L'azione

Indice

Influsso e cooperazione

Capitolo III

Quando la coazione ha prodotto il suo effetto, il risultato sembra formare un tutto autosufficiente e come una nuova creatura in seno ai fenomeni.

Ma per ciò stesso l'opera ha un « influsso » necessario, essa è un ingranaggio nel determinismo generale.

Inevitabilmente l'azione è più che l'opera stessa; e al di là di ogni fine particolare c'è un fine più generale.

Ciò che faccio da me stesso col concorso di un altro non è più per me solo e per quest'altro solo.

L'atto compiuto ha per forza di cose una portata più vasta.

E in un certo senso esso esiste ormai per tutti gli altri allo stesso modo che per quegli stessi che l'hanno prodotto.

Che cosa significa questa necessità?

E vi si cela una segreta ambizione del volere? - Sì; e quale allora?

I.

Nel momento preciso in cui nasce dal concorso delle sue cause, l'opera non è ancora uno spettacolo per i propri autori.

In actu, actus nondum est actus.

Quando parliamo non ci sentiamo parlare; e nel fonografo riconosciamo a stento il suono della nostra voce; e sulla pagina in cui ti ritorna stampato, tu sei sorpreso di leggere il tuo pensiero.

Ma non appena la nostra opera è compiuta così come è cessata la cieca operazione da cui promana, essa diventa per noi e per tutti gli altri un oggetto in cui impariamo a rispecchiarci.

Non conosciamo il nostro volto fin tanto che uno specchio non ce lo rivela.

L'azione è lo specchio che ci rimanda un'immagine visibile del nostro carattere.

Essa è fatta per essere vista.

Il fine perseguito consapevolmente non preclude questo desiderio.

Ciò che facciamo lo facciamo anche per cose diverse da quelle che crediamo.

Nell'intenzione si cela qualcosa di superfluo.

E proprio questa tendenza inglobata si ritrova nello stesso risultato dell'azione.

Dapprima l'azione è travasata in un segno immediato; in seguito ha perseguito un fine determinato, per farne un'opera che pareva esserne il complemento; ma non è tutto.

Sotto quest'opera afferente a questo scopo particolare sussiste un bisogno più vasto che già comincia a cercarvi soddisfazione.

Avocando a sé il risultato di una collaborazione, l'uomo è portato a evocare, a volere non più soltanto l'opera, ma la stessa intimità dell'operatore e del collaboratore.

Egli vuole mettere nel suo atto ciò che è universale in ogni soggetto; ed è proprio questo che vuole sia ritrovato nel suo atto.

Quindi, ancora una volta, bisogna differire e allargare la nozione che conviene farsi della finalità.

In un primo tempo il fine era stato il motivo prediletto, poi la decisione che si sforzava di eseguire l'intenzione volontaria, poi ancora l'oggetto al quale si protendeva l'operazione stessa, poi ancora la collaborazione di questa causa finale, e infine il prodotto di questa coazione riferito alla pristina intenzione dell'agente.

Ma c'è di più. Grazie all'apporto del nostro partner che mantiene a distanza causa ed effetto, l'azione consumata è sempre differente dall'azione progettata, e si separa da noi.

Comincia a comportarsi autonomamente e a fruire di una specie di vita impersonale.

La nostra idea, proprio mentre è nostra, è una idea.

E in ogni idea c'è un principio universale.

Perciò agendo ci proponiamo ineluttabilmente una soddisfazione dell'amor proprio, diciamo così, disinteressato.

Quel che facciamo, lo facciamo ( anche quando avviene per egoismo ) con una specie di lusso, di arte e di superfluo.

Non vediamo l'esagerazione di questa propensione persino nel criminale che apprezza la bellezza del suo colpo, o nello sciocco « tanto insensato quanto un gallo che crede che il sole sorge perché lo sente cantare »?

Noi non agiamo mai per noi soltanto, proprio come non agiamo mai da soli.

Il contesto in cui questa tendenza si segnala in primo luogo con la massima evidenza tra le stesse opere sensibili è l'arte.

E l'arte compare fin dai primi oggetti lavorati da mano d'uomo.

Sembra che l'opera bella goda di una sufficienza assoluta, che viva, che sia non soltanto il riflesso di un'idea ma un'idea reale, che abbia davvero il potere di essere, di agire e di amare.

La bellezza ha un fascino che va ben al di da e al di sopra di chi la percepisce o di chi la riveste.

Come nelle opere del genio si cela un significato molto più vasto di quanto si percepisse in un primo momento, così nella bellezza si trova un'espressione impersonale che si gusta meglio quanto più si è di animo nobile.

Siamo in presenza di un sentimento che per la sua stessa ampiezza e il suo irraggiamento diventa un'angoscia e un mistero.

Come se in ciò che amiamo la nostra ammirazione investisse un amore remoto e più potente, di cui la bellezza conosciuta non sarebbe che un simbolo inadeguato.

Quindi in ogni opera umana c'è un misticismo incoativo.

Al principio pare che si sia annessa alla rappresentazione delle figure e degli ornamenti un'intenzione superstiziosa, come se l'immagine avesse una realtà in se stessa, facendo propria la vita interiore dell'oggetto che essa riproduce.

Si direbbe che esprimere con segni il pensiero di cui è gravida l'anima significhi dare alla luce più di quanto contenuto in questo pensiero stesso, e costruire un idolo.

Pertanto l'arte è, quasi in forza di una visione prolettica, il compendio mitico di tutto lo sviluppo futuro della volontà in cerca del suo perfetto compimento.

Essa inserisce fittiziamente nell'opera sensibile, nel fenomeno, il reale, il vivente, l'umano, il divino.

Essa ingloba istintivamente e scopre intuitivamente l'equivalente simbolico di tutte le aspirazioni ancora implicite del volere.

Di tale tendenza all'estetica presente nell'azione, anche la più egoistica e la più interessata, non rileviamo che questa verità: l'opera compiuta acquisisce un'indipendenza relativa.

Nella sua maturità essa cade come un frutto coperto del suo fiore e pieno di semi.

E dal momento che vi abbiamo deposto un'intenzione e un pensiero, essa trascende singolarmente la vita individuale in cui affondava le radici.

Se l'arte costituisce la natura stessa dell'uomo, o almeno il simbolo dell'esplicazione totale della sua attività, ciò avviene perché nella bellezza che essa esprime fa dell'opera bella una verità separata e impersonale; e tende a riscattarla dal tempo e dallo spazio perché domini la diversità dei gusti particolari.

Proprio a motivo di questa impersonalità l'opera d'arte non sussiste per l'autore più che per l'osservatore, ma bisogna riplasmarla in se stessi per sentirla e comprenderla.

Perciò in qualsiasi azione veramente umana c'è quello che Kant chiama « una finalità senza scopo »,48 cioè una realtà indipendente dalle occasioni immediate che ne sono state il pretesto e dagli agenti che l'hanno prodotta, una virtualità indefinita.

Generata dalla potenza impersonale della ragione, quest'opera è a sua volta prolifica, conservando dalla sua origine un bisogno di espansione e di propagazione.

Ecco in che modo di fatto, e senza superare le relazioni reciproche tra fenomeni, si realizzano da sé le formule in cui la Critica della ragion pratica cercava la pura espressione del dovere.49

Non si può e non si vuole ingabbiare in sé la propria vita.

Agendo agiamo per tutti e in tutti.

È questa la ragione per cui tutti noi siamo portati a massimizzare la nostra condotta.

Nel momento stesso in cui siamo coscienti di fare un'eccezione in nostro favore, e di trattarci come una personalità incomparabile, fuori del comune, ci poniamo come un esemplare vivente con la forza bruta del fatto compiuto.

Se siamo indotti a incarnare l'intenzione nel corpo di un'opera che sta davanti a noi e agli altri come un nuovo agente, è perché nella decisione iniziale era già incluso questo desiderio di fare dell'atto una specie di creazione separata dal suo autore, partecipe della realtà comune, con una sua consistenza al cospetto di tutti, dotata di questo carattere di universalità celato in tutto ciò che ha posto nel determinismo oggettivo della scienza.

Non è forse necessario che vi sia proporzione tra l'impulso della forza e l'effetto che essa produce?

Se per esprimersi con un segno e con un'opera l'intenzione ha innescato questo determinismo, è chiaro che lo ha fatto per segnare la stessa opera col sigillo della sua potenza, per farne una verità reale e generale, χώρις.50

Ed è questo fine perseguito implicitamente che ha sostenuto lo sforzo, è esso che provoca l'efficacia del volere.

Si riesce ad agire volontariamente nell'universo solo perché l'azione deve avere una portata virtualmente universale.

Dunque ciò che è vero per l'apparenza materiale è vero innanzitutto per il senso che essa esprime e di cui il segno è il veicolo.

Se l'atto realizzato ha un carattere impersonale e un'evoluzione indipendente, ciò costituisce il fatto letterale di cui bisognava ritrovare l'ispirazione interiore.

L'intenzione, l'operazione che l'attua, l'espressione materiale che la manifesta, la coazione che costruisce l'opera, l'influsso che ne scaturisce per attrazione o per insegnamento, tutto questo costituisce una trafila.

Gli stoici dicevano che niente è spregevole nella casa di Giove.

Nell'esplicazione della volontà niente è arbitrario, insignificante, accessorio.

E come sotto il segno in apparenza estraneo all'intenzione è stata scoperta la via diretta che porta al fine agognato, allo stesso modo qui, sotto l'opera realizzata, appare il proselitismo nascosto e l'influsso latente che ne è la ragion d'essere.

Ogni opera prodotta è una propaganda in atto.

Strana illusione quella di credere che si possano limitare o estendere a piacimento le conseguenze della propria azione, che sia lecito ingabbiare in sé la propria vita, di farsi del male senza farne a nessun altro, di entrare o di uscire come e quando si vuole dal mondo che ci circonda, dalla vita universale, dalla morale.

Qui siamo, qui ci muoviamo, qui piantiamo i nostri atti e i nostri pensieri come semi fecondi all'infinito.

Tanto varrebbe dire che il seduttore non deve nulla alla donna innocente che ha gravato con un germe di sofferenza o di morte.

Traendoci fuori di noi stessi, l'azione è per gli altri affinché di rimando gli altri siano per noi.

Essa offre loro i nostri pensieri, è il cemento sociale, è l'anima della vita comune.

Perché non basterebbe isolarsi nell'intenzione?

Perché l'individuo non può isolarsi.

I suoi atti formano il contesto in cui affonderanno le radici altre opere.

In questa atmosfera delle coscienze fioriranno nuove intenzioni.

Certo, è un errore ingenuo immaginare che si possa mancare senza nuocere agli altri.

Non è possibile agire male senza recare più detrimento e provocare più dolore di quanto si vorrebbe credere, come un'opera cominciata male arreca danni senza fine.

Ma allo stesso modo qualunque cosa facciamo, sia che analizziamo a fondo un'idea o costruiamo un muro, farlo bene significa compiere un servizio pubblico.

Pertanto se l'opera materiale ha un carattere di universalità nel quadro del determinismo dei fatti in cui si colloca, ciò avviene perché essa ha anzitutto una portata parimenti universale nel quadro del pensiero e dell'intenzione genuina.

Senza dubbio noi agiamo in primo luogo per noi stessi; e se facciamo ricorso al di fuori, lo facciamo perché ignoriamo noi stessi fin tanto che non ci misuriamo con l'esterno.

Ma ciò che facciamo per conoscerci è fatto per essere conosciuto da altri.

È lo spettacolo della nostra ragione.

È dunque lo spettacolo del/o ragione.

Dal momento in cui l'atto è voluto, si indirizza implicitamente a tutto ciò che è in grado di comprendere e di volere.

Una sola e identica parola è ricevuta integralmente da mille ascoltatori.

L'azione è la moltiplicazione del verbo interiore che, avendo rivestito un corpo per offrirsi a tutte le sensibilità, si dispensa in comunione all'universo, e vi diffonde all'infinito il suo seme fecondante: è l'organo della riproduzione spirituale.

In tal modo si spiega che tutti i segni, tutte le opere e tutte le produzioni dell'uomo o della natura abbiano il loro indice vivente nel linguaggio.

Il linguaggio è l'equivalente manipolabile, animato, intellettualizzato dell'universo intero.

Le parole conservano in sé qualcosa di tutti gli oggetti che evocano e di tutti i pensieri che se ne nutrono e se ne servono.

Gravide di luci e di misteri, esse non rendono mai del tutto il verbo interiore, e lo trascendono sempre.

Come la nuvola è un misto di ombre e di raggi, così né le parole adeguano l'infinito dei pensieri né i pensieri adeguano l'infinito delle parole.

Esprimono a vicenda l'individuale e l'universale.

E per questo le parole creano l'atmosfera intellettuale degli spiriti.

Grazie a esse non c'è nulla che non sia una sorta di alimento già digerito dalle coscienze.

E se qualsiasi azione può essere espressa e spiegata per mezzo della parola, ciò avviene perché dapprima ogni azione è una parola implicita, cioè esprime un bisogno di rivelarsi a tutti.

Non vediamo con quale forza ogni giorno crescente l'uomo cerca di fissare le sue idee e i suoi sentimenti, di universalizzare e di immortalare i suoi atti o le sue opere, di comunicare con tutto il mondo e con tutte le epoche, di interessare l'intero universo alla sua infima persona?

Un primo punto pare acquisito: l'azione volontaria, costituendo un'opera distinta, manifesta un'intenzione implicita ma certa.

Al di là dell'atto individuale e dell'oggetto particolare in cui si è concretizzata, essa aspira a rivestire un carattere di universalità, a prodursi in modo da poter essere compresa da tutti, a creare un'opera che valga in se stessa, e che sia capace di esercitare a sua volta un'azione.

Come diventa efficace questo influsso?

II.

Per il carattere universale di cui è rivestita, l'azione tende ad accostare e a penetrare altre coscienze.

Possiamo dire che se essa diventa visibile, lo diventa per essere vista.

Questa relazione, questa progressione continua che ci porta, dalla costruzione materiale del segno o dell'azione sensibile, al bisogno naturale di essere considerati, compresi, imitati, assecondati non è stata ancora rilevata a sufficienza.

Senza conoscerli, noi facciamo assegnamento sul consenso di altri soggetti, in modo da irradiare, volere e vivere in essi.

L'opera, separata dai suoi creatori di cui conserva e unisce i tipi senza esserne la riproduzione identica, vive e cresce come il bambino.

Porta in sé la scintilla di un pensiero che cerca di comunicarsi; è a sua volta attiva e generatrice.

Se si ritenesse che ogni pensiero può agire direttamente ed effettivamente su ogni altro per coazione, come si smuove una pietra, l'idea di influsso conserverebbe il carattere superstizioso o infantile che aveva ereditato dall'astrologia e costituirebbe un pregiudizio fatalista.

Ma, viceversa, significherebbe cadere in un idealismo arbitrario e illusorio, se si abolisse, con una specie di protestantesimo spirituale, ogni comunicazione tra le coscienze, si pretendesse che ognuno viva per sé ( come se in questo caso si potesse conoscere in primo luogo che vi sono altri spiriti ), si ritenesse che ogni soggetto sia fondamentalmente originale « senza finestre verso l'esterno », che niente entri in lui o ne esca, che l'individualismo e la discontinuità siano la legge assoluta del mondo intellettuale come l'evoluzione continua è quella dei fenomeni sensibili, ci si convincesse che possiamo restare indifferenti o che siamo davvero estranei alle conseguenze dei nostri atti, delle nostre parole, dei nostri esempi o dei nostri insegnamenti, come se nulla entrasse in noi o in altri che non fosse deliberatamente controllato e accettato in entrata o in uscita.

E tuttavia quanto poco ci si è preoccupati di considerare in maniera ravvicinata questi problemi che presentano un interesse così vitale!

Al contrario, è necessario considerare l'opera non soltanto come il prodotto o l'effetto, ma come lo strumento e il vincolo di un'unione più reale tra le coscienze che per natura sono solitarie e sconosciute le une alle altre.

E come l'atto consumato costituisce un insegnamento, una convalida o un impulso per colui che lo compie, così l'opera compiuta e sussistente rappresenta un alimento e una spinta per chiunque ne subisce la presenza e ne è investito anche se involontariamente.

Non v'è dubbio che questa predicazione vivente dell'opera può davvero produrre il suo effetto non per imitazione pedissequa o per un impulso materiale.

Non c'è nulla di più stolto o di più pericoloso della fedeltà puramente esteriore di una copia maldestra o l'applicazione meccanica di ricette e di formule.

Era questo il lato ridicolo delle Preziose.51

Per essere feconda, è necessario che l'opera, separata dai suoi autori come il seme di grano dallo stelo, in qualche modo muoia prima di essere pronta a rinascere su un altro terreno.

È necessario che essa si dissolva, come il seme sotto terra, per germinare e crescere.

È necessario che, per giungere alla coscienza degli altri, segua quei canali segreti attraverso cui passano goccia a goccia, in maniera invisibile, le infiltrazioni che alimentano la sorgente della conoscenza e dell'azione.

In verità è un compito delicato quello di spiegare la trasfusione dei pensieri e dei moventi dell'azione da una coscienza chiusa a un'altra coscienza chiusa.

Indubbiamente tramite il determinismo universale, come abbiamo visto, l'azione esce fuori di noi come un alimento offerto ad altri agenti. Ma a questo livello non è altro che il simbolo di una propagazione più intima.

Infatti ogni pensiero è anche un'espressione particolare dell'universale.

È questo il principio della comunione reale tra le intelligenze.

Nelle concezioni e nelle opere più personali c'è un carattere di impersonalità che le rende accessibili a tutti, e che le colloca nella comunità degli spiriti.

Quindi ogni azione, in cui l'uomo mette una piccola parte di pensiero, costituisce un'idea vivente, che ari il suo campo, che tessa una stoffa, che tagli una pietra di marmo.

Ma queste idee reali conservano il loro valore universale sotto la forma determinata che esse rivestono, e da cui non possono separarsi senza perire.

È questo che le rende incomunicabili.

Quindi, grazie a quello che vi è in esse di comune e di impersonale, le suggestioni più singolari e le opere più eccentriche possono essere interpretate.

In forza della duplice mediazione del segno particolare e dell'idea generale, la cui unione costituisce la loro vita, esse sono capaci di risorgere in altre coscienze, di agire sulle decisioni e di spuntare a modo loro su un terreno differente.

Come il tipo specifico persiste attraverso tutti i capricci della natura e tutte le trasformazioni ereditarie, così vi sono anche famiglie di spiriti, una discendenza e un'evoluzione delle idee per via di filiazione o di alleanza.

E grazie a ciò che vi è di generico in ogni atto umano, noi tutti penetriamo gli uni negli altri, e vi apportiamo insieme all'impulso della ragione generale le abitudini o le aberrazioni della nostra cultura particolare.

Un vivente nasce da un vivente.

E se fosse indispensabile entrare nei dettagli delle vie di questa fecondazione, quante vie aperte ai germi contagiosi apparirebbero!

Che cos'è, infatti, un pensiero realizzato in un'azione, che diventa per noi uno spettacolo e una lezione, se non un esempio e un incentivo?

Sapete che cos'è uno scandalo?

È la formula dei bisogni confusi che si agitano in noi, che probabilmente non osano prendere chiara coscienza di sé.

È il riflesso degli appetiti segreti che alla fine trovano la loro espressione manifesta.

È la giustificazione di fatto delle tendenze inconfessate.

È un ostacolo accantonato e un pudore smarrito.

Spogliando a poco a poco certi sentimenti di quello che hanno di inconfessabile quando si ritiene di essere soli a provarli, l'insegnamento degli atti genera la tirannia del rispetto umano.

In tal modo si forma sotto influssi invisibili l'atmosfera morale e lo spirito del secolo.

Già la maniera del tutto materiale con cui viene realizzata l'intenzione costituisce una strada aperta agli imitatori.

Ogni atto è una scoperta.

Infatti per agire non basta provare un vago desiderio o formare una concezione astratta; occorre anche inventare mezzi precisi e gratificazioni reali.

Ebbene l'esempio ne propone l'invenzione già bell'e fatta.

Ma non è tutto. Più a fondo, nell'influsso esercitato dall'azione, c'è da tener doppiamente conto del pensiero e del corpo in cui esso vive.

Dopo che, grazie alla coazione, l'opera di una parola e di uno spettacolo è prodotta al tempo stesso dall'attore e dal testimone, non soltanto essa agisce nella misura in cui vi è, nello spettatore, l'arida rappresentazione tutta esteriore del fenomeno che egli subisce partecipandovi; ma, al di sotto di questa visione distinta che lascia alla sua decisione la piena padronanza di sé, si attua anche un lavoro inconsapevole che riempie di incitamenti segreti e di sentimenti confusi il quadro astratto della conoscenza fredda e vuota.

L'attività sorda che il testimone, anche passivo, esplica spontaneamente per fruire dello spettacolo che gli è offerto è come una prima velocità acquisita.

Sentire e percepire significa già cominciare a fare.

Perché, come osserva Platone, nell'acquisire le conoscenze si corre un grande rischio.

Non le si può caricare su una nave diversa dall'anima.

E quando vi sono entrate, si è fatto un bene o un male senza rimedio.

Ma c'è di più. L'opera costituita infatti, racchiudendo più di quanto avesse pensato la previsione chiara, contiene anche più di quanto l'immagine chiara ne dipinga nella coscienza.

Se da un lato l'espressione sensibile di un sentimento non rende mai tutto quello che sentiamo nel cuore, dall'altro c'è sempre anche in questo atto del segno qualcosa di più e di diverso dallo stato d'animo a cui corrisponde.

Esso manifesta anche quello che in noi rimane oscuro e che ci sfugge.

E siccome l'azione aggiunge un complemento necessario al pensiero e all'intenzione, perché l'operazione realizzata costituisce una sintesi arricchita ulteriormente di elementi nuovi, è dunque naturale che l'atto, rivestito della sua escrescenza sensibile, abbia su altre coscienze la doppia efficacia di ciò che esso ha a un tempo di intelligibile e di materiale.

Pertanto grazie a ciò che la stessa lettera ha di infedele, di esteriore e di inadeguato allo spirito che vi si incarna, essa lo completa e lo trascende in qualche modo.

Ciò che da all'opera percepita e interpretata tutta la forza di agire su chi la percepisce è ciò che in essa ha bisogno di essere interpretato.

Essa porta con sé il suo magma e il suo involucro, come nel seme intorno al germe vi è sempre una prima provvista di alimenti.

Dunque la natura profonda e duratura dell'influsso esercitato da un'opera dipende dal modo stesso in cui in essa l'idea è unita alla sua materia.

Più questo legame è stretto, più la vita vi si esprime con potenza e fecondità.

È proprio del genio scoprire i rapporti remoti tra le cose, e operare una sintesi più semplice e più stabile con più elementi dispersi.

In questo medesimo composto, per ciò che ha di oscuro, esistono virtualità latenti che il tempo fa passare all'atto a poco a poco.

Non vi è nessuna grande opera cui la folla non collabori.

E con i secoli questi collaboratori anonimi riprendono o aggiungono la loro parte.

Man mano che le opere umane vivono più a lungo occorre trovare motivi più profondi per questa sopravvivenza: non certo che il loro autore abbia visto in anticipo tutto ciò che le età successive scoprono nei loro pensieri.

Il destino dei grandi inventori di solito è quello di trovare altre cose, e più numerose, di quante ne sapessero, di approdare in America credendo di sbarcare nelle Indie.

E nondimeno essi ne hanno seminato il germe fecondo.

Sono ancora loro che in qualche modo fanno ciò che fanno fare.

Essi impegnano l'umanità in una via che forse senza di loro non si sarebbe aperta in quel modo; e, fungendo da capofila nel gregge umano, orientano, talvolta a loro insaputa, i popoli e le civiltà.

La varietà dei mezzi e dei fini è illimitata nello sviluppo della vita e della scienza.

Ogni azione è una svolta nella storia universale.

Bisogna sempre agire come se si governasse il mondo: gli altri forse sapranno raccogliere e far fruttificare il minimo dono che sarà loro offerto.

Ciò che facciamo fare, senza dubbio lo facciamo; ma nel contempo qualcuno ci fa fare ciò che facciamo.

Pertanto le grandi opere della scienza, dell'arte o della virtù che trascendono la coscienza individuale appartengono a tutti.

Da tutti esse ricevono a poco a poco il loro senso e il loro commento.

Da tutti dipende che venga impercettibilmente modificato il giudizio su di esse.

Il loro influsso è indeterminato. L'opera si arricchisce con ciò che il tempo vi aggiunge lentamente.

E tuttavia rimane sempre se stessa, perché non vi si è aggiunto altro se non ciò che una pratica più lunga e più varia della vita ha dimostrato esservi contenuto di fatto.

Forse che una pagina di Dante o una cattedrale gotica per noi uomini del XIX secolo è quello che era nel XIII secolo?

È come se, posandosi sulle parole, sulle idee e sulle pietre, lo sguardo degli uomini finisca di scolpirle e le pervada di energie nuove che conferiscono alle rovine stesse un supplemento di vita.

Ma il primo iniziatore non può rifiutare la paternità di questa generazione illimitata.

Il legame che perpetua la continuità del suo intervento non si spezza mai.

Se per natura l'azione operante è come l'unione tra un'idea e un corpo, γάμος, questo matrimonio è indissolubile e fecondo all'infinito.

Indubbiamente è possibile che l'opera, per così dire adibita ad altro uso e stravolta, subisca il vento delle opinioni e il capriccio delle interpretazioni insolenti.

Una favola, che agli occhi del brav'uomo avventato che l'ha raccontata è priva di malizia per l'infanzia innocente, allo sguardo del moralista appare carica di egoismo e di libidine epicurea.

Gli gnomi di Teognide, ispirati da un odio angusto e feroce da aristocratico vinto nelle lotte politiche, colmi di passioni ignobili, nella democrazia delle epoche successive diventano un'antologia morale per gli studenti.

Ma proprio perché le opere sorpassano sempre la lucida visione del loro autore, perché le più rigide restano malleabili, perché la loro energia generatrice investe ciò che esse conservano di incompiuto, la volontà iniziale per una specie di atavismo resta immanente a tutta questa prolificazione, che talvolta sembra tradire o andare al di là delle sue intenzioni.

Non c'è bisogno di aver previsto con chiarezza il contenuto di un'azione per rimanere legato alle più remote conclusioni delle premesse e per soggiacere, correttamente, alle esigenze della logica nascosta che vincola la decisione a tutti i suoi effetti.

Perciò quante legittime precauzioni conviene prendere quando si tratta di questioni in cui il minimo errore si propaga a ondate infinite di sofferenze!

Quante occasioni di responsabilità per chiunque insegna o agisce: ciò che si è detto, ciò che si poteva dire altrimenti, ciò che non si è detto quando bisognava dirlo!

La cura della trasparenza e della chiarezza è una cura morale.

Le false applicazioni di un'idea non si innestano forse sui punti oscuri?

Perché la verità non vale mai se non per l'unità totale della sua espressione, mentre le obiezioni e le eresie hanno sempre il destro di attenersi al dettaglio.

Quanto male può fare una conoscenza parziale!

Finché le idee vengono dal di fuori, rischiano di essere funeste.

Esse sono buone e vere solo se, nella circolazione della vita, affiorano dalle profondità dove si formano le certezze personali.

Vi sono verità premature o fuori posto che bisogna, non dico snaturare o dissimulare, ma offrire agli spiriti nella misura in cui possono reggerle.

Nell'educazione c'è un duplice eccesso perverso: l'indifferenza nell'esibire ogni cosa e la neutralità nel non insegnare nulla.

In tutte le coscienze vi è per ogni idea un'epoca di pubertà che non si può anticipare senza commettere un delitto.

Stiamo quindi attenti all'influsso anche di ciò che crediamo la verità.

Qualunque cosa si dica o si faccia, c'è da esercitare un'arte, l'arte della vaccinazione intellettuale.

L'azione dunque è efficace per ciò che ha di totale e per ciò che ha di parziale, per ciò che in essa è chiaro e per ciò che è oscuro, per la sua idea e per il suo corpo, per la necessità del determinismo e per le suggestioni della vita spontanea, per l'originalità della sua invenzione e per il principio universale che rende ogni idea accessibile a tutti gli spiriti.

- Queste sono le vie, questo è il meccanismo dell'influsso.

In primo luogo la decisione volontaria si proietta in un atto.

Essa crea la sua espressione e si incorpora in un'opera.

Quest'opera, che già presuppone il concorso effettivo di altri agenti e che si delinea in essi per effetto dello stesso determinismo dei fenomeni, con la vita infusa posseduta sollecita un lavoro di interpretazione e di assimilazione.

Per esempio, non dipende da noi capire una parola: questa è una necessità ancora cieca, per quanto noi contribuiamo all'impressione soggettiva del suono.

Non dipende sempre da noi il fatto che non capiamo questa parola.

Si tratta di un'elaborazione spontanea contro la quale talvolta è impossibile difendersi.

Ora, già in questo lavoro di traduzione interiore si insinuano, insieme all'immagine e al senso trasmesso al pensiero, un'attrattiva e un impulso.

Proprio da questa suggestione la conoscenza deriva in parte la sua forza.

Perché spesso è tanto più influente quanto meno la riflessione vi interviene, e quindi non ci si può guardare da essa.

Ecco perché l'autentica azione che si esercita sugli altri non è sempre quella di cui essi si accorgono.

Pertanto l'educazione deve il suo potere soprattutto al reticolo invisibile col quale avviluppa le facoltà nascenti, alla muta ispirazione che inocula nel cuore del giovane nel momento stesso in cui lo convince che le sue idee provengono tutte da lui stesso, alla silenziosa abitudine di cui pervade il suo giudizio e il suo carattere.

III.

Due punti sembrano assodati.

- L'azione umana tende a rivestire un carattere universale e a diventare una propaganda vivente.

- L'influsso dell'opera operata si esercita per vie molteplici. Esso si espande.

Ma per espandersi e mentre si espande, trasforma e risuscita in modo sempre originale l'intenzione primigenia.

- Si prospetta dunque un terzo problema da risolvere: questa trasformazione feconda delle nostre idee e delle nostre opere in altri agenti rientra essa stessa nella nostra pristina ambizione?

Che cosa vogliamo noi di quanto gli altri fanno dietro la nostra ispirazione?

Dove finisce la coazione e dove comincia l'adesione di un concorso libero?

Come operare una separazione tra ciò che si raccorda veramente all'iniziativa dell'autore e ciò che rappresenta l'operazione specifica del cooperatore?

A che cosa mira questo bisogno di essere visto, compreso, imitato?

L'azione è una funzione sociale per eccellenza.

Ma proprio perché è fatta per gli altri, riceve dagli altri un coefficiente inedito e, diciamo così, una riforma.

Agire significa evocare altre forze, fare appello ad altri io.

Si annida anche qui un disegno segreto del volere?

Quando agisco su forze brute, di solito mi aspetto dalla loro operazione una modifica radicale del mio atto.

Per ottenere la combinazione chimica di cui ha bisogno, l'industriale fa appello a energie di cui ignora la natura profonda.

Egli provoca una risposta che sembra totalmente differente dalla sua iniziativa personale.

Egli non si accorge neppure che, se contribuisce alla produzione comune con una sua idea, ne riceve altresì una dall'esterno, e che, se questi agenti estranei gli forniscono una materia, lui pure serve in qualche modo da materia alle potenze di cui requisisce il concorso.

Egli dimentica volentieri ciò che c'è di suo nell'opera.

Non sembra essere ciò che fa.

- Ma nella misura in cui le forze che concorrono all'opera comune sono dotate di una spontaneità più consapevole, la natura della cooperazione sembra cambiare.

Quando agisco su altri spiriti con l'insegnamento, o se impartisco un ordine, ho la pretesa di ritrovare il mio stesso pensiero in altri quasi come se fosse la mia opera.

Voglio che l'azione del mio scolaro o del mio operaio ricalchi la mia.

Esigo che la loro iniziativa si sottometta e si sostituisca alla mia operazione.

Trasmetto loro tutto ciò che posso della mia attività, affinché la loro produzione sia identica a quella che ho in mente o che ottengo io stesso.

Mi aspetto da essi una perfetta conformità al mio disegno, una totale duplicazione della mia vita intima.

Suscito un altro io.

E fin dall'inizio la mia azione tendeva precisamente a questa meta.

Infatti, se ogni opera nasconde una forza latente di espansione, che cosa c'è di più naturale di questo bisogno di rivivere in altri, questo bisogno di avere discepoli, di avere aiutanti capaci di operare per noi come noi?

- Poco fa sembrava che mi aspettassi dalle forze brute un'originalità d'azione; adesso sembra che esiga dalle forze intelligenti una passività di imitazione e di obbedienza.

E tuttavia ciò che cerco veramente, ovunque, è un complemento di me stesso, ma un complemento sempre più simile a me, lui pure attivo, capace di iniziativa, insomma tale quale sono io stesso in rapporto a lui.

L'apparente inerzia del discepolo non deve creare illusione: il vero maestro sa rendersi passivo e farsi da parte, affinché il bambino sappia ciò che apprende.

Essere scolaro del proprio scolaro è l'unica maniera di procurargli questa vita di cui nessun uomo accende la luce in fondo alle coscienze.

Hominibus non imperatur nisi parendo.52

È naturale desiderare che gli altri si conformino a noi.

E in questa perfetta conformità delle anime è naturale desiderare che ciascuno conservi integra la propria iniziativa.

Perciò, per qualsiasi pensiero bramoso di comunicarsi, quale lotta tra l'impetuosità di una convinzione perentoria e il rispetto di tutti gli intimi pudori!

Desideriamo metterci in tutti così come siamo; e vogliamo ritrovarci diversi in ciascuno.

Effondiamo ciò che abbiamo di più prezioso, offriamo noi stessi; e degli insegnamenti seminati non rimane nulla che appaia.

Ma proprio perché il seme è come perduto nel solco, nessuno lo può più estirpare, e la messe si prepara.

Contraddizioni apparenti dei desideri umani: vogliamo che gli altri siano noi e vogliamo che restino se stessi.

Ma si tratta di un unico e identico desiderio: espanderci e crescere.

Ed ecco come queste due proposizioni che sembrano opposte sono ugualmente giustificate.

1) L'influsso della nostra azione è virtualmente infinito.

Esso ingloba tutti gli effetti particolari che ne costituiscono le conseguenze.

E sia che queste conseguenze si attuino, sia che non si attuino, esso ne è gravido e quelle rimangono a suo carico.

2) Laddove c'è una decisione intenzionale, il complice, qualunque sia l'influsso subito, rimane responsabile di ciò che ha lucidamente ravvisato e deliberatamente deciso.

La legge lo punisce come l'autore principale, e a giusto titolo.

Ciascuno opera come se agisse per sé soltanto; e ciascuno opera come se agisse nell'altro e per mezzo dell'altro.

Così, per esempio, uno scrittore i cui libri hanno corrotto migliaia di lettori sarà ritenuto responsabile di tutti i germi che una volta disseminati sono cresciuti, o avrebbero potuto svilupparsi nelle coscienze, senza che tuttavia nel suo centro più intimo e nella sua indipendenza radicale egli cessi di governarsi, di poter cambiare, di realizzare il proprio destino.

L'idea che si desidera comunicare agli altri è offerta loro sotto una forma necessariamente simbolica.

Ossia c'è un lavoro di elaborazione, indispensabile nel destinatario, per penetrare sotto la scorza e per ritrovare lo spirito nella lettera.

Ciò implica al tempo stesso la salvaguardia della nostra e della sua spontaneità.

Che cosa c'è di più straordinario, a un tempo, dell'impenetrabilità di un'anima refrattaria agli influssi che l'assediano, e della fecondità dei più piccoli semi quando hanno messo le radici!

L'organismo è colpito dal contagio solo se porta in sé il germe patogeno.

Ma sebbene gli stessi semi non crescano allo stesso modo nei diversi spiriti, tuttavia, grazie a ciò che vi è di impersonale nell'opera e di comune tra i diversi soggetti, il carattere individuale di un'idea, di un desiderio, di un'intenzione può essere, per così dire, innestato su questa nuova pianta e nutrito da una linfa estranea.

I frutti colti da questa nuova pianta, anche se attingono l'alimento non alla loro origine ma altrove, ne conserveranno il sapore e la natura.

In tal modo si spiega la necessità dell'espansione, i mezzi dell'influsso, e il senso stesso di questa fecondità che fa delle azioni umane come una perenne seminagione.

Si da un processo duplice e inversamente simmetrico dalla mia volontà alla volontà degli altri, attraverso l'esecuzione materiale e i fenomeni sensibili che precedono e preparano la rigenerazione spontanea del mio pensiero in una coscienza estranea.

Infatti dopo che l'atto si è propagato dalla mia decisione fin nel corpo del segno, esso risale in senso opposto, ma attraverso una via analoga, fino alla vita riflessa del mio testimone, per sollecitare da lui un'iniziativa e quasi una complicità.

Il mio intervento, qualunque impulso peraltro gli imprima, gli appare come un motivo d'azione, ma senza vincolare la sua scelta.

E nello stesso tempo è vero che io agisco in lui e che egli agisce in sé, da solo.

Dunque l'influsso è possibile, e nel mondo delle coscienze si da filiazione e trasmissione, solo in ragione della portata universale dell'azione.

Di fatto l'intenzione che io ho messo in pratica deliberatamente viene elevata a massima universale.

Quali incalcolabili conseguenze nasconde il piccolo germe di vita soggettiva depositato nel cuore dell'azione!

Refrattario alle leggi del tempo e dello spazio, vivo, contagioso e salutare mille anni dopo o a mille leghe di distanza come nel luogo o al momento della sua prima produzione, e capace di conservare sempre, in mezzo alle sue rinascite e alle sue metempsicosi, l'impronta del suo autore e il suo marchio d'origine.

Passando all'azione, l'intenzione ha inaugurato un esodo e, per così dire, una « processione » in senso alessandrino.53

L'opera che essa costituisce segna un nuovo grado di espansione, e sotto il fenomeno che inserisce nel determinismo universale si manifestano il bisogno e il desiderio intimo della volontà.

Infatti essa tende a espandersi, a presentare all'esterno la sua immagine, a incontrare altre coscienze, a fare della sua opera esteriore lo spettacolo della ragione e il pascolo comune degli spiriti, ad animare con la sua ispirazione tutto ciò che le si accosta.

In effetti la traduzione fedele di questo istinto segreto non è forse l'ardore dell'adolescente pronto a dedicarsi a tutto, a consacrarsi, a effondersi, quasi che non gli costasse nulla, e come per un egoismo la cui stessa ingenuità e sincerità lo porta al di là delle grettezze della sua vita personale?

Il segno di questa ambizione invadente e impegnativa non è forse dato altresì da quegli slanci di generosità, da quella confidenza talvolta presuntuosa, o da quegli scoraggiamenti malinconici di un animo giovanile che crede di amare molto perché aspira a essere amato molto, e che soffre di non esserlo abbastanza, perché è lui che non ama e non è disinteressato a sufficienza?

Ma in questi sogni dell'adolescente, così colmi di tenerezza che egli vi si sente quasi fondersi e spandersi come uno zampillo d'olio, sogni cari a tutti i cuori, ispirati dall'ambizione del genio, degli onori e del potere sovrano per colare più impetuosamente; nella passione dell'artista che desidera vedere la propria gloria sbocciare come il sorriso sulle labbra o l'aurora in cielo; nell'ardente proselitismo di un'anima che muore dalla voglia di illuminare le menti, e ovunque la sovrabbondanza del cuore cerca di espandersi, si fa sentire un bisogno nuovo e più profondo.

Sembra che noi non teniamo più in alcun conto tutto ciò che gli altri sono, fanno e danno, se non abbiamo loro stessi.

È nell'opera dell'educazione che si misura meglio sia la forza sia l'impotenza dell'azione esercitata dall'influsso, e comincia ad apparire la necessità di una cooperazione più intima.

Quali risultati talvolta insperati, quando si sa manipolare, plasmare e coltivare l'animo malleabile e attivo del fanciullo!

Ma d'altra parte che cosa non si darebbe, e spesso non vi si riesce, per vincere resistenze invisibili, per abbattere quelle barriere contro cui non si urta da nessuna parte ma che si intravvedono dovunque, per accendere una scintilla, per entrare fino in fondo e toccare il cuore di coloro che abbiamo davanti, occhi negli occhi, e da cui ci sentiamo separati irrimediabilmente!

La fatica del maestro non è nulla a paragone del beneficio che prova a essere meglio gustato dai suoi alunni, a interessarli un po' di più, a far progredire in loro una nuova luce e una più elevata concezione della vita.

Non bisogna credere che questo ardore di proselitismo sia estraneo alla comunicazione del vero.

Esso è l'anima dell'insegnamento, perché è tutt'uno amare la verità e amare le intelligenze, conoscerla e volerla diffondere, cercarla in sé e suscitarla negli altri, viverne e farne vivere gli spiriti.

Pertanto il maestro e il discepolo si uniscono l'un l'altro sotto l'ascendente e nel reciproco amore per una stessa, comune verità.

Proprio perché la scienza è indigena in ciascuno e impersonale in tutti, può germogliare e fruttificare sotto lo stimolo della parola dell'insegnamento.

Ma anche questo lievito è necessario, perché la verità è vivente, amante e amata solo in uno spirito vivente.

Essa ci diventa personale solo se proviene da una persona.

Vedere nel maestro solo uno sterile maieuta significherebbe sminuirne il ruolo: egli apporta la vita e l'amore.

E la comunicazione delle idee è un'immagine dell'unione che feconda i corpi, έρως.

Ma queste esigenze non sono contraddittorie?

Quando agisco sulle forze cieche, di solito posso ottenere per coazione una loro sottomissione totale; esse mi appartengono. Sono parte di me.

Tuttavia, man mano che questi docili servi si risvegliano alla spontaneità, non crescono altresì all'insubordinazione?

E quando voglio avere a che fare con altri io, la coazione non sparisce per fare posto all'originalità indipendente di una ragione e di una libertà?

Si tratta di strane condizioni da conciliare: voglio che il mio partner sia distinto da me come io lo sono da lui; e voglio che la sua autonomia segua la mia legge.

Ho bisogno di avere con lui un'unione piena, sicura e perfetta, senza che l'unità e la dualità siano sacrificate l'u-na all'altra.

Sarà possibile risolvere queste difficoltà? - Certo.

E probabilmente vedremo persino che, proprio laddove la compenetrazione intima delle volontà sembra illusoria, l'unità diventa estremamente reale ed efficace.

Infatti non si tratterà più soltanto di atti provenienti da fonti separate per convergere in un'opera comune, e neppure di coazione o di influsso, bensì di un'unione attiva e feconda a sua volta.

Gli atti non nasceranno più da origini differenti, non saranno più i semplici strumenti di un avvicinamento e i risultati di una cooperazione.

Scaturiti da una duplice e unica sorgente, essi nasceranno dalle vite e dalle libertà fuse insieme.

* * *

L'azione non è al termine della sua espansione naturale: essa costituirà le differenti società di cui l'uomo diventa il membro, ma che in fondo egli sorregge e ingloba col suo volere personale.

Sembra strano che l'unione feconda delle volontà federate sia compresa in una sola e identica volontà, e tuttavia è così.

Anzi, per di più questo bisogno di solidarietà si estende al di là dell'umanità, fino a un legame effettivo dell'uomo con l'universo; si estende al di là dell'universo, non più fino a ciò che è, ma fino a ciò che dovrebbe essere e a ciò che si vorrebbe che fosse; più in là ancora, va fino alle soddisfazioni illusorie di un'autolatria mascherata.

La volontà esaurisce tutto, inventa tutto, ammette tutto, anche l'impossibile, per bastare a sé e per appagarsi.

Ma non vi riesce; e questa stessa pretesa è contraria al suo desiderio più intimo.

È quanto resterà da vedere.

Indice

48 Il riferimento è al § 10 della Critica del giudizio, ove si parla di " un oggetto … finalistico anche se la sua possibilità non presuppone necessariamente la rappresentazione di uno scopo ".
È noto che con tale concetto Kant intende costruire il concetto di " forma della finalità ", la finalità vigente in campo estetico.
49 Il riferimento è alla celebre formulazione con la quale nella Critica della ragion pratica Kant ha tentato di raccogliere il contenuto della legge morale: cfr. il § 7.
Ma nel contempo sembra che si voglia fare riferimento anche all'elaborazione delle molteplici formulazioni con le quali, nella seconda parte della Fondazione della metafisica dei costumi, Kant determina l'espressione del dovere.
50 Il termine, che ritorna più avanti, a p. 396, è presumibilmente l'avverbio ( secondo l'accentuazione corretta ).
Esso significa " a parte ", " separatamente ", e probabilmente nel presente contesto intende fare riferimento al modo platonico di intendere l'individualità.
51 Ci si riferisce alla commedia di Molière, Les précieuses ridicules.
52 L'adagio ricorre in F. Bacone, Novum organon II, 1. I, 3; si tratta del terzo degli Aforismi sull'interpretazione della Natura e sul regno dell'uomo.
Ivi però al posto di hominibus si legge Naturae.
53 Probabilmente qui ci si riferisce alla cristologia della scuola alessandrina, nel cui contesto la " processione " del Figlio dal Padre da luogo a un essere distinto ma al tempo stesso in rapporto di όμοουσία col Padre.