L'azione

Indice

La morte dell'azione

Prima opzione

L'ambizione dell'uomo non era quella di essere autosufficiente, da sovrano di se stesso?

Pronto a riconoscere la sua dipendenza in rapporto a esseri uguali o inferiori, egli acconsente a tutte le catene naturali purché non debba riconoscere un padrone, non debba pregare un Dio.

Senza dubbio egli sente che le sue azioni trascendono l'ordine della natura, che in esse c'è più che un sistema di fenomeni comuni, e che la sua vita ha un significato di cui non la può liberare.

Ma, dopo tutto, questo mistero del proprio destino non gli appartiene come tutto il resto?

Non è egli capace di ridurre a proprio piacimento la portata della sua condotta, e di rinunciare all'onore di una vocazione troppo sublime per non essere molesta?

Oppure, se non è più padrone di non volere affatto « l'unico necessario », se non può ignorare o dimenticare completamente che è impossibile respingerlo o mistificarlo come un idolo inanimato, non pretende forse di usarne a suo piacimento, di misurargli il posto, di dargli quel poco che gli aggrada di dare per avere il tutto che ha bisogno di avere?

Questi desideri e queste speranze hanno sempre travagliato le coscienze umane.

E, in particolare, travagliano oggi molte anime che si sono emancipate da qualsiasi fede, ma non da qualsiasi inquietudine religiosa.

Non è forse vero che da Dio si vorrebbe tutto, eccetto Dio stesso?

Che dopo averlo escluso, per godere di tutto senza di lui, lo si vorrebbe ancora, quasi suo malgrado?

Non è forse vero che, qualsiasi cosa si faccia, sembra che alla fine si debba essere sicuri della salvezza, e degni di una felicità senza la quale non riusciamo a capire che l'essere possa essere veramente?

È il mito dell'eroe audace che ha rubato il fuoco al cielo, e che giunge al trionfo finale senza essersi pentito.

È l'antica leggenda dell'uomo mortale che ha amato una dea immortale, nonostante i divieti sacrali, e che si deifica, a onta degli dei che costringe a riconoscere questa divinità conquistata contro di loro.

È « la fine di Satana », proclamata come il mezzo per finirla col Padrone e col Giudice temuto.

- Si tratta di illusioni artificiose che urge dissolvere.

Infatti poco importa che non sempre si distinguano nettamente le conseguenze necessario di quello che si fa: non è questo che impedisce loro si svolgersi regolarmente.

Non c'è bisogno di nominare e di definire le colpe commesse, per conoscerle e volerle.

La scienza autentica è quella che è efficace nella prassi, come la vera libertà è quella che determina la volontà nella formidabile e decisiva questione: senza Dio o per Dio.

Essere autosufficiente, limitarsi a quello che vuole e a quello che può: qual è la portata di questa pretesa dell'uomo?

Come può egli sussistere, rifiutando il principio di qualsiasi sussistenza?

Ma in che modo gli è impossibile abolire in sé quello che esclude da se stesso?

In che modo gli è impossibile trovare, in quello che impedisce alla sua azione di morire, il principio di un ritorno alla vita?

Un essere senza l'Essere, un destino volontario che ci si rifiuta di volere, una morte che non muore più: ecco la singolare soluzione di cui bisogna rendere ragione.

I.

L'azione volontaria crea un'equazione nella coscienza solo in quanto si riconoscono in essa la presenza e il concorso dell' « unico necessario ».

Se noi non siamo e non possiamo niente senza di lui, e se è impossibile che noi non siamo nulla, allora in base a che cosa spiegare che la volontà possa riconoscerlo senza accettarlo, o possa negarsi senza distruggersi?

Che cos'è questa stupefacente mutilazione?

Ovvero come comprendere che è sempre per mezzo di Dio che noi possiamo persino quello che possiamo senza di lui e contro di lui?

In quello che è volontario c'è dunque qualcosa che può non essere affatto voluto?

E in quello che è voluto, c'è qualcosa che può non essere volontario?

- Sì; ed è proprio questa contraddizione intima che costituisce la morte vera e propria dell'azione.

La disposizione consistente nel non volere tutto quello che vogliamo convincendoci di volerlo, mentre non lo vogliamo e lo sappiamo, è contorta, se badiamo alle parole che la esprimono a livello di riflessione, ma è assai semplice e assai frequente nella prassi che la innesta nella vita.

Quanti uomini palesemente non hanno più niente nel cuore, come se nulla fosse assente dal loro cuore!

E il grande sforzo del pensiero moderno non tende forse a giustificare questa assicurazione dell'uomo di fronte al suo destino?

Ma andiamo al fondo di questa pretesa.

La coscienza può benissimo ritagliarsi addosso quasi un secondo abito di sincerità, enunciando che si trova in condizione di sicurezza, senza vuoto e senza inquietudine.

Se analizziamo il modo stesso con cui si convince di trovare la sua requie, scopriremo la molla interna che glielo impedisce.

Se indaghiamo come è possibile per l'uomo rinunciare al proprio destino, troveremo in che modo gli è impossibile sottrarsi a esso.

Non ci deve stupire che la potenza infinita inglobata nell'azione volontaria possa applicarsi e quasi esaurirsi in un termine finito.

È più stupefacente, se vogliamo, che l'azione volontaria possa ritrovare, sotto il simbolo dei fini limitati che la sollecitano, il termine infinito al quale aspira.

Non bisogna dimenticare che il bene universale potrebbe prospettarsi alla coscienza unicamente con tratti particolari.

Nella misura in cui muove la volontà come il principio e la causa efficiente di una vita bramosa di espandersi, il bene conserva davvero la sua infinità.

Nella misura in cui si propone davanti al pensiero come un oggetto da conquistare e come la causa finale dell'azione, esso non è più che un motivo parziale e limitato.

Ecco perché il senso del movimento che trascina la volontà umana è ambiguo.

In apparenza quello che è finito è quello stesso Dio cui bisogna tendere; quello che è infinito è l'aspirazione del cuore, quello che parte dall'uomo, siamo noi.

Ma osservate l'equivoco che l'azione si incarica di dissolvere: vorremo forse monopolizzare quel grande slancio dell'autenticità attiva, rivolgendolo verso di noi?

O al contrario vorremo, attraverso un libero riconoscimento, restituire a quel finito apparente di Dio la sua infinitezza reale, riferendo a lui quel movimento che pareva provenire da noi, e che invece proviene da lui per ritornare a lui?

Dunque l'azione, che sembrava assurda e impossibile, è fin troppo facile.

Con quanta rapidità la violenza della passione o l'orgogliosa perversione dell'intelligenza inducono la volontà, così piena della sua potenza derivata, ad autocompiacersi e a limitarsi a se stessa!

Quanto è facile dimenticare chi è colui che si cela sotto questa ispirazione di forza e di luce!

E tuttavia egli è lì, presente e velato, nel sentimento del meglio che sublima senza soluzione ogni vita, in quell'ordine oscuro del dovere che sprona l'egoismo, nello stesso rimorso che mantiene tuttora fermi i diritti dell'ideale sulle colpe morali e le rovine del cuore.

Egli è lì, in quei doni perenni della coscienza, più di quanto non sia nel concetto più chiaro che ci possiamo formare della sua essenza.

Ed è proprio per questo che monopolizzare a profitto dell'uomo e dei suoi desideri egoistici questo pristino slancio dell'autenticità, mentre sembra di optare tra motivi limitati, significa immettervi invece l'immensità stessa.

Comportandosi come limitata, aderendo agli oggetti di cui ha riconosciuto l'insufficienza, cercandovi la soddisfazione infinita cui anela, la volontà, se così si può dire, si obiettiva in sé e si soggettiva in essi.

Giudicando sufficiente la loro insufficienza, trovandoli degni di sé, immette in se stessa la loro debolezza, e immette in essi la propria infinità: si perde.

Quindi sia che l'uomo, invece di adorare Dio in Dio, adori se stesso nei suoi sensi e nella natura, sia che ( per adoperare il linguaggio di Spinoza ), trovando in sé l'infinito della Sostanza che lo fa essere, separi dalla Sostanza stessa questa forma dell'infinito per applicarla al suo essere particolare e limitato, in ogni caso la stranezza di quest'opzione incoerente si spiega fin troppo.

E non c'è bisogno di essersela spiegata per cadervi.

Questa formidabile questione si decide per ciascuno sotto il simbolo dei motivi più ordinari e nel conflitto dei sentimenti più semplici.

Quello che sfugge alla conoscenza è la formula astratta, non la realtà concreta della scelta, ne il sentimento che, dietro queste insignificanti futilità con le quali ci trastulliamo, c'è un dramma di cui noi siamo la posta in gioco.

D'altra parte, anche supponendo che il male non sia che un bene minore, proprio senza snaturare l'intrinseca verità è possibile esprimere, con un calcolo rigoroso, questa alternativa drammatica che nessuna vita umana evita di dissolvere.

Ecco in ipotesi due atti che allo sguardo della coscienza giudico di valore ineguale.

Io non so quale dei due è il bene, ma vedo che uno è migliore; è un dovere.

Noto questo rapporto di qualità, mettiamo 7 e 13. Io opto per 7.

Probabilmente è l'attrattiva facile di un piacere, di un guadagno che mi fa rifiutare 13, laddove sentivo maggiore affanno, uno sforzo necessario, un piccolo sacrificio da fare, perché quello che è meglio non è esente dal richiedere qualche impegno di lotta e di dedizione.

7-13=-6. È sembrato che avessi qualcosa con la fruizione di 7; ed è per questo che la vita più vuota e più indebitata possiede ancora un vacuo sentimento di pienezza e di abbondanza.

Ma in realtà ciò che possiedo è -6.

Ecco la tremenda, sorprendente e giusta bancarotta dell'azione deficiente!

A quelli che non hanno sarà tolto anche quello che hanno. ( Lc 19,26 )

E in verità se scelgo o 13 o 7, riflettendoci, vi posso mettere qualcosa di più.

È esperienza incontrovertibile e quotidiana che in un atto che ci appare buono, obbligatorio per noi, oltre a questo piccolo bene relativo c'è altro.

Infatti, amandolo e volendolo come si conviene, sono pronto a sacrificarlo a uno migliore, non per il gradimento che vi trovo, perché quello che sembra migliore in sé spesso è più difficile e più penoso per noi.

Quindi non è questo bene che voglio e faccio, ma ciò che esso rappresenta; qualcosa che è indeterminato, che non ha posto nel mondo e non ha affatto influenza naturale o attrattiva sensibile; un nulla, che nel linguaggio dei matematici potrà essere chiamato, se si vuole, l'infinito ( l'infinito che non ha segno, e per questo occorre che si prospetti a noi con la mediazione di un motivo particolare da cui dipenderà il carattere positivo o negativo dell'atto ); qualcosa che nella coscienza di tutti non ha neppure bisogno di essere nominato per essere il dovere.

Io ho preso 7. Sotto questo simbolo finito ho compromesso tutto quello che sono, tutto quello che dovrei essere.

Riprendendo una via condannata, debbo rispondere di ciò che ho rifiutato di conoscere, che ho omesso di sperimentare, rifiutato o temuto di praticare.

L'uomo dedito ai piaceri reputa di non essere privo di qualsiasi generosità, di non indebitarsi: 7-13 ∞ == - ∞.

Bisogna quindi dirgli e che possiede qualcosa e che perde tutto.

E più avverte il misero nulla di quello che ama, più abusa della forza indistruttibile e della luce che ha.

A quelli che credono di avere sarà tolto anche quello che non hanno.

Indubbiamente l'alternativa non si prospetta a tutti né sempre con uguale chiarezza né con la medesima gravita.

Se, nel contesto dell'oggetto che la volontà si propone come fine, essa subisce l'attrattiva del movente che la coinvolge, più di quanto non pensi o non acconsenta all'abuso della sua potenza infinita, l'opzione, anche se perversa, rimane veniale.

Ma c'è colpa grave, riflessione mortale quando, in questo bene particolare che si disprezza, si ha il sentimento di respingere al tempo stesso ciò di cui esso non è che l'espressione, ciò che è bene amare e fare.

Se sembra più colpevole rubare un milione che un soldo, è perché si sente istintivamente che, dal momento in cui si è risvegliata la riflessione, la violenza della tentazione e l'attrattiva naturale del motivo non sono niente a confronto della potenza che governa l'azione.

È vero che con l'impercettibile progresso della perversione l'uomo può giungere al punto di amare quello che chiama il male per il male stesso.

Ponendo nel piacere della rivolta o nella provocazione della passione esaltata dalla coscienza della sua illusione l'equivalente di tutto ciò che dovrebbe volere, egli sente che nell'azione indipendente c'è qualcosa di falso e di voluto, e ancor più vi si intestardisce, con l'ostinazione del superbo che non è disposto a subire una smentita né a riconoscere, neppure sotto sotto, il proprio torto.

Ma non è frequente, e neppure necessario, perché l'azione sia gravata di morte, che si giunga a questa scienza astratta o a questo amore formale del male.

E non costituisce scandalo per il pensiero la sola ipotesi di un male morale e di un male infinito, che sarebbe commesso dall'uomo ignorante e limitato, di un male inescusabile, mentre l'uomo ha tante scuse, per la debolezza dell'intelligenza, la brevità della vita, la deficienza della sua intelligenza?

Che significa allora, quando si aggiunge che, se l'uomo rifiuta di trascendere ciò che è dell'uomo puramente uomo, contrae un debito, e un debito che è per sempre incapace di saldare?

Nondimeno cerchiamo di capire questa duplice affermazione.

- La virtù puramente umana, per quanto buona in se stessa, non ha un valore infinito; essa non ha valore per la felicità integrale, e non porta a compimento il destino dell'uomo.

- La colpa puramente umana, e la sola pretesa di non trascendere l'ordine umano, implica un male tale da giustificare non solamente la privazione del bene, ma l'eternità dell'infelicità.

Quanto è impellente chiarire questo mistero, poiché tante anime ottenebrate e proterve sono convinte dei due errori esattamente con-trari a queste due verità!

II.

Se è possibile applicare a un referente limitato l'infinita tendenza della volontà, risulta impossibile distruggere questo carattere di infinitezza in quel referente.

È impossibile neutralizzare la forza del movimento, mentre è facile stravolgerne il senso.

È impossibile sottrarsi alla grandezza del destino umano, anche se lo si fallisce.

Per quanto ci si dedichi completamente all'oggetto del desiderio, per diventare simili a lui, non ci si riduce alla misura dell'idolo preferito, ma l'agente, pur diventando ciò che fa, preserva interamente nella sua azione le esigenze cui non da soddisfazione.

Non si tratta di un di più facoltativo al quale si potrebbe rinunciare, rifiutando l'onore per evitare l'onere, o il guadagno per non rischiare la perdita.

E non è detto che, siccome ci si crede a posto con la coscienza, lo si sia veramente.

Indubbiamente, per una logica occulta e sottile, sembra spesso di riuscire a pacificare l'inquietudine del cuore, a inaridire la piena dei desideri divini e a mettere fuori campo nella coscienza le aspirazioni più naturali.

Ma ci vuole uno sforzo e un attento studio, come quando si fissa accuratamente lo sguardo su un vetro coperto di tenui disegni, perdendo di vista per buona parte lo spettacolo delle prospettive lontane.

E tuttavia è sempre questo campo di visione confusa che funge da sfondo.

Esso getta luce su quelle inezie trasparenti che ci sforziamo di osservare isolatamente e che non vedremmo se al di là non ci fosse la profondità di prospettiva e la luce.

D'altra parte è fuori dubbio che, dopo aver sentito il vuoto di ciascuna delle esperienze su cui puntavamo tutto, dopo ciascuna delle delusioni della vita, rinasce la ridente speranza e la perseverante illusione.

E infatti in questo vuoto stesso non tutto è vuoto.

La più inutile delle azioni è per la volontà almeno un'occasione per saggiare la propria potenza indistruttibile.

Quanta intraprendenza e disinvoltura ci vuole talvolta, per ingannare la noia della vita e per nascondere a se stessi l'inutilità delle ore impiegate a « fare quello che si vuole »!

Non è vero che, mentre ciascun particolare risulta ozioso, l'insieme sembra che non lo sia?

Mentre ogni singolo pezzo del sistema sembra falso e deteriorato, non si arriva forse a saltare con alquanta leggerezza dall'uno all'altro perché non avvenga il crollo?

Non è forse vero che una conclusione fondata correttamente su un principio di cui si conosce l'errore finisce per apparire solida e corretta?

- Il sofisma di accumulazione o di astrazione è abituato a questo gioco di prestigio.

Esso dimostra una sola cosa, che cioè vogliamo infinitamente più di quello che non troviamo dove cerchiamo, ma che cerchiamo unicamente dove vorremmo trovare.

Quanti agiscono in questo modo, collocando quello che vogliono esattamente laddove non potrebbe esserci!

Sento che qualcuno si scandalizza per l'enorme responsabilità di cui sembra gravato l'uomo, per il peso infinito di atti compiuti con tanta leggerezza che spesso non si sono messe in conto neppure le loro conseguenze prossime.

Quale ingiustizia può esservi in quello che si ignora, in quello che si fa quasi senza averlo voluto, in quello che è sproporzionato?

Ma proprio questo lamento rappresenta la condanna.

Da dove nasce questo grido di ribellione e questo interrogativo di indignazione, se non da un cuore invaghito di luce, perché protesta contro le tenebre, amante dell'equità, perché si erge a giudice del suo giudice?

Tanto si ama la giustizia quando si è ingiusti!

E in questo amore sconfinato dell'uomo per se stesso, per la sua ragione, il suo diritto e la sua felicità, non c'è forse esattamente la molla dei suoi atti volontari, il principio della loro eterna sanzione?

Ma come! L'uomo si impegnerebbe a questo livello senza volerlo e senza saperlo, come se potesse mettere l'infinito nel finito e l'eterno nel tempo?

- Eppure questa scusa lo accusa, perché la sproporzione di cui si lagna è l'inverso di quella che crede di intravedere.

Gli sembra quasi un tranello, mentre invece è, se così si può dire, una disposizione di favore.

In effetti perché parlare della fugace brevità del tempo?

Più si avverte che è breve e incerto, più è strano agire come se non dovesse finire, come se fosse tutto.

Ammettiamo pure che sia un'apparenza, una forma della sensibilità umana.

Ma proprio per questo non c'è scusa a limitare a esso il desiderio e a rinchiudervi l'azione.

L'azione non ricade sotto la legge della durata.

Se è vero che la critica speculativa ha eroso il valore oggettivo del tempo o dello spazio, ormai da tempo il senso morale e la critica della vita hanno di fatto la loro Estetica Trascendentale.

Forse che la retta coscienza non trova con un solo slancio le conclusioni che l'analisi razionale raggiunge faticosamente?

L'uomo rispettoso del dovere è emancipato dalle seduzioni della sensibilità e dall'illusione del tempo.

E viceversa, procrastinare la conversione non significa volere che ciò che si vuole al presente duri per sempre?

Dunque quello che vogliamo deliberatamente, quello che facciamo liberamente di gusto nostro, lo vogliamo e lo facciamo non perché il tempo trascorra, ma nonostante il tempo trascorra palesemente.

L'eternità è tutta a ogni istante.

Come l'intenzione ha una portata universale, così essa ha un'ambizione intemporale.

Vivere come se non si dovesse morire, amare il tempo come se fosse l'eternità, desiderare di godere senza fine di un piacere effimero, e voler rimpiangere unicamente di non poter sempre vivere come si vive: ecco, in questa disposizione della volontà non c'è nulla che ne attenui l'irragionevolezza e l'incoerenza?

Abbandonandosi a un piacere miseramente breve, l'uomo nondimeno in questo stesso abbandono conserva la sua aspirazione eterna.

Egli vorrebbe per sempre quello che non riesce a cogliere, o anche soltanto a gustare, durante tutta una vita: in suo aeterno peccat.

Perciò, per quanto durature appaiano le conseguenze delle azioni umane, nell'unico e indivisibile istante che le ha prodotte c'è di che giustificare non soltanto tutte le loro conseguenze nella durata, ma infinitamente di più.

Quindi abbiamo unicamente un'immagine incompleta della loro estensione invisibile, quando questi atti, gettati da una decisione improvvisa nel gigantesco ingranaggio del determinismo universale, vi prolungano la loro eco, quando non si esauriscono interamente nel punto del luogo e del tempo in cui nascono, e talvolta sembrano ingranditi dalla vasta eco del mondo.

Questa vastità stupefacente dei loro contraccolpi è come un avvertimento salutare che talvolta, tramite un simbolo visibile, risveglia brutalmente la riflessione, rivelandoci quello che già sappiamo, ma che dimentichiamo sempre, ossia la smisurata portata dell'azione volontaria.

Dunque l'uomo si indebita infinitamente proprio perché usa di beni insufficienti come se fossero sufficienti.

Perché in lui è infinito il titolare di quell'uso.

E la sua disgrazia è di mettere non il tempo nell'eternità, ma l'eternità nel tempo.

Non cum tempore transit quod tempera transit: fugit hora, manent opera.8

In tal modo l'atto deliberato e voluto naturalizza l'assoluto nello stesso relativo.

Non sapendo chiaramente quello che facciamo, facciamo più di quello che sappiamo, e sappiamo più di quello che facciamo; in modo tale però che, in questo miscuglio di ombra e di luce in cui è avvolto il nostro destino, si cela anche una grazia.

Se la gravita della colpa è velata, la forza dell'aiuto lo è ancora di più.

Infatti se il male a tutta prima non sembra che un bene minore, ciò avviene perché il bene a sua volta riveste anche le fattezze particolari e la figura attraente di un motivo sensibile, di un atto migliore, di un bene relativo.

Ma, in base a queste relazioni apparenti, a queste semplici differenze di grado, stiamo attenti a non tirare conclusioni contro la genuina testimonianza della coscienza.

Essa si conserva viva e ardente solo nella misura in cui, secondo l'osservazione di Cariyle,9 ci ricorda con maggiore o minore forza quello che tutti più o meno sappiamo, ossia che sotto quelle approssimazioni della conoscenza c'è una differenza assolutamente infinita tra un uomo per bene e un malvagio.

Indubbiamente nella regione intermedia dell'anima solo sfumature di superficie distinguono il tratto normale degli uomini.

Come ammettere una responsabilità senza confini in una debolezza senza limiti?

Come credere alla malizia infinita di quest'uomo che conosco e che amo, debole, incoerente e infelice?

Ma non occorre credervi, perché il compito della nostra ignoranza umana non è la giustizia, bensì l'indulgenza e l'amore.

E tuttavia, senza giudicare nessuno - perché il comandamento morale « non giudicate » è assoluto -, penetrate più a fondo, mettete alla prova i cuori.

Osservate con la vostra immaginazione quel pezzente che, senza averci mai pensato, morirebbe di fame piuttosto che commettere un atto infame: rozzo com'è, quell'uomo col lembo della sua anima appartiene alla vita eterna.

Osservate quel riccone avido che, probabilmente senza alcuno scrupolo, defrauda quello stesso povero.

Quale separazione nel giorno del giudizio!

E nell'estrema severità delle punizioni di contrappasso non vi sarà niente di arbitrario, di esteriore o di eccessivo!

Palesemente non c'è niente di più semplice, di più naturale o di più legittimo che dire alla propria volontà: « Tu non andrai più lontano; non riceverai niente di più alto; non darai niente di ciò che hai; non uscirai da te stessa ».

Ecco però che questo atteggiamento di riserva e di attesa racchiude una negazione volontaria e una privazione positiva, στέρησις.

Per rifiutare qualsiasi dono eminente e confinarci in noi stessi, facciamo uso proprio di quello di cui diamo a intendere di fare a meno.

A vederlo dall'esterno, sub specie materiae, l'atto così mortificato sembra senza dubbio limitato e caduco.

Ma il grande sbaglio dell'uomo è di usare, per limitarsi, la sua infinita potenza: solo la sua volontà è abbastanza forte per fermare la sua volontà.

E se la strada è sbarrata persino a Dio, se l'uomo può ucciderlo, facendo sì che non esista più per l'uomo, ciò avviene perché si serve di lui contro di lui, accettando anzitutto quello che ci vuole di lui per respingerlo.

Non pretenda quindi che la sua responsabilità sia lieve, con la scusa di non fare altro che cose limitate e di corto respiro.

È colpevole esattamente di non volere altro, di non fare altro che cose limitate, è colpevole di una carenza di desiderio e di amore, la quale non annulla la suscettibilità del suo orgoglio.

Insomma è colpevole di volere e di non fare.

Noi ci lamentiamo solo laddove non vorremmo che le cose stessero così come sappiamo che stanno.

E chi si assegna un valore assoluto, chi ha un amore sconfinato per il proprio benessere mente a se stesso, se si rinchiude in godimenti meschini.

Se dunque, nell'insaziabile ambizione dell'egoismo, c'è un motore con un'energia infinita, è per sollevare l'uomo all'infinito.

L'ampiezza della colpa si misura dall'energia del movimento più ancora che dal fine cui tende.

E l'offesa coglie nel segno solo perché il referente divino dell'offesa è raggiunto dall'offensore con tutta la potenza che deve essere diretta a lui.

Quindi il recondito giudizio dell'eternità va ricercato non fuori dell'uomo, ma nell'uomo.

Anche quando è condannabile per la presunzione di fare a meno di qualsiasi legge superiore alla propria decisione, l'uomo è ancora la propria legge e la propria condanna.

Essendo giudicato in base ai propri giudizi, egli è preso per norma.

Non i suoi pensieri, che talvolta sono buoni suo malgrado.

Non le sue parole, che rivelano un ideale di solito illusorio.

Neppure l'apprezzamento col quale giudica gli altri, per quanto spesso in esso venga definita con imparzialità l'applicazione pratica delle leggi impersonali delle quali egli riconosce il dominio universale e necessario, nel momento stesso in cui forse per parte sua ne esonera se stesso.

Ciò che lo giudica è la sua stessa azione.

È la forza interna del suo movimento volontario che funge da metro e da sanzione.

III.

Ma se all'uomo è possibile distorcere il senso e limitare la tendenza infinita della sua volontà, se gli è impossibile rimuoverne le sconfinate esigenze nel momento stesso in cui le disattende, ed escludere ciò che respinge, come comprendere però che una volta ricreduto egli non sia o convertito o distrutto?

È concepibile, è necessario che la piena rivelazione del suo oscuro stato non lo cambi, e che la sua disgrazia sia, per sempre, di non essere cambiato?

Proprio questo dimostra fino a che punto i veli da cui è avvolto lasciano integro e libero il vigore dell'azione umana.

Togliete questi veli, e allora la volontà si determina da sé nella sua opzione, e la contraddizione in cui è caduta rifiutando la vita sovrumana di cui sentiva il bisogno le appare per sempre come opera sua.

Non basta allora dire: che giustizia ci sarebbe a sbagliare finché si è potuto farlo, per poi volere che questi sbagli restino impuniti, e rinunciarvi quando non sarebbe più possibile commetterli.

Neppure è sufficiente comprendere l'impossibilità di un libero ritorno nel caso di un folgoramento di luce abbagliante: chi non ha voluto quando ha potuto, non potrà più quando vorrà.

La cosa da tenere presente è che la stessa volontà nelle sue profondità non si converte, e che, rivelandosi fuori del tempo, l'azione per tutta l'eternità rimane volontariamente quella che è nel tempo.

In suo temporis aeterno peccai homo: in suo aeternitatìs aeterno luit.10

La colpa mortale consiste nell'abusare del fatto che l'intero ordine naturale, anche se privato del suo compimento, non può annientarsi, nel cercare in quello che è effìmero una soddisfazione permanente, nel vivere di quello che muore.

Nella libera opzione si introduce l'assoluto e l'infinito di una volontà che da un essere ai fenomeni, e che ne fa una realtà sussistente e indistruttibile.

L'uomo muore per aver preteso di accontentarsi della durata e di limitarsi alla natura.

Non che egli non possa riempire e oltrepassare lo spazio o il tempo; ma ha talmente ingrandito questo dominio dei sensi e della scienza, che potrebbe quasi immaginare di muoversi a suo agio in tale spazio, e di trovarvi una dimora definitiva, se non fosse costretto a uscirne sempre, per amore o per forza, grazie all'ineludibile ammonimento della coscienza, allo scandalo della sofferenza, alla morte.

Se morire al tempo gli insegna che cosa significa vivere, è perché questa vita, che non trapassa nel tempo, è esposta alla seconda morte, a quella morte che sussiste per sempre.

Fare è stata l'opera di un solo istante; aver fatto e volere è per sempre.

Quodfactum est, factum non esse non potest.

Questa necessità rivela la presenza dell'essere nello stesso fenomeno.

Ecco perché la legge di contraddizione si applica al passato, perché è la legge dell'essere, e sotto le apparenze che si succedono nella nostra conoscenza, si cela l'azione che ne fissa la realtà permanente.

Quindi non si tratta più soltanto di porre riparo alle cattive apparenze, al disordine di fenomeni transitori, al male commesso nell'ordine naturale.

Non si tratta più soltanto di questa impossibilità umana.

Si tratta di ben altra riparazione e, per così dire, di un'impossibilità divina.

L'uomo già non ha potuto porre rimedio agli effetti di atti che hanno una ripercussione infinita nel suo organismo e nell'universo.

Ma come concepire addirittura che sia possibile porre rimedio al principio di sue azioni volute, cambiarne l'essere e non più il fenomeno?

Osservate ora quelle persone presuntuose, cui è sufficiente un barlume di pentimento, una velleità più positiva, un'elemosina da quattro soldi fatta con spirito di vanità e di sentimentalismo, un po' di tempo trascorso perché si siano cancellate le testimonianze sensibili dei loro sbagli, un oblio da parte loro e una sorta di perdono che esse hanno il coraggio di concedere al loro passato, come se provandone rammarico facessero un favore invece di chiederne uno, ebbene è sufficiente questo perché si credano pure, integre, piene di meriti e di bellezza davanti a Dio e davanti agli uomini!

Quello che l'uomo può fare, non può distruggerlo.

Ma quello che non può costruire, lo può distruggere da solo.

Quindi capiamolo una volta per tutte: nell'azione volontaria si opera un segreto connubio tra la volontà umana e la volontà divina.

Essere chiamato alla vita della ragione e della libertà significa partecipare alla libera necessità di Dio che non può fare a meno di volere se stesso.

Noi pure non possiamo fare a meno di volere noi stessi.

L'essere che riceviamo come nostra proprietà peculiare è tale che è impossibile non accettarlo.

Non si può abusare di questo dono, non si può far finta di rifiutarlo se non accettandolo già, e usando, per così dire, di Dio contro Dio.

Perciò respingere il suo concorso, abbandonare i nostri cuori e le nostre opere all'amplesso dei falsi beni, costituisce un adulterio.

Noi possiamo violare, senza mai voler rompere, questa unione che ci costituisce, questo vincolo che noi vogliamo tra noi e lui, come lui l'ha voluto tra lui e noi.

Tremenda grandezza dell'uomo! egli vuole che Dio non sia più per lui, e Dio non è più per lui.

Ma conservando sempre nel suo fondo la volontà creatrice, vi aderisce tanto fermamente che essa diventa completamente sua.

Il suo essere resta senza l'Essere.

E quando Dio ratifica questa volontà introversa, è la dannazione.

Fiat voluntas tua, homo, in aeternum!

Abusare del mondo e corromperlo non è dunque niente a confronto del delitto di cui si grava la volontà depravata: abusare di Dio e ucciderlo nell'uomo, ucciderlo per quanto dipende dall'uomo, inferirgli un colpo divino.

Sembrerebbe che non possiamo distruggere da soli quello che non possiamo costruire da soli, ma non è vero.

Se il principio della colpa umana è interamente nella volontà colpevole, il suo effetto letale non è limitato totalmente all'uomo.

L'azione è una sintesi tra l'uomo e Dio; né Dio solo né l'uomo solo la può cambiare, produrre o annullare.

Per porvi rimedio non è sufficiente un decreto dell'onnipotenza. Ci vuole altro.

Se il delitto dell'uomo deve essere riparato, ci vuole, se è lecito dire così, che Dio muoia necessariamente.

Se il delitto dell'uomo può essere perdonato e cancellato, ci vuole che Dio muoia volontariamente.

Ma da solo l'uomo non può farvi nulla.

Il suo stato naturale è quello di non essere cambiato.

E non essere cambiato significa il fallimento irrimediabile del suo destino.

Vediamo adesso che cosa implica, per l'uomo, la pretesa di agire e di vivere con le sole sue forze?

La pretesa di camminare, di salire e di rialzarsi da solo e senza aiuto?

La pretesa di essere autosufficiente nella propria virtù, nel proprio pentimento, nella propria espiazione?

Reputare di trovare in sé la verità necessaria alla coscienza, l'energia per la propria azione e il successo nel proprio destino, non significa soltanto privarsi di un dono gratuito e facoltativo che, una volta respinto o disprezzato, non comprometterebbe però la felicità di una vita normale, bensì significa in verità smentire la propria aspirazione, e col pretesto di amare soltanto se stessi, odiare e perdere se stessi.

Perdere se stessi! Comprendiamo la pregnanza di queste parole? Perdere se stessi senza sfuggire a se stessi.

Infatti sopprimendo, per sempre, in se stessa, l'ambizione per i beni imperituri, la volontà che si è limitata ai fini transitori rimane nondimeno indistruttibile.

E questa volontà immortale, che ha collocato il suo tutto nei beni effimeri, è come morta quando alla fine ne avverte la cruda inanità.

Il suo desiderio deperisce; essa dunque avrà voluto per sempre ciò che non può mai essere.

Quello che vuole le sfuggirà eternamente, e quello che non vuole le sarà eternamente presente.

Essere senza l'Essere, avere il proprio centro fuori di sé, sentire che tutte le potenze dell'uomo, rivoltandosi contro l'uomo, gli diventano ostili senza essergli estranee, tutto ciò non è la conseguenza e il castigo per l'orgogliosa sufficienza di una volontà introversa, la quale ha posto il suo tutto laddove non c'è niente per appagarlo?

È una giusta necessità che l'uomo, il cui egoismo ha rotto con la vita universale e col suo principio, sia strappato dal tronco comune.

E, fin nelle radici della sua sostanza, egli perirà senza fine, perché tutto quello che aveva amato sarà in qualche modo fagocitato e annientato dalla grandezza del suo desiderio.

Chi ha voluto il niente lo avrà e lo sarà, ma non per questo sarà annichililo.

Ma allora, perché non l'annientamento totale di coloro che sono separati dalla vita?

Perché hanno visto la luce della ragione, perché conservano la loro volontà indelebile, perché sono uomini solo in quanto non possono essere sterminati, perché hanno agito nell'essere e circolato nella vita.

E per sempre. Nel loro stato non c'è nulla che derivi da una costrizione esteriore.

Essi perseverano nella loro volontà, che è al tempo stesso delitto e castigo.

Non sono cambiati, sono morti, e l'essere che hanno è eterno.

Come un vivo legato con ambedue le braccia a un cadavere, devono rimanere il loro idolo inerte.

E se si dovesse dare in pasto all'immaginazione un simbolo del supplizio interiore che, armando la volontà contro se stessa, contrappone tutte le passioni mortificate dell'anima separata, sarebbe senz'altro ovvio fare ricorso all'immagine del fuoco che dissolve.

Se il dolore non è altro che la separazione delle cose vive che sono legate le une alle altre, quale lacerazione più profonda di una fiamma che, alimentata per così dire dalle stesse viscere, non consuma mai quello che disgiunge senza fine!

Immagine di quell'anarchia lancinante di un essere decomposto nelle sue fibre intime, nemico di se stesso e di tutto ciò che esiste.

E malgrado l'oscurità presente che non lascia presagire la forza penetrante della rivelazione finale, è già nello stato attuale del colpevole che si cela la collera della giustizia vendicatrice.

Dietro le montagne con cui si copre egli sa e vuole abbastanza perché non vi siano né sorpresa né iniquità nel terrore di un giudizio che resterà comunque l'opera del primo amore.

Prospettando all'uomo un'alternativa e imponendogli un'opzione, il determinismo dell'azione volontaria ha aperto una duplice strada.

Ma da qualsiasi parte la volontà si incammini, questo determinismo l'accompagna per fargli produrre tutte le sue conseguenze, e per rivelargli il suo essere necessario.

Abbiamo appena visto come l'uomo si perde.

Troverà il modo di salvarsi?

E per quale direzione imboccherà quella strada della salvezza?

Se di fatto la scienza non lo può introdurre ne sostenere su quella via, almeno deve seguire questo nuovo determinismo che sviluppa logicamente le condizioni necessario della vita autentica.

Indice

8 La frase ricorreva quale iscrizione sugli orologi solari.
Essa deriva peraltro da san Bernardo, De considerazione XII, 26 in op. ci'?.. Ili, 489: " Non transit cum tempore, quod tempera transit".
9 Thomas Cariyle (1795-1881), storico scozzese di tradizione calvinista, esponente della reazione vittoriana contro l'utilitarismo e il mito del progresso meccanico. La sua storiografia prospetta una concezione eroica della storia, e si impegna non tanto nella ricostruzione dei fatti quanto nella loro interpretazione. Celebre per una monografia sulla Rivoluzione francese (1837) e per una serie di opere monumentali, come le due dedicate a O. Cromwell e a Federico il Grande.
10 La frase latina risulta composita: la prima parte è una citazione biblica, la seconda parte è coniata da Blondel.