Summa Teologica - II-II

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Articolo 7 - Se i vescovi pecchino mortalmente non distribuendo ai poveri i beni ecclesiastici che amministrano

Quodl., 6, q. 7

Pare che i vescovi pecchino mortalmente se non distribuiscono ai poveri i beni ecclesiastici che amministrano.

Infatti:

1. S. Ambrogio [ Serm. 81 ], spiegando quel passo evangelico [ Lc 12,16 ]: « La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto », afferma: « Nessuno dica proprio ciò che è di tutti: ciò che supera le proprie esigenze è una rapina ».

E aggiunge: « Negare all'indigente quando sei nell'abbondanza non è un delitto minore che rubare a chi possiede ».

Ma rubare è un peccato mortale.

Quindi i vescovi peccano mortalmente se non elargiscono ai poveri il sovrappiù.

2. S. Girolamo [ Glossa ord. ], spiegando quel testo di Isaia [ Is 3,14 ]: « Le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case », afferma che i beni della Chiesa sono dei poveri.

Ma chi si appropria della roba altrui, o la dà ad altri, pecca mortalmente, ed è tenuto alla restituzione.

Se quindi i vescovi ritengono per sé o elargiscono ai parenti e agli amici i beni ecclesiastici che loro sopravanzano, sono tenuti alla restituzione.

3. È molto più ammissibile prendere dai beni ecclesiastici il necessario che ammassare il superfluo.

Eppure S. Girolamo [ Decr. di Graz. 2,1,2,6 ] scrive: « È un dovere sostentare con i beni della Chiesa quei chierici che non sono assistiti né dai genitori né dalla parentela; quelli invece che possono essere sostentati dai beni e dalle rendite patrimoniali, se prendono ciò che è dei poveri, commettono un sacrilegio ».

Da cui le parole dell'Apostolo [ 1 Tm 5,16 ]: « Se una donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei stessa a loro e non ricada il peso sulla Chiesa, perché questa possa così venire incontro a quelle che sono veramente vedove ».

Quindi a maggior ragione peccano mortalmente i vescovi se non distribuiscono ai poveri il superfluo dei beni ecclesiastici.

In contrario:

Molti vescovi non danno ai poveri i beni che loro sopravanzano, ma li spendono lodevolmente per accrescere le rendite della loro chiesa.

Dimostrazione:

Bisogna distinguere fra i beni personali che i vescovi possono possedere, e i beni ecclesiastici.

Dei beni propri infatti i vescovi hanno un vero dominio.

Quindi di per sé non sono in obbligo di darli ad altri, ma possono trattenerli o distribuirli a loro arbitrio.

Nell'amministrarli però possono peccare, o per un attaccamento eccessivo, che li porta a goderne più del bisogno, oppure anche perché non soccorrono gli altri come la carità esigerebbe.

Tuttavia non sono tenuti per questo alla restituzione: poiché si tratta di cose di loro proprietà.

Invece dei beni ecclesiastici essi sono soltanto dispensieri, o amministratori, come dice S. Agostino [ Epist. 185 ]: « Se abbiamo dei beni personali che ci bastano, questi altri non appartengono a noi, ma a quelli di cui siamo gli amministratori: badiamo quindi a non rivendicarli con una riprovevole usurpazione ».

Ora, da un amministratore si richiede la fedeltà, secondo le parole di S. Paolo [ 1 Cor 4,2 ]: « Quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele ».

I beni ecclesiastici però non sono destinati soltanto ai poveri, ma anche al culto di Dio e alle necessità dei suoi ministri.

« Delle rendite ecclesiastiche e delle offerte dei fedeli », dice infatti il Decreto di Graziano [ 2,12,2,28 ], « solo una parte è del vescovo; altre due devono essere impiegate dal sacerdote, sotto pena di deposizione, per gli edifici ecclesiastici e per l'erogazione ai poveri; l'ultima poi va divisa tra i chierici secondo i meriti di ciascuno ».

Se quindi i beni destinati al vescovo sono distinti da quelli destinati ai poveri, ai ministri e al culto, e il vescovo ritiene per sé cose da erogarsi per tali scopi, allora non c'è dubbio che agisce contro la fedeltà necessaria all'amministratore, pecca mortalmente ed è tenuto alla restituzione.

- Invece per i beni destinati espressamente a lui vale la conclusione stabilita per i beni personali: cioè il vescovo pecca se per un attaccamento e un impiego eccessivi se ne riserva più del giusto, e non aiuta gli altri come esige la carità.

Se invece i beni suddetti non sono distinti, allora la loro distribuzione è affidata alla sua onestà.

E se in ciò sbaglia di poco, in più o in meno, può darsi che non intacchi la fedeltà: poiché in simili questioni non è possibile per l'uomo determinare ciò che è dovuto con assoluta esattezza.

Se però l'eccesso è considerevole, non può rimanere inavvertito: per cui appare incompatibile con l'onestà.

E allora non è senza peccato mortale, come traspare da quel passo evangelico [ Mt 24,48ss ]: « Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: "Il mio padrone tarda a venire" », disprezzando così il giudizio di Dio, « e cominciasse a percuotere i suoi compagni », macchiandosi di superbia, « e a bere e a mangiare con gli ubriaconi », abbandonandosi alla lussuria, « arriverà il padrone quando il servo non se l'aspetta, lo separerà » dalla compagnia dei buoni « e gli infliggerà la sorte degli ipocriti » nell'inferno.

Analisi delle obiezioni:

1. Quelle parole di S. Ambrogio non si riferiscono solo all'amministrazione dei beni ecclesiastici, ma anche a quella di ogni altro bene che uno è tenuto a dare per provvedere agli indigenti.

Ma qui non si può determinare quando la necessità obblighi sotto peccato mortale: come non si possono determinare altri casi particolari relativi agli atti umani.

Infatti queste determinazioni sono lasciate alla prudenza personale.

2. I beni ecclesiastici non vanno impiegati soltanto per i poveri, ma anche per altri usi, come si è visto [ nel corpo ].

Se quindi un vescovo o un chierico si priva di quanto è riservato a suo uso per darlo ai parenti o ad altre persone, non commette peccato: purché lo faccia con moderazione, cioè in modo da togliere tali persone dall'indigenza e non da arricchirle.

Scrive infatti S. Ambrogio [ De off. 1,30 ]: « È una liberalità degna di approvazione il non disprezzare il prossimo del tuo medesimo sangue, se lo sai in necessità; non però l'arricchirlo con quanto potresti dare ai poveri ».

3. Non tutti i beni ecclesiastici vanno distribuiti ai poveri: se non forse in caso di [ estrema ] necessità, quando per redimere i prigionieri e per gli altri bisogni dei poveri si possono vendere, come dice S. Ambrogio [ ib. 2,28 ], anche i vasi destinati al culto divino.

E in tale necessità peccherebbe un chierico che volesse vivere con i beni della Chiesa pur avendo beni patrimoniali sufficienti.

4. I beni ecclesiastici devono servire ai poveri.

Se quindi uno, non essendoci la necessità urgente di provvedere ai poveri, impiega il sovrappiù delle rendite ecclesiastiche per comprare altri beni, o lo mette da parte perché serva in seguito al bene della Chiesa e alle necessità dei poveri, agisce lodevolmente.

Se invece urge la necessità di provvedere ai poveri, allora è una preoccupazione eccessiva e disordinata il conservare quei beni per l'avvenire; ed è contro le parole del Signore [ Mt 6,34 ]: « Non affannatevi per il domani ».

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