L'azione

Indice

L'unico necessario

Terzo momento

L'inevitabile trascendenza dell'azione umana

Osserviamo con un solo sguardo il cammino percorso sotto l'impellenza di un determinismo inflessibile.

È impossibile non porre il problema dell'azione.

È impossibile darne una soluzione negativa.

È impossibile ritrovarci, sia in noi stessi sia negli altri, quali vogliamo essere.

Insomma è impossibile fermarsi, ritornare indietro o andare avanti da soli.

Nella mia azione c'è qualcosa che non ho potuto ancora comprendere e adeguare, qualcosa che le impedisce di ricadere nel nulla, e che è qualcosa solo in quanto non è niente di quello che ho voluto fin qui.

Quindi ciò che ho posto volontariamente non può né abolire né conservare se stesso.

È questo conflitto che spiega la presenza obbligata nella coscienza di un'affermazione inedita.

Ed è la realtà di questa presenza necessaria che rende possibile in noi la coscienza di questo stesso conflitto.

C'è un « unico necessario ».

Tutto il movimento del determinismo ci conduce a questo referente, perché è da esso che si diparte questo determinismo medesimo, di cui tutto il senso è di ricondurci ad esso.

Ma non bisogna equivocare: nonostante un'apparenza dialettica, in questa argomentazione non c'è niente, assolutamente niente, che sia una deduzione.

Il nerbo della prova consiste nel fatto che rende manifesta puramente e semplicemente l'espansione reale della volontà.

Qui la dimostrazione non scaturisce da una costruzione logica dell'intelletto.

Non si tratta di inventare una cosa qualsiasi o di inserire nell'azione volontaria quello che non vi sarebbe ancora.

Si tratta invece di cogliervi esattamente quello che già vi si trova, e di conseguenza ciò che si esprime necessariamente a livello della coscienza e vi è sempre rappresentato sotto una forma qualsiasi.

C'è da scoprire un'incognita, ma più per un complemento di inventario che per un progresso euristico, più in vista di un arricchimento della vita attiva che per uno sterile appagamento dello spirito.

Il problema non è sapere se questo « unico necessario » è il referente astratto di un ragionamento, ma se lui pure potrà rientrare come una verità vivente nello sviluppo dell'azione voluta.

In effetti che importano gli idoli, più o meno raffinati, che l'intelligenza umana riesce a proporre a se stessa?

Non sarà certo perché daremo dell'essere una definizione più esatta, che lo possederemo meglio in noi stessi.

E forse è meglio, forse anzi si deve persino ricercarlo sempre senza pretendere di averlo trovato, per non smettere di attenderlo cessando di cercarlo.

Amen non inveniendo invenire potius, quam inveniendo non invenire te!2

I maestri della vita inferiore osservano che « negli atti della volontà, quando pensiamo alla presenza di questo unico necessario, da parte nostra ci vuole un maggiore rispetto che se facciamo uso dell'intelletto tramite la riflessione ».

In effetti più essenziale della nozione col quale lo definiamo è il modo col quale siamo indotti a proporlo necessariamente come un fine all'azione volontaria; beninteso come un fine trascendente, anche quando è già presente in essa.

Senza conoscerne il nome e la natura, possiamo presagire il suo avvicinarsi e quasi avvertire il suo contatto, esattamente come nel silenzio e nella notte si sente il passo e si tocca la mano di un amico che non si riconosce ancora.

È fuori discussione che la precisione delle definizioni metafisiche non è affatto inutile.

Come abbiamo visto, esse hanno la loro efficacia originale, e rientrano nel dinamismo generale della vita volontaria.

E tuttavia non sono le nozioni, anche le più chiare e le più corrette, che da sole ci fanno agire e agire bene.

Le opinioni e le definizioni scientifiche talvolta sono solo etichette o nomi che prendiamo a prestito, in modo da parlare di sentimenti che non abbiamo mai conosciuto.

C'è di meglio da fare che non speculare su idee sempre inadeguate da qualche lato.

Eliminiamo allora ciò che, nell'opera del pensiero, rimane arbitrario, variabile e artificioso.

In ogni stato d'animo, a ogni livello della cultura, « un unico necessario » si esibisce, si impone alla coscienza umana.

Ed è estremamente importante chiarire la scienza di questa lingua conosciuta da tutti.

Non che occorra attenersi a un sentimento indefinibile del mistero, e neppure disperare di coglierne qualcosa col pensiero o inibirsi di cercarne qualche dimostrazione necessitante.

Tutt'altro. Una dimostrazione che sia unicamente un argomento logico rimane sempre astratta e parziale, non conduce all'essere, non necessariamente rimanda il pensiero alla necessità reale.

Al contrario, una prova che promana dal movimento integrale della vita, una prova che è l'azione nel suo insieme, avrà questa forza stringente.

Per uguagliarne la forza spontanea con l'esposizione dialettica occorre quindi non lasciare allo spirito nessuna scappatoia.

In effetti la caratteristica dell'azione è di formare un tutto.

Perciò in forza di essa tutti gli argomenti parziali si uniranno in una sintesi dimostrativa.

Isolati, essi rimangono sterili, mentre uniti sono probanti.

Soltanto a questa condizione essi imiteranno e stimoleranno il movimento della vita.

Scaturiti dal dinamismo dell'azione, ne conserveranno per forza di cose l'efficacia.

I.

A rigore di termini, niente è dimostrato scientificamente se non ne abbiamo stabilito la necessità.

Per fondare una verità reale non è sufficiente supporre che è, dimostrando che nulla impedisce che essa sia.

Occorre supporre che non è, dimostrando che è impossibile che non sia.

Quando si sono precluse tutte le vie di uscita, la conclusione s'impone.

In questo senso è stato necessario, fin dal principio di questa indagine, precludere senza rimedio la via del nulla.

Questa idea del nulla non è disgiunta dall'idea dell'altro.

E l'argomento che probabilmente si potrebbe qualificare meglio di tutti come ontologico è quella controprova che dimostra l'impossibilità del non-essere assoluto, fondandosi sull'insufficienza dell'essere relativo.

Infatti, sotto quale forma si presenta alla coscienza questa idea del nulla? Sotto la forma di una negazione.

E che cosa si nega per affermarla? Tutto ciò che è oggetto immediato di conoscenza e di desiderio.

In altri termini la grandezza di tutto il resto non serve altro che a far risaltare l'eccellenza incomparabile di questo presunto nulla.

Aspirando a esso, professandolo, effettivamente si vuole e si afferma, non tanto ciò che si fa e ciò che si pensa, ma ciò che non si può né fare né pensare, e che tuttavia non ci si può impedire di volere e di affermare.

La nostra scienza, la nostra azione non è mai quale la istituirebbe una volontà limitata ai soli fenomeni.

Ecco perché, di fronte a opere fatte, a parole e idee definite, sembra che il vero nome di quell'incognita sia « morte e nulla », invece che essere e vita.

Per non ridurlo alle determinazioni e ai simboli che in qualche modo lo negherebbero, si indica ciò che non è, e non ciò che è, dicendo in tutta verità che non è nulla, nulla di tutto ciò che è.

A tal punto l'uomo è pregno del sentimento irresistibile che nella sua azione l'essenziale trascenda la realtà percepita o prodotta!

In questo contesto dunque l'affermazione è meno giusta e la negazione è più vera.

La negazione in effetti penetra più addentro nella natura di questo mistero presente nei nostri atti.

Perciò non è senza ragione che i mistici abbiano parlato splendidamente del nulla, come della sorgente profonda da cui zampilla la vita; che anime religiose abbiano mantenuto il silenzio dell'adorazione davanti all'ineffabile, per non travisarlo con le loro parole, perché nessuno è capace o degno di chiamarlo col suo nome segreto; che le menti più elevate abbiano avuto timore di negare questa misteriosa realtà nel tentativo di una definizione positiva; e che cuori amanti abbiano creduto di intravedere nell'ateismo una forma, la più rispettosa secondo loro, della pietà delicata e profonda.

Dietro questi velami si nasconde una manifestazione di venerazione per l'essere: è il nulla che per forza di cose lo professa.

Da qualsiasi parte ci si giri, lo si incontra, e anche fuggirlo è un modo di andargli incontro e di cadere tra le sue mani.

Solus est qui frustra nunquam quaeri potest, nec eum inveniri non potest.3

II.

Ma questo necessario riconoscimento acquista tutto il senso e tutta la precisione solo col complemento di un'altra lezione.

La dimostrazione dell'essere, fondata dapprima sulla totalità di « ciò che appare non essere », è decisiva soltanto se poggia nello stesso tempo sulla totalità di « ciò che appare essere ».

In effetti, come potrebbe essere messa in evidenza la pienezza del nulla, e la necessità dell'essere che vi si cela, se non con l'uso dei fenomeni e la prova della loro insufficienza?

Esplicandosi nell'universo, la volontà prende coscienza più chiaramente di se stessa e delle sue esigenze.

La natura, la scienza, la coscienza, la vita sociale, il campo metafisico, il mondo morale sono stati per lei soltanto una serie di mezzi.

Essa non può rinunciarvi, ma neppure accontentarsene.

Quindi se ne serve come di trampolini per prendere lo slancio.

Per ea quae non sunt et apparent, ad ea quae non apparent et sunt.4

Pertanto la dimostrazione dell' « unico necessario » mutua la sua forza e il suo valore dal cosmo complessivo dei fenomeni.

Senza di lui tutto è nulla, e nulla può essere.

Tutto ciò che vogliamo presuppone che egli esista, e tutto ciò che siamo richiede che egli sia.

Dunque l'argomento ricavato dalla contingenza universale può essere formulato in mille modi.

Questo unico necessario si attesta all'inizio o al termine di tutte le strade su cui l'uomo si può addentrare.

Alla fine della scienza e della curiosità della mente, in cima alla passione autentica e tormentata, agli estremi della sofferenza e della nausea, al culmino della gioia e della riconoscenza, ovunque rinasce lo stesso bisogno, sia che si rientri in se stessi sia che ci si innalzi ai confini della speculazione metafisica.

Nulla di quello che è conosciuto, posseduto, fatto, è autosufficiente e neppure si nientifica.

È impossibile attestarsi in esso, ma è impossibile rinunciarvi.

Così inteso, l'argomento a contingentici possiede tutto un altro carattere, una forza più poderosa di quanto si sia creduto di solito.

Invece di cercare il necessario al di fuori del contingente, come un termine ulteriore, lo esibisce nel contingente stesso, come una realtà già presente.

Invece di farne un supporto trascendente ma esteriore, scopre che è immanente nel cuore stesso di tutto ciò che è.

Invece di dimostrare semplicemente l'impossibilità di affermare il contingente soltanto, dimostra l'impossibilità di negare il necessario che lo fonda.

Invece di dire: « Posto che a un dato momento non esista nulla, per l'eternità nulla sarà », esso argomenta: « Dal momento che qualcosa è stato, per l'eternità l'unico necessario è ».

Invece di far leva sulla simulazione di un ideale necessario, si basa sulla necessità stessa del reale.

Infatti non bisogna presumere che i nostri atti siano nulla e che i fenomeni siano completamente vuoti.

Ciò significherebbe svisare l'esperienza comune.

In quello che fa, nella vita dei sensi, nei suoi atti e nei piaceri che gode, l'uomo avverte al tempo stesso una singolare indigenza e una più stupefacente pienezza.

Quindi non venitegli a dire che questa vita, questi interessi che lo catturano, questi stessi piaceri da cui è affascinato, sono privi di consistenza.

Noi percepiamo che in tutte queste vanità c'è già più di quanto noi stessi non sappiamo.

E se via via che si prende gusto ai fenomeni talvolta l'appetito sembra crescere, senza mai essere sazio, significa che sempre, quando vogliamo e per volere questo poco, anzitutto vogliamo altro ancora.

In questo modo quindi l'intero cosmo della natura è per noi necessariamente un garante di ciò che ci trascende.

La necessità relativa del contingente ci rivela la necessità assoluta del necessario.

Senza dubbio nella nozione di questi fenomeni che hanno, per così dire, la loro sostanza in altro, in questa forma di esistenza imperfetta di cui non possiamo enunciare la perfetta definizione, esiste un'ambiguità sconcertante in relazione alla riflessione.

Sembra cioè che noi possediamo abbastanza essere per non poterne fare a meno, troppo per potercene distaccare; ma troppo poco, per accontentarcene; di più o di meno di quanto desidereremmo, poiché ne abbiamo solo per sentire che non ne abbiamo.

Ma è esattamente questo il vero carattere del contingente: il contingente partecipa alla necessità del reale, senza condividerne il privilegio.

Ciò che è esiste necessariamente mentre è, sebbene per natura non abbia nulla di necessario.

Ecco perché le cose visibili, le scienze umane, i fenomeni della coscienza, le arti e le opere, ea quae nec sunt, nec non esse possunt, tutto in noi e fuori di noi esige « l'unico necessario ».

E se queste ombre d'essere costituiscono un fondamento solido per sostenerlo, è perché lui stesso funge da sostegno invisibile.

III.

Che cos'è dunque questa misteriosa x, che non è né il nulla né il fenomeno, sebbene non si possa concepire il fenomeno o il nulla senza includerla nel pensiero che li ammette?

Per trovarla non possiamo partire da essa, non essendovi noi inclusi, ma bisogna partire da noi, essendo essa inclusa in noi.

Nella nostra conoscenza, nella nostra azione, sussiste una sproporzione costante tra l'oggetto stesso e il pensiero, tra l'opera e la volontà.

L'ideale concepito è superato senza soluzione dall'operazione reale, e la realtà ottenuta è superata senza soluzione da un ideale sempre risorgente.

Di volta in volta il pensiero supera la prassi e la prassi supera il pensiero.

Occorre dunque che il reale e l'ideale coincidano, perché questa identità ci è data di fatto, ma ci è data solo per sfuggirci subito.

Quale singolare condizione di vita è istituita da questa reciproca e alternativa propulsione dell'idea e dell'azione!

Come due moti con velocità periodicamente ineguale si allontanano e si avvicinano di volta in volta per coincidere in un punto, sembra che tutti i nostri comportamenti oscillino intorno a un asse di coincidenza nel quale non si attestano mai, sebbene vi passino continuamente.

Dunque da noi stessi non ricaviamo né la luce del nostro pensiero né l'efficacia della nostra azione.

Energia implicata nel fondo della coscienza, verità che ci è più intima della nostra conoscenza di noi stessi, potenza che fornisce a ogni momento del nostro sviluppo la forza, l'impulso e la luce che ci vogliono, tutto ciò è presente in noi senza provenire da noi.

Noi siamo indotti per forza di cose a concepire questo mistero solo in quanto vi scopriamo nel contempo una potenza e una sapienza che ci superano infinitamente.

Dobbiamo quindi comprendere bene l'estensione di questa dimostrazione.

Essa raccoglie tutto quello che abbiamo trovato, fuori di noi o in noi, di intelligibilità e di intelligenza, di movimento e di forza, di verità e di pensiero, allo scopo di esibirne il principio comune.

La stupenda armonia dell'universo visibile, l'armonia, forse ancora più straordinaria, delle scienze, il meccanismo della coscienza, e tutto lo splendido complesso delle opere umane risultano così sospesi a questa chiave di volta, quasi come per provarne la solidità.

Questo argomento, dal canto suo, può quindi rivestire mille forme diverse, ma la sua essenza è quella di rivelare in ciò che si muove, si organizza e si conosce una sorgente comune di potenza e di sapienza.

Se tutto il resto si compendia e si fonda nella nostra azione e nel nostro pensiero, il nostro pensiero e la nostra azione non si fondano e non si fecondano reciprocamente se non grazie a « l'atto puro del pensiero perfetto ».5

In tal modo, come l'argomento cosmologico, la prova teleologica è rinnovata e corroborata dalla sua unione con le altre.

Presentarla isolatamente significa privarla del nerbo del suo valore.

Qualsiasi dimostrazione che non è all'altezza del suo oggetto, e che dimostra meno di quanto deve, è traballante.

Addossarle un compito più pesante non significa affatto indebolirla.

Per essere probante, è necessario che dimostri tutto ciò che va dimostrato.

Quindi non è sufficiente assodare con un sillogismo l'armonia dei mezzi, la grandezza dei fini, la necessità di una causa saggia e intelligente capace di istituire l'ordine dell'universo e del pensiero.

La vera prova teleologica va più in là.

Essa dimostra che la sapienza delle cose non sta nelle cose, che la sapienza dell'uomo non sta nell'uomo.

Essa non si limita a mettere in presenza l'opera e l'operaio, per intravedere la presenza e i disegni dell'uno sulla base delle qualità dell'altro; ma cerca di indagare in che modo il pensiero e l'azione coincidono, e in base a che cosa si uniscono la sapienza e la potenza.

Essa prende come punto di partenza non soltanto ciò che è già realizzato, ma anche ciò che si realizza e si perfeziona incessantemente.

Essa non commisura la Causa che afferma alla stregua degli effetti, ma, riconoscendola in essi, la colloca fuori di essi, e trova nella bellezza relativa delle cose il principio stesso di ogni bellezza.

Nella sua forma astratta, ecco come si esibisce alla riflessione questo argomento tanto ricco di aspetti svariati.

Ne il mio pensiero può adeguare la mia azione, né la mia azione può adeguare il mio pensiero.

In me c'è sproporzione tra la causa efficiente e la causa finale.

E tuttavia né l'una né l'altra possono essere in me quello che sono già senza la mediazione costante di un pensiero e di un'azione perfetti.

Tutto quello che c'è nelle cose sul piano della bellezza e della vita, tutto quello che c'è nell'uomo sul piano della luce e della potenza, ingloba nella sua stessa imperfezione e nella sua stessa debolezza una perfezione eminente.

Pertanto si profila questa triplice correlazione:

- È in noi, è nel reale che noi scopriamo come in uno specchio imperfetto questa perfezione inaccessibile.

E tuttavia, - ne noi possiamo confonderci con essa, - né la possiamo confondere con noi.

- Il nerbo di questa dimostrazione è di prendere come fulcro la nostra esperienza più intima.

Non è facendo la somma delle nostre piccole qualità, non è estraendo dalle cose la bellezza e la potenza che esse manifestano, ossia non è né per astrazione né per contrasto che scopriamo « l'unico necessario », come se fosse un ideale esterno a noi e senza radici nella nostra vita.

Lungi dall'essere una proiezione, e quasi un prolungamento immaginario del mio pensiero e della mia attività, esso è al centro di ciò che penso e di ciò che faccio: lo comprendo in me stesso.

E per passare dal pensiero all'azione o dall'azione al pensiero, per andare da me stesso a me stesso, lo attraverso incessantemente.

Perciò l'ordine, l'armonia, la sapienza che scopro in me e nelle cose non è semplicemente un effetto a partire dal quale un ragionamento mi obbligherebbe a risalire a una causa assente dalla sua opera.

Io non posso considerare quest'armonia e questa bellezza come costituita e sussistente in se stessa, non ne faccio le premesse di una deduzione.

Non invoco alcun principio di causalità, ma trovo in questa sapienza imperfetta delle cose e del mio pensiero la presenza e l'azione necessaria di un pensiero e di una potenza perfetta.

- E sebbene io trovi in me questa presenza e questa azione, non posso dire che siano mie.

Questo « unico necessario » ha ragion d'essere solo perché noi non adeguiamo noi stessi.

Per descrivere l'equazione della nostra azione volontaria, occorre gettare lo sguardo in noi fin dove finisce quello che è nostro.

Come la purezza di uno sguardo si vede nello specchio di uno sguardo puro, così la coscienza si conosce solo nella luce della vita interna alla propria vita.

Nel fondo della mia coscienza c'è un io che non è più io, ma vi è riflessa la mia immagine peculiare.

Io non vedo che in lui.

Il suo mistero impenetrabile è come lo strato di stagno che riflette in me la luce.

- Ma se lui è in me più di me, tuttavia non è me più di quanto io non sia lui.

Non adeguo me stesso perché non adeguo lui.

Non è dunque la facciata oscura del mio pensiero, il rovescio invisibile della mia coscienza e della mia azione, come se non dovessi vederlo che in me, e come se tutta la sua realtà non consistesse che nell'idea che io ne ho.

Sono indotto necessariamente a concepirlo solo perché sono indotto per forza di cose a riconoscere ciò che mi manca proprio in quello che faccio: l'identità assoluta del reale e dell'ideale, della potenza e della sapienza, dell'essere e della perfezione; ecco cos'è lui, perché io sia quello che sono.

I termini cospiranti del mistero che si impone alla mia coscienza sono pensiero e volontà, senza i quali in me non vi sarebbero né pensiero né volontà, e al tempo stesso però né il pensiero né la volontà possono comprenderli.

Ho ragione di affermare quel mistero solo perché mi è al tempo stesso necessario e inaccessibile.

Esso è ciò che non può essere fatto o pensato da me, sebbene non possa fare o pensare niente se non per mezzo di lui.

E se mi resta inaccessibile, non è per difetto di essere o di chiarezza in lui, ma in me.

Esso dunque è ciò che io non posso essere: pensiero totale e azione totale.

E lo conosco veramente soltanto perché mi è incomprensibile.

Non succede forse che per abbondanza di luce, i cui raggi infrangono i contorni degli oggetti, talvolta c'è una profondità insondabile ancora maggiore, come nello splendore del misterioso Oriente, che non in seno a un'oscurità, dove almeno si può immettere la luce?

IV.

In questo modo altresì l'argomento ontologico riacquisterà un senso e una forza nuovi.

Nell'esposizione dialettica delle prove non è indifferente seguire un ordine piuttosto che un altro.

Altrimenti ci si trova esposti al rischio di considerare l'idea di perfezione come un'invenzione arbitraria senza fondamento reale, mentre è una realtà estremamente viva nella nostra coscienza, e dalla nostra azione complessiva mutua tutta la certezza positiva già presente in noi.

Essa per noi non è tanto una visione quanto una vita.

E non deriva da una speculazione, ma è legata a tutto il movimento del pensiero e dell'azione.

Non è un'astrazione, da cui non si potrebbe ricavare che un'astrazione, ma un atto che fa agire.

Non è un ideale da cui si pretenderebbe estrarre il reale, ma un reale nel quale si trova l'ideale.

Quindi non bisogna cercare in essa ciò che solo permetterebbe di fondare un'obiezione contro di essa, una realtà distinta dall'ideale stesso.

Pertanto in questa sede, e soltanto in questa sede, è legittimo identificare l'idea all'essere, perché dietro questa identità astratta collochiamo anzitutto l'identità del pensiero e dell'azione.

Quindi non bisogna dire soltanto che andiamo dall'idea all'essere, ma bisogna dire che troviamo dapprima l'idea nell'essere e l'essere nell'azione.

Scoprendo in noi la perfezione reale, passiamo alla perfezione ideale.

Se così si può dire, andiamo da noi a essa, per andare da essa a essa.

Senza dubbio la prova ontologica per noi non ha mai tutto il valore che ha in sé.

Infatti essa è assoluta solo laddove vi è l'idea perfetta della perfezione stessa, laddove l'essenza è reale e l'esistenza ideale.

È dunque vero che per raggiungere « l'unico necessario » noi non lo cogliamo in lui stesso, non essendo presenti nel suo spazio, ma partiamo da lui presente in noi, affinché, comprendendo in parte ciò che è, possiamo vedere meglio che è.

Siamo costretti ad affermarlo nella misura in cui ne abbiamo l'idea, perché questa stessa idea è una realtà.

A poco a poco, grazie a un'esperienza più completa e a una riflessione più penetrante, precisiamo meglio a noi stessi quello che non siamo, vediamo più chiaramente quello senza cui non saremmo.

Conoscerlo e possederlo maggiormente fanno tutt'uno.

La luce in cui lui mi vede è esattamente quella in cui io vedo lui e vedo me stesso, perché è la luce in cui lui per primo si vede.

Infatti che cosa ci rivela ogni tentativo intrapreso esattamente per penetrare il mistero della perfezione?

( Infatti la prova ontologica non è che un gioco con entità di ragione, se le mancano questo coraggio e questa portata necessari ).

Se per noi la perfezione è un mistero, non è perché non ci sia nota, o perché non conoscerebbe se stessa, ma è proprio il contrario: è perché noi di necessità pensiamo che ci conosce e conosce se stessa assolutamente.

Ai nostri occhi la sua oscurità è costituita da un eccesso di luce.

Mentre nei nostri atti avvertiamo una sproporzione irrimediabile, nel suo asseriamo un'identità immediata.

Essa ci appare impenetrabile per quello che ne conosciamo.

La sua intimità inaccessibile non ci sfugge perché ci è estranea, ma perché ci è più intEriore del nostro intimo.

Quello che crea in noi sconcerto è che non possiamo adeguare noi stessi.

Quello che ci sconcerta in lei è l'equazione assoluta tra l'essere, il conoscere e l'agire.

È un soggetto nel quale tutto è soggetto, anche la coscienza che ha di sé, anche l'operazione intima con la quale si realizza, trovando una risposta uguale al suo appello e un amore corrispondente al suo.

E come la personalità non potrebbe essere isolata, essendo una solo in quanto non è sola, così parlare di questa misteriosa perfezione come se in essa l'esistenza differisse dalla conoscenza o la conoscenza dall'azione, significherebbe degradarla al livello delle imperfezioni, che, riconosciute in noi, ci hanno indotto a passare in essa.

Essa senza la trinità è più incomprensibile di quanto la trinità stessa non sia incomprensibile all'uomo.

La trinità costituisce l'argomento ontologico trasferito sul piano dell'assoluto, laddove questa prova non è più una prova, ma la verità stessa e la vita dell'essere.

E non è certo riducendola, o evitando di definirla con precisione, che si renderà più accettabile al pensiero questa verità necessaria.

O tutto o niente. Ed è impossibile che sia niente.

È più facile, più scientifico riconoscere il massimo della verità necessaria, che non accontentarsi di un minimo vago e indeterminato.

La superstizione consiste nel limitarsi a un argomento parziale o a una conclusione frammentaria.

Prendiamo la nozione di una causa prima o di un ideale morale, l'idea di una perfezione metafisica o di un atto puro.

Tutti questi concetti della ragione umana sono vuoti, falsi e idolatrici se li consideriamo isolatamente come rappresentazioni astratte; sono invece veri, vivi ed efficaci quando, essendo cospiranti, non sono più un gioco dell'intelletto ma una certezza pratica.

Quindi quello che la fatica discorsiva del pensiero rende lungo e lascia sterile diventa immediato e pratico, se nella molteplicità delle prove si recupera il mezzo per presentarle tutte insieme.

Tutte insieme sono più semplici e più dirette che non ciascuna separatamente.

Esse hanno valore unicamente per la loro unità sintetica.

Infatti, proprio grazie a questo concatenamento, esse riproducono e contengono il movimento della vita, provengono davvero dagli insegnamenti dell'azione e ritornano all'azione per insegnarla e animarla.

È dunque esattamente nella prassi che la certezza dell' « unico necessario » possiede il suo fondamento.

In ciò che concerne l'intera complessità della vita solo l'azione è a sua volta necessariamente completa e integrale.

Essa investe il tutto.

Perciò da essa, e solo da essa, deriva la presenza indiscutibile e la prova cogente dell'Essere.

Le sottigliezze dialettiche, per quanto siano articolate e ingegnose, non hanno maggior valore di una pietra scagliata da un bambino contro il sole.

E colui che nessun ragionamento sarebbe in grado di ritrovare si manifesta in noi in un attimo, in un solo slancio, per una necessità immediata.

Perché nessuna deduzione adegua la pienezza della vita agente, e lui è precisamente questa pienezza.

Quindi solo lo sviluppo integrale e concreto dell'azione lo rivela in noi, non sempre con tratti che lo rendano riconoscibile alla mente, ma in maniera da farne una verità concreta e da renderlo efficace, utile e afferrabile da parte della volontà.

Al termine, presto raggiunto, di ciò che è finito, fin dalla riflessione prima, eccoci in presenza di ciò che il fenomeno e il nulla nascondono e manifestano allo stesso modo, di fronte a cui non si può mai parlare di memoria come se fosse un estraneo o un assente, davanti a colui per riconoscere il quale tutte le lingue e tutte le coscienze hanno una sola parola e un solo sentimento. Dio.

V.

Quando ci si accosta a Dio e quando, grazie alla prima riflessione, che ci proietta davanti a lui sempre presente e sempre inaudito, ci si risveglia alla luce della sua visione, c'è come un blocco improvviso; la vita sembra sospesa, e non si procede oltre.

- Sì, si procede oltre. In qualsiasi forma si esibisca alla coscienza, l'idea di Dio vi è introdotta da un determinismo che ce la impone.

Scaturita necessariamente dal dinamismo della vita interiore, essa produce per forza di cose un effetto, e ha un influsso immediato sull'organizzazione della nostra condotta.

Occorre, beninteso, precisare questa azione necessaria dell'idea necessaria di Dio.

Vedremo come l'atto volontario rivesta inevitabilmente un carattere trascendente, e come questa necessità sia l'espressione stessa della libertà.

Perciò, grazie al gioco del determinismo, il conflitto sorto nella coscienza si risolve per forza di cose in un'alternativa, la quale prospetta alla volontà umana un'opzione ultimativa.

I - L'idea di Dio in noi dipende doppiamente dalla nostra azione.

Da una parte, proprio perché agendo scopriamo in noi una sproporzione infinita, siamo costretti a cercare all'infinito l'equazione della nostra azione.

Dall'altra, proprio perché affermando la perfezione assoluta non riusciamo mai ad adeguare la nostra affermazione, siamo costretti a cercarne il complemento e l'elucidazione nell'azione.

Il problema posto dall'azione può essere risolto soltanto dall'azione.

Quando si reputa di conoscere Dio a sufficienza non lo si conosce più.

Indubbiamente l'attimo della sua apparizione nella coscienza rassomiglia talmente all'eternità, che si ha quasi paura di entrarvi interamente, con lo sguardo teso verso il bagliore che si è acceso solo per oscurare la notte.

Ma la mistura di ombra e di luce rimane tale, che sono ugualmente confuse sia la presunzione di chi crede di vedere sia la pretesa di chi fa finta di ignorare.

Contro coloro che ci vedono troppo chiaro bisogna tenere fermo che in ciò che conosciamo e vogliamo Dio rimane ciò che non possiamo né conoscere né fare.

Contro i ciechi volontari bisogna tenere fermo che senza complicazioni dialettiche e senza lunghi studi, in un batter d'occhio.

Dio è per tutti, e a ogni momento, la certezza immediata senza la quale non ce n'è altra, la luce primordiale, la lingua conosciuta senza averla appresa.

Egli è l'unico che non si possa cercare invano, senza che mai possa essere trovato pienamente.

Nemo tè quaerere valet, nisi qui prius invenerit: vis igitur inveniri ut quaeraris, quaeri ut inveniaris; potes quidem quaeri et inveniri, non tamen praeveniri.6

Quindi nel momento in cui pare di avvicinarsi a Dio con un guizzo del pensiero, egli sfugge, se non lo si trattiene, se non lo si cerca con l'azione.

La sua immobilità non può essere presa di mira come un bersaglio fisso se non con un moto perpetuo.

Ovunque ci si fermi, egli non c'è; ovunque ci si muova, egli c'è.

È una necessità passare sempre oltre, perché egli è sempre al di là.

Quando non ne rimaniamo più stupefatti, come davanti a una novità inesprimibile, e quando lo consideriamo dal di fuori come un argomento di conoscenza o una mera occasione di indagine speculativa, senza la giovinezza del cuore e senza l'inquietudine dell'amore, è finita; tra le mani non abbiamo altro che un fantasma e un idolo.

Tutto quello che abbiamo visto o udito a proposito di lui è soltanto un mezzo per andare più avanti; è una strada, non ci si fermi dunque, altrimenti non è più una strada.

Pensare a Dio è un'azione; ma, altresì, noi non agiamo senza cooperare con lui e senza farlo collaborare con noi, con una specie di teoergia necessaria che reintegra nell'operazione umana la parte di Dio, in modo da creare nella coscienza l'equazione dell'azione volontaria.

E proprio perché l'azione è una sintesi dell'uomo con Dio, essa costituisce un perenne divenire, come se fosse tormentata dall'aspirazione di una crescita infinita.

Il pensiero, quando si adagia in se stesso e si accontenta di sé, è un mostro.

La sua natura è di introdurre un dinamismo progressivo nell'espansione della vita.

È un frutto della vita unicamente per diventare un germe di nuova vita.

Ecco perché inevitabilmente l'idea del trascendente impone all'azione un carattere trascendente.

Beninteso non bisogna immaginare che, per innestare nella nostra vita questo carattere di trascendenza, occorra sempre discernere la presenza o riconoscere chiaramente l'azione di Dio in noi.

Per riconoscerla, per farne uso, non è indispensabile chiamarlo per nome o definirlo.

Possiamo persino negarlo, senza togliere ai nostri atti la loro portata necessaria.

Infatti negandolo, non si fa altro che spostare l'oggetto dell'affermazione.

Ma la realtà degli atti umani non è raggiunta, nel suo fondo, dal gioco superficiale delle idee e delle parole.

È sufficiente che, sia pure mascherato e travestito, il bene universale abbia sollecitato segretamente la volontà, perché la vita intera rimanga segnata da questa impronta indelebile.

Per sentire il suo appello o avvertire il suo contatto non c'è bisogno di fissarlo.

Quello che per forza di cose nasce in ogni coscienza umana, quello che nella prassi ha un'efficacia ineludibile, non è la nozione di una verità speculativa da definire, bensì la convinzione, forse vaga, ma perentoria e incontrovertibile, di un destino e di un fine ulteriore da raggiungere.

Infatti non si tratta di qualche dettaglio della condotta da chiarire o di decisioni parziali da prendere, ma ciascuno è indotto a preoccuparsi decisamente del carattere complessivo dell'intera sua vita.

Un'inquietudine, un'aspirazione naturale verso il meglio, il sentimento di un ruolo da assolvere, la ricerca del senso della vita: ecco, tutto questo segna con un'impronta necessaria la condotta umana.

Qualunque risposta vi si dia, il problema si pone.

L'uomo annette sempre ai suoi atti questo carattere di trascendenza, per quanto se ne renda conto solo oscuramente.

Quello che fa non lo fa mai tanto per fare.

Qui dunque abbiamo a che fare col principio che anima tutto il movimento della vita in noi.

Per vivere, diciamo così, metafisicamente non c'è bisogno di aver risolto alcun problema metafisico.

L'argomento ontologico è applicabile anche a noi.

Il pensiero e l'azione si esplicano in noi soltanto perché in tale contesto l'essenza diventa reale e l'esistenza ideale.

Non lo si può negare senza mentire a se stessi.

E non lo si nega veramente, perché la menzogna non cambia minimamente la necessità delle verità che mimetizza.

Quindi, non attribuendo più ai punti oscuri o agli errori speculativi l'importanza che di per sé soli non hanno, bisogna in ultima istanza vedere qual è l'effetto necessario di Dio presente nell'uomo.

Questa presenza ha un'efficacia incontrovertibile, in qualunque forma la sua verità si riveli alla coscienza, in forma chiara o confusa, nella forma del consenso o del rifiuto, in forma riconosciuta o anonima.

Quel che più di tutto ci interessa è lo studio di questo meccanismo superiore.

II - Nata dall'impulso stesso del determinismo, di un conflitto in seno alla coscienza umana, l'idea necessaria di Dio con un ultimo progresso del determinismo risolve questo conflitto in un'alternativa ineludibile.

Siccome sono obbligato a concepire e ad assegnare al mio pensiero e alla mia azione un referente superiore, è altresì una necessità che senta il bisogno di adeguare a esso il mio pensiero e la mia vita.

L'idea di Dio ( che lo sappiamo nominare o meno ) costituisce il complemento ineludibile dell'azione umana.

Ma, a sua volta, l'azione umana ha l'indeclinabile ambizione di raggiungere e di adoperare, di definire e di realizzare in sé quest'idea della perfezione.

Ciò che conosciamo di Dio è questo eccesso di vita inferiore che reclama di essere impiegato.

Quindi non possiamo conoscere Dio senza volerlo diventare in qualche modo.

L'idea viva che abbiamo di lui non è e non resta viva se non si trasforma in prassi, se non si vive di essa e non se ne nutre l'azione.

Qui, come altrove, la conoscenza non è mai altro che una conseguenza e un'origine di attività.

Ma in quale aporia ci siamo impegolati?

L'uomo avverte un invincibile bisogno di conquistare Dio.

E proprio perché non può farlo, crede in lui e lo afferma.

Ma non crede in lui e non lo afferma veramente se non usando di lui e praticandolo di fatto.

Per noi Dio non ha ragion d'essere se non perché è ciò che non possiamo essere noi stessi e non possiamo fare con le nostre sole forze.

E tuttavia risulta che noi non abbiamo essere, volontà e azione se non in vista di volere Dio e di diventarlo.

Sembra che egli si interponga tra noi e noi, che ci divida fin nelle giunture delle ossa, e che noi dobbiamo passare, se così osiamo dire, sul suo corpo.

E tuttavia non abbiamo potere su di lui.

La nostra volontà muore laddove egli nasce in noi, la nostra opera cessa laddove comincia la sua e, per meglio dire, la sua sembra assorbire tutto ciò che vi è di reale nella nostra.

Quindi quello che è di nostra pertinenza è di essere senza essere, e tuttavia siamo obbligati a voler diventare ciò che non possiamo raggiungere o possedere da soli.

Che singolare esigenza! Proprio perché ho l'ambizione di essere infinitamente, sento la mia impotenza, non ho fatto me stesso, non posso quello che voglio, sono costretto a trascendere me stesso.

E allo stesso tempo non posso riconoscere questa debolezza radicale se non intravedendo già il mezzo per sfuggirvi, col riconoscimento di un altro essere in me, con la sostituzione di un'altra volontà alla mia.

In tal modo, grazie al meccanismo della vita interiore, eccoci condotti di fronte a un'alternativa che sintetizza tutti gli insegnamenti della prassi.

L'uomo da solo non può essere quello che già è suo malgrado, quello che presume diventare volontariamente.

Allora vorrà vivere o no, fino a morirne, se così si può dire, consentendo di essere soppiantato da Dio?

Oppure avanzerà la pretesa di essere autosufficiente senza Dio, di trarre profitto della sua presenza senza renderla volontaria, di mutuare da lui la forza per fare a meno di lui, e di volere infinitamente senza volere l'infinito?

Volere e non potere, potere e non volere, è questa precisamente l'opzione che si prospetta alla libertà: « Amarsi fino al disprezzo di Dio, amare Dio fino al disprezzo di se stessi ».

Beninteso questa opposizione tragica non si rivela a tutti con tale chiarezza e con tale rigore.

Ma se l'idea che c'è « qualcosa da fare della vita » si presenta a tutti, ce n'è abbastanza perché anche gli uomini più comuni siano chiamati a risolvere il grande compito, l'unico necessario.

Dunque il determinismo dell'azione finisce per suscitare nella coscienza umana un'alternativa.

E l'utilità di tutte le analisi pregresse è di esibire ciò che ingloba necessariamente l'opzione della volontà.

Poco importa se le analisi stesse sono manchevoli.

L'importanza della scelta non dipende dalla spiegazione che si tenta di darne.

È sufficiente che agendo deliberatamente si realizzino in un sol colpo tutte quelle condizioni implicite.

Avendo assegnato al determinismo la sua parte, siamo riusciti a determinare esattamente quella della libertà.

Essa si compendia interamente proprio in quell'opzione, perché la volontà si esercita pienamente solo laddove c'è una posta in gioco degna di essa.

È bene aver fatto l'analisi di tutto il contenuto dell'azione volontaria, ma tale analisi non deve nasconderei il principio che ne opera la sintesi.

La serie dei mezzi si organizza nella coscienza soltanto in vista di questo problema decisivo.

Tutto il movimento della vita sfocia qui.

Il fenomeno più elementare non sarebbe per noi quello che è, senza il legame che lo collega a qui.

Sicché, all'inverso, la conoscenza del fenomeno più insignificante ha come compito di farci risalire, attraverso la catena del determinismo, a questa libera decisione da cui dipende il destino di ciascuno.

In tal modo la volontà dell'uomo si propone la serie dei mezzi che hanno come effetto di imporle l'esercizio del suo potere.

Beninteso proprio nel quadro di tale necessità la volontà non subisce nulla che non abbia voluto.

Senza dubbio l'alternativa sorge per forza di cose davanti alla Coscienza, ed è altresì una necessità pronunciarsi.

Ma non equivochiamo. A dire il vero l'opzione ci è imposta; ma proprio grazie a essa noi diventiamo ciò che vogliamo.

Qualunque cosa ne debba derivare, non potremo prendercela che con noi stessi.

Perciò in ultima analisi non è la libertà a essere assorbita nel determinismo, ma è il determinismo globale della vita umana a dipendere da quest'alternativa ultimativa: o escludere da noi qualsiasi altra volontà diversa dalla nostra, o affidarsi all'essere altro da noi come all'unico che ci salva.

L'uomo aspira a fare il dio.

Il dilemma è: essere dio senza Dio e contro Dio, o essere dio per mezzo di Dio e con Dio.

Di fronte all'essere, e all'essere soltanto, la legge di contraddizione si applica in tutto il suo rigore, e la libertà si esercita in tutta la sua forza.

La necessità, per l'uomo, di scegliere non fa altro che manifestare la sua volontà di essere, e di essere ciò che vuole.

La sua azione quindi ha un essere necessario.

Ma questo essere si rivolge contro di lui, se avanza la pretesa di trovarlo o di conservarlo interamente in se stesso.

Se la sua libertà, di fronte all'alternativa che si impone a lui, non lo avvia a una forma nuova di vita, egli si perde.

È inutile conoscere già questa vita superiore, per poi sapere che, se i suoi atti la respingono, egli fallisce il suo destino.

Non essere cambiato per l'uomo è la morte dell'azione.

Egli dunque non potrà vivere se non rinascendo, per così dire, nello sforzo di una nuova generazione, e aprendosi a un'azione altra dalla sua.

Ma, in qualsiasi modo si risolva il conflitto, l'opzione della libertà non abolirà quanto c'è di essere necessario nell'azione voluta.

Indice

2 Citazione di Agostino, dalle Confessioni I, 6 in J.-P. Migne, Patrologiae Cursus Completus. Series Latina ( Parigi 1844-1855 ), 32, 665.
3 La frase è una citazione di san Bernardo, De consideratione XI, 24 in op. cit., Ili, 486
4 L'espressione latina ricalca espressioni bibliche: cfr. Sap 13,1 e Rm 1,19-20.
5 Per questa formula cfr. Aristotele, Metafisica, A, 7 e 9
6 Citazione di san Bernardo, De diligendo Dea VII, 2 in op. cit:. III, 137ss. Cfr. anche il testo di sant'Agostino In Johannem, tract. 63, 1