Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

Indice

Capitolo sesto - V

V. Solitudine radicale innevitabile

Detto questo sulla solitudine autentica e feconda, il discorso non è completo.

Infatti, anche in seno al più grande amore e negli ambienti più protetti, sussiste sempre, in fondo a ciascuno, una solitudine congenita, radicale, ineluttabile.

Il mistero della nostra soggettività si presenta a noi come quello di una « cella segreta dove si svolge la nostra vita ».4

Percepire che noi esistiamo, è improvvisamente rendersi conto che noi siamo soli, separati, espropriati, inaccessibili.

E se ci capita di pensare che coloro che ci stanno intorno sono ugualmente « celle segrete » come ciascuno di noi, allora il sentimento della nostra solitudine si accresce.

Noi rabbrividiamo evocando tanti ritiri misteriosi.

Eppure questa presa di coscienza, risentita prima come uno stato di angoscia, può diventare benefica e mutarsi in appello verso Colui che si trova là dove nessuno può penetrare, più interiore a noi di noi stessi; può diventare anche un appello verso solitudini simili alla nostra, con le quali sentiamo il bisogno di comunicare, in un circuito ininterrotto di luce e di amore.

La nostra radicale solitudine dipende da due cause: il mistero della nostra unicità e il mistero della nostra limitatezza, della nostra incompletezza congenita di creatura.

Chiunque non abbia provato questa solitudine non è sceso nelle profondità del cuore umano.

Questa Solitudine dipende innanzitutto dal mistero della nostra grandezza.

Dio è Unico, ha fatto di ciascuno di noi, analogicamente, un mistero di unicità, d'ineffabilità, d'inaccessibilità.

Non si può coincidere da persona a persona.

L'amore, anche il più perfetto, resta un dialogo tra due unicità.

Se l'unicità dell'uno sparisse, ci sarebbe allora possessione dell'altro, asservimento all'altro, ma non vero amore.

Questa unicità ci rende « solitari » anche nella folla, è il sigillo del dito di Dio.

Noi siamo unici, ma chiamati alla comunione, precisamente perché differenziati.

La nostra solitudine profonda, congenita, dipende anche dal fatto della nostra limitatezza, dalla nostra indigenza di creature.

Fatti a immagine di Dio, per Dio, non possiamo essere colmati che da Dio.

« Il nostro cuore non ha pace se non riposa in tè », diceva sant'Agostino.

Infatti, che lo sappia o che lo ignori, che lo confessi o che lo neghi, l'uomo porta in sé un'invincibile nostalgia di Dio, una sete d'infinito che non potrà calmarsi che in lui: « Io sono la Vita, la Sorgente d'acqua viva ».

Tutti abbiamo fatto o faremo l'esperienza che gli appoggi umani restano fragili, che gli altri, anche i più fedeli, ci lasciano, ci deludono o ci mancano.

Anche l'amore più profondo vive sotto questa minaccia e lo sa.

Un giorno o l'altro, in ogni caso all'ultimo giorno, ci troveremo soli, davanti a Dio, senza appoggi o schermi.

È questa la solitudine congenita, inevitabile, necessaria.

Più rapidamente ce ne rendiamo conto, più rapidamente la nostra solitudine sarà popolata, perché allora la Pienezza ci coprirà del suo amore e colmerà la nostra indigenza.

Quest'incontro della nostra solitudine con la Pienezza non potrebbe aver luogo nel fracasso, nel chiasso delle passioni, ma nel distacco e nel silenzio che lasciano l'anima guardare, ascoltare, respirare, aprire la porta al suo amante divino.

Quando ci si raccoglie così, la voce di Dio, che è brezza leggera, si amplifica e si lascia percepire.

La solitudine è abitata dalla presenza dell'Altro, presenza che è luce, calore, lucidità, nuovo amore, forza nuova, gioia nuova, armonia tra Dio e noi.

Una donna colpita da cancro e in fase terminale, alla quale dicevo: « Dovete sentirvi ben sola in certi momenti », mi rispose: « Oh, no! Quando sono sola, siamo sempre due! ».

Non si potrebbe dire meglio.

La morte infatti, è l'incontro della nostra radicale solitudine, nativa, col Tu divino che svela infine il suo volto.

La morte e la solitudine giunta al suo punto di maturità: la solitudine colmata dalla Pienezza.

Indice

4 L. LAVELLE, « Tous les étres sepaies et unis », in Le mal et la wuffrance, Paris, 1940, p. 142.