Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

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Capitolo dodicesimo - IV

IV. La coscienza umana di fronte al mistero della morte

Per sperimentare la morte, occorrerebbe prendere le distanze nei confronti del vissuto.

Ora la morte è precisamente l'abolizione di ogni distanza e di ogni vissuto.

Non posso parlare di morte che se sono ancora vivo.

Sono quindi ridotto a parlarne in termini di rottura, di abbandono, d'impotenza radicale, di limitatezza.

Ma quando io parlo così lascio già il terreno dell'avvenimento, per entrare nel terreno del mistero e del senso della morte.

La morte presenta lo stesso carattere eminentemente personale della coscienza dell'io: così come ogni uomo vive la propria vita, ogni uomo vive la propria morte.

La sente coesistente a tutta la sua vita, presente come un cancro che rode furtivamente la sua esistenza.

La morte non offre alcuna presa.

Mi afferra senza lasciarmi le possibilità che mi darebbe la lotta, perché nella lotta, io posso afferrare colui che mi afferra.

Nella morte, al contrario, sono esposto all'aggressione assoluta, all'uccisione nella notte.

La mia morte mi arriva in un istante sul quale non ho alcun potere.5

Strappato alla vita, mi sento assolutamente impotente a salvarmi da me stesso.

Assisto al crollo totale della mia autosufficienza.

Non posso evitare la morte, ,né trovare, nel mondo e negli altri, una garanzia qualsiasi di sopravvivenza.

Sono costretto al silenzio totale, di fronte all'inverificabile e all'inintelligibile.

La morte è l'impossibilità di ogni possibilità.

La sola possibilità che mi rimane, è di lasciarmi portare dalla vita verso la morte e di sperimentare la mia impotenza.

Passività, impotenza, imprevedibilità: non vi è altra alternativa.

Ma è precisamente in questo crollo finale dell'esistenza che la morte rivela il nocciolo intimo dell'essere umano, che è desiderio inestinguibile della sopravvivenza.

Questo desiderio si identifica con la coscienza stessa dell'io personale che non può rassegnarsi alla propria scomparsa, alla sua caduta nel nulla.

L'uomo insorge contro l'idea di una rovina totale, di un annientamento definitivo della sua persona.

La disintegrazione dell'io significherebbe infatti l'annientamento dello spirito personale dell'uomo.

0ra l'uomo porta nella luce della sua coscienza, l'affermazione vitale e invincibile della propria esistenza, l'aspirazione a essere se stesso e a restarlo: è la sua coscienza che rigetta l'annientamento.

« Il germe d'eternità che porta in lui, irriducibile alla sola materia, insorge contro la morte » ( GS 18 ).

Se infatti, il nulla dovesse essere l'ultima tappa dell'esistenza, questa perderebbe il suo significato.

Vivere sarebbe camminare verso il nulla.

L'aspirazione dell'uomo a realizzarsi, sarebbe una vana illusione, una sterile passione.

Questo sentimento dell'assurdo, risentito come una nausea, è l'affermazione implicita che l'io personale vive nella sua coscienza l'aspirazione a non morire.

In questa aspirazione, è profondamente convinto che non scomparirà totalmente.

Come l'uomo, infatti, può vivere la propria esistenza esigendo che abbia un senso, se prova nello stesso tempo la sensazione che il crollo totale della sua persona nel nulla toglie ogni senso all'esistenza?

Se l'ultima tappa dell'esistenza umana è la distruzione della persona nella morte, occorre dire che la tendenza dell'uomo e del suo spirito è totalmente frustrata, e che il suo dinamismo interiore, che la spinge alla sua piena realizzazione, è totalmente privo di senso.

Così l'uomo si sente costretto a morire e, tuttavia, chiamato a non morire; posseduto dalla volontà di vivere, ma in seno a un'esistenza segnata dalla morte.

Nella sua dialettica interna, la morte rivela che l'essere dell'uomo è chiamato alla speranza.

Da una parte, infatti, la morte rivela all'uomo la sua totale impotenza ad assicurare da solo la propria sopravvivenza.

E d'altra parte, la morte gli fa scoprire che in fondo alla sua coscienza vi è un'invincibile aspirazione a vivere e a sopravvivere.

Da quel momento, tutto ciò che l'uomo può fare di fronte alla morte, è di sperare un'esistenza nuova che è incapace di donarsi.

La morte mette l'uomo davanti a una scelta ineluttabile: o riconosce che la sua esistenza, in quanto progetto e aspirazione a un essere-più possiede un senso, ed è la speranza di un avvenire trascendente, di una sopravvivenza dopo la morte; oppure accetta che la sua esistenza sia priva di senso, ed è la dispersione totale.

D'altra parte, essendo la morte una possibilità di ogni momento, è tutta l'esperienza umana che si svolge in questa prospettiva di una situazione-limite, aperta alla speranza o chiusa dalla disperazione.6

Ogni uomo è chiamato in modo permanente a fare la scelta tra sperare e non sperare: è l'ermeneutica fondamentale dell'esistenza umana.

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5 E. LEVINAS, Tolalité et infini, La Haye, 1961, pp. 209-210.
6 J. ALPARO, Christianisme, chemin de libfration, Montreal, 1975, pp. 15-18.