Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

Indice

Capitolo dodicesimo

La morte per la vita

La morte è l'avvenimento universale, più ancora della vita, perché molti che sarebbero potuti nascere, non sono nati, ma tutti muoiono.

La morte è il dramma integrale e senza replica; non si può sperimentare in vista di un discorso logico, ma è la sola certezza.

È la cosa più corrente, la più banale, la più attesa, tuttavia, ci trova sempre sprovveduti, increduli, scandalizzati, ribelli.

Ripugna il parlarne.

Infatti, come considerare allegramente questo punto finale della mia vita?

D'altra parte, parlare della morte degli altri, è indecente, perché è l'ultima malattia, senza rimedio.

Se ci si accosta è per farne della sociologia, cioè per studiare le pratiche, gli atteggiamenti, il linguaggio degli uomini di fronte alla morte, nel corso dei secoli, o per compilare statistiche sui tassi di mortalità.1

La teologia tradizionale, certo, ha molto parlato delle ultime realtà, ma essa ha troppo facilmente dimenticato l'umile gemito del morente.

Inquadra rapidamente la morte di ciascuno nella morte di Cristo, e questa nell'economia della salvezza.

La vera morte per i teologi è la morte del peccato e nostra sorella morte corporale non è per essi che l'impronta di quella.

La teologia, troppo facilmente fa della morte un oggetto di studio, come il paradiso, il purgatorio e l'inferno.

Parla della morte del peccatore, della sorte degli eletti, della sorte dei dannati.

Ma sembra dimenticare che sono io che muoio, che sono io il protagonista del dramma.

La teologia recente si è resa conto che non può dispensarsi da un'antropologia della morte.

Perché la morte è una realtà complessa.

Presenta un aspetto biologico e personale, individuale e comunitario, storico e metastorico, teologale e sacramentale.

Essa è insieme fine della nostra corsa terrena e compimento della nostra vita, avvenimento, esperienza, problema e mistero.

Molto giustamente, la Gaudium et spes dichiara: « È di fronte alla morte che l'enigma della condizione umana tocca il suo apice ».

Anche questa volta, Cristo è l'unico ermeneutico che getta la sua luce sul più misterioso dei misteri.

In lui la morte diventa morte in Dio, abbandono a Dio e comunione totale con lui.

Anche se ripugna parlare della morte, se ne deve parlare, perché la vita ha il senso che noi diamo alla morte.

Infatti e la morte che conduce l'uomo a porsi la questione estrema su se stesso: è un essere per la vita, o un essere per la morte?

Se la morte è per la vita l'uomo può sperare e aspirare a questa vita.

Al contrario, quale senso può avere la vita, se deve inevitabilmente terminare col naufragio delle sue aspirazioni e dei suoi progetti?

Se la morte non ha senso, la vita non ne ha alcuno, perché essa non ha scopo alcuno.

Indice

1 Vedere a questo proposito: E. MORIN, L'homme et la mort dans l'histoire, Paris, 19763; L.-V, THOMAS, Anthropologie de la mort, Paris, 1975 (trad. it. Antropologia della morte. Garzanti, Milano, 1976); A. FABRE-LUCE, La mort a changé, Paris, 1966.