Gli stati di vita del cristiano

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Il rifiuto della chiamata

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Il rifiuto della chiamata non è da scambiare con l'impossibilità esteriore di darle seguito.

Si dà, come già accennato, questa perplessa situazione, poiché la chiamata personale di Dio rimane in un'ultima libertà, indipendente da tutte le cause seconde favorevoli o contrarie; egli rimane anche libero di notificare ad un uomo che egli fondamentalmente sarebbe un eletto, anche se ostacoli mondani si accumulano e si sbarrano contro la vocazione.

Tali ostacoli possono essere di natura esterna: il rifiuto ( forse ingiustificato, forse anche fondato ) di un candidato da parte di una comunità religiosa o di un ordinariato, l'esistenza di obblighi spirituali o materiali nella casa paterna, malattia ecc.

Possono risiedere interiormente nel carattere del chiamato: instabilità, che per una specie di debolezza naturale non riesce a trattenere il seme ricevuto da Dio ( Mt 13,21 ), insufficiente forza di spirito ( "De poco subjecto", Eserc. Nr 18 ), che non è in grado di sostenere il "carico di Dio" che per un attimo si è posato come per prova sulle spalle umane.

Tali persone possono, anche dopo aver già iniziato il curriculum per diventar preti o religiosi, senza loro colpa venir congedati o uscir fuori, sebbene la loro vocazione era stata autentica.

Il vero e proprio rifiuto della chiamata ha la sua radice nella mancanza di "indifferenza", di quell'intima, crescente "umiliazione" di sé davanti al volere di Dio che richiede tutto il proprio "io" ( Eserc. Nr 165s. ).

Esso risiede in un punto magari molto nascosto dell'anima, che magari essa nasconde secondo le possibilità a se stessa e sospinge verso l'"inconscio", scegliendo il proprio "io" al posto di Dio.

Invece che mettere completamente il senso e la configurazione della vita nel volere di Colui che invia, l'uomo si aggrappa alla sua volontà di dar forma da sé alla sua vita secondo il proprio arbitrio.

Quanti più apparenti motivi egli trova per questo, tanto maggiore diventa la tentazione.

Quanto più è presente del talento e della forza intellettuale che preme verso un naturale sviluppo, e quindi simula una missione naturale e alimenta una corrispondente coscienza di missione, quanto più quindi la personalità è forte, tanto più vicina si pone anche la tentazione di dire di no, e tanto più essa si perderà, con la perdita di questa missione.

Risiede nell'essenza del peccato che esso faccia il male sempre sotto il pretesto di compiere il bene, e nell'essenza dell'errore morale che esso, sempre sotto il pretesto di un qualche bene secondario del quale anche si dovrebbe tener conto e che dovrebbe esser compiuto, lasci perdere l'unica cosa necessaria.

Così colui che rifiuta la chiamata avrà sempre una scusa che davanti a se stesso o davanti all'ambiente sembra inattaccabile.

Egli accennerà ad esempio alle grosse prestazioni che egli può realizzare "fuori, nel mondo", alla scarsità di laici cattolici dirigenti, a dichiarazioni della Gerarchia che auspicano la formazione di simili laici, alla più grande possibilità di operare all'interno di ambienti estranei ai quali altri non hanno più accesso; egli saprà anche esaltare la grandezza teologica dello stato matrimoniale e mettere in luce i corrispondenti testi della Scrittura, in breve: ripeterà praticamente tutte le scuse che gli ospiti invitati della parabola opposero alla chiamata del re.

I loro impegni sono oltremodo lodevoli, e poiché essi sono quelli della maggior parte degli abitanti della terra, questi tributeranno il loro plauso al fatto che quelli possedettero così tanto "senso pratico" e intelligenza da non andarsi a impelagare in avventure poco chiare ( "relitti del Medioevo "), La Chiesa d'oggi ha bisogno di uomini sobri, obiettivi, che affrontino coraggiosamente i difficili compiti della società odierna: perciò appare un comandamento speciale dell'ora cristiana presente quello di dedicarsi al rafforzamento dello stato laicale nel mondo.

Non è necessariamente sempre egoismo quello che porta gli eletti a simili ragionamenti.

Può anche essere l'angoscia di essere consegnati a Dio, di dover rinunciare non soltanto ai beni esteriori - a questo la maggior parte dei giovani d'oggi sarebbe senza tante cerimonie già pronta -, ma soprattutto a quelli interiori dell'ideale personale" che ognuno si è formato da sé.

Angoscia di fronte all'esistenza nella pura e semplice missione, che anche più tardi afferra ancora ulteriormente qualcuno nella vita sacerdotale e specialmente in quella secondo i consigli, allorché si tratta di uscir fuori dalla dimora protettiva dove si è stati istruiti, "come pecore in mezzo ai lupi", e che allora paralizza il passo dell'inviato, cosicché non pochi vanno qui a finire nella malattia o nella nevrosi.

Angoscia di fronte ad una singola esigenza a cui si crede di non poter adempiere, di fronte al celibato ad esempio, o di fronte all'obbedienza, o di fronte alla possibilità di venir inviati in questo o quel posto, in questa o quella missione.

Angoscia di fronte alla chiamata in generale: di fronte al trovarsi esposti nei confronti di questa voce imprevedibile che attraversando in diagonale tutte le rassicuranti leggi di Dio e della Chiesa richiede di più e altro che quello che si sarebbe disposti a dare.

Angoscia infine di fronte a Dio, la cui nudità non si sopporta e che si cerca pudicamente di ricoprire con i veli di una religione convenzionale.

A tutte queste forme di riflessione che cerca degli appigli soggiace fondamentalmente una mancanza di fede.

La fede infatti consiste in quell'atteggiamento da bambino che si getta in braccio a Dio e da Lui aspetta ogni aiuto ed energia.

"In verità vi dico: chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso" ( Mc 10,15 ).

Il rifiuto può avere forme molto diverse, a seconda di come la chiamata stessa è configurata.

Esso può sfumarsi a partire da un chiaro e cosciente "no" di fronte all'inequivocabile chiamata fino ad un "no" distratto che si perde nelle nebbie del parzialmente inconscio, là dove la chiamata ha luogo gradualmente e richiederebbe un perdurante cammino di accompagnamento da parte del chiamato.

Certo vale il principio generale che quanto più una chiamata ha luogo debolmente, tanto più è facile soffocarla.

Vale però anche l'altro principio secondo cui ogni vocazione veramente qualitativa ha la forza di farsi una qualche volta talmente chiara che il rifiuto di essa è un atto spiritualmente del tutto responsabile.

Certo la colpa decisiva può essere anche di un altro che con la parola o l'azione soffoca il delicato seme della vocazione nell'anima di un bambino, traviandolo con una cinica parola che devasta la coltivazione di Dio come un temporale con grandine.

"Ma chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e che sprofondasse in fondo al mare" ( Mt 18,6 ).

E quanti uomini crescono in un'atmosfera non credente o cattolicamente tiepida, liberale, distaccata, e non vengono praticamente mai a contatto con l'idea di una più stretta sequela di Cristo!

Si pensi al caso di Kierkegaard, che vide come necessaria la via del superamento dello stato matrimoniale, ma non potè trovare nel Protestantesimo nessuno stato di vita che battesse questa via; e a così tanti cattolici, i quali all'interno della Chiesa si trovano praticamente nel medesimo caso.

È impossibile fargliene una colpa.

Ma quali perdite per il Regno di Dio!

Se ogni rifiuto di una chiamata qualitativa porti con sé una colpa, su questo i teologi non sono di uno stesso parere.

I più ritengono che il rifiuto di un "consiglio", che in effetti non obbliga sotto pena di peccato, in se stesso non può essere un peccato, mentre invece spesso le circostanze concomitanti, come indifferenza ( Gleichgiiltigkeit ) spirituale, leggerezza, attaccamento ai sensi o addirittura disprezzo della vocazione possono causare peccato.

Sarà meglio qui richiamarsi alle diverse specie e ai diversi gradi della chiamata.

Ci sono chiamate che non possono realmente venir comprese dal soggetto per la carenza di energia spirituale.

Così questi rimane senza colpa.

Ci sono forse chiamate che sono appena qualcosa di più di un permesso di percorrere l'una o l'altra via.

Anche per simili chiamate - nel caso che esse ci siano - il non udirle non rappresenta una colpa.

In prossimità di questi casi rientrano anche quelle vocazioni al sacerdozio secolare che vengono decise quasi completamente dall'esterno, dall'autorità ecclesiastica.

Se fosse esatta la teoria di Lahitton, non ci sarebbe per nessuno di quelli che non arrivano alla consacrazione una colpa; essa risiederebbe altrove che non quella di un cristiano non chiamato.

Però non appena si abbandona questo gradino più basso della forma di vocazione e si guarda a quei casi ( che tuttavia secondo la tradizione sono i più frequenti ) in cui Dio manifesta all'anima la sua personale scelta, cominciano ad entrare in gioco altre leggi, le leggi dell'amore.

Si dovrà essere qui molto prudenti col principio che solo i "comandamenti" obbligano sotto pena di peccato, mentre i desideri, gli inviti, i suggerimenti dell'amore di Dio possono venir messi da parte senza scrupoli.

Non vuole forse Dio offrire le sue cose migliori, più importanti, proprio supplicando più che esigendo?

E rifiutare non significherebbe forse qui danneggiare i piani decisivi dell'amore di Dio, forse anche renderli impossibili?

L'amore ha leggi sue proprie, le quali sono più delicate che quelle del timore e dell'etica minimalistica, leggi che esprimono però l'incandescente centro della vita, dove Dio e l'anima si incontrano nell'eternità.

"Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel Regno dei cieli" ( Mt 5,20 ).

Un invito "personale" può risuonare molto più urgente che un comando "ufficiale".

Anche la grandezza della violazione sarà proporzionale alla grandezza della missione offerta.

Questa ha sempre carattere sociale: dall'accettazione di questa missione sarebbe forse stato aperto ad un assai grande numero di fratelli l'accesso al Signore.

Molti avrebbero potuto confessarsi, e oramai conservano i loro peccati, molti udire la parola di Dio, e oramai perseverano privi di ammaestramento, molti avrebbero potuto essere infiammati di fede, speranza e amore, e oramai rimangono freddi.

Un settore del campo di Dio rimane incoltivato.

I pochi operai nella vigna del Signore saranno ancora più sovraccaricati di lavoro e lo sbrigheranno perciò con meno accuratezza e si ritroveranno esauriti in minor tempo.

'Colui che risponde di no si tira dietro un'incalcolabile sventura, perché egli non dice mai no solamente per se stesso, ma per tutti quelli che dipendono dalla sua missione.

E un giorno egli verrà chiamato a render conto non di sé solo, ma di tutte le grazie di cui a causa del suo no il mondo è stato defraudato.

Ogni missione qualitativa reca in sé la promessa di una fecondità soprannaturale: trenta, sessanta, cento volte tanto ( Mt 13,8 ).

Ma tutto questo frutto dipende dal sì dell'inviato: il diniego di un solo singolo può annientarlo.

Se già nessun peccato in generale ha carattere puramente privato, poiché esso come peccato contro l'amore coinvolge sempre la comunione dei santi e perturba il circolo sanguigno nel corpo mistico del Signore, allora questo vale potenziato anche per il rifiuto di una missione.

Abbiamo già detto che Dio, se uno rifiuta la missione assegnatagli, non gliene da nessun'altra in cambio.

Le missioni, infatti, sono personali, e Dio non rivolge senza distinzione ad un altro la parola che egli aveva tenuto in serbo per quest'uomo qui.

Le cose stanno piuttosto al contrario: l'assenso alla chiamata è fecondo e nel suo frutto può contenere anche il geme di nuove chiamate di Dio a nuovi inviati.

Il "no" invece è l'infecondità stessa e non diviene occasione di fecondità aliena nella Chiesa e nel mondo.

Le missioni sono insostituibili e secondo la loro essenza esse lo sono tanto più, quanto più esse sono personali e peculiari.

Per questo il cristiano normalmente, quando perde la grazia, può riguadagnarla col pentimento e la conversione; una missione qualitativa perduta, invece, è irrecuperabile e nessuna lacrima può richiamarla indietro.

"Guardate che nessuno perda la grazia di Dio, che non spunti e cresca alcuna radice velenosa in mezzo a voi e così molti ne siano infettati.

Nessuno sia venale e disprezzi il sacro, come Esaù, che in cambio di una sola pietanza vendette la sua primogenitura.

E voi ben sapete che in seguito, quando volle ottenere la benedizione, fu respinto.

Egli non trovò possibilità alcuna che il padre mutasse sentimento, sebbene glielo supplicasse con lacrime" ( Eb 12,15-17 ).

Quanto più quindi la vocazione è grande, tanto più essa è unica.

Per colui che è chiamato ad una cosa grande si tratta di tutto o niente.

Se si rifiuta la sua missione, egli non può al posto di essa richiederne o aspettarne un'altra, di seconda qualità.

Se egli è troppo indolente per offrire l'intero sacrificio, non può esigere che Dio gliene offra un altro, meno gravante.

Ogni missione qualitativa è indivisibile, e l'affilata parola del Signore acquista proprio qui tutta la sua acutezza: "Chi non raccoglie con me, disperde" ( Mt 12,30 ).

La colpa aumenta più si comprende ciò che si rifiuta.

"Il servo che conosce la volontà del suo padrone, ma non si dispone ad agire secondo il suo volere, riceverà molte percosse ( … )

A chi viene dato molto, molto viene richiesto; a chi viene affidato molto, verrà richiesto molto di più" ( Lc 12,47-48 ).

I Giudei, che conoscevano la volontà di Dio ma non vollero riconoscerla, rimangono perciò la permanente immagine ammonitrice per tutti i chiamati.

Tutte le parabole che abbozzano il rifiuto di Israele terminano con la revoca della missione alle nazioni: "Perciò io vi dico: il Regno di Dio vi sarà tolto" ( Mt 21,43 ).

"Pieno d'ira il rè mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città" ( Mt 22,5-7 ).

"Io vi dico: Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena!" ( Lc 14,24 ).

E affinchè diventi chiaro il nesso tra questa revoca e la possibile perdita della missione anche nel Nuovo Testamento, il Signore parla in seguito di sequela, portare la croce, lasciar tutto, e pone i chiamati davanti alla aperta esigenza: "Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo ( … )

Se il sale diventa scipito, con che cosa lo si salerà?

Non serve ne per la terra ne per il concime, e così lo si butta via.

Chi ha orecchi per intendere, intenda!" ( Lc 14,33-35 ).

Uno che sarebbe stato chiamato a salare il Regno di Dio e non ha voluto, non ha più nessun diritto a venir salato dal Regno.

Dio si sarebbe adoperato per lui, se egli si fosse adoperato per Dio.

Egli fu però il fariseo avaro, calcolatore, al quale Dio "può perdonare solo poco", poiché egli "solo poco ama" ( Lc 7,47 ).

Come un feto abortito non può venir di nuovo incorporato alla madre che avrebbe dovuto portarlo, così anche una missione che ci si è giocati non può venir restituita allo spirito che rifiutò di portarla.

Giacché l'attimo dell'identità tra sì divino e umano dovrebbe essere il punto centrale che da senso alla vita del chiamato, questa vita, qualora quest'attimo non si verifichi, rimane necessariamente incompiuta, desiderio vuoto, che non attende più nulla, come la vita di una ragazza piantata, il cui futuro è tutto passato.

La sorte di colui che rifiuta è dominata da questa inutilità.

Essa può assumere forme diverse, a seconda se il rifiuto avvenne più o meno coscientemente, se fu più o meno colpevole.

Se esso stette ai confini dell'inconscio e quindi della assenza di colpa, allora la sua può diventare una vita che rimane per lui stesso inspiegabilmente incompiuta.

Egli viene perseguitato da una sfortuna.

Vorrebbe forse sposarsi, ma il fidanzamento fallisce; la ragazza si nega a lui, senza che egli comprenda perché.

Più tardi egli ritenta, ma fallisce di nuovo.

Le sue intraprese non fioriscono.

Egli non ha figli, oppure gli muoiono.

Non gli riesce di farsi una solida posizione come fanno gli altri e di sistemarsi senza preoccupazioni.

Un'irrequietezza lo riempie, più imposta dal destino che scaturente dal suo carattere.

Egli rimane uno straniero in mezzo agli uomini del mondo e si sente tale.

Non gli verrà chiarito il vero senso della sua inquietudine, non verrà privato della speranza.

Forse Dio avrà pietà e gli donerà pace.

Poi ci sono quelli che hanno rifiutato consapevolmente.

Per essi vale la parola: "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco a bruciare" ( Gv 15,6 ).

Questo seccarsi e bruciare può avere forme diverse.

Ci sono certuni che per tutta la loro vita sono in fiamme.

Essi sanno e sentono giorno per giorno come la loro vera vita rimane loro sottratta, la loro esistenza scorre senza frutto e senza utilità.

Essi si sforzano di apparire superiori, come stoici, filosofi che sorridono nella loro sapienza mondana, o talvolta come cinici imperterriti, ma la maschera è sottile, e attraverso le fenditure della visiera guarda lo spirito bruciante, disperato.

Forse, se hanno fortuna, tutta la loro anima è in rivolta; essi avvertono sempre nuovamente la spada dell'aver perso l'occasione, cento volte avrebbero gettato i denari nel tempio, ma il loro rimorso non può far sì che l'accaduto non sia accaduto.

Essi sono stati "tagliati" come esempio per tutti gli altri, affinchè questi non si insuperbiscano ma rimangano nel timore ( Rm 11,19-20 ).

Che essi siano tagliati e brucino non significa che vadano definitivamente perduti: solo, essi hanno sulla terra finito di giocare.

La cosa migliore che resta loro da fare è sopportare il loro bruciare come fuoco purificante e porlo in espiazione a disposizione della Chiesa e dei nuovi eletti.

Se la missione che era stata loro destinata era una grande missione, ciò vuol dire che essi sarebbero stati capaci di un grande sì.

Abbastanza spesso la consapevolezza di ciò diventa per essi occasione di arrogarsi un "no" della stessa dimensione.

Essi pongono la loro persona al posto della loro missione e cercano, gonfiando la loro importanza, di compensare la mole della missione perduta.

Dal modo in cui accentuano il proprio io li si riconosce.

Essi cercano di fare scuola, di incatenare discepoli alla loro persona, la quale diventa il punto centrale di una "lega".

Essi si riconoscono anche l'un l'altro da lontano e intrecciano accordi per rafforzarsi nella loro deviazione.

Conservano uno spasmodico impulso ad occuparsi sempre di nuovo di ciò a cui hanno detto di no.

Non possono astenersi dal ficcare il naso nei segreti della Grazia in sé e negli altri, per riversare ogni volta di nuovo su ciò la soda caustica del loro rifiuto.

Sono attratti da tutte le forme contrarie e i surrogati della missione autentica.

Amano ciò che è interessante, anche la sensazione religiosa, che serve loro quale surrogato della schietta grandezza della vita dedicata alla missione.

Scavano nel sedimento del recipiente che hanno svuotato, anziché bervi.

In essi vanno a sbattere anche quelle figure particolarmente tragiche che hanno sì assunto la loro missione e forse l'hanno adempiuta fedelmente per lungo tempo, ma che poi lentamente, impercettibilmente, si sono sfasciati, hanno deformato la chiara figura che essi finora avevano rappresentato per la Chiesa e il mondo, fino a che non solo i loro amici notano ciò, ma anche i credenti di una cerchia più ampia rimangono confusi.

Non era costui un faro dal quale si poteva trarre orientamento? Ma lo è poi ancora?

Quasi è da non credere che uno che sembrava impersonare qualcosa dell'infallibilità della Chiesa va a scivolare così.

Il formato della loro missione, che era un puro dono di Dio, è improvvisamente apparso loro - perché non hanno più pregato con sufficiente umiltà - come il formato del loro "io", e la sicurezza quasi da sonnambulo di aver ricevuto la missione, quella sicurezza in cui Pietro camminò sulle acque, e dalla quale essi stessi si sentivano fino ad ora portati, si trasforma in una grottesca sicurezza di sé, in cui essi non si accorgono più di quali grossi granchi prendono.

Se sono teologi, costruiscono una super-dogmatica, una super-chiesa e concedono magnanimemente di avere una super-fede ad ognuno che non ha più bisogno di attenersi alle ristrettezze di vedute della Chiesa che rimane sempre indietro coi tempi.

L'antica fede la trovano insipida, essi hanno bisogno di cibi più piccanti, con più pepe, e alla fine sembra che non possano più vivere di nient'altro che di pepe.

Ed esso li brucia interiormente del tutto e inoltre - ciò che è la cosa più triste! - annienta anche quella che era stata la fecondità della loro opera sino a ieri.

Poiché essi non hanno costruito più sul fondamento di Cristo, "per questo la loro opera finisce bruciata.

Così essi subiranno dei danni: essi stessi verranno sì salvati, ma come attraverso il fuoco" ( 1 Cor 3,15 ).

Infine ci sono quelli - e sono per lo più le missioni più piccole - nei quali la parola della missione non brucia, ma si putrefa, o più precisamente provoca una putrefazione dello spirito a causa del rifiuto sperimentato.

La loro fede sarebbe rimasta in vita solo se si fosse coraggiosamente messa a disposizione dell'opera di Dio come un corpo nei confronti dell'anima.

Infatti "come il corpo senza l'anima è morto, così anche la fede senza le opere è morta" ( Gc 2,17 ).

La loro vita cristiana e personale è priva di questa anima e diventa perciò un vuoto involucro che non serve a nulla.

Essi, che ritengono magari di poter esercitare al posto della missione divina una missione importante nel mondo e di avere una corrispondente efficacia come apostoli laici, vedono a poco a poco come la loro vita si secca e - cosa che per essi è la peggiore delle punizioni - tramonta nella assenza di rilevanza.

Essi si adoperano all'inizio di emergere fuori dalla massa, ma l'apostolato da loro sognato viene "soffocato dalle preoccupazioni mondane, dall'ingannevole ricchezza e da tutte le altre bramosie, cosicché esso rimane senza frutto" ( Mc 4,19 ).

La professione, gli affari, la famiglia li prendono talmente prigionieri che essi non hanno quasi più tempo per ciò che una volta era per loro l'istanza fondamentale.

Se Dio li avesse destinati allo stato laicale, certo essi nel loro posto porterebbero quel frutto, magari nascosto ma vivo, che Dio si aspettava da loro.

Così invece la loro vita è sciupata, ed essi si consumano in una critica sterile, soprattutto alla Chiesa, senza contribuire al suo miglioramento.

L'essenziale "no" che essi una volta hanno pronunciato nei confronti del loro incarico rimane, anche se esso come peccato fosse confessato e rimesso.

Esso rimane, come un vuoto nella loro anima, e li induce a certe colpe che altrimenti non sarebbero state commesse.

Non è da escludere che l'operare dei laici cattolici spesso rimane infecondo per questa ragione, che fra i molti autentici apostoli laici se ne trovano un sacco di falsi, vale a dire di tali che non ebbero il coraggio del sacrificio totale al quale essi sarebbero stati chiamati, e la cui semina, esteriormente fatta con buone intenzioni, non viene coadiuvata da nessuna feconda pioggia di grazia, che era stata tenuta in serbo per la loro vita nella missione.

Essi intasano nella Chiesa le vene del vivo circolo sanguigno e la danneggiano più di quelli che la attaccano dall'esterno.

Dalla persecuzione esterna la Chiesa viene rafforzata, dal rifiuto interno essa viene invece attaccata nell'intimo della sua vitalità.

Questo non toglie che il pastore d'anime ha il compito di darsi cura nella sua comunità anche di quelli che hanno detto di no.

Egli deve se guidi con attenzione, e nelle fiamme in cui essi bruciano consolarli e sostenerli.

Egli deve provvedere secondo le possibilità a far sì che ciò che li "raccoglie" ( Gv 15,6 ) sia non tanto la comunione nel "no", quanto la comunanza del pentimento circa ciò che è stato sciupato, pentimento che grazie alla sovrabbondanza della Grazia in una maniera per noi invisibile può diventare malgrado tutto inizio di una nuova fecondità.

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