L'azione

Indice

La vita dell'azione

Seconda opzione

I surrogati e i preparativi dell'azione perfetta

L'azione non può confinarsi nell'ordine naturale: non ci sta tutta.

E tuttavia, da sola, non può oltrepassarlo.

La sua vita è al di là delle sue possibilità.

L'uomo con le sue sole forze non riesce a restituire volontariamente ai suoi atti tutto ciò che vi si trova spontaneamente.

Se presume di limitarsi a quello che può, se pretende di ricavare da sé quello che fa, si priva del principio stesso della sua vita.

Per ristabilire nell'azione voluta la pienezza della sua natura originaria, non occorre forse che egli consenta che la Causa prima vi riprenda il primo posto?

Tocca all'uomo cedere il passo.

Quello che non sopprime in sé lo uccide.

E la sua volontà personale gli impedisce di giungere alla sua volontà autentica.

È quindi una necessità per lui riconoscere la propria dipendenza nei confronti di quest'ospite misterioso, di sottomettere la propria volontà alla sua.

Deve passare di là.

Altrimenti non c'è alcun modo di risolvere il problema, quel problema che egli pone e ratifica col proprio pieno assenso.

Vuole che si sia esigenti nei suoi confronti, perché è il segno della grandezza della sua natura, la risposta alla fervida avidità della sua vocazione.

Per questo la sua è una ricchezza bisognosa, poiché per lui niente di quello che ha voluto e ha fatto è acquisito, né può sussistere, se non ne trova il possesso e la consistenza in quel Dio presente e nascosto nel cuore di ogni azione volontaria.

E quello che in questa sede bisogna chiamare Dio è un sentimento del tutto concreto e pratico.

Per trovarlo non occorre rompersi la testa, ma bisogna metterci il cuore.

Ma allora, come insediarlo liberamente nella vita umana, perché questa immanenza assecondata del trascendente integri in ultima istanza l'operazione riflessa della volontà, adeguando quello che vuole a ciò che è voluto e posto nell'azione?

La volontà umana, in quello che proviene da essa grazie alla riflessione, avverte l'irrimediabile insufficienza del proprio atto, così come l'invincibile bisogno di portarlo a compimento.

Contratta nelle sue sole risorse, essa non può fare altro che riconoscere la propria ignoranza, la propria debolezza e il proprio desiderio.

Infatti solo riconoscendo la sua impotenza infinita è fedele alla sua ambizione infinita.

Quale può essere il modo pratico ed efficace per fare infine ciò che non possiamo fare da soli?

E siccome l'atto può essere portato a termine solo se Dio si dona a noi, come sostituire in qualche modo la sua azione alla nostra?

Come partecipare alla sua mediazione occulta, senza sapere neppure se lui ha parlato, senza forse conoscerlo chiaramente?

Come prestarsi e aprirsi agli equivalenti dell'azione perfetta, e prepararsi, qualora se ne dia una, a una rivelazione più chiara del destino umano?

C'è dunque una transizione alla vita?

I.

Se c'è qualcosa che si reputa buono o per una conoscenza personale o per un insegnamento ricevuto, è necessario aderirvi con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le proprie forze, altrimenti si incorre nella condanna della propria coscienza.

Tutto ciò che è conforme alla coscienza, anche se quest'ultima fosse errata senza volerlo, esige dall'uomo un'effettiva dedizione.

Per questo certi costumi barbari o certi riti superstiziosi possono fungere da materia per la buona volontà e da veicolo dell'ispirazione salvifica.

Ma con quale riserva? Con la riserva che nell'atto particolare e nel simbolo finito l'intenzione vada al di là del simbolo e dell'atto.

Di modo che, adempiendo al dovere conosciuto in mancanza di meglio, rimaniamo aperti, pronti e docili a qualsiasi verità più completa.

La disposizione di una volontà retta è questa: agire secondo la luce e la forza che si ha, senza limitare la generosità e l'ampiezza del desiderio.

Bisogna dunque ritornare alla norma pratica che fin dall'inizio era apparsa come la garanzia dell'autenticità dell'azione e la chiave del destino umano: consegnare se stessi e l'universo a ciò che si reputa il bene.

Ma questa norma adesso è giustificata e chiarita.

In tal modo è risolta la contraddizione apparente che fa del dovere al tempo stesso il trionfo e il sacrificio della volontà.

In effetti da una parte si è riconosciuto che l'intera gerarchia dei beni naturali esprime semplicemente l'anelito più intimo del volere umano, e che aderire a esso a qualsiasi costo significa in definitiva fare ciò che si vuole genuinamente.

D'altra parte sembra che ci voglia un sacrificio e quasi un'immolazione mortificante per essere fermamente fedeli agli obblighi morali, mentre è la cosa più naturale del mondo e la più desiderabile.

Per essere precisi non si tratta unicamente di fare tutto il bene che vogliamo, nella misura in cui lo vogliamo quasi spontaneamente con un movimento di libera adesione, bona omninofacere.

La cosa essenziale e faticosa è fare bene quello che facciamo, ossia con spirito di sottomissione e di distacco, di farlo perché vi sentiamo l'ordine di una volontà alla quale si deve sottomettere la nostra, bene omniafacere.

Così si spiega che i precetti morali ci sembrino molto meno la formula del nostro volere ( e tuttavia lo sono, in un senso estremamente vero ) che l'espressione di un'autorità sovrana, verso cui nostro primo dovere è riconoscere il suo diritto su di noi.

Riflettiamoci infatti: più la morale scientifica dimostrerà di essere conforme agli autentici interessi dell'uomo o di risultare dalle esperienze positive accumulate dalle generazioni ( e questo è esatto ), più sarà necessario chiarire come mai soltanto l'uomo, per un'inclinazione al male, va contro il proprio bene, allontanandosi dalla tradizione sperimentata.

Se quindi, in quello che è il bene e il suo bene, egli misconosce il proprio bene respingendo il bene, ciò avviene perché in realtà vi vede a ragione una volontà altra dalla sua, e per accoglierla pienamente ha bisogno di abnegazione.

Senza dubbio è grazie a un impulso naturale che la ragione provvede ai bisogni e agli interessi legittimi, non tanto perché sono interessi quanto perché sono legittimi.

È grazie a quell'impulso che presta ascolto ai sentimenti generosi, non tanto perché allettano la sensibilità quanto perché sono generosi.

L'intera gerarchia di questi beni naturali è una sorta di scala apprestata per le ascensioni della volontà.

E tuttavia, se non facciamo altro che quello che ci alletta e ci sembra vantaggioso, non andiamo lontano nella via del dovere, o meglio non vi entriamo davvero,.

Non vi entrano neppure gli uomini e i popoli che preservano la dignità del loro contegno solo in quanto hanno coscienza di imporre a se stessi i loro obblighi specifici.

In verità è più facile obbedire alla legge che ci facciamo da noi e piegare la volontà davanti alla sola volontà.

Ma ciò significa sottrarre alla vita morale tutto il fondamento di umiltà e di abnegazione che le è necessario.

Stando alla testimonianza immediata della coscienza, l'azione è buona quando la volontà, per compierla, si sottomette a un'obbligazione che esige da essa uno sforzo e, diciamo così, una vittoria su se stessa.

E questa testimonianza è fondata, perché di fatto c'è un bene autentico solo laddove sostituiamo a tutte le attrattive, a tutti gli interessi, a tutte le preferenze naturali della volontà una legge, un ordine, un'autorità assoluta, laddove facciamo entrare nei nostri atti un'iniziativa diversa dalla nostra.

Unus est bonus Deus.

Il dovere è il dovere soltanto nella misura in cui si obbedisce intenzionalmente a un comandamento divino.

Si tratta di una sottomissione pratica che peraltro è indipendente dalle affermazioni o dalle negazioni metafisiche.

C'è un modo di servire Dio senza nominarlo e senza definirlo, e questo è « il Bene ».

Perciò il disinteresse morale è assoluto, anche per chi sa scientificamente che il suo interesse supremo consiste nel bene.

Perché è impossibile che, aderendo agli obblighi della coscienza, non si abbia la sensazione di rinunciare alla nostra volontà peculiare.

È impossibile che, obbedendo alla legge, non ci sembri di sacrificare per sempre, senza un tornaconto e senza una perequazione precisa, i piaceri attraenti, il cui fascino maggiore consiste probabilmente in questa illusione, che lasciandoli cadere ci si preclude per sempre quel mondo infinito di godimenti nel quale l'uomo sembra non dovere niente se non a se stesso.

È impossibile che, rimanendo fedeli a qualsiasi costo al patto divino, nel momento critico della decisione e nelle angustie dell'azione spesso tribolata come un parto, non smarriamo il sentimento di lavorare per noi, e persino di lavorare per un padrone partecipe e compassionevole; come se, sordi, fossimo costretti a cantare davanti a un sordo o per uno che è assente.

Agire per quello che non è niente all'occhio dei sensi e persino della mente costituisce quell'apparente follia che esige la ragione quando arriva fin dove deve arrivare.

Pertanto, qualunque sia il valore naturale del motivo che sollecita la volontà, è necessario in qualche modo ammortizzarlo, prima di restituirgli un valore veramente morale.

Tale valore non sarà più fondato sul grado di conformità di questo motivo col nostro volere personale, ma sul suo carattere propriamente obbligatorio e imperativo.

Sta sine electione et elige.

Esiste un solo modo di conciliare i contrari e di dominare i desideri opposti: quello di sacrificare le diverse alternative, anche quelle che sceglieremo, di recuperarle unicamente con un sentimento superiore all'attrattiva naturale che ci sollecitava.

Altrimenti sarebbe troppo doloroso avere delle preferenze, dissolversi col tempo, sentirci sfuggire tra le mani una parte seducente e buona della realtà.

Acquisiamo il merito di equiparare tutto, di amare tutto e di ridurre tutto a nulla di fronte al bene infinito, in modo da diffondere in tutto la presenza esclusiva di questo assoluto.

L'autentica libertà interiore consiste nel non farsi mai determinare dalla passione, sia pure la passione del bene, nel tenersi sempre pronti, qualunque cosa si desideri, a compiere l'atto contrario, in modo tale che, se è bene, si ritorna all'inclinazione originaria soltanto con un cuore cambiato; consiste nel desiderare addirittura di avere piacere per tutto quello che si sacrifica e ripugnanza per tutto quello che si fa.

In un certo senso quindi il distacco perfetto e universale ci congiunge in maniera assolutamente genuina a tutto, senza vincoli e senza disistima, perché ci rende al tempo stesso perfettamente indifferenti alle forme particolari dell'azione e del tutto dediti al grande e supremo motivo che solo trasmette a tutti gli altri e ai più insignificanti il suo valore infinito.

Che importanza ha una differenza di grado, a confronto di Dio che ci destina a lui, e di fronte al quale tutto è buono e tutto è cattivo, a seconda che lo riferiamo a lui o che lo rifiutiamo a lui?

Non che ci dobbiamo disinteressare assolutamente del contenuto naturale degli atti umani.

Infatti, se questi atti finiti devono esprimere e realizzare il bene che non sussiste se non in quanto è infinito, ciò avviene a condizione che compiamo il migliore, perché è il migliore che funge da involucro transitorio e sempre mutevole del bene stesso.

Un miliardo o un centesimo che cosa sono a confronto di un'azione buona?

Che cos'è il mondo intero? Lo sentiamo bene.

E in tutte le cose che riguardano noi stessi non dobbiamo forse giudicare come se si trattasse di un altro, o come se fossero in gioco gli affari di stato di Amenofi a centomila anni e a centomila leghe di distanza, sul piano dell'assoluto e dell'universale, facendo calare l'azione dalle serene profondità dell'eternità, quasi appartenesse al regno dei morti?

È dunque necessario che l'idea di infinito divenga viva in noi, che sia voluta e praticata, che agisca e regni in noi, che in qualche modo si sostituisca a noi.

Essa può farlo sempre, e noi dobbiamo consentirglielo.

Assolviamo quindi al nostro compito, che è quello di abbandonare la nostra angusta visuale individuale per realizzare in noi l'assoluto e noi nell'assoluto, quello di immettere l'universale in ogni forma particolare della nostra vita, in modo da dare un valore infinito al relativo e al particolare.

La libera necessità che costituisce il carattere dell'azione divina non è forse anche l'ideale dell'azione umana?

L'azione umana non deve lasciare fuori di sé nulla di quello che costituisce l'uomo.

Essa fa vivere tutto quello che c'è in lui, coniuga tutte le sue tendenze contrarie, e lo eleva al di sopra delle opposizioni contingenti che frammentano la sua coscienza.

Ma non può restaurare quella perfetta semplicità se non rimuovendo la volontà propria, per restituire al bene che la sollecita attraverso aspetti particolari il suo carattere assoluto e totale.

Chi non possiede più una volontà propria fa sempre la sua volontà, e proprio non volendo niente, ci si trova ad aver fatto quello che si è voluto.

La tentazione sempre insorgente nel cuore dell'egoista si esprime in questo rigurgito dell'orgoglio e della sensualità: " Fa' cosi; puoi farlo, perché la tua natura è unica, perché la circostanza è straordinaria, perché le norme comuni non si applicano a te ».

Questo è un sofisma della passione, alla quale presta ascolto la persona presuntuosa sempre pronta a etichettare ogni suo passo e a far mettere tutto in ginocchio davanti a ogni battito del suo cuore.

Al contrario l'azione buona è quella che nell'uomo stesso trascende e immola l'uomo.

Ogni volta che compiamo un dovere dobbiamo sentire che esso ci strappa la vita, sostituisce la nostra volontà e suscita in noi un essere nuovo.

Infatti bisognerebbe morire piuttosto che non compierlo, e vivere per assolverlo già implica che un altro vive in noi.

Ogni atto è come un testamento.

Bisognerà certo avere il tempo di morire: bisogna vivere come se si stesse per morire, con quella semplicità che va dritto all'essenziale e al vero.

Quindi è assolutamente buono e voluto soltanto quello che non siamo noi stessi a volere, ma che Dio vuole in noi e da noi.

Ma, se in quello che vogliamo con la migliore intenzione, nell'azione che più è conforme alla nostra aspirazione intima, c'è già una mortificazione, che sarà di tutto quello che contrasta, umilia e mortifica il volere?

Se, per agire bene, bisogna sopportare di essere sostituiti da una volontà, conforme certo, ma superiore alla nostra, ciò non avviene forse perché nella stessa sopportazione, in tutto ciò che ripugna alla nostra natura, c'è bisogno di un'azione più coraggiosa, per far rientrare anche il dolore e la morte nel piano volontario della vita?

Ma non avviene altresì perché questa mortificazione è la verifica autentica, la comprova e l'alimento dell'amore generoso?

Non amiamo il bene, se a causa sua non amiamo ciò che vi è di meno amabile.

Laddove siamo meno presenti, il bene è padrone.

II.

Se all'origine dell'azione buona c'è un principio di rinuncia, di passione e di morte, non sorprende che in tutto lo sviluppo della vita morale si incontri costantemente la sofferenza e il sacrificio.

Si è già visto come la sofferenza serva a stimolare lo sviluppo della persona, come sia un mezzo di formazione, un segno e uno strumento di risarcimento o di progresso.

Essa ci libera dall'illusione di volere il meno per assurgere a volere il più.

Ma accettare la stessa sofferenza, acconsentirvi, ricercarla e amarla, farne il segno e l'oggetto stesso dell'amore generoso e distaccato, collocare l'azione perfetta nella cornice della passione dolorosa, essere attivi fino alla morte, fare di ogni atto una morte e della morte stessa l'atto per eccellenza, tutto questo costituisce un'apoteosi della volontà che sconcerta comunque la natura, e che di fatto genera nell'uomo una vita nuova e più che umana.

L'accettazione della sofferenza dà la misura del cuore dell'uomo, perché essa costituisce in lui l'impronta dell'altro.

Anche quando proviene da noi per insediarsi, col suo aculeo lancinante, nella coscienza, ciò avviene sempre nonostante l'aspirazione spontanea e l'impulso originario del volere.

Per quanto sia prevista, per quanto ci esponiamo in anticipo ai suoi colpi con rassegnazione, per quanto possiamo essere sedotti dal suo fascino austero e vivificante, essa nondimeno rimane un'estranea e un'importuna.

È sempre diversa da come ce l'aspettavamo.

E sotto i suoi assalti anche colui che l'affronta, che la desidera e l'ama, non può esimersi di odiarla al tempo stesso.

Essa uccide in noi qualcosa per mettervi qualche altra cosa che non è nostra.

Ed ecco perché ci rivela quello scandalo della nostra libertà e della nostra ragione: noi non siamo ciò che vogliamo.

E per volere tutto quello che siamo, tutto quello che dobbiamo essere, occorre che comprendiamo e accettiamo la sua lezione e la sua benedizione.

Pertanto la sofferenza in noi è come una seminagione: grazie a essa entra in noi qualcosa, senza di noi e nostro malgrado.

Accettiamolo quindi, prima ancora di sapere che cos'è.

Il contadino lascia cadere la sua semente più preziosa, la nasconde sotto terra, spargendola al punto che sembra non ne resti niente.

Ma proprio perché il seme è sparso, resta e non lo si può portare via, marcendo per essere fecondo.

Il dolore è come questa decomposizione necessaria alla nascita di un'opera più piena.

Chi non ha sofferto per una cosa non la conosce e non l'ama.

E questo insegnamento si sintetizza in una parola, ma ci vuole del fegato per intenderla.

Il senso del dolore è di rivelarci quello che sfugge alla conoscenza e alla volontà egoista, di essere la via dell'amore effettivo, perché ci sottrae a noi per darci agli altri e per spronarci a donarci agli altri.

Infatti esso non opera in noi il suo benefico effetto senza un concorso attivo: costituisce una prova perché costringe le disposizioni recondite della volontà a manifestarsi.

Guasta, inacidisce e indurisce coloro che non riesce a intenerire e a migliorare.

Rompendo l'equilibrio della vita indifferente, ci mette in grado di scegliere tra quel sentimento personale che ci porta a ripiegarci su noi stessi escludendo con violenza ogni intrusione, e quella bontà che si apre alla tristezza che feconda e ai germi apportati dai grandi acquazzoni della prova.

Ma la sofferenza non è soltanto una prova, è una prova d'amore e un rinnovamento della vita interiore, come un bagno rigenerante per l'azione.

Essa ci impedisce di acclimatarci in questo mondo, e ci lascia vivere nel mondo quasi con un malessere incurabile.

In effetti che cosa significa acclimatarsi, se non trovare il proprio equilibrio nell'ambito angusto in cui si vive fuori del proprio ambiente?

Quindi sarà sempre una novità dire: ovunque ci giriamo, ci troviamo male.

È bene avere questa sensazione.

Il peggio sarebbe non soffrire più, come se si fosse trovato l'equilibrio e si fosse già risolto il problema.

Senza dubbio nella calma di una vita ordinaria o nel raccoglimento della speculazione spesso la vita sembra aggiustarsi da sola.

Ma di fronte a un dolore reale non vi sono belle teorie che non risultino inutili o assurde.

Quando ci si accosta a qualcosa di vivo o di sofferente, i sistemi risultano vacui, le idee inefficaci.

La sofferenza costituisce il nuovo, l'inspiegabile, l'ignoto, l'infinito che trapassa la vita come una spada rivelatrice.

Perciò si scopre una specie di reciprocità o, per così dire, di identità tra l'amore autentico e la sofferenza attiva.

Infatti senza l'educazione del dolore non si arriva all'azione disinteressata e coraggiosa.

L'amore ha per l'anima gli stessi effetti che la morte ha per il corpo: trasferisce colui che ama in quello che ama, e quello che è amato in colui che ama.

Amare significa quindi amare di soffrire, perché significa amare la gioia e l'azione dell'altro in noi.

Si tratta di un dolore amabile e persino prezioso, cui acconsentono coloro che lo provano e che non lo scambierebbero con tutta la dolcezza dell'universo.

Se per l'uomo soffrire è bene, non lo è per convenzione, ma per una ragione ricavata dal fondo delle cose.

Capire bene che il dolore produce la gioia infinita e autentica non significa forse aver risolto la difficoltà ultimativa della vita e aver soppresso lo scandalo più acuto per la coscienza umana, offrendo in fin dei conti alla nostra volontà quella grande consolazione di poter approvare tutto?

Quando si possiede il segreto di trovare la dolcezza nella stessa amarezza, allora tutto è dolce.

Ma non è ancora sufficiente.

Se la sofferenza è la verifica e la prova della volontà generosa e intrepida, è perché essa a sua volta è l'effetto e come l'atto medesimo dell'amore.

Infatti, se è vero che siamo più laddove amiamo che non laddove siamo, ossia laddove la nostra volontà personale è ricoperta e sostituita da una volontà contraria, è evidente che ogni movimento dell'interesse personale non è più un guadagno, ma una perdita, e che qualsiasi arricchimento apparente diventa un impoverimento reale.

Lo spettacolo delle gioie e dei festeggiamenti è amaro per il cuore in angustie.

Così ogni gratificazione troppo assaporata è penosa per colui che ama il bene più del proprio bene.

La privazione, non l'appagamento, è fonte di gratificazione.

Infatti l'inquietudine degli uomini eguale anche nelle condizioni più disparate è una verità gravida di insegnamenti.

Non appena si forma l'equilibrio, in uno stato di fortuna o d'animo, per quanto basso o alto che sia, non vediamo altro che quello che rimane da desiderare, e la minima mancanza pare un vuoto infinito; e lo è.

Se si riesce a colmare questo vuoto, la stessa impressione insorge di nuovo ancora più inquietante, a dimostrazione che tutti i godimenti e tutti i possessi attuali sono ugualmente privi di valore a confronto del bene che auspichiamo.

Quanto dunque è più saggio orientare le nostre aspirazioni in senso inverso di coloro che vanno in cerca di queste gratificazioni deludenti!

È senza dubbio costoso, ma salutare, amare tutto ciò che ci mette sull'avviso della nostra grandezza insaziabile, preferire il meno al più e le privazioni che saziano ai piaceri che incentivano la fame, essere contenti nel sentimento della nostra carenza.

La sofferenza è la via che procede e che si inerpica, e per andare molto avanti basta senz'altro voler farsi portare.

La felicità non consiste in quello che abbiamo, ma in quello di cui facciamo a meno e ci priviamo.

Perciò, anche il bene che facciamo, occorre farlo come se non fosse nostro.

A tutti i livelli il sacrificio della volontà personale costituisce per l'uomo la via maestra della vita.

Quello per cui ci priviamo, vale infinitamente di più di quello di cui ci priviamo.

Praticare questo metodo rigoroso di mortificazione equivale a mettere in evidenza e in libertà quella piccola eccedenza di forza che in noi trascende tutte le potenze naturali.

Non si guadagna l'infinito come se fosse una cosa, ma solo col vuoto e con la mortificazione gli si apre un varco in noi.

E basta avere un minimo di magnanimità e di avidità spirituale per godere più di quello che non si possiede che di quello che si ha.

Quindi non appagarsi di niente che sia finito è il segno di una volontà genuina e coerente con la sua pristina generosità.

Essa non solo accetta la sofferenza causatagli dall'azione degli altri come un dono doloroso e istruttivo, ma con la propria iniziativa, e dilatando tutte le sue possibilità di amare, crea in sé una specie di passione volontaria e di morte permanente.

Lungi dal farsi piccola, quasi per evitare troppi contatti quando si modella sulle circostanze, essa si ingrandisce senza misura per essere ovunque alle strette come sotto una pressa.

L'uomo, con la sua intenzione deliberata, adegua la pienezza della sua aspirazione spontanea solo a condizione di annullare la propria volontà, instaurando in se stesso una volontà contraria e mortificante.

Non che cessi di sentire, fin nella carne viva, il tormento della sua natura amante dell'indipendenza, perché la radici riposte dell'amor proprio, continuamente tagliate e sempre risorgenti, non possono andar distrutte.

Ma neppure deve trattare il suo nemico interiore con una specie di collera e di asprezza violenta, perché il sacrificio, invece di indurire il cuore, spesso rende più teneri i sentimenti che reprime.

Non fare niente di quello che si sceglierebbe, e farlo con grazia e dolcezza, significa avere in sé una volontà altra dalla propria, significa essere morti, ma per essere già risuscitati alla vita, e attingere il principio dell'azione alla sua scaturigine.

La mortificazione quindi costituisce l'autentica sperimentazione metafisica, quella che investe l'essere stesso.

Quello che muore è quello che impedisce di vedere, di fare, di vivere; quello che sopravvive è già quello che rinasce.

Sopravvivere a se stessi rappresenta la verifica della volontà buona.

Essere morti non sarebbe niente; il vero capolavoro dell'uomo è questo: sopravvivere a se stesso, sentirsi spogliato delle proprie gioie intime e dei propri gusti di indipendenza, essere in questo mondo come se non ci fosse, trovare per tutti gli impegni umani più entusiasmo nel distacco di quanto non se ne possa attingere alla passione.

Tanta gente vive come se non dovesse mai morire; ma questa è un'illusione.

Bisogna vivere come se fossimo morti; è questa la realtà.

Se mettiamo nel conto questo infinito della morte, come tutto cambia di segno!

E quanto è poco avanzata la stessa filosofia della morte!

Il fatto è che niente surroga la pratica di questo metodo delle rimozioni volontarie.

Quante poche persone l'hanno sperimentato!

Quanti vorrebbero strappare alla sua presa proprio quello che bisogna consegnarle, senza immaginare che la morte può e deve essere l'atto per eccellenza!

È questo il segreto del sacro terrore che la coscienza moderna prova, come l'aveva sentito l'anima antica, accostandosi al divino, al suo solo pensiero.

Se nessuno ama Dio senza soffrire, nessuno vede Dio senza morire.

Nulla viene a contatto con lui senza essere risuscitato; perché nessuna volontà è buona, se non è uscita da se stessa, per lasciare tutto lo spazio all'invasione totale della volontà di Dio.

Indubbiamente non è necessario, anzi addirittura non sempre è utile, conoscere la ragione e il beneficio di questa misteriosa sostituzione operata dalla sofferenza accettata con coraggio, ottenuta dalla generosità di un cuore di cui nulla di finito circoscrive l'aspirazione, compiuta dalla morte che viene affrontata o subita con magnanimità.

Questo che è lungo da spiegare, difficile da giustificare, spesso nella pratica richiede solo un semplice sforzo capace di compendiare e di trasfigurare tutta un'esistenza.

Quanto poco ci vuole per trovare accesso alla vita!

Un minimo atto di dedizione, in una forma popolare e talvolta infantile, è probabilmente sufficiente perché in un'anima venga concepito il germe divino, e venga risolto il problema del destino.

III.

Ma per preservare intatto il pudore della coscienza, e quella sincerità generosa che altro non è che una volontà perfettamente coerente con se stessa, rimane essenziale un'ultima disposizione.

Compiere tutto il dovere che sappiamo e che possiamo, dovessimo arrivare fino allo spargimento del sangue, soffrire e morire per guadagnare ciò senza cui nessuna vita merita di essere vissuta, ecco, tutto questo è bene, ma è insufficiente.

Dopo aver fatto tutto senza aspettarci nulla da Dio, bisogna aspettarsi tutto da Dio come se non avessimo fatto niente da noi.

C'è quindi da temere quella riposta presunzione che rappresenta un ritorno ultimativo della volontà propria.

Volentieri ci persuadiamo che le sole forze umane riescano, in forza di qualche necessità naturale, a portare a termine la grande opera della salvezza.

No, esse non portano a termine questa enorme fatica, perché non la cominciano neppure.

Reputare che la rinuncia alla propria volontà da parte dell'uomo costituisca una sua opera originale, convincersi in fin dei conti che questa abnegazione sia perfettamente valida, espiatoria e salvifica, significa ancora una volta regredire all'illusione iniziale, equivale a perdere di vista la verità del Dio vivente e trattarlo ancora come un oggetto inerte, opera della mano dell'uomo e materia docile al suo arbitrio, insomma significa donarlo a se stessi, non donarsi a lui.

È dunque necessario ( qui sta la difficoltà della via stretta che conduce alla vita ) accordare queste due disposizioni pratiche: fare tutto quello che possiamo, come se dovessimo contare unicamente su di noi; ma allo stesso tempo convincerci che tutto quello che facciamo, per quanto necessario, è radicalmente insufficiente.

La forza e la luce che abbiamo non ci potrebbero appartenere legittimamente se non in quanto lo riferiamo anzitutto al suo principio.

In un certo senso l'azione deve essere tutta dell'uomo, ma in prima istanza è necessario che sia voluta come se fosse tutta di Dio.

In questa perfetta sintesi dell'uno con l'altro non si può dire che la prima parte dell'atto viene dall'uno e la seconda dall'altro.

No, ciascuno deve agire per il tutto.

Solo a questa condizione c'è comunione tra le due volontà.

L'una non può nulla senza l'altra.

E tuttavia l'azione, essendo opera comune, procede interamente da ciascuna.

Non basta quindi concepire buoni desideri e nobili intenzioni, aspettando, per eseguirli, di essere mossi da un'ispirazione estranea.

Non basta che la volontà sia incinta, occorre che abbia partorito.

Non viviamo nel regno di quello che vorremmo fare; perché è il regno di quello che non facciamo e che non faremo mai.

Bisogna agire, anche laddove la pusillanimità ci convince che è impossibile.

Come non dobbiamo fare assegnamento senza riserve sulla solidità degli atti compiuti, perché quello che in essi viene dall'uomo è sempre esposto al deperimento, allo stesso modo non bisogna diffidare delle opere future, perché dobbiamo sempre attendere un soccorso e una collaborazione onnipotente.

È sempre il medesimo sentimento che conduce l'uomo a quella timorosa circospezione riguardo al passato in cui si è impegnato, e a quella coraggiosa iniziativa di fronte al futuro in cui deve considerare che un altro da sé è già presente.

Allora di fronte al problema del suo destino l'unico atteggiamento che convenga all'uomo è quello di agire per quanto è possibile, secondo la forza e la luce che possiede, ma con la coscienza di non trovare in se stesso il principio, il mezzo e il fine della sua azione, di non ritenere mai di essere arrivato alla fine, di ricominciare sempre daccapo con lo slancio del giovane soldato e il timido entusiasmo del novizio.

Il dovere è di cercare senza scoraggiarsi, perché non cercheremmo se non avessimo già trovato quello che non raggiungiamo mai fino in fondo, e che invece perdiamo quando presumiamo di averlo a portata di mano.

Quindi mentre agiamo nel miglior modo possibile, dobbiamo desiderare ulteriormente il bene che non conosciamo e che non facciamo.

Dobbiamo vivere col sentimento che il presente non è una dimora permanente, ma un luogo di passaggio e quasi un trapasso continuo.

Dobbiamo vivere con la paura di adeguarci fin troppo a questa vita morente, fruendo della dose di pace che essa offre alle persone miti e a quelle navigate.

Indubbiamente in questo modo dobbiamo sopportare il peso di un giogo.

Tuttavia, questo fardello della vita morale, pur essendo pesante quando lo vagliamo e lo solleviamo, diventa leggero via via che avanziamo, e rende leggero tutto il resto.

Onus cuncta exonerans.

Così come per l'uccello le piume che porta, lungi dall'essere un peso, lo sollevano.

Ma se in tal modo l'uomo deve proiettare i suoi atti al di là del tempo e dello spazio, fuori del finito e fuori di se stesso, ciò non, avviene per un'inconsistenza del desiderio o per un appetito da infermo, che non potrebbe tollerare niente di solido, pur essendo sempre affamato.

Infatti questa inquietudine tenace è positiva solo nella misura in cui stimola l'attività presente, proprio mentre non ci consente mai di limitarci a essa.

È l'azione stessa che deve somministrarci, insieme al cibo che sazia, quella energia ricostituente tipica della salute e quella fame insaziabile che è il segno di una volontà sana e integra.

È necessario che noi collochiamo fuori di noi l'origine di questo movimento volontario, incluso il nostro desiderio di concepire buoni desideri.

Anche quando ci limitiamo a chiedere di possedere di che donare, questa preghiera non proviene interamente da noi, e non è una preghiera se non in quanto contiene almeno implicitamente questo riconoscimento.

All'iniziativa assoluta dell'uomo è necessario sostituire liberamente, essendovi implicata necessariamente, l'iniziativa assoluta di Dio.

Non è in nostro potere di conferirci questo potere, né di consegnarci a noi stessi.

Il nostro compito è fare in modo che Dio sia tutto in noi, così come lo è da sé, e di trovare alla stessa scaturigine del nostro consenso alla sua azione sovrana la sua presenza efficace.

La vera volontà dell'uomo è il volere divino.

Riconoscere la propria passività radicale è per l'uomo la perfezione dell'attività.

A chi riconosce che Dio fa tutto, Dio concede di aver fatto tutto; ed è vero.

L'unico metodo per guadagnare l'infinito è quello di non appropriarsi di nulla.

Egli è presente ovunque noi non ci apparteniamo più.

Ma anche qui, soprattutto qui, come questa disposizione salvifica è indipendente dalla scienza astratta che possiamo averne!

Perché la sincerità sia integra, è necessario e sufficiente che agendo come meglio sappiamo ci fondiamo, col desiderio e con l'intenzione, su colui, conosciuto o ignoto, che solo può ispirare, sostenere e perfezionare l'abbozzo di creatura che noi siamo.

Noi non abbiamo né la forza di fare, quando si tratta di compiere una buona azione, né il mezzo per espiare, quando si tratta di rimediare a una mancanza volontaria.

È quindi necessario riconoscerlo per rimanere nella verità.

La verità si espande solo nei vasi vuoti.

Se gli operai dell'ultima ora sono chiamati a riscuotere il compenso quasi senza aver lavorato, è perché prima non sono stati assunti da nessuno e non hanno avuto affidato alcun compito.

Perciò è necessario che in fondo al cuore rimanga sgombro un cantuccio da dove l'ospite ignorato e desiderato arrivi a toccare l'anima.

Egli può donarsi solo laddove gli venga fatto posto.

Ma, in mancanza di ogni altra evidenza a suo riguardo, quanta rettitudine e generosità autentica presuppone quel sentimento di bisogno che si ha della sua operazione!

Per invocarlo così ancora prima di conoscerlo, bisogna essere rimasti fedeli fino in fondo alla genuinità del buon volere: disposizione estremamente semplice questa, che può essere prodotta da un solo istante, forse da un semplice impulso del cuore, ma che abbraccia l'infinito.

Sembrava che lo sforzo supremo della volontà fosse quello di sacrificare tutto quello che ha e tutto quello che è.

Ed ecco invece che questo stesso sforzo è insufficiente, qualora ce ne attribuissimo il merito o ne ammettessimo l'efficacia.

È fuori dubbio che questa è la via sicura e dritta per amare l'invisibile; per desiderare al di sopra di tutte le cose quello che rinunciamo a possedere al presente; per perdere tutto al fine di salvare l'unica cosa che conti e che meriti di essere; per morire, se necessario, al fine di vivere, perché sembra impossibile giungere all'essere senza attraversare la morte: è il consenso dell'uomo all'assoluto, è la partecipazione del nulla che noi siamo alla vita reale grazie all'oblazione della vita apparente.

E tuttavia tutto questo è niente ancora senza la coscienza dell'impotenza naturale, dell'impossibilità stessa in cui versa l'uomo di raggiungere con le sue sole forze il suo fine necessario.

Aristotele ne aveva un presentimento, quando diceva: nell'uomo c'è una vita migliore della vita dell'uomo.

E questa vita non può essere alimentata dall'uomo.

È necessario che qualcosa di divino abiti in lui.

A rigore la nozione del soprannaturale è questa: assolutamente impossibile e assolutamente necessario all'uomo.

L'azione dell'uomo trascende l'uomo; e lo sforzo supremo della sua ragione consiste nel vedere che egli non può, che non deve circoscriversi a essa.

È un'attesa sincera del messia ignoto, un battesimo di desiderio che la scienza umana è impotente a provocare, perché questo stesso bisogno è un dono.

La scienza può mostrarne la necessità, non può farlo nascere.

In effetti se bisogna istituire una associazione reale e cooperare con Dio, come presumere di riuscirvi, senza riconoscere che Dio rimane padrone assoluto del suo dono e della sua operazione?

Questo riconoscimento è necessario, ma cessa di essere efficace, se non facciamo appello al mediatore ignorato, se ci chiudiamo al salvatore rivelato.

* * *

Mostro come l'idea stessa di una Rivelazione rientra nello sviluppo interiore della coscienza umana, di modo che, venendo dal di fuori, non può tuttavia agire al di dentro che in forza di una congruenza previa.

- Indico a quali caratteri questo dato, in apparenza esteriore, deve la sua autorità e il suo credito intrinseco.

- Infine faccio vedere quale ne è l'utilità: è necessario che essa abbia una funzione e un'efficacia pratica, se vogliamo che la misteriosa conoscenza dell'incomprensibile rivelato abbia un senso e in qualche modo si umanizzi.

Essa pure quindi viene a inquadrarsi nel dinamismo dell'azione.

La scienza umana non deve indagare se è reale o persino se è possibile, ma deve mostrare, in nome del determinismo, che è necessaria.

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