L'azione

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La coazione

Capitolo II

Non c'è atto, per quanto intimo, che, sempre costretto a esprimersi, non faccia appello al di fuori dell'individuo a una specie di assenso e di collaborazione.

Un gesto, una parola sono possibili solo grazie al contesto in cui si manifestano.

Il fenomeno non riguarda noi soltanto, né il mondo circostante soltanto, ma entrambi, e in maniera indivisibile, per così dire.

Ogni atto proviene dall'agente, ma per andare direttamente all'agito, senza il quale non esiste.

Non soltanto non possiamo creare o fare niente col niente, ossia è indispensabile una materia qualsiasi come condizione preliminare per l'esercizio della nostra attività, ma inoltre le nostre operazioni, le nostre stesse intenzioni, si modellano in qualche modo sull'oggetto cui tendono, in modo da ricevere da esso la loro forma.

È dunque assolutamente vero che per agire bisogna adattarsi all'ambiente, e che questo ambiente contribuisce al modo di essere e di fare che vi si esplica.

Così le forme architettoniche sono comandate al tempo stesso dalla destinazione dell'edificio e dalla natura stessa dei materiali, ossia dall'idea dell'operaio e dall'azione corrispondente dell'oggetto cui si applica la sua operazione.

Il segno in parte è plasmato dal corpo in cui si imprime, e la lettera del simbolo è attiva sullo stesso spirito che lo ispira o lo anima.

Se nella percezione sensibile noi reagiamo per colorare l'impressione avvertita col nostro carattere soggettivo, viceversa la nostra iniziativa, insediandosi nell'oggetto, vi riceve un'impronta che è dell'oggetto e non più nostra.

Quindi la nostra azione non è mai nostra soltanto.

Non basta che essa sia indotta a uscire dal perimetro individuale, è necessario anche che susciti, per una specie di affinità naturale e per coazione, potenze estranee a noi, e che la sua opera o il suo fenomeno costituisca il risultato di una convergenza e di una sintesi di operazioni scaturite da origini differenti.

In che modo dunque l'azione altrui, « l'allergia » si potrebbe dire, rientra nel movimento della nostra personale volontà?

Come otteniamo questo concorso necessario?

E qual è il risultato o la conseguenza di questa coazione?

I.

L'idea di un fine determinato da perseguire suppone già l'espressione immediata dell'intenzione ideale nel segno reale che ne costituisce l'opera prima.

L'azione, nel momento in cui si produce e per prodursi, si determina secondo la tendenza che le è propria e secondo l'occasione stessa della sua espansione.

In qualunque senso orientiamo la nostra attività, dobbiamo sempre tenere conto del termine di espansione cui essa si applica, perché è da quest'ultimo che deriverà, almeno in parte, la fisionomia dell'opera perseguita e voluta.

Ciò che si chiama la causa formale non è dunque esclusivamente di pertinenza dell'iniziativa della causa efficiente, ma dipende tanto dall'oggetto cui tende l'operazione quanto dal soggetto da cui essa promana.

Infatti se un oggetto funge da scopo dell'atto in quanto condizione susseguente, ciò avviene perché ci attendiamo da esso altro da ciò che vi apponiamo.

A dire il vero per la nostra volontà non c'è causa finale se non quella in cui prevediamo, cerchiamo ed esigiamo una causa efficiente.

È dunque a torto che, studiando la finalità intenzionale, si prenderebbe in esame unicamente la volontà che mira a uno scopo, come se essa riuscisse a raggiungerlo da sola, con le proprie risorse e con i propri sforzi isolati.

La causa finale in parte è la sua causa efficiente.

Essa fornisce non soltanto il termine, ma anche il contorno dell'azione che a essa si protende e l'invoca.

È altresì a torto che si limiterebbe lo sguardo allo scopo previsto e predeterminato, perché immaginando di volere questo solo fine per se stesso, spesso a nostra insaputa noi perseguiamo ben altro, cioè il suo effetto, il suo dono, la sua incorporazione nel nostro volere.

In altri termini se quella sembra essere una causa finale, di fronte alla quale noi svolgiamo il ruolo di causa efficiente, ciò avviene alla condizione reciproca e con l'intenzione segreta che essa sarà una causa efficiente di cui noi costituiremo la causa finale.

Pertanto il vero fine dell'egoista non è quello che vuole e che conquista, ma è se stesso.

Noi aspiriamo a ciò che non abbiamo solo se questo qualcosa deve produrre con noi o per noi una sintesi nuova, nella quale il fine desiderato in apparenza rientra unicamente come un elemento e come un mezzo.

Quindi, che lo sappia o no, la mia azione, accettata o ripresa al di fuori di me da queste stesse forze cui la destinavo o nelle quali cercavo un compimento, deve essere profondamente trasformata.

E questa trasformazione, talvolta imprevista e sproporzionata ai miei progetti, io l'ho voluta, essa è inclusa implicitamente nella decisione libera e nell'operazione che ne costituiva il punto di partenza.

In effetti che cosa si propone la volontà?

Di adattare a se stessa tutto il resto.

E come un utensile è una specie di organo aggiunto ai nostri organi, l'azione è un'estensione del volere al di fuori di noi.

Essa esce al di fuori, ma proprio per far entrare in sé e assimilare quello in cui sembra alienarsi.46

Pertanto qualsiasi cosa abbiamo da fare, occorre che coinvolgiamo forze estranee alla nostra.

È questa una coalizione necessaria a produrre la minima opera, il minimo segno della nostra attività.

Occorre dunque completare l'antica definizione peripatetica, e dire che un atto è più che il passaggio da una potenza all'attuazione sotto il dominio di una potenza già in atto, è la sintesi e il progresso di due potenze concorrenti, sotto la mediazione e grazie allo scambio di una causa efficiente e di una causa finale.

Infatti ciascuna delle due cause presenti funge da fine relativo e provvisorio per l'altra.

Ambedue devono dare e ricevere, di modo che il risultato ottenuto apparirà per ciascuna il prodotto del determinismo o dell'efficienza dell'altra.

he altro significa ciò, se non che la volontà, già realizzata ma ancora imperfetta in noi, tende a inserirsi e a completarsi nel mondo così come aveva fatto già nell'organismo?

Per quello che è già, essa non è che un mezzo; per quello che vuole essere, è una vera e propria causa finale.

E tra questi due estremi del suo sviluppo si colloca, come un termine intermedio che sembra a prima vista un fine, mentre è solo un mezzo, il concorso estraneo, « l'allergia ».

Quindi, per permettere e per perfezionare la nostra sinergia espansiva, la nostra azione personale esige l'azione dell'altro.

Ma è proprio questo che la modifica profondamente, e complica il problema dell'efficacia o del successo dei nostri sforzi.

Non si produce nulla che non venga estratto al tempo stesso dalle potenze spesso indocili o infide.

Per esempio, è esperienza comune che nell'azione meglio preparata e più curata si avverta il disgusto, la sorpresa o la rabbia perché le nostre decisioni sono eseguite male, i nostri sogni sono delusi, le nostre cure mal ripagate.

L'impenetrabilità, l'insufficienza, la non intelligenza dei nostri alleati rovinano i nostri progetti allo stesso modo dell'ostilità di ostacoli architettati.

Essi fanno loro ciò che volevamo fosse nostro.

Vedendo quanto poco possiamo, di fronte a questo infinito di cui abbiamo bisogno per agire, che dobbiamo maneggiare a tentoni e che contrasta, svia o affretta la nostra debole operazione, non sorge forse in noi un sentimento di apprensione?

Noi dobbiamo temere al tempo stesso l'impotenza dello sforzo respinto e la fecondità imprevista di un intervento troppo assecondato.

Talvolta più, talaltra meno, ma mai esattamente quello che vogliamo.

È il motivo per cui di solito una disillusione tiene dietro a ogni soddisfazione del desiderio.

In quello che volevamo, dietro il fine apparente del desiderio, si nascondeva un desiderio infinitamente più grande.

Perciò è naturale per l'uomo il proposito di ottenere, con tutta l'esattezza possibile e con la costrizione, il concorso delle forze estranee.

Cancellando per così dire se stesso, egli cerca di risparmiare il suo sforzo, in modo da consentire a quelle forze di produrre ciò che ha rigorosamente predeterminato, e di essere lui solo la volontà di ciò che non possiede volontà.

In base a che cosa è possibile questa coazione?

Perché il termine, oltre che l'idea di costrizione che evoca, deve conservare il suo senso etimologico: convergenza e unione di attività.

Qui non si tratta più di individuare tendenze o di considerare progetti, ma di determinare un concorso effettivo e un intervento di fatto.

Ma allora, come riesce l'operazione umana, secondo il suo bisogno e il suo desiderio, a impiegare e a sottomettere, ad assimilare e a incorporare a sé ciò che sembra esserle esteriore?

II.

Noi non agiamo mai soli.

In che modo la nostra azione può condurre e anche costringere all'azione qualche altra cosa?

E che cosa presuppone questa stessa possibilità?

Il problema è delicato.

Infatti invece di considerare il fenomeno sensibile o l'opera prodotta come espressione dell'agente, adesso bisogna vedervi il ruolo dell'agio.

Dunque in questo stesso fenomeno non interessa più l'elemento sensibile, ma ciò che lo rende sensibile.

Senza dubbio il determinismo fisico era già sorpassato e vinto.

Ma rimane da vedere meglio ancora come la produzione vittoriosa dell'atto sia possibile solo grazie a ciò che vi è di soggettivo fuori dello stesso agente.

Per penetrare nel sistema universale dei fenomeni, l'azione, producendosi, deve diventare l'alimento del contesto in cui compare.

Allo scopo di farsi oggetto e di manifestarsi sensibilmente, la nostra vita soggettiva evoca soggetti ancora estranei a essa.

Per aiutare l'immaginazione con l'ausilio dell'analogia occorre allora che ci collochiamo nella visuale da cui consideravamo in noi le condizioni elementari e le sorgenti inconsce dell'azione.

In tal modo avremo una rappresentazione più agevole del modo in cui la nostra operazione volontaria, calata nel dominio dei fatti bruti, diventa a sua volta la sorgente invisibile e lo stimolo necessario di altre energie e di azioni provenienti da referenti altri rispetto a noi.

Noi rientriamo nel determinismo della natura per sollecitarlo secondo il nostro volere e per orientarlo verso i nostri fini.

Lo sollecitiamo come esso sollecita noi.

Perciò per agire e per riuscire in qualsiasi cosa bisogna sapersi regolare.

Che si lavori il granito e la creta o si trattino gli uomini, c'è sempre bisogno di un tatto istintivo o di un'ispirazione inconsapevole.

Espandendosi nel dinamismo dell'ambiente l'azione vi porta, grazie al meccanismo del segno, un'intenzione e un'idea.

Essa conserva un senso e una fisionomia individuale, racchiusi nel simbolo espressivo che viene a proporre, e persino a imporre, al sistema totale grazie alla costrizione del determinismo.

È una virtualità soggettiva capace di organizzare altre spontaneità e di farle servire ai suoi disegni.

Cosi si rende sempre più palese la finalità e l'efficacia di questa prima opera prodotta, che è l'espressione immediata dell'operazione stessa: essa diventa lo strumento del regno della volontà in via di crescita.

Persino là dove sembriamo violentare la materia bruta, il nostro intervento è solo un segno, nel senso che facciamo appello a una reazione e paghiamo il prezzo di un aiuto.

In tal modo dunque, a confronto della causa efficiente che gli fornisce un'intenzione e quasi un'ispirazione determinante, tramite il veicolo del fenomeno sensibile e sotto forma di un alimento soggettivo, il termine di esplicazione della volontà fornisce i mezzi, e da parte sua diventa, con maggiore o minore spontaneità, resistenza o intelligenza, la causa efficiente del fine comune che indubbiamente non avrebbe ottenuto da solo, e che tuttavia celava in sé.

Ogni opera compiuta suppone due cause efficienti che si corrispondono e si completano; l'una e l'altra sono reciprocamente la condizione necessaria del loro successo comune.

E l'anima di questa coazione è costituita da un'intenzione iniziale, da una volontà che si propone non solo l'oggetto cui tendeva in prima istanza, e neppure il concorso di questo fine oggettivo, ma una comunità d'azione e di effetto.

Dominiamo i fenomeni solo servendoci di essi come di segni per risalire a ciò che li determina e li produce; in altri termini noi pure serviamo loro da segni, in modo da stimolare le forze da cui procedono.

L'operazione meccanica che si realizza in questo mondo dei fenomeni, orientandosi secondo le apparenze sensibili, implica dunque un'azione più nascosta e più efficace, il confronto delle capacità dinamiche, la prova o il calcolo delle affinità profonde, tutto ciò che i metafisici avevano prematuramente chiamato la comunicazione delle sostanze.

L'efficacia dell'atto nel mondo dei fenomeni riposa in ultima analisi su un concorso di spontaneità percepite mediante i loro simboli naturali.

Quando l'ingegnere ricorrendo al calcolo determina la resistenza dei materiali che impiega, quando il fisico stabilisce con i suoi esperimenti la conducibilità di un corpo, quando l'artefice applica alle sue costruzioni le conoscenze empiriche che gli consentono di fare un buon lavoro, tutti, senza dubbio a loro insaputa, cercano di penetrare il quid proprium e, se così si può dire, la natura soggettiva e attiva degli elementi bruti, di cui si attendono una conformità con il fine proposto.

È perfettamente vero che non facciamo nulla, neppure nell'adattamento dei materiali.

Facciamo fare da altri ciò che il pensiero ha concepito e la risoluzione ha preso.

E come nella vita individuale il concorso di energie subalterne opera in noi con la mediazione dell'intenzione iniziale, allo stesso modo fuori di noi il ruolo della volontà non è tanto di agire, quanto di suscitare e di orientare le potenze esteriori assimilandole all'atto.

Persino nel caso in cui la provocazione dell'autore che ha l'iniziativa dell'opera pare necessitante, egli non agisce se non facendo agire: al di fuori raccoglie le condizioni; al di dentro è competente soltanto la causa determinante e operante.

Come osservava già Bacone, noi ci limitiamo a rendere presenti le forze naturali: natura intus celerà transigi!

E anche per renderle presenti, è necessario che già un segno abbia suscitato in esse un'energia sopita e sterile che asseconda le sue sollecitazioni.

Quindi non tutto è assurdo nelle pretese della magia o dell'occultismo: c'è un incantamento naturale che, per quanto inefficace nelle condizioni normali, può diventare il principio di operazioni straordinarie o miracolose.

Indubbiamente sembra strano dire che, per agire su una pietra, occorre rivolgersi con una specie di suggestione a energie virtuali che sonnecchiano in essa.

Ma pare altrettanto strano che nell'iperestesia del sonnambulo l'ipnotizzato percepisca, senza rendersi conto degli intermediari, i segni più impercettibili e gli stati persino inconsapevoli di colui che lo ipnotizza.

Ciò che viene prodotto oscuramente da un'attività intelligente non può essere ricevuto e interpretato altrettanto oscuramente?

Questo è senz'altro il meccanismo consueto dell'interpretazione dei segni, anche i più palesi.

L'armonia interna di un simbolo espressivo e vivo fin nelle sue parti più infime non è mai percepita che all'ingrosso, ed è il carattere arbitrario dell'espressione che finisce per prevalere.

Ma se la convenzione artificiale nasconde, essa non abolisce questa istologia espressiva del segno naturale.

Esiste un linguaggio inconscio che parla a dei sensi inconsapevoli; esso può essere appreso e perfezionato con l'uso come tutti gli altri linguaggi.

Così l'ipnotizzatore prende possesso sempre meglio del suo soggetto, e si fa comprendere più chiaramente man mano che gli parla più spesso nel suo misterioso idioma.

Ciò che si è chiamato lettura del pensiero probabilmente costituisce la percezione delicata e l'interpretazione segreta di queste tracce impercettibili, είδωλα.

Così anche si comprende almeno la possibilità di spiegare la bizzarria delle simpatie o delle antipatie istintive, e la stranezza di quelle comunicazioni telepatiche di cui alcuni psicologi oggi vanno raccogliendo la testimonianza.

Sembra che senza rendercene conto noi viviamo in un perenne incrocio di influenze impalpabili.

Se nell'igiene dell'organismo animale siamo indotti a tenere in gran conto gli elementi infinitamente piccoli, senza dubbio è necessario attribuire allo stesso modo un ruolo a tutti questi elementi impercettibili nel dettaglio inconscio delle operazioni mentali.

Sono come dei semi che, nascosti sotto la lettera morta del fenomeno materiale, attendono soltanto un terreno propizio per spuntare in seno a una spontaneità capace di nutrirli.

Dunque è possibile operare ovunque vi sia un abbozzo di vita soggettiva, e cioè ovunque.

Noi interveniamo nel determinismo dei fenomeni solo a questa duplice condizione: che desumiamo il nostro atto personale da una potenza che lo trascende; e che mutuiamo la nostra azione utile da una forza che è al di là di questo determinismo e dietro i fenomeni prodotti.

Perciò, a dire il vero, noi non fondiamo mai la nostra scienza e il nostro regno sui fenomeni direttamente percepiti.

Che cosa suppone in effetti il bisogno delle lezioni dell'esperienza che l'uomo d'azione ha?

Che cosa suppone l'indagine scientifica?

Che cosa suppone il potere della scienza sulla natura?

Tutto ciò implica che per agire efficacemente occorre scoprire e convertire ai nostri fini quello che nei fenomeni percepiti costituisce l'invisibile fenomeno soggettivo e l'azione propria.

Ed ecco come, dopo la soggettività interna e la soggettività organica, la soggettività esterna diventa anch'essa verità di scienza.

Dunque tra la questione dei rapporti reciproci tra i fenomeni e il problema ancora insoluto, e forse chimerico, della comunicazione tra le sostanze c'è posto per lo studio di relazioni che non sono ne fisiche ne metafisiche, ma psicologiche.

Nonostante le apparenze noi non agiamo sui fatti positivi, assunti come l'unica realtà; per operare su di essi occorre attingere, attraverso i segni che essi sono, le forze oscure capaci di produrli.

Tramite i fenomeni noi ci rivolgiamo a delle cause.

I fatti sperimentali non sono, per così dire, che l'eco delle risonanze profonde, nelle quali a tentoni ci sforziamo di cogliere nel segno senza vederci.

Vi sono senz'altro cose, e alcune capitali, in cui uno zotico sa tanta filosofia, e forse di più, quanto Aristotele.

Anche su questo terreno appare la sutura tra i metodi sperimentali e quelli matematici.

Qual è l'oggetto del calcolo infinitesimale, e come si spiega l'adattamento paradossale e reciproco dei numeri all'osservazione e dell'esperienza al calcolo?

Il calcolo infinitesimale presuppone esattamente nella natura una virtualità vivente e infinita, suppone a fronte del nostro pensiero altre energie, altri soggetti, delle monadi, un dinamismo sotto il meccanismo apparente.

È proprio per questo che si applica alle apparenze e consente di governarle.

Agire significa penetrare col tatto e con la divinazione nella chiusa intimità di altri soggetti, e interessarli a sé.

Calcolare significa rappresentare simbolicamente questa infinità della vita e queste relazioni delle forze concorrenti.

Ecco perché il calcolo supponeva l'azione, come si è mostrato, e perché l'azione è apparsa come la mediatrice naturale tra i numeri e l'esperienza.47

Così infine si spiega meglio come le scienze positive corrispondano a una segreta ispirazione della volontà.

Infatti questo desiderio ancora esteriore e, per così dire, artificiale di conoscere, che già era apparso come una motivazione solida del sapere umano, si fonda, come si vede, su un bisogno più profondo: l'azione che vuole interessare altri agenti fuori di sé cerca, per essere efficace, di penetrare con un duplice lavoro di approccio, a priori e a posteriori, l'universo invisibile da cui promanano i fatti che essa intende suscitare.

E come per governare le nostre membra e i nostri desideri noi regoliamo gli attacchi violenti, in modo da prendere come tra due fuochi ( tra la volontà superiore e l'obbedienza passiva degli atti materiali ) i ribelli al nostro interno, così anche qui con una tattica analoga noi usiamo come una morsa la conoscenza empirica e la deduzione matematica per ridurre al nostro servizio le inafferrabili forze della natura.

È dunque l'azione che costituisce il campo delle scienze positive.

Infatti da un capo all'altro esse hanno come oggetto quello di studiare il contenuto dell'operazione, il concorso della nostra conoscenza con le condizioni interne dei fenomeni, la coazione nel determinismo universale.

In tal modo esse sono apparse collegate tra loro soltanto nell'azione.

È anche per questo che esse sono volute come un mezzo per elucidare e sviluppare l'intervento riflesso dell'uomo, per accrescere il suo potere ed estendere il suo dominio.

Studiando la nebulosa più lontana, o scrutando l'organismo di un insetto, lo scienziato, per chi sa comprendere, collabora alla soluzione del problema del destino umano.

Ogni altro problema rientra in questo problema.

In fondo le scienze analizzano le procedure del volere, e danno un contributo al servizio delle sue intenzioni.

La loro vera ragion d'essere è quella di assimilare alla volontà altre energie, e di aggiungere alla vita individuale qualcosa della vita universale.

III.

Producendosi, l'azione si trasforma.

a questa stessa trasformazione è quello che si cercava quando si agiva.

L'agente si mette in ciò che fa, e ciò che fa lo modella.

Quindi il centro di equilibrio della vita individuale si sposta, e si trasferisce nell'opera alla quale la volontà si dedica.

Ένεργεία δποιήσας τό έργον έστι πώς.

Per comprendere insieme alla nozione di causalità il rapporto tra la finalità esterna e la finalità interna conviene collocarsi da questo punto di vista.

Ogni causa per essere efficace suppone una sintesi effettiva.

In che modo diverse parti di uno stesso sistema possono cooperare in modo da diventare reciprocamente mezzo e fine, se non perché l'una, causa efficiente, trova nell'altra, causa finale, una spontaneità complice della propria alle dipendenze di una stessa idea direttiva?

La stessa cosa succede per le forze che si dicono esteriori le une alle altre, ma che in realtà fanno parte di uno stesso complesso in cui tutto è solidale, e in cui l'adattamento è possibile e perfettibile a tutti i livelli.

Pertanto il vincolo causale è insieme il risultato di una disposizione soggettiva e di una associazione empirica.

La sua originalità consiste nell'essere al tempo stesso analitico a priori e sintetico a posteriori.

Infatti nell'effetto prodotto ciascuno dei soggetti che vi contribuiscono è un agente principale.

L'intenzione ideale sembra interamente ricavata dall'agente dell'iniziativa; la risposta sembra venire interamente dal collaboratore; ma di fatto vi è reciprocità tra la forma e la materia, e nell'opera vi è una doppia operazione simmetrica: ciascuno crede di fare tutto.

A livello di intenzione il risultato appartiene tutto a ciascuno, sebbene non costituisca mai soltanto l'apporto di ciascuno.

Indubbiamente l'effetto è raccordato alle sue cause solo tramite una relazione sintetica ( di qui l'impossibilità di elevare a verità assoluta il determinismo della natura ).

Ma l'effetto non è solamente un fenomeno giustapposto al suo antecedente come sua conseguenza.

Esso suppone l'intervento di una seconda causa, anch'essa soggettiva e naturata, se così si può dire ( di qui l'impossibilità di vedere nella causalità una connessione puramente arbitraria ).

Tra l'agente e i suoi cooperatori si stabilisce una relazione analoga alla finalità, che associa i membri di uno stesso organismo.

In tal modo la volontà diventa come l'anima del determinismo che essa pone al servizio dei suoi fini.

L'uomo è davvero « tutto natura », il vincolo universale.

Siccome l'opera operata è sempre una sintesi differente dall'opera progettata, nulla potrebbe surrogare l'esperienza effettiva.

E per quanto concerne la scienza della prassi, è già molto provare in questo modo l'impotenza irrimediabile della pura speculazione.

Per esempio, nello studio delle funzioni economiche e sociali ci si espone inevitabilmente all'errore quando si considera l'espansione dell'attività umana, e se ne ricostruiscono le conseguenze, senza prendere in esame direttamente il movimento di ritorno e le reazioni naturali.

Chi dà riceve.

Ma la cosa ricevuta, la cosa donata serve da guida al donatore.

Nello spirito più inventivo c'è sempre un fondo di passività; non si fa una scoperta senza imbattersi in un'occasione affrontata con una curiosità attenta.

Noi non lavoriamo alla ventura, nel vago e nell'indeterminato, ma l'ordine delle cose orienta il nostro sforzo, sostiene il nostro pensiero, guida la nostra azione attraverso contraddizioni impercettibili.

Indubbiamente restano possibili infinite deviazioni.

Ma per quanto si faccia violenza all'ordine apparente, esiste sempre, persino negli atti più sregolati, una sequenza regolata nella crescita dell'operazione voluta.

Astraendo dunque da questa diversità indeterminabile, dobbiamo continuare a studiare lo sviluppo necessario e la storia naturale dell'opera operata.

Raccogliamo i risultati delle precedenti analisi.

L'azione individuale si impone al di fuori, non fosse altro che tramite l'espressione naturale e il sistema organico di fenomeni che ne costituisce il segno.

Ora questo segno, che cela una tendenza verso un fine voluto ulteriormente, si manifesta, si costituisce, e a più forte ragione opera il suo effetto solo se interessa già alla sua produzione qualcosa di estraneo alla vita individuale.

È necessario che esista e, perché esista, è necessario che vi sia coazione.

Questa coazione dalla quale risulta il fenomeno dell'atto, per quanto elementare esso sia, è possibile solo grazie a una corrispondenza del contesto in cui si esplica.

La continuità meccanica dei fatti determinati e solidali implica un dinamismo esterno.

Non c'è bisogno di ricorrere alla metafisica per assodare la verità di questo dinamismo.

Che vi siano dei soggetti estranei all'agente è un fenomeno dello stesso ordine dell'esistenza del soggetto medesimo: la connessione di questi fenomeni è necessaria.

E non se ne può erogare la scienza che riconoscendo questo determinismo.

C'è dunque un duplice movimento in ogni operazione esteriore.

Col primo il segno espressivo si impone al determinismo del contesto; col secondo attraverso questo segno si sollecita, si esige e si ottiene la reazione da cui nascerà l'opera desiderata.

Perciò il fenomeno dell'azione suppone la convergenza di due serie di fenomeni, una che parte dall'agente, l'altra che è suscitata da un'altra parte.

Ogni produzione esige il concorso di due attori.

E l'atto carpito, procedendo grazie alla mediazione del segno dall'agente che ha l'iniziativa dell'opera, viene in qualche modo a riunirsi al segno o al fenomeno di cui ha subito la suggestione.

Quindi l'operazione esteriore della volontà costituisce una sintesi di fenomeni che includono tra loro un'energia interna, una cooperazione forzata.

In questo modo si costituisce il terreno comune su cui hanno luogo gli scambi inevitabili, e in cui si stabilisce la solidarietà universale.

Per esempio, non dipende da me il fatto di aver sentito una parola.

E tuttavia nel suono che mi ha colpito c'è una parte di spontaneità, una reazione naturale dei miei sensi.

La mia recettività è attiva.

Ed è così che i fenomeni percepiti hanno una doppia base o, per così dire, una doppia realtà in quello che li produce e in quello che li subisce.

La loro consistenza deriva da un concorso di potenze, potenze isolate nella loro intimità, ma di cui essi sono il nodo e l'anello di congiunzione.

Se le scienze positive sono sospese all'azione, ciò avviene perché dapprima l'azione fornisce ai fenomeni che ne sono l'oggetto la coesione e la solidità.

E perciò il determinismo universale, dominio di queste scienze, rientra con la coazione che esso permette nello sviluppo più ampio della volontà.

* * *

L'intento del prossimo capitolo è mostrare come l'azione può esercitare un'influenza sugli agenti diversi dal suo autore, e sollecitare la loro cooperazione rispettando la loro iniziativa e la loro indipendenza, ancorché tenda a una unione quanto più intima possibile.

- Indico dapprima come il risultato della coazione, staccandosi dalle sue cause, costituisca una creatura distinta che ha un'evoluzione propria e un'efficacia naturale.

- Mostro come questa risuscita nelle coscienze in cui è ricevuta come alimento, e come vi è interpretata e ammessa con maggiore o minore riflessione.

- Determino ciò che nella cooperazione spetta a ciascuno degli associati.

E tutta questa ricerca è dominata dall'idea che sempre più l'intenzione profonda dell'agente è di ottenere una conformità reale con coloro che egli raggiunge, un'unità effettiva, una comunità di pensiero, di vita e di operazione.

Lo studio di questo proselitismo spontaneo ci condurrà a comprendere il bisogno di una comunione più stretta delle coscienze e delle volontà tra loro.

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46 A differenza della conoscenza, che trasforma il suo oggetto in pensiero, l'azione trasferisce l'agente nel fine perseguito.
Perciò quello che operiamo al di fuori ci è più essenziale e più intcriore, se così si può dire, di quello che concentriamo al di dentro.
Non quod intrat, sed quod procedit, hoc coinquinat hominem [nda]. Cfr. Mt 15,11-12.
47 Non che si tratti di affermare la realtà sostanziale di quei soggetti estranei all'agente, più di quanto non si faccia con quella dell'agente medesimo.
Si tratta semplicemente di determinare le relazioni reciproche tra l'ordine soggettivo e l'ordine oggettivo, ovvero di sistemare tra i due tutti gli aspetti del fenomeno universale; [nda].