L'azione

Indice

Il legame tra la conoscenza e l'azione nell'essere

Capitolo III

È possibile spingerci ancora più avanti e seguire il progresso dell'azione anche oltre questa forma perfetta della pratica religiosa che sembra chiudere il circolo del destino umano?

Sì, è possibile ed è necessario farlo.

Sotto il dominio di questo determinismo senza soluzione sviluppato dalla scienza dell'azione, perché esprime le esigenze e l'espansione reale della volontà, diventa inevitabile un passo estremo del pensiero, un passo che fungerà da garanzia e da giustificazione di tutti i passi precedenti.

Non che tutti gli scalini con i quali siamo saliti alla vita integrale debbano essere buttati via come mezzi transitori.

Al contrario, proprio fondando in assoluto la realtà universale di cui l'azione si è nutrita, l'uomo realizza il suo compito, quel compito che consiste nel diventare il vincolo reale delle cose, e di conferire loro tutto quello che comportano a livello dell'essere.

Ma non bisogna equivocare su quanto seguirà, come su quanto precede: si tratta sempre di determinare la sequenza necessaria dei bisogni della prassi, fino al punto in cui sarà assodata in assoluto, grazie alla definizione delle sue condizioni totali, la verità delle relazioni pretese dall'azione.

Come in noi si forma inevitabilmente l'idea di esistenza oggettiva; come affermiamo inoppugnabilmente la stessa realtà degli oggetti della nostra conoscenza; qual è esattamente il senso necessario di questa esistenza oggettiva, e a quali condizioni questa realtà, concepita e affermata per forza di cose, è di fatto reale, tutti questi problemi a prima vista non fanno altro che continuare il movimento del determinismo pratico.

Essi non sembrano investire altro che i rapporti interni, che rendono tutti i fenomeni solidali nella nostra coscienza.

Ma alla fine troveremo che questi stessi fenomeni costituiscono l'essere delle cose.

La necessità pratica di porre il problema ontologico ci induce necessariamente alla soluzione ontologica del problema pratico.

Perciò quella che fin qui, in un'analisi regressiva, era apparsa come una serie di condizioni necessarie e di mezzi richiesti in successione per istituire a poco a poco l'azione, ora, grazie a una visione sintetica, si rivela come un sistema di verità reali e di esseri ordinati sincronicamente.

Abbiamo considerato tutto quello che è indispensabile per portare a compimento l'azione; adesso bisogna considerare in che modo l'azione porta a termine e costituisce tutto il resto.

Ciò che esprimeva semplicemente i bisogni della nostra volontà, deve acquisire, di fronte all'intelletto medesimo, una verità assoluta.

Ciò che non era altro che necessità di fatto, sarà fondato in termini di ragione.

Ciò che di fronte al pensiero era stato posto unicamente come una serie di mezzi immanenti al volere, sarà posto fuori della volontà come una serie di fini immanenti al pensiero.

E, mentre prima l'azione era apparsa originaria, e l'essere derivato, adesso la verità e l'essere appariranno originari, ma senza che la loro sussistenza e la loro stessa natura cessino di essere determinate dall'azione, la quale trova in loro la propria regola e insieme la propria sanzione.

Questo necessario aggiornamento di prospettiva, mentre ci induce a definire con più precisione il giusto valore di tutte le affermazioni pregresse, non ne delimiterà la portata che per chiarirne meglio il carattere specificamente scientifico.

Non soltanto siamo di solito tentati di fare troppo presto il nodo prima di aver avvolto tutto il contenuto dell'azione, ma rischiarne altresì di attribuire a ciascuna delle successive constatazioni un significato metafisico che ancora non hanno.

In effetti fin qui, per quanto abitudini mentali contrarie abbiano indotto nel lettore qualche convinzione in proposito, non si è trattato di altro che di mezzi subordinati rispetto all'azione, e non si è trattato di trasformare queste condizioni pratiche in verità reali.

- Anche quando si è dovuto parlare della Metafisica, ci siamo limitati a considerare in essa unicamente l'elemento comune a qualsiasi concezione della vita e delle cose.

E astraendosi tanto dalla varietà quanto dal valore dei sistemi, abbiamo avuto di mira unicamente la necessità per l'uomo di formarsi un'idea dell'universo e del suo destino, la necessità per l'azione volontaria di rivestire, sotto la spinta di questa concezione inevitabile, un carattere nuovo, principio di un dinamismo originale.

È per questo che tale principio è stato trattato dalla Metafisica a proposito delle forme stratificate della morale.

Essa è rientrata in linea solo per conferire ai nostri atti un valore trascendente.

- Anche quando, a un punto più avanzato dello sviluppo dell'azione, abbiamo dovuto incontrare l'idea di Dio, ci siamo limitati a considerarlo unicamente sotto un aspetto del tutto pratico.

Mostrando che questa nozione, generata ineludibilmente nella coscienza, ci obbliga ad affermare almeno implicitamente la realtà vivente di questa perfezione infinita, non si è trattato minimamente di concluderne l'essere di Dio.

Si è trattato viceversa di constatare che questa idea necessaria del Dio reale ci conduce all'alternativa ultimativa da cui dipenderà che per noi Dio sia realmente o non sia: e questa è l'unica cosa che in assoluto ci interessa anzitutto.

Assodare l'efficacia del Dio concepito come reale e vivo non significa affatto pregiudicare la viva realtà del Dio concepito: anche in questo caso la sua verità è totalmente relativa all'azione umana come un mezzo pratico.

Quindi le prove che si adducono circa la sua esistenza risultano rinnovate, non tanto in primo luogo per la forma dell'argomentazione, quanto per lo spirito che le ispira e per la natura stessa della conclusione.

- Inoltre, anche quando abbiamo dovuto parlare della necessità di un soprannaturale, di un dogma rivelato e di una pratica letterale, abbiamo preso in considerazione unicamente un bisogno naturale della volontà, senza avere in mente di vedere se questa esigenza ultimativa viene soddisfatta.

- Infine, anche quando dovremo definire l'idea, necessariamente generata in noi, di una realtà sussistente, affermare l'essere degli oggetti della conoscenza e determinare la natura di quell'esistenza oggettiva, dovremo considerare anzitutto solo la sequenza ineludibile delle relazioni integrate nella coscienza: si tratta di istituire nella sua integrità la scienza delle apparenze solidali.

Nonostante l'apparente diversità degli anelli che formano la catena, in essa tutto è continuo, tutto è dello stesso ordine; ovunque siamo in presenza delle medesime relazioni scientifiche, fondate su una medesima necessità pratica.

Questa visuale sembra sovvertire le nostre abitudini mentali.

Ma è difficile collocarsi in tale visuale soltanto perché bisogna ritornare alla visione estremamente semplice dei fatti concatenati, senza pregiudizi sistematici di alcuna specie.

Spiegare la genesi necessaria della nozione di esistenza reale; mostrare che siamo per forza di cose indotti ad affermare la realtà degli oggetti della conoscenza e dei fini dell'azione ( qualunque sia, peraltro, il valore di questa affermazione ); far vedere come, grazie alla mediazione di quest'idea inevitabile dell'esistenza oggettiva, i bisogni dell'azione si trasformano in verità regolatrici dell'azione; indicare a quale precisa concezione dell'essere oggettivo siamo condotti per forza di cose, e determinare le condizioni che ci appaiono indispensabili perché questa esistenza, così definita, sia realizzata proprio nella maniera nella quale non possiamo fare a meno di concepirla, tutto ciò, nonostante l'aggiornamento della prospettiva, non significa uscire dal determinismo dei fenomeni, ma significa far vedere quanto sia necessario, per il fatto stesso che pensiamo e agiamo, che ci comportiamo come se questo ordine universale fosse reale, e queste obbligazioni fondate.

In effetti il compito e la forza della scienza stanno nell'escludere ogni possibilità di dubbio legittimo, nel costringerci, attraverso la via indiretta della necessità, al riconoscimento della verità che è in noi prima di essere nella scienza, e che questa attinge solo alla fine, mentre noi viviamo di essa fin dal principio.

- Quindi ora che risulta chiarito il senso di questa indagine inedita e la portata della soluzione da trovare, bisogna vedere qual è la genesi e l'organizzazione del problema in questione.

Dalla contestualità globale dei fenomeni si ricava sia che è impossibile arrivare legittimamente al problema ontologico prima di aver percorso tutti quegli anelli concatenati, sia che è impossibile non arrivarvi dopo aver sviluppato tutto quel determinismo dell'azione.

Per porre con precisione e competenza scientifica il problema della conoscenza e dell'essere, bisogna prima aver definito esattamente il sistema globale delle relazioni che si inseriscono tra i due termini estremi.

Dal volontario al voluto, dall'ideale concepito al reale operato, e dalla causa efficiente alla causa finale, bisogna attraversare tutti i termini intermedi prima di avere il diritto di volgersi retrospettivamente, e di vedere nella dileguante successione dei fenomeni la solidità stessa dell'essere.

Ma, una volta che esso ha abbracciato l'insieme delle operazioni transeunti che a poco a poco rendono la causa finale immanente alla causa efficiente, è altresì una necessità per il pensiero far sì che tutta la serie dei suoi oggetti partecipi alla realtà del termine che era già presente fin dal punto di partenza.

Di qui scaturisce una duplice conseguenza.

- Siccome l'inevitabile determinismo dell'azione, inglobando tutta la sequenza dei mezzi necessari, ci conduce per forza di cose a quel termine, ne risulta che in noi si da una conoscenza certa dell'essere alla quale non possiamo sottrarci.

E questa conoscenza, esplicita o meno, è anche coestensiva al suo oggetto.

Per cui si può dire che tra l'essere e il conoscere si da una corrispondenza assoluta e una reciprocità perfetta.

Infatti è impossibile che l'uomo non si formi, per quanto confusamente, la sintesi di cui la scienza dell'azione ha appena compiuto l'analisi, ed è impossibile che questa sintesi, assumendo ai suoi occhi un valore oggettivo, non rappresenti realmente quello che si deve conoscere e si deve fare.

- Siccome, d'altra parte, per raggiungere il termine bisogna passare per l'alternativa e risolvere il problema pratico che ci si prospetta come una questione di vita o di morte, ne risulta che tra la conoscenza e l'essere sussiste un'eterogeneità radicale, che tra la visione e il possesso dell'essere la distanza rimane infinita, e che, pur essendovi un essere necessario dell'azione, l'azione non necessariamente ha l'essere in sé.

La natura universale delle cose, la persona umana, Dio, la vita soprannaturale sono senza dubbio condizioni richieste dall'azione e fondate sull'azione; ma non necessariamente l'azione si fonda in Dio, e non necessariamente realizza tutte le condizioni che essa stessa pone.

Con questa distinzione pare che il problema della conoscenza e dell'essere assuma un senso nuovo: metodo e soluzione risultano trasformati.

- Reputare che si possa approdare all'essere, e che si possa legittimamente affermare una realtà qualsiasi senza aver raggiunto il termine stesso della serie che va dalla prima intuizione sensibile alla necessità di Dio e della pratica religiosa, significa pascersi di illusioni.

Non è possibile fermarsi a un oggetto intermedio per farne una verità assoluta, senza cadere nell'idolatria dell'intelletto.

Ogni asserzione prematura è illegittima e, agli occhi della scienza, è falsa anche quando più tardi bisognerà ritornare a quell'asserzione, ma per un'altra via e in un senso differente.

- Viceversa, reputare che la condotta umana sia indipendente da qualsiasi visione metafisica, che la prassi sia autosufficiente, e che sia possibile vivere disinteressandosi dell'essere, è un errore analogo.

Al contrario delle dottrine antiche, secondo le quali la volontà agisce conformemente a un oggetto, κατά λόγον, al punto di costituire una cosa sola con esso, μετά λόγου al contrario delle dottrine moderne, secondo le quali la volontà si crea il proprio oggetto e procede, non sulla strada della scienza, ma su quella della fede,6 bisogna dire che la conoscenza e l'azione sono reciprocamente autonome e subordinate, che tra la verità e l'essere c'è fondamentale identità e radicale eterogeneità, insomma che nel pensiero c'è una presenza necessaria della realtà senza che la realtà sia necessariamente presente al pensiero.

Anche coloro che, in teoria, hanno attribuito al volere un ruolo estremamente decisivo nella conoscenza, di fatto non hanno saputo tener conto della diversità introdotta in essa dall'opzione ultimativa cui è sospesa tutta la vita dell'uomo.

Viceversa, pur mantenendo al di sopra delle variazioni della libertà umana la verità dell'essere, la quale apparirà come una norma e una sanzione, bisogna mostrare che il nostro essere risulta totalmente cambiato a seconda che accogliamo o rifiutiamo l'azione in noi di questa verità.

Il Verbo risplende in tutti, ma non tutti lo hanno in sé.

Sarebbe strano se il problema della verità e dell'essere potesse essere risolto al di fuori della decisione pratica impostaci da quell'alternativa alla quale tutto il movimento della scienza non ha avuto altra ragione che di condurci.

Quindi la conoscenza è viva o morta a seconda che l'essere, di cui porta in sé la presenza necessaria, costituisce per essa un peso morto o regna per effetto di una libera adesione.

Perciò è importante approfondire questo triplice aspetto della soluzione.

1) In che modo il pensiero concepisce ineludibilmente la realtà di tutti gli oggetti che sono risultati mezzi per la volontà o condizioni per l'azione?

2) Che cosa si può respingere nella sfera dell'inevitabile concezione dell'essere?

E che cosa rimane di questa realtà necessaria nel pensiero che la esclude o nella volontà che si sottrae a essa?

3) Un libero riconoscimento o un'adesione pratica che cosa aggiungono all'essere concepito necessariamente e alla verità riconosciuta per forza di cose?

Insomma, in che modo l'azione consumata porta a termine tutto ciò che era servito per costituirla?

Si tratta dunque di istituire per il pensiero la verità assoluta di tutte le relazioni poste di fatto dall'azione.

Bisogna mostrare che le condizioni presupposte dall'azione, per adeguarsi alle sue esigenze, costituiscono al contrario una realtà che esige dall'azione ciò che è richiesto perché l'azione adegui se stessa.

Pertanto mantenendo ferma tutta l'eterogeneità, bisogna ribadire tutta la contestualità tra la conoscenza e l'essere che ne costituisce l'oggetto.

In un certo senso la verità dell'essere si impone totalmente dall'esterno; il suo scettro è di ferro.

In un altro senso essa è scaturita totalmente dalla libertà più intima, e il suo giogo è completamente volontario.

E questi due aspetti sono, se non inseparabili, almeno correlativi.

Essi sono parimenti radicati in quella verità viva che, istituendo tutta la sostanza delle cose, costituisce altresì il lato positivo nella conoscenza privativa e il lato reale nell'errore che la nega.

I.

La natura complessiva delle cose mi è apparsa come la serie dei mezzi che debbo volere, e che di fatto voglio per realizzare il mio destino.

Ma bisogna inoltre comprendere in base a che cosa quella serie di mezzi mi si esibisce come una natura reale delle cose.

Perché la funzione mediatrice dell'azione risulti completamente elucidata, è necessario giustificare completamente questo duplice aspetto.

Si tratta quindi di estendere perché la sequenza del determinismo pratico, così come è stata esposta dalla scienza dell'azione, riveste il carattere di una verità reale, e in che modo nasce questa nozione di esistenza oggettiva.

In tal modo avremo spiegato ciò che è presente ed è affermato inevitabilmente nella più elementare delle asserzioni che pongono davanti all'intelletto la realtà di un oggetto.

Infatti, se si riesce a constatare che non possiamo avere la nozione di una vera esistenza ne possiamo accertare la verità di alcuna esistenza, senza che sia almeno implicitamente compreso nella nostra conoscenza il determinismo integrale delle condizioni pratiche, ne deriveranno al tempo stesso due conseguenze: che è impossibile non istituire come oggetti per il pensiero la serie globale di quelle condizioni e che è impossibile, nonostante la totale eterogeneità degli anelli che formano la catena, affermare la verità di uno di quegli oggetti contestuali senza coinvolgere nella medesima affermazione tutti gli altri oggetti.

Mostrare come nasce in noi l'idea di esistenza oggettiva, far vedere in che modo questa si applica a ciascuna componente della serie complessiva, indagare in che modo il valore della serie porti giovamento a ciascuna componente e in che modo ciascuna componente implica la serie integrale, significherà mettere in luce ciò che nella conoscenza è indipendente dalle determinazioni della volontà, ma anche ciò che subordina il possesso della verità e il senso dell'essere alla soluzione del problema pratico imposto a ogni coscienza umana da quel minimo di conoscenza necessaria.

I - Qualunque cosa pensiamo e qualunque cosa vogliamo, dal solo fatto di pensare e di volere, consegue l'ordine universale del determinismo.

Invano tentiamo di negarlo o di infrangerlo.

Con lo sforzo fatto per distruggere o per sottrarci a quel determinismo lo poniamo e lo ribadiamo.

C'è una volontà antecedente e immanente a qualsiasi deroga alle necessità pratiche.

C'è un'affermazione dell'essere anteriore e intrinseca a qualsiasi tentativo di negazione anche globale.

Qualunque cosa dobbiamo sussumere di qui a poco sotto queste parole, le condizioni soggettive del pensiero e dell'azione rivestono un aspetto oggettivo.

Pertanto, benché il determinismo universale sia in noi nella misura in cui è implicato automaticamente in ogni passo della volontà umana, per ciò stesso ci appare sempre come indipendente dalla nostra potenza positiva, dalla nostra volontà deliberata, dal nostro pensiero riflesso.

Esso costituisce per noi una natura, nel senso che, pur ratificando questo ordine mediante la nostra azione attuale, ne riconosciamo la presenza necessaria nella nostra azione.

Pur essendo legato alle produzioni più intime del soggetto ( senza tale condizione non lo conosceremmo ), nondimeno ai nostri occhi ne costituisce l'oggetto ( altrimenti non potremmo vedere in esso un sistema di mezzi e di fini per la volontà ).

E siccome il ruolo di questo determinismo è esattamente quello di imporre alla nostra volontà un'alternativa, sta di fatto che, potendo accettarlo o respingerne le istanze, ci troviamo di fronte a qualcosa che indubbiamente è già nostro, grazie alla produzione spontanea del pensiero, ma che al tempo stesso è fuori di noi come un referente per l'operazione voluta.

In tal modo scopriamo la genesi reciproca e i rapporti tra nozioni che sembrano del tutto differenti.

La natura delle cose ci appare come una realtà oggettiva, perché si impone a noi con l'unità del determinismo, e perché ci impone una libera opzione.

Questi due aspetti del problema, davvero contestuali, sono ugualmente indispensabili per qualsiasi concezione di un'esistenza reale.

Per giungere alla mera idea di una sussistenza oggettiva, è necessario che questa nozione sia assicurata da un duplice atto di intelligenza e di volontà.

Pertanto nella misura in cui non possiamo fare a meno di porre questa catena di necessità che sono la condizione della nostra attività pratica, qualunque essa sia, siamo ineluttabilmente condotti ad attribuire a quest'ordine complessivo delle cose un'esistenza oggettiva, perché, se così si può dire, questa verità reale degli oggetti del pensiero è prelevata dalla stessa sostanza della volontà.

E la questione si decide anteriormente al gioco dialettico delle idee, laddove il dubbio più eccessivo non penetra, al di sotto della sfera dell'intelletto, prima dell'intervento delle nozioni discorsive, più a fondo del piano in cui le necessità intellettuali fanno pesare il loro giogo, fino al principio stesso della nostra personale adesione alla nostra natura, fino al punto in cui noi vogliamo noi stessi.

Noi siamo irrimediabilmente, e le cose sono per noi irrimediabilmente.

E non dimentichiamo mai che si tratta della serie integrale.

Nel sistema delle cose, nulla vige se non per la continuità e l'unità del determinismo globale.

Per proporre all'intelletto la minima idea dell'insieme, bisogna proporre alla volontà, almeno confusamente, l'alternativa che la coinvolge globalmente.

Per quanto siano distinti, l'uso speculativo del pensiero non è mai indipendente dall'uso pratico della vita.

E se la sterminata molteplicità degli oggetti è a prima vista inglobata nell'idea astratta di esistenza oggettiva e nella cornice vuota di un determinismo unico, ciò avviene perché il destino è interamente subordinato a un'identica questione, all'unico necessario.

La serie delle cause efficienti che fornisce all'intelletto il concatenamento intelligibile dei suoi oggetti, e gli prospetta il problema dell'essere, è al tempo stesso correlativa e irriducibile al sistema delle cause finali, il quale con la gerarchia dei mezzi offerti alla volontà, ci induce a risolvere il problema del nostro essere.

Quindi questa doppia unità di serie e di sistema è necessaria per qualsiasi nozione noi abbiamo di un oggetto, ossia per qualsiasi pensiero.

E, reciprocamente, la mera idea di un'esistenza oggettiva implica la doppia legge che istituisce un solo e identico determinismo.

In sintesi, ciò che è necessariamente volontario è concepito come reale e indipendente da noi, perché deve essere voluto liberamente.

Causalità e finalità, oggetti concatenati di fronte all'intelletto e fini coordinati nella volontà: ecco come l'essere e il pensiero sono l'uno per l'altro.

L'idea dell'essere è soggettiva, perché la coinvolgiamo in ogni atto di volontà.

L'idea dell'essere ha per noi un senso oggettivo, perché ciò che è prodotto in noi ci appare come un sistema di mezzi e di fini ancora esterni al nostro volere e al nostro essere.

Infatti senza l'assimilazione di questi oggetti e senza il possesso di questi fini noi non siamo quello che vogliamo essere.

Questa d'altra parte non è che la mera nozione astratta e generale dell'esistenza oggettiva.

Ma, per spiegarne la genesi necessaria nella coscienza, bisogna già arrivare a scorgere che il problema intellettuale dell'essere è posto nel momento stesso in cui si pone il problema morale del nostro essere.

II - In noi nasce per forza di cose l'idea di un determinismo al tempo stesso unico e globale.

Siamo di fronte a una serie e a un sistema.

Ma non è sufficiente concepire la cosa in questi termini.

Siccome affermiamo la realtà del sistema, è una necessità affermare la realtà degli oggetti che lo costituiscono e senza i quali esso non sussiste.

Non soltanto il fenomeno che occupa un posto nella serie delle cause e degli effetti non sussiste realmente nel nostro pensiero se non occupa un posto nel sistema dei mezzi e dei fini; ma inoltre non esiste davvero per noi, se non riempie con la sua natura singolare la cornice vuota della mera possibilità.

Anche le leggi che governano il concreto, fossero pure la legge della convenienza e dell'armonia o quella di finalità, non sono altro che astrazioni.

Perché la nozione di esistenza oggettiva sussista nella coscienza, è necessario che questa concezione astratta si realizzi in oggetti concreti.

Perciò la conoscenza fa tutt'uno con l'affermazione di una realtà determinata.

Questa affermazione è un fatto, indipendentemente dallo stesso valore degli oggetti.

La nozione di una conoscenza oggettiva e quella di un'esistenza reale, per quanto nettamente distinte, sono connesse.

Non basta quindi ricercare, nel doppio legame del determinismo e della finalità, il segreto della nostra ineludibile credenza in una realtà esterna.

La catena del determinismo non sussiste che grazie a ciò che essa concatena e determina.

Non il sistema, ma ciò che esso contiene, ossia ciascuna delle sintesi originali, ognuna delle quali racchiude la legge complessiva, la natura singolare e la qualità irriducibile di ciascuno degli oggetti dati all'intuizione: di questo bisogna fondare il valore oggettivo.

Essi hanno un valore oggettivo perché è necessario che questo determinismo medesimo ne abbia uno per noi.

Ogni componente è sostenuta dalla serie completa, e la serie è ricca del contenuto di ciascuna componente.

Ogni anello intermedio partecipa della solidità del tutto e possiede un'esistenza a parte, come un mondo a sé.

Ecco in che modo nel quadro della contestualità globale e della continuità universale ogni sintesi particolare si presenta con un carattere di assoluta eterogeneità e di totale originalità.

Ecco in che modo altresì ogni oggetto particolare può diventare per la volontà la materia di un'opzione, e ci può indurre a risolvere l'alternativa che decide della vita.

Da tutto ciò si ricava la nozione esatta che conviene avere di quel determinismo.

L'unità che quest'ultimo istituisce tra tutti i suoi termini eterogenei non è esclusivamente né quella di una logica analitica, ne quella di una costruzione matematica, ne quella di una sintesi sperimentale, ma è quella del più complesso dei nessi, il nesso causale.

Per quanto riguarda la causalità sono state elaborate due idee estreme.

- O si è visto, nel concatenamento delle cause e degli effetti, un rapporto meramente intelligibile e una legge del pensiero che è possibile dedurre a priori, come se quel determinismo si riducesse al collegamento necessario dei movimenti, e come se la spiegazione meccanica della natura, e le stesse deduzioni matematiche, avessero quella coerenza e quella sufficienza di cui abbiamo assodato che non si possono avvalere.

- O si è vista, nella sequenza tra gli antecedenti e i conseguenti invariabili, unicamente una relazione arbitraria e una successione di fatto.

Ambedue queste concezioni trovano posto in una dottrina più ampia.

È vero che la contestualità di tutti i termini della serie è una necessità per il pensiero; ed è vero altresì che ciascun termine è così nuovo in rapporto a tutti gli altri da cui dipende come dalle sue condizioni che è impossibile dedurlo da essi.

E se queste due concezioni sono ugualmente fondate, ciò avviene perché, invece di vedere nella causalità universale o una verità specificamente soggettiva o una relazione esclusivamente empirica, bisogna spingere l'indagine più in là, e vedere in essa la legge necessaria che esprime idealmente al pensiero il concatenamento reale delle necessità pratiche di cui la volontà stessa ratifica le esigenze.

Di qui il carattere ambiguo del nesso causale. Per approfondirne la natura logica, bisognerebbe risalire fino al punto in cui si rivelerebbe l'unità dell'uso analitico e dell'uso sintetico del nostro pensiero.

Dunque la duplice affermazione implicata nell'idea del nesso causale è, da un lato, l'idea astratta di una realtà sussistente in sé, dall'altro, la nozione della qualità singolare e concreta che determina l'idea medesima di questo determinismo.

E gli elementi di questa sintesi sono ugualmente indispensabili alla conoscenza distinta del minimo oggetto, e quindi al compimento dell'atto umano più insignificante, poiché è proprio dell'azione umana di determinarsi in forza della visione di un oggetto o della visuale di un fine.

Ecco che, a poco a poco, ci avviarne verso questa conclusione.

L'idea necessaria che abbiamo della realtà oggettiva, benché in noi sia indipendente da ciò che può essere voluto da noi, ha come effetto necessario di subordinare all'uso della nostra volontà il possesso di quella realtà medesima.

Ciò che si da di inevitabile nella conoscenza è implicato in qualsiasi moto volontario.

Ecco perché è inevitabile che quella conoscenza necessaria, non ancorandosi mai al carattere meramente soggettivo di cui è rivestita, ci ingiunga di agire, e faccia dipendere la sua portata oggettiva dall'azione voluta.

IlI - Da quanto precede scaturisce una triplice conseguenza.

1. Ciascuno degli oggetti successivi, che ci è apparso come una sintesi irriducibile alle sue condizioni elementari, deve essere considerato qual è, nella sua originalità specifica, indipendentemente dalle relazioni che intrattiene con tutto il resto.

La sua natura e la sua verità sono date da quello che esso ha di eterogeneo e di proprio; esso sussiste così come è dato all'intuizione.

E quanto di anteriore o di ulteriore va scoperto in quell'oggetto costituisce il nuovo obiettivo di un'indagine ulteriore o anteriore, che rivelerà la natura differente di altre sintesi ugualmente irriducibili.

Per esempio, tentare di rappresentarsi sotto i fenomeni sensibili altri fenomeni più veri di quelli significa essere vittima di un miraggio e correre dietro un'ombra, dimenticando di prendere la realtà data per quello che è.

Ciò che sta dietro la sensazione non è più la sensazione.

2. Ma, nello stesso tempo, ogni termine, non cessando di essere eterogeneo in rapporto a tutti gli altri, è legato a quelli con una tale contestualità, che non si può conoscere né affermare uno di loro senza coinvolgerli tutti.

Quindi gli oggetti concatenati da questo determinismo non sono né più né meno reali in un punto della serie piuttosto che in un altro vicino.

Non bisogna cercare il segreto dell'uno nell'altro, né bisogna credere che si possa ammettere l'uno senza l'altro.

Tutti, essendo ugualmente reali, sono ugualmente inconsistenti e ambigui.

3. Non si da dunque alcun oggetto rispetto al quale sia possibile concepire e affermare la sua realtà senza abbracciare con un atto di pensiero la serie globale, senza assoggettarsi di fatto alle esigenze dell'alternativa che da essa ci è imposta, insomma senza passare per il punto in cui brilla la verità dell'Essere che illumina ogni ragione, e di fronte al quale ogni volontà deve pronunciarsi.

Abbiamo l'idea di una realtà oggettiva, affermiamo la realtà degli oggetti; ma per farlo è necessario porre implicitamente il problema del nostro destino, ed è necessario subordinare a un'opzione tutto quello che siamo e tutto quello che esiste per noi.

Noi arriviamo all'essere e agli esseri solo passando per quell'alternativa; in base al modo in cui la decidiamo, inevitabilmente cambia il senso dell'essere.

La conoscenza dell'essere implica la necessità dell'opzione; l'essere nella conoscenza non è prima, ma dopo la libertà di scelta.

II.

Pensando e agendo poniamo in modo del tutto spontaneo davanti a noi un sistema di condizioni e di oggetti che rimangono indipendenti dal nostro intervento riflesso, e che assumono ai nostri occhi un carattere di realtà oggettiva.

Quello che in tal modo sembra sfuggire alla nostra azione, quello che non possiamo fare a meno di pensare e di affermare, è proprio ciò che, in apparenza, si da di più reale e di più sicuro al di fuori di noi.

Ma non c'è da farsi illusioni: l'idea di esistenza oggettiva e l'ineludibile fede negli oggetti della rappresentazione non esprimono altro che una necessità interna.

L'autentica realtà degli oggetti che si impongono alla conoscenza bisogna scorgerla in quello che è possibile accettare o rifiutare.

Ma ancora una volta non si tratta di attribuire a questa asserzione una portata che a prima vista non ha.

Affermando che la conoscenza privativa dell'essere ha una realtà positiva, non facciamo altro che dipanare le esigenze del pensiero e della prassi.

È in gioco, se così si può dire, la costituzione del τά πρός δόξαν universale.

I punti, quindi, che adesso vanno chiariti sono i seguenti: far vedere come tutto ciò che di oggettivo la visione della mente prospetta può essere escluso, non in quanto si tratta di una visione soggettiva, ma in quanto si tratta di una verità reale per il soggetto stesso; far vedere in che modo quell'esclusione, anziché lasciare le cose come stanno, abolisce il possesso, ma non il bisogno e la conoscenza della realtà conosciuta; infine spiegare in che modo questa conoscenza privativa ricava dall'essere escluso la stessa sanzione dell'atto che lo respinge.

I - La natura universale delle cose si impone al pensiero come una serie di oggetti e come un sistema di fini particolari.

Questa necessità intellettuale non fa altro che esprimere le condizioni della nostra vita interiore.

Essa ci ingiunge di determinare il nostro atteggiamento nei confronti di ciò che in noi è spontaneo e volontario senza essere ancora voluto.

Quindi la verità reale degli oggetti, il loro essere non consiste nell'inevitabile rappresentazione che ne abbiamo, ma nel fatto che dipende da noi di volere o di non volere in essi.

Perché tali oggetti siano in noi, è necessario che noi vogliamo che siano per noi ciò che sono in sé.

Ora, come abbiamo visto, la ragion d'essere del determinismo globale è stata quella di indurci o a ratificare le necessità apparenti che pesano sulla nostra vita, subordinandole, quasi fossero la nostra stessa volontà, alla volontà divina che ne è il principio comune, o a respingere non certo l'ineludibile conoscenza di quel determinismo, ma le esigenze pratiche che esso ci prospetta.

Subire le necessità intellettuali non significa ancora uscire da sé.

Accettare o respingere le esigenze pratiche significa accogliere in sé o espungere da sé la realtà da cui derivano queste stesse necessità.

Ora per aprire un varco a questa realtà bisogna riceverla non in quanto essa è subordinata a noi, ma in quanto noi dipendiamo da essa.

E siccome, nonostante la molteplicità degli oggetti, la catena è unica, per noi si tratta di includere o di escludere la presenza reale dell'intero sistema.

Quindi tutto dipende dall'atteggiamento che si assume di fronte all'unico necessario, poiché è il principio dell'intera serie, e poiché la sequenza del determinismo globale ha come effetto di condurci incontrovertibilmente a esso.

Senza l'essere non si danno altri esseri in noi; con lui tutti saranno presenti.

Perciò, sottraendosi agli obblighi che si sono presentati come le condizioni vivificanti dell'azione volontaria, ci si preclude al tempo stesso l'accesso, ci si priva del possesso della realtà conosciuta, ma senza per questo abolire la conoscenza della realtà.

Questo punto va compreso bene.

II - Sembra strano che la conoscenza della realtà, per quanto coestensiva alla realtà che deve essere presente alla conoscenza, possa essere radicalmente distinta da essa, e che sorga una differenza specificamente intellettuale tra la conoscenza necessaria e la conoscenza involontaria di una verità il cui oggetto è identico.

E tuttavia non si da distinzione che sia meglio fondata e più rilevante.

Quello che è necessario nella nozione che possediamo della verità oggettiva ha come effetto incontrovertibile di prospettarci un'alternativa ineludibile.

È dunque impossibile che le cose rimangano come sono.

La conoscenza che, prima dell'opzione, era meramente soggettiva e propulsiva diventa, dopo, privativa e costitutiva dell'essere.

Senza cambiare oggetto, cambia natura.

Conserva tutto quello che è necessario nel suo spazio, ma perde tutto quello che avrebbe dovuto essere volontario.

Confinandosi in quello che era, perverte il senso del dinamismo che aveva in sé, che si identificava con se stessa; ma non ne elimina gli effetti.

Il dinamismo andava nel senso dell'essere, per riempire la conoscenza con la realtà che quella presentava a una libera adesione.

Adesso va ancora nel senso dell'essere, ma per svuotare la conoscenza di quella realtà che essa continua a esigere in forza di un'istanza necessaria.

E il risultato di quella privazione volontaria è senz'altro una differenza intellettuale tra queste due conoscenze, positiva e negativa, che a prima vista potremmo ritenere identiche, perché, a parte il segno, coincidono in tutto e per tutto e hanno la medesima estensione.

In effetti la prima, quella che pone necessariamente il problema e ci procura una visione globale, anche se spesso confusa o ridotta, dell'ordine universale, non è altro che una rappresentazione dell'oggetto nel soggetto.

O meglio ( volendo sottolineare chiaramente l'origine di questa verità soggettiva ), non è altro che la produzione da parte dell'uomo dell'idea secondo cui gli oggetti del suo pensiero e le condizioni della sua azione sono per forza di cose reali.

La seconda conoscenza, che è successiva alla determinazione assunta liberamente di fronte a quella realtà concepita necessariamente, non è più semplicemente una disposizione soggettiva.

Invece di porre il problema pratico, essa ne traduce la soluzione nel nostro pensiero; invece di metterci in presenza di quello che è da fare, condensa in quello che abbiamo compiuto ciò che è.

Si tratta dunque veramente di una conoscenza oggettiva, anche quando si riduce a constatare il deficit dell'azione.

Infatti quello che, prima di consumare l'opzione, non è altro che visione della mente, diventa, dopo, coscienza di una lacuna reale e, se così si può dire, di una privazione positiva.

IlI - In tal modo intravediamo quello che risulta ineludibilmente oggettivo nella nostra conoscenza.

Anche quando abbiamo la pretesa di limitarci a ciò che è presente necessariamente al pensiero e che peraltro risulta meramente soggettivo, la verità rinnegata ed esclusa appartiene all'essere.

Quindi, dopo averne espunto tutto quello che possiamo non volere, in essa rimane più di quello che era semplicemente necessario.

Senza dubbio per colui che la respinge e che rifiuta di farne l'asse della propria vita, la verità non è come per colui che se ne nutre, e tuttavia essa esiste ancora.

Per quanto sia completamente differente nell'uno e nell'altro, il suo regno non rientra nella visuale dell'uno più che in quella dell'altro.

In questo modo, beninteso, si salva perfettamente la distinzione e la contestualità tra la conoscenza e l'essere.

- La distinzione è totale.

Essa è messa in evidenza con quel metodo delle falsificazioni ( suppressions ) che sembra isolare la verità dalla realtà, al punto di renderle opposte l'una all'altra.

Infatti se il pensiero ci prospetta per forza di cose l'ordine universale delle cose, questa rappresentazione della realtà è indipendente dall'atto da cui dipenderà che la realtà stessa sia o non sia per noi e in noi.

- Ma anche la contestualità è totale.

Infatti se il volere risolve il problema prospettato dall'intelletto, a sua volta la natura della soluzione, ossia il senso stesso dell'essere e il modo con cui la verità è in noi, è legata all'opzione della volontà.

Quindi non si può dire ne che il pensiero e l'azione sono indipendenti, ne che sono subordinati.

Essendo intimamente uniti, ognuno di essi è originale in rapporto all'altro, come la stessa verità e realtà.

Perciò ognuno dei due termini costituisce per l'altro, vicendevolmente, una norma e una sanzione.

Nell'uomo che agisce come se gli esseri esistessero senza l'Essere, e che accetta i mezzi senza orientarli verso il suo fine, la volontà continua a produrre l'esigenza di tutto l'essere che occorre alla conoscenza, e la conoscenza estende, pur escludendolo, tutto l'essere necessario alla volontà.

Essa certamente afferma l'infinito di cui abbiamo bisogno nei confronti di chi l'ha negato, ma per rifiutare a colui che l'ha negato tutto ciò che gli asserisce.

Al di sopra degli errori e delle deviazioni di qualsiasi natura sussiste una verità che, portando in se stessa la propria luce, costituisce la convalida di se stessa, una verità che conserva i suoi diritti sovrani su ogni ragione e su ogni libertà, con tutta la precisione e tutto il rigore della necessità.

Alla domanda « qual è il minimo di essere che persiste nell'uomo che ne ha diffalcato tutto quello che può essere non voluto? » si deve dunque rispondere: in costui rimane integra e positiva la conoscenza soggettiva della verità.

A sua volta la conoscenza della realtà è integra, ma negativa.

La sanzione consiste insieme in quello che conosce e in quello che non conosce dell'essere reale.

Infatti, sapendo quello che bisogna sapere, sa parimenti che il possesso reale di quello di cui si è privato gli avrebbe arrecato un'eccedenza infinita di luce e di gioia.

Resta dunque da definire questa eccedenza.

Infatti la privazione è reale solo in base al contrasto con il possesso autentico, ed è sempre proprio dell'azione conservare in sé qualcosa dei contrari tra i quali ha optato, qualcosa di quei termini che ha escluso.

Ma altresì la sintesi da essa creata è sempre originale, e la scienza dei contrari non è mai identica.

Se la conoscenza soggettiva della verità, per quanto coestensiva alla conoscenza privativa della realtà, è risultata del tutto diversa da essa, la conoscenza compiuta, che unisce alla visione del vero il possesso integrale del reale, differirà dall'una e dall'altra, per quanto quelle due non sussistano che in riferimento a questo compimento perfetto.

III.

Perché la verità abiti realmente nella conoscenza che ne abbiamo, occorre che nello spazio della sua necessità noi vogliamo ciò che può essere non voluto, e che istituiamo l'equazione tra il quantum di libera adesione che essa esige e il quantum di chiarezza inevitabile che ci impone.

Può darsi che ci sia l'impressione di creare confusione tra competenze, e di attribuire alla conoscenza un carattere che non è più specificamente intellettuale, perché palesemente è subordinato a un atto volontario.

Ma apriamo bene gli occhi.

Quando vogliamo, non si tratta di far sì che la realtà sussista in sé, in quanto un decreto arbitrario l'avrebbe creata in noi.

Si tratta invece di far sì che sia in noi perché è e come è in se stessa.

Questo atto di volontà non la fa dipendere da noi, ma ci fa dipendere da essa.

Il ruolo di quella conoscenza necessaria che precede e prepara l'opzione è precisamente quello di essere una regola inflessibile.

Ma dal momento in cui ciò che ha di necessariamente volontario è voluto liberamente, essa non cessa per questo di essere una conoscenza.

Al contrario ottiene il guadagno di veicolare, realmente presente in essa, l'essere di cui finora aveva soltanto la rappresentazione.

Ciò che era semplicemente un'idea dell'oggetto diventa, in maniera perfettamente vera, certezza oggettiva e possesso reale.7

Poiché la conoscenza ha bisogno di essere integrata e quasi riempita da una libera adesione, la quale senza mutarne la natura ne cambia la portata, che cosa bisogna accogliere in sé per immetterlo in quella?

In che modo si trasfonde in noi questa pienezza dell'oggetto?

Se, per conoscerli davvero, dobbiamo donarci agli altri, quale mezzo c'è di donarli a noi e di donare noi a noi stessi?

Da dove deriva che, anziché essere una causa di confusione, l'unione universale appare come la condizione della distinzione reale tra gli esseri?

In che modo le stesse apparenze che li distinguono devono e possono essere fondate in assoluto?

In che senso sussiste il determinismo dei fenomeni?

Infine, in che modo persino quello che sembra possa essere visto soltanto dall'esterno deve essere reintegrato nell'essere, servendo alla costituzione dell'autentica esistenza oggettiva?

Sono questi i problemi di cui adesso bisogna indagare il senso.

Comprenderli bene significherà risolverli, perché significherà constatare semplicemente la sequenza necessaria delle relazioni che li fanno nascere l'uno dall'altro, avviandoli attraverso una serie di progressi provvisori fino alla soluzione definitiva.

Si tratta infatti di vedere in che modo tutto quel determinismo, prodotto e implicato automaticamente in ogni operazione volontaria, quel determinismo che deve essere accolto e voluto da quello che c'è di più intimo in noi, trova tuttavia tra quei due poli soggettivi una consistenza propria e una realtà veramente oggettiva, senza peraltro che questa cessi di essere nostra.

È questo il solo mezzo per amministrare bene ciò che la conoscenza deve attingere da se stessa e dall'essere contemporaneamente, e per conciliare la necessaria originalità del pensiero con la necessaria autorità della verità.

I - A livello della nostra conoscenza l'ordine universale è reale soltanto nella misura in cui accettiamo quello che c'è di necessario.

Ora noi non possiamo accettare ogni cosa, non possiamo accettare noi stessi, senza passare per « l'unico necessario », nel quale giustamente si è visto il principio del determinismo totale.

Se la nostra volontà personale ci impedisce di giungere alla nostra volontà vera, niente può essere in noi realmente finché non abbiamo abbandonato questa solitudine dell'egoismo, sostituendo con il volere divino l'amor proprio, il quale volendo guadagnare perde tutto.

Occorre dunque comprendere questa doppia verità: noi non potremmo arrivare a Dio, affermarlo veramente, fare come se esistesse e fare realmente sì che esista, averlo in noi, se non esistendo per lui, sacrificando a lui tutto il resto; ma tutto il resto entra in comunicazione con noi soltanto attraverso questo mediatore, e l'unico modo di guadagnare il piano del tutti per tutti è quello di cominciare con il solo a solo con lui.

No, non si potrebbe essere ne per sé ne per gli altri senza essere dapprima per lui.

Dimitte omnia et invenies omnia.8

Conoscere Dio realmente significa dunque portare in sé il suo spirito, la sua volontà, il suo amore.

Nequaquam piene cognoscitur nisi cum perfecte diligitur.

Se egli si offre all'uomo sotto una forma di annichilimento, l'uomo non può offrirsi a lui se non annichilendosi, egli pure, per restituirgli il suo privilegio divino.

Il sacrificio è la soluzione del problema metafisico attraverso il metodo sperimentale.

E se l'azione, lungo tutto il corso del suo sviluppo, è risultata una fonte inedita di chiarezza, è necessario altresì che proprio al termine la conoscenza che consegue all'atto perfetto di abnegazione contenga una rivelazione più piena dell'essere.

Essa non lo vede più dal di fuori, ma lo ha colto, lo possiede, lo trova in sé.

La filosofia autentica è la santità della ragione.

La volontà ci aliena e ci assimila al suo fine, l'intelletto ci assimila e ci ottiene il suo oggetto.

Ecco perché, donandoci a Dio con una dedizione totale, possiamo penetrarlo meglio col nostro sguardo.

La purezza del distacco interiore è l'organo della visione perfetta.

Non è possibile vederlo senza possederlo, possederlo senza amarlo, amarlo senza rendergli l'omaggio da parte di tutto quello che esiste, per ritrovare in tutto unicamente la sua volontà e la sua presenza.

Qualunque cosa ci costi, noi vogliamo che lui sia quello che è; e in tal modo lui diventa in noi quello che è in sé.

Perciò quando presumiamo di raggiungere direttamente una cosa qualsiasi, sbagliamo strada.

È impossibile imbattersi realmente in un altro essere, è impossibile imbattersi in se stesso, senza passare per questo unico necessario che deve diventare la nostra unica volontà.

Possiamo guadagnare una nostra consistenza interiore soltanto se non ci separiamo da lui.

Per essere uno, per essere, non è necessario che io resti solo.

Ho bisogno di tutti gli altri.

E tuttavia, per esprimermi con estremo rigore, al mondo non ci siamo che lui e me, per entrare in commercio immediato con l'insieme degli uomini.

Da solo, con lui solo. Gli altri non c'entrano.

Poco importa tutto il determinismo delle condizioni che favoriscono o intralciano la mia vita.

Quello che importa è di captarne in me la sorgente e di addossarmene non più la coazione esteriore, ma la verità e l'azione intima.

Tutto quindi deve essere riferito alla causa prima di tutto, sia ciò che mi piace sia ciò che mi dispiace in quel determinismo.

E nulla mi colpisce, mi penetra, mi smuove, se non ciò che procede da quella causa prima.

Anche quello che al di fuori può essere contrario al volere divino, in me non è altro che permesso e decisione divina.

Io non entro in comunicazione che con Dio.

E per questo l'espressione verbale della separazione sensibile, che comincia con l'abbraccio degli amici che ci lasciano, un abbraccio sempre lontano anche nell'amplesso più stretto, è la parola addio.

Ma è altresì la parola dell'unica e autentica unione, quella consacrata dalla stessa assenza, perché quest'ultima con l'eliminazione dei legami illusori attesta la solidità del vincolo reale.

Se si giunge a Dio unicamente sacrificando tutto quello che non è lui, in lui si ritrova la realtà autentica di tutto ciò che non è Dio.

Non ci presentiamo mai soli alla sua presenza, perché nella testimonianza che lo riconosce davvero è inglobato l'omaggio e il dono di tutto l'universo.

Ma non lo ritroviamo mai solo, perché dopo aver sacrificato all'Essere tutti gli esseri che non esisterebbero senza di lui, recuperiamo in lui tutti gli esseri che esistono grazie all'Essere.

L'illusione del distacco senza compenso provoca la verità e la gioia del possesso senza eccezione.

Adesso dunque bisogna comprendere in che modo si realizza in noi l'unione universale, prima di vedere in che modo da questa comunione totale dipenda il nostro essere noi stessi e il nostro rimanere distinti nell'incomunicabile singolarità della persona umana.

II - L'intelligenza profonda dei sentimenti altrui ha sempre come causa o come effetto un legame affettivo.

È una verità dell'esperienza comune, ma che interessa il fondo della nostra natura.

L'essere è amore; quindi se non si ama, non si conosce niente.

E per questo la carità è l'organo della conoscenza perfetta.

Essa depone in noi quello che è nell'altro.

E rovesciando, per così dire, l'illusione dell'egoismo, ci inizia al segreto di qualsiasi egoismo diretto contro di noi.

Nella misura in cui le cose esistono, agiscono e ci fanno patire.

Accettare questa passione, recepirla attivamente, significa essere in noi quello che esse sono in loro.

Dunque escludersi da sé, mediante l'abnegazione, significa generare in sé la vita universale.

Ed è facile dare una spiegazione.

Ciò che si impone necessariamente alla conoscenza non è altro che l'apparenza.

E ciascuno conserva nel suo fondo l'intima verità del proprio essere singolare.

In me c'è qualcosa che sfugge agli altri, e che mi innalza al di sopra di tutto l'ordine dei fenomeni.

E anche negli altri, se sono come me, c'è qualcosa che mi sfugge, e che sussiste solo se mi è inaccessibile.

Io non sono per loro come sono per me, ed essi non sono per me come sono per loro.

L'egoismo è sconvolto dalla sola idea di tanti egoismi antagonistici.

E, nonostante tutta la luce della nostra scienza, rimaniamo avvolti nella solitudine e nell'oscurità.

Soltanto la carità, collocandosi nel cuore di tutti, vive al di sopra delle apparenze, si comunica fino all'intimità delle sostanze, e risolve completamente il problema della conoscenza dell'essere.

Essa ha quello straordinario privilegio per cui, senza privare nessuno di ciò che gli appartiene e partecipando con la semplice intenzione al bene degli altri, fa proprio tutto quello che essi hanno a livello di vita e di azione.

E come possiamo conferire l'atto e l'essere ad altri noi stessi?

In che modo « l'altro e io » diventano identici nell'assoluto?

In che modo gli altri sono in noi e per noi quello che sono in loro e per loro, se non quando noi diventiamo per noi stessi quello che siamo per loro e quando essi diventano per noi quello che sono per loro?

Non è dunque sufficiente una giustizia formale, che consideri unicamente nella persona il suo carattere impersonale e la sua astratta dignità in quanto uomo.

È necessario che, facendoci per così dire oggetto impersonale e strumento dedito al servizio degli altri, arriviamo fino a quell'amore che abbraccia le caratteristiche spesso così urtanti dell'individuo.

Ognuno in tutti tranne che in sé, è questo il motto della carità, la quale accorda agli altri la tenerezza indulgente che rifiuta a sé e, non contenta di essere buona con loro, accetta ugualmente sia la loro ingratitudine, perché vince facendo del bene a chi non è buono, sia la loro bontà, perché vince altresì diventando obbligata nei loro confronti, e praticando l'arte di ricevere, che è più difficile e forse superiore alla scienza del dare.

Perché rinfacciamo agli altri di essere egoisti solo se lo siamo noi, e soffriamo in loro le nostre miserie.

Si dà persino un desiderio estremo della perfezione negli altri che denota una carenza di perfezione in noi.

Bisogna dimenticare gli altri per sé e dimenticare se stessi per loro, giudicando se stessi come se si trattasse di un altro e gli altri come se si trattasse di sé.

Quante volte, per biasimarli, li mettiamo al nostro posto senza mettere noi al loro posto!

Essere tutto per tutti significa essersi dilatato al punto da non avere più né particolarità né difetti.

Amare gli uomini senza illusioni significa dare loro tutto, senza chiedere niente in contraccambio, senza aspettare niente da loro, senza rifiutare niente di buono da loro.

La vita universale non è la somma astratta delle forme impersonali del pensiero o dell'essere.

Essa si compone di tutta la varietà delle coscienze e delle sensibilità.

Possederla in sé significa dunque essere egoista in tutti e trasformare in felicità il martirio della vita comune.

La felicità razionale è la felicità degli altri.

Ed esercitare su di loro un'azione favorevole significa farli agire bene.

Così la verità dell'amore si estende fino alla vita sensibile, fino ai corpi sofferenti, fino all'elemento della materia bruta.

Limitarsi a una misericordia affettata, che col pretesto di far elevare gli uomini al suo livello non è accondiscendente con loro, non significa affatto amarli, conoscerli.

L'uomo che bisogna comprendere e amare è formato da questa miseria fisica e morale che sembra non farne più un uomo.

E non bisogna credere che questo sia soltanto una questione di sentimento.

Siamo sempre portati a dimenticare che non ci è lecito fare una specie di selezione nel campo del determinismo universale e di accettarne una parte per respingerne l'altra.

Se prima non passiamo attraverso tutte le sue esigenze, non possiamo abbracciarne nulla in noi.

Come per amare e per conoscere un uomo è necessario amarlo, così bisogna amarli tutti a livello di intenzione, e, all'occorrenza, anche di fatto, amarli come sono, senza aspettare che siano come dovrebbero essere.

Per donare loro l'essere in noi, è necessario che volontariamente ci attrezziamo di pazienza verso la loro azione reale.

Tutto concorre a tale azione; di conseguenza in essa niente sarà reale, o lo sarà tutto, anche quello che ha di più individuale e di più sensibile.

Come abbiamo visto, è proprio questo elemento sensibile che costituisce il vincolo universale della solidarietà.

Sicché l'amore più sconfinato è quello più puntuale, e per portare nel proprio cuore l'umanità intera, bisogna dedicarsi con ogni cura e con la massima concretezza a qualche umile opera di misericordia.

Solo a questa condizione la carità è autentica e, se è consentito dirlo, scientifica.

Essa è universale e si prende cura sempre di ciò che è unico.

Altrimenti, con quale diritto e in nome di quale virtù si sacrifica la propria vita per salvare quella di un altro, e un uomo si perde per preservare un altro uomo?

Quando si conserva nell'altro la vita transitoria, mentre la si perde per sé, si guadagna in sé la vita che non passa.

Sottraendo alla distruzione quel corpo, si rende un culto alla carità indelebile, la quale coniuga insieme tutti i membri dell'umanità.

Ogni volta che una figura di uomo trapassa, bisogna sentire che dovremmo essere pronti a morire per il più umile dei piccoli: la morte è il trionfo dell'amore e l'accesso alla vita.

Essa diventa come un dovere, e il dovere non è che la morte.

Questa passione è ancora più attiva e più eroica quando è causata dalle miserie morali.

E come presumere che l'amore sia interessato e mercenario, quando spinge la persona misericordiosa ad amare, a costo di tanti dolori, coloro che si pervertono, quando la porta a morire per l'uomo traviato, se occorre?

Come se questa morte volontaria fosse l'unica maniera per conoscere coloro che si separano dalla vita, per rimanere ancora legati a coloro che si distaccano di propria iniziativa dalla comunione umana.

Gli uomini si accostano soltanto a coloro che soffrono dei loro stessi mali, perché soltanto da questi sono conosciuti.

L'amore e la scienza degli uomini formano una sola cosa.

Pertanto, secondo una bella espressione di Leibniz, « amare tutti gli uomini e amare Dio è la stessa cosa », perché in tutto e per tutto c'è soltanto lui da amare, e perché non si può conoscere nessun uomo senza abbracciarli tutti con la medesima carità.

Essi si uniscono tra loro realmente solo grazie alla fiamma di un fuoco che il mondo intero non sarebbe in grado di attizzare.

È dunque giustificato questo circolo: senza quell'amore attivo, che i membri dell'umanità hanno l'uno per l'altro, per l'uomo non c'è Dio; chi non ama il proprio fratello non ha la vita in sé.

Ma si tenterebbe altresì invano di raccogliere gli spiriti in una famiglia respingendo il Padre degli spiriti, invano si tenterebbe di ingannare le istanze della ragione, di nascondere quel grande vuoto esaltando altri sentimenti; nel fondo delle cose, nella pratica comune della vita, nella logica riposta delle coscienze, senza Dio non c'è uomo per l'uomo.

C'è quindi un'intrinseca contestualità tra questi sentimenti, tra questi atti così differenti: adorare in spirito e in verità nel solo a solo con Dio; rendere un culto al corpo dell'umanità in ciascuno dei suoi membri come se fosse il corpo di Dio vivente in ciascun punto dell'organismo universale.

E, in effetti, che cos'è un organismo, se non la distinzione, e al tempo stesso l'unione, tra parti animate da una stessa vita, al punto che ogni cellula ha l'onore di tutte le funzioni, poiché solo le più umili rendono possibili le più nobili?

Perciò in una società che possiede, per così dire, un'identica coscienza, ciascuno è in tutti grazie alla carità, tutti sono in ciascuno grazie alla conoscenza e all'azione.

E mentre nell'ordine delle apparenze i fuochi di luce si disperdono progressivamente e perdono il loro splendore e il loro calore, qui i raggi si concentrano in nuovi fuochi.

Più diamo, più abbiamo.

Quale sconfinata produzione di essere e di bontà si verifica laddove la sorgente è infinita e i suoi canali di distribuzione si accrescono, irradiandosi!

Ciascuno per sé, ciascuno per un altro, ciascuno per tutti, ciascuno per ciascuno, tutti per tutti, tutti per ciascuno: tutti questi amori si congiungono e si irrobustiscono quando Dio è in tutti.

E la conoscenza che ne abbiamo è piena della realtà che esprime.

Ma, fondendo insieme in questo modo le vite più disparate, non si espone la coscienza personale al rischio di esplodere e di perdersi in quella confusione universale?

I limiti della conoscenza attuale e le peculiarità sensibili dell'individuo non costituiscono le condizioni necessario della stessa distinzione tra le persone?

Facendo sparire le frontiere dell'egoismo e le ripugnanze reciproche delle sensibilità tra loro più impenetrabili degli stessi corpi, non si finisce per far svanire contemporaneamente anche quello che è sempre risultato essere « il principio di individuazione »? - No.

Anziché essere causa di confusione, questa comunione universale diventa l'unico mezzo di possesso e di distinzione perfetta.

Essa rappresenta l'unica maniera per realizzare la persona umana e per costituire, mediante questa, tutto il resto.

Beninteso, ci rimane da giustificare la verità assoluta di questo ruolo mediatore dell'azione.

III - Il problema che adesso ci si presenta è singolare.

Non basta possedere la conoscenza necessaria e l'idea di una realtà oggettiva.

Non basta avere accumulato volontariamente in sé quella verità reale, né aver messo se stesso nell'altro con un'azione che, comunicando agli altri tutto quello che siamo, ci riporta tutto quello che gli altri sono.

Occorre anche che quelli siano loro in se stessi e che noi restiamo noi in noi stessi.

E queste due condizioni sono contestuali.

Infatti se ci realizziamo soltanto partecipando a quello che gli altri sono, siamo reali e diversi solo in quanto anche loro lo sono.

È dunque necessario fondare la realtà esteriore degli oggetti esterni, affinché, viste dal di fuori, le cose di fuori abbiano una consistenza reale.

La verità della realtà esterna oggettiva è indispensabile per mantenere la realtà interna soggettiva degli esseri.

Eccoci indotti necessariamente a ricercare la realtà oggettiva delle cose non in un al di sotto sempre sfuggente, non in uno degli aspetti che esse assumono per i sensi o per l'intelletto, non in una loro essenza metafisica oppure nell'intimità di quella vita incomunicabile in cui penetriamo quando le amiamo, ma in tutto questo a un tempo.

Il loro essere è precisamente l'unità di quell'apparenza molteplice e la diversità simultanea di quei fenomeni inseriti in un contesto universale.

Tra i termini che la scienza dell'azione ha appena perlustrato con un continuo avanzamento, nessuno è più solido o meno solido dell'altro, finché la relazione che li unisce tutti non è eretta essa stessa a realtà.

Grazie all'analisi di quella conoscenza oggetti va che sembra metterci in possesso della realtà, siamo indotti a reintegrare in essa tutta l'apparenza delle cose, e a conferire una verità sostanziale a tutte le forme della conoscenza e dell'azione, alle illusioni, persino agli errori, che sembrano privarci dell'essere.

Questo obiettivo palese è l'elemento comune che costituisce l'unità dell'insieme.

Quindi bisogna assodare la certezza peculiare della totalità del determinismo palese dei fenomeni, considerando non più quel tanto di conoscenza necessaria che ci impone, ma quel tanto di realtà che contiene in sé.

È necessario che esso sia quello che appare e che quello che ha di necessario, di oggettivo, di esteriore, di dispotico resti tale.

Tutto è connesso: se in quel determinismo non tutto fosse reale, niente lo sarebbe; bisogna allora arrivare fino all'estremo di queste istanze, mostrando non tanto che l'azione mediatrice è un fatto necessario per la costituzione di tutto l'ordine delle cose, quanto che la mediazione dell'azione è essa stessa una verità, che è reale indipendentemente dalle realtà di cui istituisce il rapporto nella nostra conoscenza e che quelle realtà medesime sussistono unicamente perché la mediazione ha una realtà intrinseca.

In altri termini tutte le condizioni transitorie dell'azione, la cui palese costrizione è stata ricondotta a essere semplicemente una forma del volere nella sua massima intimità, devono diventare per la volontà stessa una necessità assoluta e una norma definitiva.

Insomma si tratta di conferire al fenomeno tutto « l'essere in sé » che comporta.

È necessario che vi sia un « essere in sé ».

Altrimenti in mancanza di questo piccolo tassello tutto quello che abbiamo fatto si ridurrebbe a nulla, l'intero ordine della natura svanirebbe, e la stessa personalità si dileguerebbe, e niente di quello che abbiamo concepito sarebbe concepibile.

La solidità dell'intero sistema è interessata alla consistenza del minimo fenomeno.

E se, guardando dal basso alle condizioni più elementari dell'azione, la verità reale del fenomeno deve essere fondata perché tutto il resto lo sia, guardando dall'alto, questa stessa necessità si rivela ancora più perentoria.

Nel primo caso avremmo l'annichilimento, qui l'assorbimento di ogni essere distinto nell'immensità divina.

Se l'insignificante individuo che la coscienza ci mostra in noi non fosse che un'illusione effimera; se, una volta che la morte ha squarciato il velo del mistero sensibile, gli angusti limiti della stessa persona dovessero cadere per sempre, la leggenda di Cristoforo, stramazzato sotto il fardello che sembrava così leggero, sarebbe il simbolo del nostro opprimente destino. Ma no.

Lungi dall'essere un impaccio e un confinamento, le determinazioni individuali sono per l'uomo la condizione e il mezzo per la sua sconfinata dilatazione.

Se ha una vocazione divina, se nel cuore dello stesso infinito deve rimanere persona distinta, ciò avviene non cessando di essere un individuo, ma a condizione di rimanere tale.

Omne individuum ineffabile.

L'autentico infinito non sta nell'universale astratto, ma nel singolare concreto.

E proprio in base a ciò si manifesta, in tutta la sua grandezza, il ruolo di quello che abbiamo chiamato la lettera e la materia, di tutto quello che costituisce l'operazione sensibile, di quello che, più propriamente, compone l'azione, il corpo dell'azione.

Infatti proprio tramite questa materia la verità dell'infinito che ci soverchia si comunica intimamente a ogni individuo, e proprio tramite essa ciascuno è protetto dalla soverchiante potenza della verità infinita.

Per raggiungere l'uomo, Dio deve attraversare tutta la natura e deve offrirsi a lui sotto l'aspetto materiale più crudo.

Per raggiungere Dio, l'uomo deve attraversare tutta la natura e lo ritrova sotto il velo in cui egli si nasconde unicamente per essere accessibile.

Perciò tutto l'ordine naturale si erge tra Dio e l'uomo come un legame e come un ostacolo, come un tramite necessario di unione e come uno schermo necessario di distinzione.

E quando, grazie a una duplice convergenza, ciascuno ha percorso tutta la strada verso l'altro, e Dio e l'uomo si sono incontrati, questo ordine naturale rimane stretto nel loro amplesso reciproco, diventando così per l'uomo il sigillo della sua intima adesione al suo autore e della sua personalità inalienabile.

In che modo dunque può essere realizzata, a sua volta, questa relazione mediatrice?

Adesso, quindi, che risulta palese l'importanza del problema, non possiamo fare a meno di rilevarne tutta la difficoltà e persino la singolarità.

Fin dalla pristina intuizione, la questione della verità reale del fenomeno sensibile emergeva palesemente come un problema insolubile.

Non appena si preme la percezione immediata, ne viene fuori altro da quello che è.

Ciò che la scienza ne estrae non è più, mai più, quello che il senso percepisce.

L'analisi non si azzardi a tentare di sondare questo abisso che separa la qualità data dalla proprietà supposta, perché vi si perde.

Attenendosi al dato intuitivo, l'analisi rimane prigioniera del fenomeno soggettivo; perseguendo l'elemento razionale che crede di cogliervi, non riesce mai più a ritornare al dato concreto.

È obbligata a lasciar perdere le apparenze, χαιρείν έάν,9 e il sensibile non esiste più come sensibile.

Sembra addirittura inconcepibile che esista, e a prima vista non si riesce a comprendere che cosa significhi l'essere per esso.

E quanto si è appena detto del fatto sensibile bisogna ripeterlo per ogni altro oggetto di conoscenza relativo a ciascun termine della serie totale delle cose.

Come le intuizioni sensibili, i concetti dell'intelletto non tollerano di essere costituiti in realtà da parte dello stesso intelletto.

Ogni ordine di fenomeni solleva una critica che fa arretrare il centro di prospettiva.

E tuttavia, se viene meno anche una sola pietra, l'intero edificio si sgretola rovinosamente.

È dunque necessario elevare al suo quoziente di essere e di assoluto questo elemento relativo, questa apparenza dello stesso fenomeno per completare la restituzione complessiva del determinismo dell'azione.

IV.

Se semplicemente determiniamo la sequenza delle relazioni concatenate nella coscienza sotto la spinta coercitiva delle necessità pratiche, ecco che ci imbattiamo, dove neppure sognavamo di intravederla, nella definizione della realtà oggettiva.

Invece di voler applicare al referente sempre sfuggente una nozione arbitraria e indeterminata di esistenza reale, bisogna vedere in quale punto preciso e in che senso definito quella nozione trova il suo impiego necessario.

Invece di collocare la realtà in oggetti sempre incapaci di contenerla, bisogna collocare quelli nella realtà.

Invece di cercare quello che è al di fuori di ciò che appare, bisogna fare di ciò che appare quello che è.

Quindi il primo passo da fare è quello di comprendere che cosa significa essere, nel momento in cui si parla di esistenza oggettiva.

Resterà da vedere come è possibile pensare che questo essere sia, e quali sono le condizioni necessario e sufficienti per una soluzione in grado di soddisfare tutte le istanze del problema.

I - Da una parte, l'intero ordine dei fenomeni, nella misura in cui ne abbiamo una conoscenza necessaria, è coinvolto in ogni azione umana.

E la stessa idea che abbiamo della sua esistenza oggettiva risulta originata in noi.

Sotto questo profilo tale conoscenza necessaria è soggettiva.

- Dall'altra quel determinismo globale del pensiero e della natura, nella misura in cui l'azione vi cerca il proprio alimento e i propri fini, è reintegrato nella volontà di cui era parso una produzione spontanea.

Sotto questo profilo, quella conoscenza e quel possesso volontario dell'oggetto è ancora soggettivo.

Ora quello che è specificamente e realmente oggettivo si colloca tra questi elementi soggettivi.

In che modo?

Quello che è soggettivo nella pristina produzione della conoscenza non è identico a quello che è soggettivo nel possesso finale della verità acquisita.

È fuori dubbio che da un capo all'altro si manifesta quella fecondità del pensiero e quell'iniziativa generatrice senza la quale nulla avviene in noi.

Ma da un capo all'altro si erge come una sorta di tramite o di ostacolo la serie complessiva delle cose di cui la scienza dell'azione ha appena dipanato il grandioso concatenamento.

Dobbiamo assimilare con un'adesione pratica esattamente quello che sorge dal fondo della nostra aspirazione volontaria.

Se lo vogliamo per noi, vuoi dire che non è nostro.

E l'azione, nella sua tendenza a rendere soggettiva la realtà che ci viene prospettata da una prima visione soggettiva dell'oggetto, determina quello che è specificamente oggettivo nella nostra conoscenza.

L'oggetto reale è esattamente la differenza tra quei due termini soggettivi.

E perché quell'espressione abbia un senso, occorre che si applichi a quelle sintesi eterogenee e contestuali che ci sono apparse come intermediari naturali tra quello che vogliamo, perché non lo siamo ancora, e quello che dobbiamo essere, perché lo avremo voluto.

Da sé quei due termini sono irriducibili l'uno all'altro.

Ciò che per forza di cose li unisce ha per noi una realtà propria.

Analizziamo dunque l'esistenza oggettiva, sotto la forma nella quale è concepita necessariamente: mai la potremo collocare altrove.

Per noi costituisce una necessità il fatto che sia.

Ed è necessario che sia così: essa non ha altro senso, secondo quanto costituisce la convinzione spontanea di qualsiasi uomo.

La verità e l'essere non possono essere in ciò che non è conosciuto, e nemmeno conoscibile.

È necessario che quello che è conoscibile sia quello che è.

In che modo quello che è conosciuto in quanto oggettivo sussiste oggettivamente così come è affermato e voluto soggettivamente?

È questo il punto da chiarire.

In ogni forma di conoscenza ricorre questo duplice elemento, la produzione interna della nozione che appare come un oggetto, e l'oggetto che appare come un principio esterno di percezione e come un fine per l'azione.

E in tutta la serie dei fenomeni si estende questa stessa dualità di iniziativa soggettiva e di passività esterna.

Ovunque ricorre un analogo impasto di conoscenza prodotta e di conoscenza subita.

Ed è proprio su questo piano, in cui è sembrata consumarsi la rovina di qualsiasi affermazione oggettiva, che scopriremo il segreto di ogni esistenza reale degli oggetti in quanto oggetti.

È stata una scoperta quando si è notato, come ha fatto Kant, che anche l'intuizione sensibile, che si pensava totalmente a posteriori, presuppone un a priori, e che in ragione di questa iniziativa soggettiva è impossibile ricondurre all'assoluto il meccanismo della natura, o realizzarlo fuori del pensiero, come è in sé.

È una scoperta ulteriore quando si sottrae a questa conclusione critica il valore assoluto che essa detiene solamente per un'incoerenza, come se fosse legittimo servirsi dell'intelletto contro la sensibilità, mentre ci si serve della sensibilità contro l'intelletto.

Ipotizzare differenze di natura e di solidità tra i fenomeni eterogenei da cui è composta la catena del determinismo, opporre tra loro le diverse facoltà, evidenziare distinzioni radicali tra i risultati disparati del loro lavoro, tutto ciò costituisce un residuo di idolatria.

Le pretese del kantismo, mentre da un lato sono fondate, in quanto sono dirette contro ogni tentativo fatto per collocare la realtà oggettiva qui o là in un termine della serie delle conoscenze umane, dall'altro sono illegittime, in quanto, accontentandosi di combattere contro quel tentativo artificioso, trasformano in autentica e positiva soluzione di un problema reale la critica negativa di uno pseudoproblema.

Il Criticismo, vero in quello che nega, è falso in quello che afferma.

Venuti meno i problemi inconsistenti che lo tenevano in piedi, viene a cadere il sistema che li dissolve.

A sua volta quella dottrina cospira con le dottrine che combatte, perché ammette che occorra cercare di collocare l'idea ingombrante di esistenza reale in un termine, sempre spostato all'indietro, della serie delle cose.

Come se l'essere, cacciato progressivamente dall'intuizione sensibile verso i concetti dell'intelletto o dal noumeno verso il mistero delle verità morali, dovesse sempre essere altrove rispetto a dove siamo.

Le cose sono tutte ugualmente irrealizzabili, quando si pretende di mettere in esse la realtà, quasi fosse una cosa distinta da quelle, e sono tutte ugualmente reali, quando si è in grado di vedere a quali condizioni sono integrate tutte insieme nell'essere.

La verità quindi è al tempo stesso più ricca e più semplice di come l'hanno concepita i filosofi; ed eccola, del tutto conforme al sentimento popolare.

Tutto ciò che abbiamo chiamato dati sensibili, verità positive, scienza soggettiva, crescita organica, espansione sociale, concezioni morali e metafisiche, certezza dell'unico necessario, alternativa inevitabile, opzione mortale o vivificante, compimento soprannaturale dell'azione, affermazione dell'esistenza reale degli oggetti del pensiero e delle condizioni della prassi, tutto ciò non è altro che fenomeno allo stesso titolo.

Se consideriamo a parte ciascuno di questi elementi, nessuno può essere realizzato.

Tutti sollevano una critica che ci porta al di là di quello che sono, senza che possiamo attenerci a ognuno di essi, ma senza che possiamo farne a meno.

Né l'estensione o la durata, né il simbolismo scientifico, né la vita individuale, né l'organismo sociale, né l'ordine morale, né le costruzioni metafisiche sopportano di essere istituiti separatamente in realtà sussistenti: sarebbe come dire che la società può vivere senza la famiglia.

Ciò che l'Estetica Trascendentale è per le intuizioni dei sensi, una critica analoga deve esserlo per i simboli scientifici o per i concetti razionali o per le leggi dell'etica.

Ogni ordine di fenomeni è ugualmente originale come una sintesi distinta, trascendente in rapporto a quelli che ne sono le condizioni antecedenti, irriducibile a quelli cui sembra subordinato come a sue conseguenze, solidale con tutti, non trovando in nessuno la sua spiegazione integrale, non avendo la propria realtà né in esso né in nessun altro.

Non ha senso la ricerca che pretende di trovare in uno degli anelli del determinismo la solidità dell'intera catena, perché gli altri anelli sono privi di consistenza.

Nel giudizio popolare ciò che è non è né questo né quello, ma è tutto questo e tutto quello.

E il popolo ha ragione. Non vi sono fenomeni privilegiati.

Per esempio, il fenomeno sensibile è gravido di tutte le spiegazioni e di tutte le conoscenze ulteriori che a prima vista sembrava escludere, ma che di fatto implica.

Ogni ordine di verità sembra costituire un tutto sufficiente, formando un determinismo che esclude ogni altro determinismo.

Ma questi differenti determinismi sono tutti correlati e ne formano uno soltanto.

Perciò nella percezione del fatto più insignificante è già inglobato il problema metafisico o morale.

La realtà quindi non è in uno dei termini piuttosto che negli altri, né nell'uno senza gli altri, ma risiede nella molteplicità delle relazioni reciproche che li rende tutti contestuali.

La realtà è questo complesso medesimo.

Collocata nella serie, la nostra conoscenza subisce e produce le cose, in qualità di mediatrice.

Ecco, dal suo punto di vista particolare l'esistenza oggettiva è costituita da quello che essa subisce, da quello che produce e da quello che è.

Pertanto, per quanto strana possa apparire questa istanza, bisogna che gli oggetti siano quello che appaiono, e che la loro realtà consista non in chissà quale sostrato inaccessibile, ma in quello che di essi è determinato con precisione ed è conoscibile con esattezza.

È sembrato che essi fungano da intermediari: ebbene proprio questa relazione, proprio questo ruolo mediatore costituisce il loro essere, e ne istituisce la verità assoluta.

Per loro, essere significa sussistere così come sono conosciuti e voluti da noi, indipendentemente dalle deficienze dell'azione e della conoscenza umana.

È necessario che il determinismo delle apparenze scientifiche sia, in verità, l'ordine degli oggetti reali, e che il suo dispotismo esteriore si fondi sull'intimità dell'essere.

Quello che è per noi, deve essere anche senza di noi o nostro malgrado.

E quello che l'idealismo soggettivo esibisce come l'autentica espressione dell'esistenza, deve essere di fatto la materia di un vero realismo oggettivo.

Le cose non esistono perché noi le facciamo essere, ma sono così come noi le facciamo essere, e così come ci fanno essere.

È questo il duplice profilo della soluzione che ci resta da chiarire.

II - Prima di determinare tutte le condizioni indispensabili per l'esistenza delle cose è necessario vedere in che modo essa è concepibile.

Definita nel modo in cui è stata appena definita, non è impossibile?

Senza arrivare subito a dire che le cose sono, senza di noi o nostro malgrado, così come noi le facciamo essere, è comprensibile che esse siano tramite nostro e per noi così come le conosciamo?

Per prendere un esempio particolare nella serie delle cose, la realtà del fenomeno sensibile può forse essere il fenomeno sensibile stesso?

Come comprendere allora che siamo quello che conosciamo, o che quello che conosciamo sia?

Con un'espressione che va spiegata, la realtà del fenomeno è compresa tra quei due raggi di cui essa è il punto di convergenza, e che riunendosi in noi la costituiscono in se stessa.

Le cose sono perché i sensi e la ragione le vedono, e le vedono in comune, senza che quel doppio sguardo, ognuno dei quali a parte sembra penetrarle completamente, si confonda in esse.

Conoscere significa essere quello che conosciamo, significa produrlo, averlo, diventarlo in noi.

Sumus quod videmus.

La materia ha l'essere solo se l'essere diventa materia esso stesso, se ciò che è verbo interiore e vita in sé è realmente carne.

In tal modo dunque quello che l'astrazione distingue nella realtà sensibile deve rimanere indissolubilmente unito.

Se ne possono mostrare gli aspetti irriducibili, ma non se ne possono separare le facciate solidali.

E proprio perché non è possibile né separarle né riunirle, tra queste due apparenze conosciute sussiste quello che ne costituisce il sostegno e il vincolo, quello che ne istituisce la verità consistente.

Noi agiamo in loro e su di loro, esse agiscono su di noi e in noi.

La conoscenza, attiva e passiva, che ne abbiamo è, secondo quanto dobbiamo pensare, il doppio fondamento del fenomeno, sensibile e reale.

Ecco perché è ugualmente giusto dire che quei fenomeni consistono in ciò che è colto immediatamente per mezzo dell'intuizione, e che essi consistono in ciò che i nostri sensi non percepiscono.

Da una parte, la scienza è un'opera meravigliosa che, discendendo progressivamente di astrazioni in astrazioni fino ai rapporti più elementari e all'unità più universale delle leggi naturali, spoglia il mondo delle sue maschere sensibili.

Nella stessa materia essa esibisce ciò che è intelligibile, accessibile alle conquiste del pensiero, indipendente dal luogo e dalla durata, obbediente allo spirito, ciò che al limite, e a livello della conoscenza perfetta, non è altro che il pensiero creatore.

Essa tende a ricondurre l'universo all'intuizione divina del suo autore.

D'altra parte, la scienza è un'opera straordinaria che, determinando via via sempre più esattamente i caratteri originali delle sintesi percepite direttamente, mette maggiormente in evidenza la realtà definita delle qualità e delle specie sensibili, fino a poter dire che i fatti d'esperienza sono come ce li rivela la scienza sperimentale;

che in questa conoscenza sensibile essi hanno una verità razionale;

che i fenomeni possiedono in quanto fenomeni una consistenza incontrovertibile;

che, in una parola, le cose sono ben più profonde di quanto non emerga nel nostro sapere sul piano della riflessione seconda, poiché allo stesso tempo esse sono realmente come le conosciamo sinteticamente grazie a un primo sguardo.

E questi due aspetti sono entrambi reali solo nella misura in cui, essendo reciprocamente irriducibili, solo correlati nell'unità di un medesimo atto di volontà, nella percezione di una medesima sensibilità o di una medesima ragione.

Quindi proprio perché la ragione è immanente al sensibile e il sensibile è immanente alla ragione, quei fenomeni hanno una sussistenza propria.

Essi sono, perché la ragione li vede e penetra il segreto della loro produzione.

Sono, perché il senso li subisce e diventa passivo rispetto alla loro azione.

Il loro essere consiste precisamente in ciò che costituisce l'unità sintetica di questa doppia esistenza.

Perciò, per esempio, un paesaggio non è che uno stato d'animo, e l'armonia oggettiva delle linee e dei colori è inoppugnabile.

Perciò il dolore non è altro che la coscienza di essere il dolore, ed è precisamente lo stato la cui appercezione causa la sofferenza cosciente.

Perciò l'universo non è altro che la mia rappresentazione, ed è la condizione preliminare e la verità scientifica della conoscenza sensibile che ne posseggo.

Il fenomeno quindi ha, in ciò che lo percepisce, la stessa realtà di quel vincolo sostanziale che costituisce la sintesi degli elementi.

Infatti le cose che non esistono per sé, e che sono in sé unicamente in rapporto ad altri capaci di percepirle, hanno la proprietà di essere a un tempo conosciute e sentite.

Quest'ultimo è un carattere di loro pertinenza.

Noi siamo in loro grazie alla conoscenza razionale che, in forza del suo carattere di universalità, le ingloba tutte e ne definisce i rapporti secondo l'ordine intelligibile della loro produzione; esse sono in noi grazie alla percezione sensibile, che in forza del suo carattere singolare le individualizza e le qualifica.

Noi dunque abbiamo una conoscenza assoluta del relativo in quanto relativo.

Ed è per questo che quel relativo è.

È, senza che occorra cercare dietro il fenomeno una spiegazione che lo snaturerebbe.

È ciò che appare lungo tutta la sequenza delle sue manifestazioni eterogenee, ma contestuali.

Per la diversità dei suoi aspetti è ambiguo; ed è questa ambiguità che ne costituisce la verità reale.

Il suo fenomeno molteplice è il suo stesso essere.

Quindi non è sufficiente dire che l'essere delle cose sensibili è di essere percepito, se non si aggiunge che il soggetto percipiente è lui pure tramite il percepito.

Essere oggettivo significa quindi essere prodotto e subito da un soggetto.

Infatti avere un'azione reale su un essere reale significa essere reale.

Perciò, perché siano veramente, è necessario che le cose agiscano; perché agiscano, è necessario che siano percepite e conosciute.

Infatti, non percependosi direttamente da sé perché non sono causa di sé, è senz'altro necessario che siano percepite da chi è in grado di agire su di esse.

Essendo prodotte e subite, il loro essere consiste nell'essere attive e passive in uno e, in maniera mediata, in sé.

Inserito come un termine necessario nella serie, a sua volta, il pensiero, da cui dipendono le cose, deve in un certo senso dipendere da loro, perché esse non si riducano al pensiero.

Occorre dunque comprendere come la conoscenza oggettiva, per quanto indispensabile e identica all'esistenza oggettiva, rimane distinta da questa, e come a sua volta lo stesso pensiero, in funzione del quale abbiamo appena espresso la realtà del resto, non è che un termine medio che può essere espresso in funzione degli altri.

III - È questo dunque l'ordine inconsueto ma necessario delle questioni, quell'ordine appunto che corrisponde alle credenze ingenue e ai procedimenti naturali del pensiero: pensiamo, affermiamo inoppugnabilmente un'esistenza oggettiva.

Di conseguenza bisogna determinare in che cosa può consistere, e come è possibile che sia realizzata, come lo è necessariamente ai nostri occhi, poiché è necessario che lo sia per noi.

Questo in verità significa rovesciare i termini consueti del problema.

Ma la questione dell'essere non è preliminare, bensì finale.

E probabilmente è bene, prima di praticare la ricerca, sapere di che cosa veramente si va in cerca, senza pretendere di trovare la realtà fuori del reale.

Quindi, anziché arrabattarsi invano a vedere come può essere dato quello che è, bisogna estendere come quello che è dato è.

Con la pretesa di far gravitare gli oggetti intorno al pensiero, il Criticismo si era collocato fuori del centro, quasi a contemplare lo spettacolo dal di fuori.

E se è stato attento soprattutto al movimento centripeto che riconduce tutte le cose al soggetto, ciò è avvenuto perché è rimasto nella sua collocazione esterna, quasi a giustificare l'utilità del suo sforzo e la novità della sua prospettiva.

Ogni dottrina soggettivistica parte da un pregiudizio realistico, poiché i contrari non sono mai altro che gli estremi in uno stesso genere.

Un idealismo perfettamente conseguente fa sparire tutte le distinzioni che lo separano dal realismo, ed elimina quanto c'è di artificioso nel problema mal posto che pretendeva risolvere.

La vera difficoltà, quindi, sta nel comprendere perché ciò che conosciamo è reale così come lo conosciamo, senza che la nostra conoscenza particolare sia assolutamente essenziale alle relazioni che tuttavia sembrano esistere solo in funzione di essa.

Se per noi è necessario pensare e affermare l'esistenza oggettiva, questo bisogno suscita ineludibilmente la sua espressione.

Pertanto bisogna vedere ciò che è necessario perché quell'esistenza, secondo le istanze stesse del nostro pensiero, sia realizzata necessariamente anche senza il nostro pensiero.

Infatti questo pensiero, per essere veramente, ha bisogno che quelle condizioni con cui è in rapporto di contestualità siano a loro volta sussistenti.

Quindi non si tratta più semplicemente del fenomeno sensibile, ma di tutti i fenomeni, anche delle verità positive o metafisiche o morali o religiose, di qualsiasi forma della realtà concepita nell'unità molteplice di un identico determinismo.

Indubbiamente abbiamo già cominciato a comprendere come è possibile che un oggetto sia un oggetto.

Essere, ed essere in sé, per l'altro: è qui che sta il mistero dell'esistenza oggettiva, il mistero di ogni esistenza mutuata, che non ha in sé la propria sorgente e che tuttavia non smette di sussistere.

Ma non è più sufficiente pensare la possibilità di questa esistenza, bisogna vedere come è reale, e necessariamente reale.

A quali condizioni la conoscenza e la volontà possono creare il loro oggetto?

In base a che cosa bisogna rovesciare i termini del rapporto, e dire che le cose che sono così come le conosciamo sono conosciute così come sono?

In che modo ciò che in noi è apparenza nelle cose è realtà?

Di modo che la verità oggettiva, senza che mai si possa accusarla di esserci imposta dal di fuori, deve esercitare su di noi il suo dominio e stabilire un regno esteriore.

È anzitutto una necessità che l'intero ordine delle cose, così come la scienza dell'azione lo ha progressivamente dipanato davanti alla conoscenza riflessa, abbia nella sua globalità il medesimo valore oggettivo.

Un anello non potrebbe essere meno solido, meno necessario, meno reale di un altro.

E nonostante l'estrema diversità degli elementi che compongono la serie, tutti, tanto l'intuizione sensibile o le verità positive quanto le condizioni della vita individuale, sociale o religiosa, partecipano a un'unica e identica necessità ipotetica.

Tutto, sia l'affermazione del Dio vivente sia il fenomeno fisico più bruto, non sono altro che forme di un identico bisogno interiore.

Di conseguenza ogni elemento ha bisogno di essere assolutamente fondato in linea di diritto, e nessuno lo può essere senza l'altro.

La stessa conoscenza, che sembra contenerli e produrli tutti in noi, a sua volta non è che un termine subordinato e necessario agli altri.

Ecco perché, simulando l'abolizione della nostra coscienza individuale, non eliminiamo l'idea della coscienza, poiché, mentre sembra sostenere tutto il resto, essa è sostenuta da tutto il resto.

Grazie al mio pensiero, non riesco a eliminare il pensiero, e neppure a pensare che esso venga abolito.

Posso supporre finché voglio la non esistenza della mia persona, ineluttabilmente lascio sussistere in me l'impersonale, ossia la necessità almeno di una persona fuori di me, per sorreggere tutto ciò che è, o tutto ciò che può essere, a livello del suo pensiero e della sua volontà.

Pertanto in noi sussiste una verità necessaria e impersonale che è nostra, nel momento in cui la reputiamo indipendente da noi, e che è indipendente da noi, nel momento in cui riconosciamo di avere un pensiero nostro unicamente grazie alla sua presenza in noi.

Conferire un valore oggettivo al determinismo degli oggetti, che non avevano altra esistenza se non in quanto pretesi dall'azione, significa attribuire una realtà propria a ciascuna delle sintesi che lo formano.

Ora, è possibile fare ciò unicamente a condizione di non escludere nessuna delle parti contestuali dell'insieme, e di far rientrare il mio stesso pensiero nella serie al medesimo titolo di ogni altro fenomeno contingente.

Le cose esistono senza di me, così come sono tramite me, e così come io sono tramite esse.

Perciò, dal momento in cui la serie globale ha assunto questo carattere di oggettività, la necessità di quel determinismo esteriore cessa di essere condizionata per diventare assoluta.

I ruoli risultano invertiti: mentre prima era esigila dallo sviluppo della volontà, adesso la verità oggettiva diventa esigente e dominatrice.

E quindi, perché sussista davvero questa molteplicità di oggetti, è necessario altresì che i loro aspetti infinitamente vari siano percepiti come da altrettanti centri di prospettiva, che, da una visuale particolare, riducano all'unità quella stessa diversità.

Di qui la ripetizione e la moltiplicazione delle sensibilità diffuse ovunque, le quali, contribuendo ciascuna per la sua parte singola alla ricchezza infinita della natura e ai liberi giochi della sapienza divina nell'organizzazione della storia universale, preparano l'opera necessaria della concentrazione finale.

Infatti perché le cose che sono percepite siano percepite così come sono, non basta una conoscenza percettiva o passiva, ci vuole una conoscenza razionale e produttiva.

Ma non è sufficiente neppure una conoscenza produttiva o razionale, ci vuole una conoscenza percettiva o passiva.

La realtà delle cose è quella di essere mediatrici tra quel doppio profilo.

Esse quindi esistono a condizione che la loro variegata molteplicità agisca su colui che le percepisce e le subisce; esistono a condizione che quelle percezioni molteplici e passive, ricondotte all'unità di un pensiero in grado di abbracciarle tutte, si fondino su una volontà che, mentre le produce così come sono, le accetta così come appaiono.

Noi possiamo diventare e far essere quello che subiamo passivamente solo se rendiamo questa passione attiva e volontaria.

Dunque, la realtà oggettiva degli esseri è legata all'azione di un essere che, vedendo, fa essere quello che vede, e che, volendo, diventa a sua volta ciò che conosce.

Se le cose sono perché Dio le vede, esse dapprima sono soltanto passive rispetto alla sua azione creatrice, e quasi non esistono in sé.

Ma se le cose sono attive e davvero reali, se sussistono sotto il loro profilo oggettivo, insomma se sono, è perché lo sguardo divino le vede attraverso lo sguardo della stessa creatura, non più in quanto le crea, ma in quanto sono create, e in quanto il loro autore si rende passivo nei confronti della loro azione specifica.

Esse non consistono in un'astratta e inintelligibile possibilità di percezione.

La loro realtà viva dipende dal fatto che si da, insieme alla scienza universale e all'onnipresenza divina, una conoscenza, totale e singolare a un tempo, di tutte le sintesi parziali raccolte da tutte le sensibilità e tutte le ragioni disseminate.

Le cose quindi sono quello che sono, fenomeniche e reali, soltanto nella misura in cui, essendo passive e attive, hanno un'iniziativa ed esercitano un potere sulla loro causa medesima.

In tal modo trovano il loro principio e il loro termine di espansione in un identico centro, da cui desumono l'unità originale della loro azione derivata, e in cui trovano l'unità finale delle percezioni sintetiche delle quali sono la condizione antecedente.

Pertanto il determinismo totale è essenziale per ciascuna delle esistenze derivate; e per il determinismo totale è essenziale il pensiero consenziente, che lo ingloba interamente e singolarmente nell'unità di un'azione e di una passione volontaria.

Il criterio cartesiano della veracità divina conferiva alla verità reale solo una parvenza di fondamento.

Perché ciò che è conosciuto sia, non è sufficiente che un essere reale conosca, occorre che sia ciò che si deve conoscere, perché quella cosa conosciuta abbia l'essere.

Gli esseri sono, ma non senza l'essere di colui che li vede e li fa essere, così come non riescono a conoscere se stessi senza la sua luce e la sua presenza.

Ciò significa andare ben oltre qualsiasi realismo e qualsiasi idealismo.

Infatti laddove si presumeva di imbattersi già nella verità dell'esistenza oggettiva, in nome della metafisica e dell'ontologia, non bisogna vedere altro che fenomeni determinati e contestuali.

Laddove si credeva di non imbattersi in altro che in fenomeni senza realtà, bisogna saper individuare già la solidità dell'essere che li vede e li fa tutti quello che sono, dalle forme più ricche del pensiero e della vita fino ai fatti più bruti.

La presunta cosa in sé è ancora un fenomeno; ed è il fenomeno che diventa autentica cosa in sé.

Con il duplice vantaggio di ricondurre in tal modo alla scienza quello che sembrava estraneo all'ordine dei fatti positivi, e di portare all'essere quello che sembrava estraneo all'ordine della realtà assoluta.

Senza questo duplice legame, del relativo con l'assoluto e dell'assoluto col relativo, si dileguerebbe la realtà del fenomeno, e con essa il sistema globale e la stessa repubblica degli spiriti.

Non che il relativo sia minimamente necessario.

Esso è reale solo nella misura in cui riceve dall'assoluto il dono di essere causa nella sfera stessa dell'assoluto.

È una necessità condizionata che non intacca per nulla l'indipendenza sovrana della causa prima, ma che esprime semplicemente a quale condiscendenza da parte di quella causa soggiace l'esistenza delle cause seconde.

Quod sciebat ab aeterno per divinitatem, aliter temporali didicit experimento per carnem.10

Fino a questo punto bisogna arrivare, per vedere, se non l'intera ragione e il fine vero, almeno gli espedienti dell'amore creatore nel dono gratuito dell'essere ad altri che non siano l'Essere.

E senza questa visione, mai riusciremo a fondare l'esistenza di una cosa qualsiasi.

Pur essendo passiva nel suo fondo, è necessario che la natura, per essere, abbia un'azione autentica, e che tale azione trovi la sua piena consistenza nella passione volontaria di un essere capace di conferire alla sua conoscenza un carattere di assoluto.

Può darsi che l'uomo, destinato a ricevere in sé la vita divina, avrebbe potuto svolgere questo ruolo di vincolo universale, e avrebbe potuto essere sufficiente per questa mediazione creatrice, perché questa immanenza di Dio in noi fosse, per così dire, il centro magnetico che collegherebbe tutte le cose, alla maniera di un insieme di aghi affastellati da una potente calamità.

Ma d'altra parte, perché la mediazione fosse nonostante tutto integrale, permanente, volontaria, insomma tale da assicurare la realtà di tutto ciò che indubbiamente potrebbe non essere, forse c'era bisogno di un Mediatore che si facesse paziente in rapporto a questa realtà integrale, e che fosse come l'Amen dell'universo, « testis verus et fidelis qui est principium creaturae Dei ». ( Ap 1,5 )

Forse c'era bisogno che, divenuto carne egli stesso, istituisse con una passione contemporaneamente necessaria e volontaria la realtà di ciò che è determinismo apparente della natura e conoscenza forzata dei fenomeni oggettivi, la realtà delle mancanze volontarie e della conoscenza privativa che ne rappresenta la sanzione, la realtà dell'azione religiosa e del destino sublime riservato all'uomo perfettamente coerente col proprio volere.

È lui la misura di tutte le cose.

V.

Quanto precede non fa che esprimere le istanze ineludibili del pensiero e della prassi.

Ecco perché è un sistema di relazioni scientifiche, prima di risultare come una catena di verità reali.

Pensando e agendo, coinvolgiamo questo sterminato organismo di rapporti necessari.

Esporti alla riflessione, significa semplicemente mettere allo scoperto ciò che non possiamo fare a meno di ammettere per pensare, e di affermare per agire.

Anche se non sempre lo rileviamo chiaramente, siamo sempre indotti per forza di cose a concepire l'idea di esistenza oggettiva, a porre la realtà degli oggetti pensati e dei fini perseguiti, a supporre le condizioni richieste perché quella realtà sussista.

Infatti, non potendo fare come se non fosse, non possiamo fare a meno di coinvolgere nella nostra azione le condizioni indispensabili per qualsiasi cosa.

E reciprocamente, non possiamo non tendere a rendere immanente in noi, attraverso la prassi, ciò che non può non essere immanente al pensiero.

Il cerchio è chiuso.

È necessario esibire ancora la solidità di quest'ultimo anello, proprio perché ha un ruolo a parte a motivo della sua collocazione unica tra i due capi della catena.

Infatti nel momento stesso in cui, se così si può dire, è condizionato dalla prassi, a sua volta la condiziona.

È per una necessità soggettiva che siamo costretti ad accertarne la verità reale.

E quella verità in effetti sarà investita da tutta quanta la realtà oggettiva che il pensiero più sicuro di sé possa affermare, da una realtà che non può essere intaccata ne infirmata neppure dalle sfide più esigenti dello spirito critico.

L'esposizione completa delle necessità soggettive non lascia al di fuori di esse nessun punto d'appoggio per il dubbio o per la negazione.

Quando sono definite tutte le condizioni del pensiero e dell'azione, quando tutto il contenuto della vita è reintegrato nella coscienza, volenti o nolenti bisogna pensare che esiste; ecco perché dobbiamo fare come se esistesse.

Il ruolo della scienza sembra del tutto negativo.

E nell'ordine speculativo lo è.

Ma nell'ordine pratico è del tutto positivo.

Di qui il carattere di ambiguità e l'impressione di un malessere che nel corso di questa indagine si sono ripetuti a ogni tappa successiva.

È impossibile non tener conto di ogni nuovo livello come se fosse definitivo.

È questa una verità incontrovertibile per l'azione.

Ma è impossibile fermarcisi: non è che una tappa provvisoria e una relazione parziale per il pensiero.

Quindi, mai si potrebbe insistere troppo a un tempo sulla stabilità e sull'instabilità, sull'importanza e sull'insufficienza di ciascuna delle sintesi progressive che abbiamo dovuto istituire e superare senza soluzione.

Perciò è impossibile che l'ordine naturale sia, ed è impossibile che non sia.

È il formidabile cimento dell'uomo, che volendo infinitamente, spesso vorrebbe che l'infinito non fosse.

Perciò, al contrario, è impossibile che l'ordine soprannaturale sia senza l'ordine naturale, al quale è necessario, ed è impossibile che non sia, poiché l'intero ordine naturale lo garantisce in quanto lo esige.

Siamo di fronte a una contestualità delle condizioni scientifiche che si traduce in un sistema di verità reali.

L'impossibilità teorica del dubbio implica quindi l'affermazione pratica della realtà, nel momento stesso in cui la possibilità pratica della negazione sembra implicare l'impossibilità teorica della certezza.

Ma a loro volta le obbligazioni morali non sono altro che una necessità apparentemente in sospeso.

Presto o tardi ciò che deve essere sarà, perché si tratta di ciò che è già.

E le deviazioni, le mancanze, i fenomeni illusori resteranno per sempre fondati sulla verità, che ne rivelerà l'errore e la deficienza attuale.

È la conoscenza dell'inevitabile a indicarci ciò che bisogna evitare.

Comprendendo anche quello che non dovrebbe essere, senza che mai la menzogna e il male cessino di sussistere, la visione di ciò che è segna ciò che deve essere.

Il dovere è ciò che è.

Ma ciò che è ingloba anche ogni deroga al dovere.

Perciò la distinzione radicale tra il male e il bene risulta giustificata, senza dualismo, così come risulta giustificata, senza monismo, la reintegrazione totale del falso e del vero nell'essere.

In rapporto alla scienza quale differenza potremmo rilevare tra ciò che sembra essere per sempre e ciò che è?

E come distinguere la realtà stessa da un'illusione insuperabile e costante ovvero, per così dire, da un'apparenza eterna?

In rapporto alla prassi è diverso: facendo come se fosse, solo la prassi possiede ciò che è, se è veramente.

Mai dunque bisogna pretendere di trovare in una teoria, per quanto perfetta sia, un equivalente inattendibile.

Non si risolve il problema della vita senza vivere.

E chi dice o si cimenta non è mai dispensato dal fare e dall'essere.

Ecco dunque giustificato in assoluto, sul piano della stessa scienza, il ruolo dell'azione.

La scienza della prassi accerta che non si surroga la prassi.

Pertanto rappresenta una necessità supporre la verità dell'ordine naturale, dell'ordine soprannaturale e dell'intermediario divino che ne costituisce il vincolo e la sussistenza.

È ancora una necessità non potere ne cercare la sua convalida altrove che non sia nella prassi effettiva, ne fallire nel ritrovare tale convalida nel campo della prassi.

Supponiamo che l'azione ce l'abbia data.

Allora l'anello che chiude la catena è perfettamente saldato.

Bisognava che i due capi fossero congiunti, e lo sono.

Bisognava che la necessità del determinismo globale fosse raccolta in un libero atto di volontà, e lo è interamente.

Bisognava che il ruolo di mediazione dell'azione fosse giustificato e fondato in assoluto, e lo è.

Bisognava che questa mediazione fosse un principio di unità e di distinzione, e lo è: allora siamo degli esseri nell'Essere.

Le stesse apparenze, la durata, tutte le forme inconsistenti della vita individuale, anziché essere abolite, partecipano alla verità assoluta della conoscenza divina del Mediatore.

Il tempo è quello che è solo quando è passato, quando entra nell'eternità.

Ma esso è, perché rimane eternamente vero che la sua apparizione mobile e sfuggente è conosciuta sotto la forma della successione.

La persona umana sembra trapassare, ma i suoi atti sono al di là di ciò che trapassa.

E così, senza cessare di lambire le sponde del tempo, l'uomo usa e gode dell'eternità e al tempo stesso della perenne ripetizione della durata.

Dal punto nel quale sembra confinato al fine di rimanere un individuo distinto, egli usa e gode dell'universalità e nello stesso tempo della singolarità della sua vita personale.

Chiamato a vedere tutte le cose nell'unità del piano divino, attraverso gli occhi del Mediatore; chiamato a vedere se stesso nell'atto permanente della liberalità, e ad amare se stesso amando la perenne carità da cui attinge l'essere, l'uomo è precisamente questo atto del suo autore, e lo produce in sé così come è in lui.

Col suo volere che non è sempre stato, si unisce alla volontà che è sempre stata.

L'uomo ha avuto inizio; e questo limite rimane per sempre il suo segno distintivo.

Ma una volta che le apparenze, senza dileguarsi, si spalancano per rivelargli tutte le cose nella loro ragione universale, egli partecipa alla verità dell'amore creatore.

È semplicemente immortale, ha la vita eterna.

Constatando semplicemente la sequenza delle istanze dell'azione umana, e postulando quel tanto di realtà che essa suppone per costituirsi, eccoci dunque alla presenza del referente ineludibile al quale, lo sappiamo o meno, è sospeso tutto lo sviluppo della vita e del pensiero.

Ma quest'ultimo anello dipende da tutti gli altri soltanto per farli dipendere tutti da sé.

Quello che esigiamo per agire è richiesto innanzitutto da noi.

Senza dubbio ciò che precede, ciò che accompagna e ciò che segue la nostra decisione personale è conforme al movimento più profondo della libertà.

Ma altresì tutte le condizioni sensibili, scientifiche, intellettuali, morali e religiose della vita umana trovano al di sopra di noi il loro principio e la loro autorità.

Ecco perché, sebbene siano implicate automaticamente in noi, noi dobbiamo riconoscerle tramite un libero sforzo.

Ed ecco perché, sebbene possiamo rivoltarci contro di esse, esse non cessano di realizzarsi in noi.

Per giustificare questa sussistenza esterna della verità che inabita nell'interiorità dell'uomo ci vuole una specie di Metafisica alla seconda potenza, che fondi non soltanto ciò che una metafisica prima, ancora del tutto soggettiva, ci presentava a torto come la stessa realtà dell'essere, mentre era una semplice visione della mente o un fenomeno speculativo, bensì tutto il determinismo della natura, della vita e del pensiero.

Perciò, nel corso del suo farsi, la scienza deve semplicemente descrivere e registrare l'inevitabile, e non ha niente di perentorio.

Ma quando è in atto, è lei a comandare, ed esercita la sua giurisdizione grazie al solo ascendente di ciò che è.

Allora, quando la catena è saldata, tutto il determinismo, che era risultato essere il fenomeno della volontà umana nell'intelletto, appare ormai allo stesso tempo come una realtà assoluta che l'intelletto impone alla volontà.

Sicché alla verità del primato dell'azione, Im Anfang war die That, « al principio era l'Azione »,12 corrisponde la grande affermazione dell'analogo primato della verità: « In principio erat Verbum ». ( Gv 1,1 )

Questo regno della verità è interamente al di fuori di noi; essa non sarà mai privata del suo scettro di ferro.

Ma altresì questo regno della verità è interamente in noi, poiché ne produciamo in noi stessi tutte le esigenze dispotiche.

Nel destino umano non c'è nulla di tirannico; nell'essere non c'è niente di involontario; nella conoscenza davvero oggettiva non c'è niente che non scaturisca dal fondo del pensiero.

È questa la soluzione del problema dell'azione.

Ed ecco stretto di nuovo il nodo in comune tra la scienza, la metafisica e la morale.

È sufficiente tirare fuori quello che vi si trova dal più insignificante dei nostri atti, dal più insignificante dei fatti, per imbattersi nell'ineludibile presenza non soltanto di una causa prima astratta, ma dell'unico autore e del vero realizzatore di ogni realtà concreta.

L'azione mediatrice istituisce la verità e l'essere di tutto ciò che è, fino all'ultimo dettaglio dell'ultimo dei fenomeni impercettibili.

E, in effetti, sarebbe strano che si potesse spiegare una cosa qualsiasi al di fuori di colui senza il quale nulla è stato fatto, senza il quale tutto ciò che è stato fatto diventa nuovamente nulla.

Indice

6 Osservando che " il cristiano non vive nel mondo della scienza, ma in quello della fede ", si è fatta valere la pretesa secondo cui il kantismo avrebbe sostituito definitivamente lo spirito cristiano allo spirito ellenico in campo metafisico.
È un errore. Il Verbo non è meno luce che vita.
E, siccome il dogma insegna la distinzione nell'unità delle operazioni divine, allora nell'uomo il concepimento e il possesso della verità reale, per quanto identici in un certo senso, restano distinti e di fatto sono separabili [nda].
7 È importante, anche in questa sede, stare attenti a evitare ogni equivoco.
Parlando del possesso reale dell'essere nella conoscenza, si avanza la pretesa di non evadere dai fatti.
Semplicemente si constata che, agendo come se esistesse, si conosce diversamente da come si farebbe se non esistesse.
Mette conto di definire con precisione questa differenza positiva, determinando ciò che è per noi l'esistenza realmente oggettiva [nda].
8 Dall'Imitazione di Cristo. L'adagio che segue è preso invece da san Bernardo, Sermonem super Cantica Canticorum, VIII, 9 (in op. cit. I, 41): " Felix tamen osculum, per quod non solum agnoscitur Deum, sed diligitur Poter qui nequaquain piene cognoscitur, nisi eum perfecte diligitur".
9 Presumibilmente si tratta dell'espressione greca che significa " lasciar perdere".
10 Citazione di san Bernardo, di cui fonda insieme due testi della medesima opera De gradibus humilitatis et superbiae III, 6 e III, 9-10 (in op. cit. III, 21 e 23).
12 Dal Faust di Goethe. ( si tratta della prima parte v. 1237 )