Summa Teologica - II-II

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Articolo 1 - Se la perseveranza sia una virtù

In 3 Sent., d. 33, q. 3, a. 3, sol. 1, ad 4

Pare che la perseveranza non sia una virtù.

Infatti:

1. Come insegna il Filosofo [ Ethic. 7,7 ], « la continenza è superiore alla perseveranza ».

Ma egli dice pure [ Ethic. 4,9 ] che « la continenza non è una virtù ».

Quindi non lo è neppure la perseveranza.

2. Secondo S. Agostino [ De lib. arb. 2,19.51 ] « la virtù è ciò che fa vivere bene ».

Egli però afferma [ De persev., cc. 1,6 ] che « nessuno può dire, mentre vive, di avere la perseveranza se non persevera fino alla morte ».

Quindi la perseveranza non è una virtù.

3. Il « persistere immobilmente » nell'opera virtuosa è richiesto in tutte le virtù, come insegna Aristotele [ Ethic. 2,4 ].

Ma proprio in questo consiste la perseveranza: poiché, come scrive Cicerone [ De invent. 2,54 ], « la perseveranza è la permanenza stabile e perpetua in ciò che la ragione ha ben deliberato ».

Quindi la perseveranza non è una virtù speciale, ma una condizione di tutte le virtù.

In contrario:

Andronico [ Crisippo, Def. in De affect. ] afferma che « la perseveranza è l'abito che ha per oggetto cose alle quali è obbligatorio, o proibito, o indifferente rimanere attaccati ».

Ma l'abito che ci dispone a ben fare o a ben omettere qualcosa è una virtù.

Quindi la perseveranza è una virtù.

Dimostrazione:

Come insegna il Filosofo [ Ethic. 2,3 ], « la virtù ha per oggetto il difficile e il bene ».

Perciò dove si riscontra una specifica ragione di obiezioni o di bontà deve pure riscontrarsi una virtù speciale.

Ora, un'azione virtuosa può essere buona e difficile sotto due aspetti.

Primo, per la specie stessa dell'atto, che viene desunta dal suo oggetto proprio.

Secondo, per la sua durata nel tempo: infatti la stessa applicazione prolungata a qualcosa di difficile ha una obiezioni speciale.

Perciò il persistere a lungo in un'opera buona fino al suo compimento appartiene a una virtù speciale.

Come quindi la temperanza e la fortezza sono virtù speciali perché l'una ha il compito di moderare i piaceri del tatto, il che comporta di per sé una obiezioni, e l'altra quello di moderare la paura e l'audacia di fronte ai pericoli di morte, il che analogamente comporta di per sé una obiezioni, così è una virtù speciale anche la perseveranza, che ha il compito di sopportare, per quanto è necessario, lo sforzo prolungato di questi atti e di tutte le altre azioni virtuose.

Analisi delle obiezioni:

1. Il Filosofo in quel testo parla della perseveranza come dell'atto di chi persevera in cose nelle quali è difficilissimo resistere a lungo.

Ora, il difficile sta nel sopportare non il bene, ma il male.

D'altra parte i mali che costituiscono un pericolo di morte in generale non sono mai prolungati: poiché d'ordinario passano presto.

E così non è principalmente rispetto ad essi che si ha il merito della perseveranza.

Fra gli altri mali invece i primi sono quelli che si contrappongono ai piaceri del tatto: poiché questi mali, quali la scarsità di cibo e altre privazioni del genere, riguardano le cose necessarie alla vita, e talora incombono per lungo tempo.

Ora, il sopportare a lungo tutto ciò non è difficile per chi non se ne addolora molto, o non prova grande piacere nei beni contrari: come è evidente nelle persone temperanti, in cui tali passioni non sono forti.

Ciò risulta invece sommamente difficile per coloro che sono molto attaccati a queste cose, poiché non hanno una virtù perfetta capace di moderare tali passioni.

Intesa dunque in questo senso la perseveranza non è una virtù perfetta, ma qualcosa di imperfetto nell'ordine della virtù.

Se invece chiamiamo perseveranza il persistere a lungo in qualsiasi bene difficile, allora essa può attribuirsi anche a chi è perfetto nella virtù.

E se è vero che la persistenza è allora meno difficile, tuttavia si persiste in un bene più perfetto.

Per cui tale perseveranza può essere una virtù: poiché la perfezione della virtù viene desunta più dalla bontà che dalla obiezioni di una cosa.

2. Talora vengono denominati con lo stesso termine la virtù e il suo atto: come S. Agostino [ In Ioh. ev. tract. 79 ] dice che « la fede è credere ciò che non vedi ».

Può capitare però che uno abbia una virtù senza esercitarne gli atti: come un povero può avere l'abito della magnificenza senza poterla esercitare.

Talora invece uno, avendone l'abito, comincia a esercitarne gli atti, ma non arriva a terminarli: come un costruttore che fabbrica senza completare l'edificio.

Si deve quindi rispondere che il termine perseveranza talora sta a indicare l'abito con il quale uno è deciso a perseverare, talora invece sta a indicare l'atto con il quale uno persevera.

E può capitare che uno, avendo l'abito della perseveranza, deliberi di perseverare e incominci per un certo tempo a persistere, però senza arrivare a completare l'atto, poiché non persiste sino alla fine.

E qui il termine fine può avere due significati: la fine dell'atto o la fine della vita umana.

Ora, alla perseveranza è essenziale che uno perseveri sino al termine dell'atto virtuoso: p. es. che il soldato combatta fino al termine della battaglia, e il magnifico fino al compimento dell'opera intrapresa.

Ci sono però delle virtù, come la fede, la speranza e la carità, i cui atti devono durare tutta la vita: poiché riguardano il fine ultimo di tutta la vita umana.

Perciò rispetto ad esse, che sono le virtù principali, l'atto della perseveranza non ha compimento se non al termine della vita.

E in base a ciò S. Agostino col termine perseveranza intende il suo atto consumato e perfetto.

3. Una cosa può appartenere alla virtù in due modi.

Primo, come un fine proprio da perseguire.

E in questo senso il persistere nel bene sino alla fine appartiene a una virtù specificamente distinta, che è la perseveranza, la quale mira a ciò come al suo fine specifico.

- Secondo, in base al rapporto dell'abito con il soggetto in cui risiede.

E in questo senso il persistere stabilmente accompagna qualsiasi virtù, in quanto essa è « una qualità difficilmente amovibile » [ cf. Categ. 6 ].

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