbe proprio nel poterlo corrompere.

4.15 - Dire che il male viene dal bene non contraddice l'insegnamento del Signore

Quando diciamo però che i mali sono scaturiti dai beni, non si pensi che ciò si scontri con l'affermazione del Signore: L'albero buono non può produrre frutti cattivi. ( Mt 7,18 )

Infatti non si può raccogliere uva dalle spine, ( Mt 7,16 ) dice la Verità, poiché l'uva non può nascere dalle spine, mentre noi vediamo che da una buona terra possono nascere sia viti che spine.

E in quel modo, come un albero cattivo, una volontà cattiva non può produrre frutti buoni, vale a dire opere buone, anche se dalla natura buona dell'uomo possono scaturire una volontà buona e una cattiva.

D'altra parte una volontà cattiva non poté scaturire originariamente che dalla natura buona dell'angelo e dell'uomo.

Il Signore lo ha manifestato nel modo più esplicito, in quel medesimo punto in cui parla dell'albero e dei frutti, dicendo: O rendete l'albero buono e buono il suo frutto, o rendete l'albero cattivo e cattivo il suo frutto, ( Mt 12,33 ) lasciando intendere che non possono nascere frutti cattivi da un albero buono o viceversa, anche se dalla stessa terra, cui egli si riferiva, possono nascere tutti e due gli alberi.

5.16 - La scienza delle cause naturali non fa conseguire la felicità

Stando così le cose e visto che apprezziamo il verso di Virgilio: Felice chi poté conoscere le cause delle cose,4 non immaginiamo che il conseguimento della felicità dipenda dalla conoscenza delle cause dei grandi movimenti fisici nel mondo, celati nei più riposti recessi della natura, là dove nasce il terremoto, la cui violenza solleva alti marosi, che, una volta rotti gli argini, tornano a ricomporsi in se stessi,5 ed altre cose del genere.

Dobbiamo piuttosto conoscere le cause delle cose buone e di quelle cattive, e questo nei limiti in cui all'uomo è concesso conoscerle in questa vita, tutta piena di errori e di affanni,6 proprio per sfuggire ai medesimi errori ed affanni.

Dobbiamo certamente tendere a quella felicità, in cui non siamo sconvolti da alcun affanno né ingannati da alcun errore.

Se infatti dovessimo conoscere le cause dei movimenti fisici, la conoscenza delle cause della nostra salute dovrebbe essere anteposta a tutte le altre; ma se in realtà interpelliamo i medici per il fatto che le ignoriamo, evidentemente ci dobbiamo rassegnare ad ignorare tutti i segreti celesti e terrestri che ci sfuggono.

5.17 - Come guardarsi dall'errore

Infatti, per quanta attenzione possiamo porre nell'evitare l'errore non solo nelle cose maggiori, ma anche nelle minori, e per quanto l'errore sia possibile proprio per ignoranza delle cose, non ne segue immediatamente però che sbagli chi ignora qualcosa, bensì chi crede di sapere quel che non sa: costui infatti accetta il falso come se fosse vero, che è il proprio dell'errore.7

Nondimeno la materia dell'errore conta moltissimo; infatti è secondo un giusto principio che in un'unica e identica cosa si preferisca chi sa a chi non sa e chi non erra a chi erra.

Prendiamo invece cose diverse, come quando uno conosce una cosa e un altro ne conosce un'altra, il primo conosce una cosa più utile e il secondo una cosa meno utile, o addirittura dannosa: rispetto alle cose conosciute da quest'ultimo chi non preferirebbe uno che le ignori?

Ci sono cose, infatti, che è meglio ignorare che conoscere.

Ugualmente ad alcuni tornò utile errare, ma nella via da percorrere a piedi, non in quella dei propri costumi.

A noi stessi infatti capitò di sbagliare dinanzi ad un bivio e di non prendere la strada dove s'erano appostati a mano armata i Donatisti, attendendo il nostro passaggio; ci accadde quindi di raggiungere la meta dopo una lunga deviazione e, venuti a conoscenza del loro agguato, ci rallegrammo dell'errore, ringraziandone Dio.

Chi potrebbe esitare ad anteporre un viandante che commette quest'errore ad un bandito che non lo commette?

Per questo, forse, quel grande poeta fa dire ad un amante infelice: Vidi, mi sentii perduto e un cattivo errore mi travolse,8 poiché c'è anche un errore buono, che non solo è innocuo, ma può addirittura essere di qualche utilità.

Tuttavia, ad una considerazione più attenta della verità risulta che errare non è altro che ritenere vero quello che è falso e falso quello che è vero, oppure prendere il certo per l'incerto e l'incerto per il certo, sia esso falso o vero, e questo è in un'anima indecoroso e sconveniente, nella misura in cui avvertiamo che è bello e degno il Sì, sì; no, no, ( Mt 5,37 ) con cui si parla o si approva.

Di conseguenza l'infelicità di questa nostra vita che stiamo vivendo dipende proprio dal fatto che qualche volta l'errore è necessario per non perderla.

Non sia così però quella vita, in cui la verità in persona è vita della nostra anima, ( Gv 14,6 ) una vita nella quale nessuno inganna e nessuno è ingannato.

Qui invece gli uomini ingannano e sono ingannati, e sono più infelici quando ingannano con la menzogna di quando sono ingannati, credendo ai mentitori.

Una natura dotata di ragione rifiuta tuttavia la falsità ed evita, per quanto possibile, l'errore, al punto che nemmeno quanti amano ingannare vogliono essere ingannati.

Colui che mente, infatti, non pensa di essere nell'errore, ma di spingere nell'errore l'altro che gli crede.

E l'errore non riguarda certamente quella cosa che egli ha avvolto nella menzogna, se egli sa quale sia la verità; s'inganna tuttavia proprio in quanto suppone che la menzogna non gli nuoccia, mentre ogni peccato nuoce più a chi lo commette che a chi lo subisce.

6.18 - Un problema molto difficile: il giusto in qualche caso ha il dovere di mentire?

Sorge qui una questione delle più difficili e oscure, che abbiamo già affrontato in un grande libro, incalzati dalla necessità di trovare una risposta: i doveri dell'uomo giusto contemplano in qualche caso la possibilità di mentire?

Alcuni si spingono fino a sostenere che talvolta è azione buona e pia lo spergiurare e il mentire, anche nei casi che riguardano il culto divino e la stessa natura di Dio.

A me pare invece che ogni menzogna è certamente peccato, ma contano molto l'intenzione e l'oggetto della menzogna.

Chi mente con la volontà di prestare un servizio non pecca come colui che lo fa con la volontà di nuocere, oppure il danno arrecato da chi, mentendo, pone il viandante su un'altra strada non equivale a quello di chi distorce la via della vita con una menzogna ingannatrice.

Nessuno poi, che dica il falso ritenendolo vero, dev'essere accusato di menzogna, poiché, per quanto sta in lui, egli non inganna, ma è ingannato.

Pertanto non bisogna incolpare di menzogna, ma in qualche caso di leggerezza, colui che ritiene come vere cose false, alle quali ha dato credito incautamente.

Al contrario è una menzogna bella e buona quella di chi, per quanto dipende da lui, dice che è vero quel che ritiene falso.

Per quanto attiene alla sua intenzione, egli infatti non dice il vero, poiché non dice ciò che sente, anche se risultasse vero quel che dice, né è assolutamente libero dalla menzogna uno che a parole dice il vero, ignorandolo, ma che mente con deliberata coscienza.

Pertanto, a prescindere dalle cose di cui si parla e riferendoci solo all'intenzione, colui che, stando nell'ignoranza, dice il falso ritenendolo vero, è migliore di chi consapevolmente coltiva l'intenzione di mentire, ignorando che quanto dice è vero: il primo infatti ha sulle labbra quel che ha nel cuore, mentre il secondo, indipendentemente dalle cose stesse che dice, non manifesta con la bocca quel che tiene racchiuso dentro di sé,9 e questo è il male proprio della menzogna.

Se poi prendiamo in considerazione le cose che si dicono, diviene rilevante la materia stessa dell'inganno o della menzogna, al punto che, pur essendo l'essere ingannato un male minore rispetto al mentire per quanto attiene alla volontà soggettiva, è tuttavia di gran lunga più accettabile mentire in ciò che è privo di implicazioni religiose, che ingannarsi in ciò di cui si deve aver fede o conoscenza per poter venerare Dio.

Esemplificando, consideriamo il caso in cui un tale, mentendo, dichiari vivo uno che è morto ed un altro, ingannandosi, creda che Cristo, dopo un lasso imprecisato di tempo, morirà una seconda volta: ebbene, non è forse incomparabilmente preferibile mentire nel primo caso, che ingannarsi nel secondo, e non è un male di gran lunga minore indurre qualcuno in quell'errore, piuttosto che essere indotto in questo da altri?

6.19 - I confini tra l'inganno e il peccato

Dunque in certi casi l'inganno in cui cadiamo è un grande male, in altri è piccolo, in altri assente, in altri ancora è addirittura un qualche bene.

È un grande male infatti quello per cui l'uomo s'inganna, quando non crede a ciò che conduce alla vita eterna, oppure crede a ciò che conduce alla morte eterna; si tratta invece di un male piccolo quando chi s'inganna, accettando il falso come se fosse vero, incappa in alcune pene temporali, che tuttavia la pazienza cristiana, chiamata in causa, volge ad un uso buono; come quando qualcuno, ritenendo buona una persona in realtà cattiva, ne riceve qualche male.

Chi invece ritiene cattiva una persona in realtà così buona, da non riceverne alcun male, non è assolutamente ingannato e non cade sotto i colpi della maledizione del Profeta: Guai a coloro che chiamano male il bene. ( Is 5,20 )

Si deve comprendere infatti che questo è stato detto delle cose per le quali gli uomini sono cattivi, non degli uomini in quanto tali.

Di conseguenza è giustamente condannato dalla parola del Profeta chi definisce l'adulterio un bene; chi poi definisce buono l'uomo stesso, che ritiene casto, senza sapere che è adultero, s'inganna in relazione non alla dottrina del bene e del male, ma ai segreti della condotta umana; costui chiama buono l'uomo in cui ravvisa qualcosa che riconosce come buono, definendo cattivo chi è adultero e buono chi è casto, ma definisce buono quest'uomo, senza sapere che è adultero, non casto.

Peraltro se qualcuno sfugge per errore ad un pericolo, come ho già detto che ci capitò in un viaggio, a quell'uomo è capitato per errore anche un qualche bene.

Quando però affermo che in taluni casi l'inganno non comporta alcun male o addirittura qualche bene, non intendo dire che è l'errore in sé a non comportare alcun male o un qualche bene; mi riferisco piuttosto al male che non sopraggiunge o al bene che sopraggiunge tramite l'errore, vale a dire che cosa non risulta o che cosa deriva dall'errore in sé.

Infatti, l'errore in sé, in quanto tale, sia esso grande o piccolo in rapporto alla situazione, è pur sempre un male.

In effetti chi potrebbe negare, se non per errore, che sia un male l'approvare il falso come vero o riprovare il vero come falso, o prendere l'incerto come certo e viceversa?

Ma altro è ritenere buono un uomo cattivo, che è proprio un errore, altro non subire da questo male un male ulteriore, nel caso in cui un uomo cattivo, ritenuto buono, non provochi alcun danno.

Allo stesso modo altro è ritenere come una via quella che non lo è, altro il fatto che dal male in cui consiste quest'errore deriva un qualche bene, come il sottrarsi agli agguati di uomini cattivi.

7.20 - Equivoci e valutazioni errate

Non so proprio se questi possano essere addirittura errori: quando un uomo si fa una buona opinione di un uomo cattivo, senza conoscerlo realmente, oppure quando si presentano, in luogo delle percezioni sensibili, immagini simili percepite dallo spirito quasi materialmente o dal corpo quasi spiritualmente ( così pensava l'apostolo Pietro, quando fu improvvisamente liberato dalla prigione e dalle catene per opera di un angelo, ritenendo d'avere una visione ( At 12,7 ) ); oppure quando nelle stesse cose materiali si ritiene levigato quello che invece è ruvido, o dolce quello che è amaro, o profumato quello che è putrido, oppure si scambia per un tuono il passaggio di una carrozza, o una persona per un'altra, quando i due si assomigliano moltissimo, come spesso capita nei gemelli ( donde l'espressione errore caro ai genitori;10 e via dicendo per casi simili, che non so se debbano chiamarsi peccati.

Non mi sono nemmeno interessato a sbrogliare un problema intricatissimo, che ha tormentato gli uomini più perspicaci come gli Accademici, se cioè il sapiente debba davvero ammettere qualcosa per evitare di cadere in errore, ammettendo il falso al posto del vero, visto che tutte le cose, come sostengono, sono nascoste o incerte.

Perciò ho portato a termine tre volumi all'inizio della mia conversione, per sbarazzarci dell'ostacolo che quelli ci opponevano in un certo senso sulla soglia; si doveva certamente rimuovere la sfiducia di trovare la verità, che sembra rafforzarsi grazie ai loro argomenti.

Fra loro quindi ogni errore è assimilato ad un peccato che ritengono inevitabile, se non si sospende ogni assenso.

Chiunque esprime il proprio assenso su cose incerte, essi dicono, sbaglia: con le polemiche più sottili, ma anche le più spudorate, sostengono infatti che non c'è niente di certo nelle vedute degli uomini, a motivo di una somiglianza che non lascia riconoscere il falso, anche nella eventualità in cui apparenza e verità coincidano.

Fra noi invece il giusto vive di fede. ( Ab 2,4; Rm 1,17; Eb 10,38 )

Ma togliere l'assenso equivale a togliere la fede: senza assenso non si crede nulla.

E se non si crede ad alcune verità, anche non evidenti, è impossibile conseguire la vita beata, che è necessariamente eterna.

Io non so, fra l'altro, se dobbiamo confrontarci con questa gente, che ignora non tanto di vivere eternamente, quanto di vivere attualmente: anzi afferma di ignorare proprio ciò che è impossibile ignorare.

A nessuno è dato infatti di ignorare il proprio vivere, dal momento che, se non vive, non può neppure ignorare qualcosa, poiché è proprio del vivente non solo sapere, ma anche ignorare.

Ma evidentemente, evitando di pronunziarsi sul proprio vivere, credono di evitare l'errore, mentre anche attraverso l'errore viene provato il vivere, poiché solo chi non vive non può errare.

Come dunque il nostro vivere è non solo cosa vera, ma anche certa, allo stesso modo sono molte le cose vere e certe alle quali il negare il proprio assenso mai e poi mai dev'esser considerato un atto di sapienza, invece che di follia.

7.21 - Quando l'errore non è peccato, ma solo espressione di fragilità terrena

Quanto poi alle cose che è del tutto irrilevante credere o non credere per raggiungere il regno di Dio, come pure che siano o si ritengano vere o false, non si deve supporre che in questi casi l'errare, cioè il pensare una cosa per un'altra, sia peccato; tutt'al più si tratta del peccato più piccolo e lieve.

In ultima analisi, quale che ne sia la natura e la gravità, esso non concerne quella via attraverso cui giungiamo a Dio, cioè la via della fede in Cristo, che opera per mezzo della carità. ( Gal 5,6 )

Non costituiva un allontanamento da quella via l'errore caro ai genitori a proposito dei figli gemelli; neppure se ne allontanava l'apostolo Pietro, allorché, credendo di avere una visione, scambiava una cosa per un'altra, al punto da non riconoscere, fra le immagini dei corpi in mezzo alle quali credeva di trovarsi, i corpi veri fra i quali si trovava, fino a quando non si allontanò da lui l'angelo dal quale era stato liberato; ( At 12, 9ss ) non si allontanava neppure da quella via il patriarca Giacobbe, quando credeva che fosse stato ucciso da una belva il figlio che era vivo. ( Gen 37,33 )

In base a queste falsità, e ad altre analoghe, fatta salva la fede che abbiamo in Dio, noi ci inganniamo e sbagliamo, sia pure senza abbandonare la via che conduce a Lui.

Tali errori, anche se non sono peccati, sono comunque addebitabili ai mali di questa vita, talmente sottomessa alla caducità, ( Rm 8,20 ) che in essa si accetta il falso per il vero, si respinge il vero per il falso, si tiene l'incerto per il certo.

Pur essendo aspetti estranei a quella fede, in virtù della quale, quand'è vera e certa, noi tendiamo alla beatitudine eterna, non sono tuttavia estranei a quella infelicità in mezzo alla quale tuttora ci troviamo.

Di sicuro non ci inganneremmo assolutamente in qualche percezione spirituale o materiale, se godessimo già di quella felicità vera e perfetta.

7.22 - Ogni menzogna è peccato, anche se veniale, quando viene commessa per il bene di un altro

Eppure si deve dire che ogni menzogna è peccato, poiché l'uomo, non solo quando egli stesso conosce ciò che è vero, ma anche se erra e s'inganna come ogni uomo, deve dire ciò che porta nel cuore, sia esso o lo si ritenga vero o falso.

Invece chiunque mente parla con l'intenzione d'ingannare, contraddicendo quel che pensa, mentre il linguaggio è stato senza dubbio istituito non perché gli uomini s'ingannino reciprocamente, ma perché ciascuno porti a conoscenza degli altri i propri pensieri.

Perciò usare il linguaggio per mentire, contro il suo fine originario, è peccato.

Né si deve pensare ad una qualche menzogna che non sia peccato, per il fatto che mentendo talvolta possiamo giovare agli altri.

Infatti ciò possiamo farlo anche rubando, quando il povero, al quale pubblicamente si dà, avverte il vantaggio e il ricco, a cui di nascosto si toglie, non lo avverte: non per questo però qualcuno potrebbe dire che non è peccato.

Lo possiamo fare anche commettendo adulterio, quando una donna pare sul punto di morire d'amore se non si acconsente a lei e pronta a purificarsi pentendosene, se continuerà a vivere: non per questo si potrà negare che tale adulterio sia peccato.

Se apprezziamo a buon diritto la castità, perché mai ci indispone la verità, al punto da non violare la prima per il vantaggio di altri e da violare invece la seconda con la menzogna?

Indubbiamente non si può negare l'enorme progresso verso il bene, conseguito da quanti mentono unicamente per la salvezza di qualcuno; ma in tale loro progresso ciò che a buon diritto si elogia, o che addirittura viene ricompensato sul piano temporale, è la benevolenza, non l'inganno; è già abbastanza passarvi sopra, senza però esaltarlo, soprattutto da parte degli eredi del Nuovo Testamento, ai quali si dice: Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno. ( Mt 5,37 )

Per questo stesso male, che non cessa mai d'insinuarsi in questa condizione mortale, gli stessi coeredi di Cristo ( Rm 8,17 ) dicono: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,12 )

Indice

4 Virgilio, Georgica, 2, 490
5 Virgilio, Georgica, 2, 480-481
6 Cicerone, Hortensius, fragm. 95 (Müller)
7 Cicerone, Academica, 2, 66
8 Virgilio, Eclogae 7, 41
9 Sallustio, De coniuratione Catilinae 10
10 Virgilio, Aen.10 392