Summa Teologica - I

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Articolo 2 - Se l'intelletto sia una potenza passiva

In 3 Sent., d. 14, a. 1, sol. 2; De Verit., q. 16, a. 1, ad 13; In 3 De anima, lect. 7, 9

Pare che l'intelletto non sia una potenza passiva.

Infatti:

1. Gli esseri sono passivi a motivo della materia, e sono invece attivi in ragione della forma.

Ma la facoltà intellettiva si fonda sull'immaterialità della sostanza intelligente.

Pare quindi che l'intelletto non possa essere una potenza passiva.

2. La potenza intellettiva è incorruttibile, come si è visto sopra [ q. 75, a. 6 ].

Ma Aristotele [ De anima 3,5 ] insegna che « se l'intelletto è passivo, è corruttibile ».

Perciò la potenza intellettiva non è passiva.

3. « L'agente è più nobile del paziente », come dicono S. Agostino [ De Gen. ad litt. 12,16.32 ] e Aristotele [ De anima 3,5 ].

Ma le potenze della parte vegetativa sono tutte attive, benché siano le più basse tra le potenze dell'anima.

Molto più dunque saranno attive le potenze intellettive, che sono le più alte.

In contrario:

Il Filosofo [ De anima 3,4 ] afferma che « l'intendere è in certo modo un patire ».

Dimostrazione:

Il termine patire viene usato in tre diversi significati.

Primo, in senso propriissimo, quando si toglie a un essere qualcosa che ad esso conviene per natura, o per un'inclinazione propria: come ad es. quando l'acqua perde la freschezza a causa del calore, oppure quando l'uomo si ammala o si rattrista.

- Secondo, si dice in senso meno proprio che uno patisce per il fatto che perde qualcosa, conveniente o nocivo che sia.

E in questo senso si dirà che patisce non soltanto chi si ammala, ma anche chi guarisce, e non solo chi si rattrista, ma anche chi si rallegra, o chiunque venga in qualche modo alterato o trasmutato.

- Terzo, si dice in senso larghissimo che uno patisce per indicare soltanto che, essendo in potenza a qualcosa, riceve ciò a cui era in potenza, senza perdere nulla.

E così tutto ciò che esce dalla potenza all'atto si può dire che patisce, anche se acquista una perfezione.

E in questo senso il nostro intendere è un patire.

Ed eccone la dimostrazione.

Abbiamo già visto [ q. 78, a. 1 ] che l'intelletto abbraccia con la sua operazione l'ente nella sua universalità.

Potremo allora scoprire se l'intelletto sia in atto o in potenza osservando come esso di comporta verso l'ente preso nella sua universalità.

Vi è infatti un intelletto che si trova di fronte all'ente universale come atto di tutto l'essere: e tale è l'intelletto divino, che è la stessa essenza di Dio, in cui preesiste originariamente e virtualmente tutto l'essere, come nella sua prima causa.

Perciò l'intelletto divino non è in potenza, ma è atto puro.

- Ora, nessun intelletto creato può presentarsi come atto di tutto l'essere universale: perché bisognerebbe che fosse un ente infinito.

Quindi ogni intelletto creato, in forza della sua essenza, non è l'atto di tutti gli intelligibili, ma sta ad essi come la potenza all'atto.

La potenza però può trovarsi rispetto all'atto in due diverse condizioni.

Vi è infatti una potenza che è sempre provvista del suo atto, come si è detto [ q. 58, a. 1 ] a proposito della materia dei corpi celesti.

Ve n'è un'altra invece che non è sempre attuata, ma è soggetta a passare dalla potenza all'atto, come avviene nei corpi generabili e corruttibili.

- Dunque l'intelletto angelico è sempre in atto rispetto ai propri intelligibili a causa della sua vicinanza alla prima intelligenza, che è atto puro, come si è visto.

Invece l'intelletto umano, che è la più bassa delle intelligenze e la più lontana dalla perfezione dell'intelletto divino, è in potenza rispetto agli intelligibili, e da principio, secondo l'espressione del Filosofo [ De anima 3,4 ], è « come una tavoletta levigata su cui non è scritto nulla ».

Il che appare evidente dal fatto che in un primo tempo noi siamo soltanto in potenza all'intellezione, che poi diviene attuale.

- È dunque evidente che il nostro intendere è un certo patire, preso nel terzo significato.

Per conseguenza l'intelletto è una potenza passiva.

Analisi delle obiezioni:

1. L'obiezione procede dal primo e dal secondo modo di patire, che sono propri della materia prima.

Invece il terzo modo appartiene a qualsiasi cosa che essendo in potenza passi all'atto.

2. Secondo alcuni l'intelletto passivo sarebbe l'appetito sensitivo, nel quale risiedono le passioni dell'anima, e che anche Aristotele [ Ethic. 1,13 ] chiama « razionale per partecipazione », dato che obbedisce alla ragione.

Per altri invece l'intelletto passivo sarebbe la cogitativa, la quale è chiamata anche ragione particolare.

Stando a queste due opinioni dunque il termine passivo potrebbe essere preso secondo i due primi modi di patire, poiché un tale intelletto non sarebbe che l'atto di un organo corporeo.

- Ma l'intelletto che è in potenza agli intelligibili e che Aristotele [ De anima 3,4 ] denomina, per questo, intelletto possibile, non è passivo se non nel terzo modo, non essendo l'atto di un organo corporeo.

Ed è pertanto incorruttibile.

3. L'agente è più nobile del paziente quando l'azione e la passione si riferiscono a un medesimo oggetto, ma non lo è sempre se esse si riferiscono a oggetti diversi.

Ora, l'intelletto è una potenza passiva che abbraccia l'ente nella sua universalità, mentre il principio vegetativo è attivo rispetto a un ente particolare, cioè al corpo a cui è unito.

Nulla dunque impedisce che un principio passivo di tal genere sia più nobile di un tale principio attivo.

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