Summa Teologica - III

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Articolo 6 - Se le opere morte siano anch'esse vivificate dalla penitenza successiva

In 4 Sent., d. 14, q. 2, a. 3, sol. 1; d. 15, q. 1, a. 3, sol. 3, 4, 5

Pare che anche le opere morte, cioè compiute in istato di peccato, siano vivificate dalla penitenza successiva.

Infatti:

1. È più difficile che torni in vita ciò che ha subito la morte, il che non si verifica mai in natura, piuttosto che venga vivificato ciò che non fu mai vivo: poiché da realtà non vive vengono generati per natura certi viventi.

Ma le opere « mortificate » dal peccato vengono vivificate dalla penitenza, come si è visto [ a. 5 ].

Quindi a maggior ragione vengono vivificate le opere morte.

2. Eliminata la causa si elimina anche l'effetto.

Ora, la causa per cui le opere buone compiute senza la carità non furono vive, fu la mancanza della carità e della grazia.

Ma questa mancanza viene a cessare con la penitenza.

Quindi con la penitenza le opere morte reviviscono.

3. S. Girolamo [ In Agg. su 1,5 ] scrive: « Quando vedi che uno tra molte opere cattive compie qualche opera buona, non devi credere che Dio sia tanto ingiusto da dimenticare per le molte cose cattive le poche buone ».

Ma ciò appare soprattutto quando con la penitenza vengono cancellate le colpe passate.

Pare quindi che in seguito alla penitenza Dio ricompensi le opere buone compiute in istato di peccato: il che significa vivificarle.

In contrario:

L'Apostolo [ 1 Cor 13,3 ] scrive: « Se anche distribuissi tutte le mie sostanze ai poveri e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova ».

Ora, ciò non avverrebbe se almeno con la penitenza successiva tali opere potessero essere vivificate.

Perciò la penitenza non ridà vita alle opere morte.

Dimostrazione:

Un'opera può dirsi morta in due modi.

Primo, in senso effettivo: cioè perché causa la morte.

E in questo senso si dicono morti gli atti peccaminosi, secondo quelle parole di S. Paolo [ Eb 9,14 ]: « Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte ».

Perciò queste opere morte non vengono vivificate dalla penitenza, ma piuttosto eliminate, secondo l'altra espressione dell'Apostolo [ Eb 6,1 ]: « Non getteremo di nuovo le fondamenta della penitenza, che ci libera dalle opere morte ».

Secondo, le opere possono dirsi morte in senso privativo: nel senso cioè che mancano della vita spirituale che deriva dalla carità, mediante la quale l'anima è unita a Dio, di cui essa vive come il corpo mediante l'anima.

E in questo senso anche la fede priva della carità è detta morta, secondo le parole di S. Giacomo [ Gc 2,20 ] : « La fede senza le opere è morta ».

E in questo stesso senso anche tutte le opere che sono buone nel loro genere, se sono state compiute senza la carità, devono dirsi morte: poiché esse non derivano da un principio vitale; come se dicessimo che la cetra dà una voce morta.

Perciò la distinzione tra opere morte e opere vive viene fatta in base al principio da cui procedono.

Ora, le opere non possono tornare di nuovo a procedere dal loro principio: poiché passano, e non è possibile ripeterle nella loro identità numerica.

Quindi è impossibile che le opere morte ridiventino vive mediante la penitenza.

Analisi delle obiezioni:

1. In natura sia gli esseri morti che quelli mortificati [ cioè sopraffatti dalla morte ] mancano del principio vitale.

Invece le opere vengono dette mortificate non in base al principio da cui promanarono, bensì per un impedimento estrinseco, mentre vengono dette morte in riferimento al loro principio.

Perciò il paragone non regge.

2. Le opere buone fatte senza la carità sono dette morte per la mancanza della grazia e della carità quale loro principio.

Ora, il fatto di derivare da tale principio non può essere loro fornito dalla penitenza successiva.

Quindi l'argomento non vale.

3. Dio si ricorda del bene che uno compie in istato di peccato per ricompensarlo non già nella vita eterna, che è dovuta solo alle opere vive, cioè fatte nella carità, ma con una ricompensa di ordine temporale.

Per cui S. Gregorio [ In Evang. hom. 40 ], nel commentare la parabola del ricco e del povero Lazzaro, afferma che « se quel ricco non avesse fatto in vita nessun bene, mai più Abramo gli avrebbe detto: "Tu hai ricevuto dei beni nella tua vita" ».

Oppure il suddetto ricordo può riferirsi a una certa mitigazione della condanna.

Da cui le parole di S. Agostino [ De patentia 26 ]: « Non possiamo dire che per uno scismatico [ martirizzato ] sarebbe stato meglio rinnegare Cristo, senza soffrire ciò che ha sofferto confessandolo: per cui le parole di S. Paolo: "Quand'anche consegnassi il mio corpo alle fiamme, se non ho la carità niente mi giova", vanno riferite al conseguimento del regno dei cieli, non già alla mitigazione del supplizio inflitto nell'ultimo giudizio ».

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