Supplemento alla III parte

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La penitenza

( III, qq. 84-90; Suppl., qq. 1-20 )

1 - Negli arcani decreti di Dio era stato stabilito che la Somma Teologica restasse incompiuta, e che l'interruzione avvenisse a metà del trattato sulla penitenza.

Perciò fin da questo trattato saremo costretti a integrare il testo della Somma ricorrendo a quella compilazione, che ormai da secoli ha preso il nome di Supplemento della Terza Parte, o semplicemente di Supplemento.

Vedremo all'inizio di codesta rappezzatura i particolari dell'interruzione e della compilazione; per ora ci fermeremo a rilevare quanto sia stata funesta, per il trattato sulla penitenza, l'immatura fine del grande teologo.

Nel Quarto Libro delle Sentenze Pietro Lombardo aveva dedicato al sacramento della penitenza nove distinzioni ( dd. 14-22 ), disponendo la sua raccolta di testi patristici in una maniera molto disordinata.

Ora, sebbene il Dottore Angelico avesse tentato di sbrogliare un po' questa matassa già nel suo commento giovanile alle Sentenze, avvertiva la necessità di riordinare radicalmente il trattato.

Ebbene, questa impresa, cui il santo Dottore si era accinto con impegno sul finire del 1273, non fu portata a termine per il sopraggiungere della morte.

Nelle sette questioni ( qq. 84-90 ), che aveva avuto modo di stendere, egli aveva tracciato il programma di lavoro nel quale erano previsti sei argomenti fondamentali: la penitenza in se stessa, i suoi effetti, le sue parti, i fedeli chiamati a ricevere questo sacramento, il potere di coloro che lo amministrano, il rito solenne della penitenza ( cfr. q. 84, prol. ).

Un quadro abbastanza ampio, come si vede, ma niente affatto esauriente: perché S. Tommaso non perde mai di vista la sintesi generale in cui il trattato trovava ormai i suoi presupposti, senza bisogno di ripetere più volte le stesse cose.

2 - Può darsi però che i nostri lettori non abbiano presente come lui quanto costituisce il presupposto della penitenza, e come virtù, e come sacramento.

Perciò ricorderemo qui brevemente le principali pericopi della Somma che l'Autore considera parti integranti di una monografia sulla penitenza.

Nel commentare le Sentenze questi aveva preso l'occasione dalla distinzione XVII del Quarto Libro, in cui si tratta della contrizione e della confessione, per parlare a lungo della maniera con la quale si produce la giustificazione del peccatore immerso coscientemente nella colpa ( cfr. 4 Sent., d. 17, q. 1 ).

Egli evidentemente non riteneva possibile affrontare i problemi della contrizione e della confessione, senza aver prima parlato e del peccato e della grazia.

Ebbene nella Somma Teologica al peccato egli aveva dedicato un trattato intero ( I-II, qq. 71-89 ), che qui presuppone sempre, anche se non c'è un richiamo esplicito nel testo, ovvero nei luoghi paralleli.

Un confessore che intendesse imbeversi dello spirito dell'Aquinate dovrebbe meditare le questioni più importanti di codesto trattato: e qualsiasi teologo il quale desideri conoscere il suo pensiero sugli effetti del sacramento della penitenza deve prima rileggersi quanto è stato detto sugli effetti del peccato ( cfr. I-II, q. 85-87 ).

Nel trattato sulla grazia ( I-II, qq. 109-114 ) esiste una questione che va considerata indispensabile per la teologia del sacramento della penitenza; è la q. 113 : « de iustificatione impii », ossia sul modo in cui si produce il risanamento del peccatore, cioè la remissione della colpa, sotto l'influsso della grazia.

Un altro gruppo di articoli e di questioni che l'Autore presuppone al trattato sulla penitenza lo troviamo nel De Verbo Incarnato, e precisamente nella Terza Parte, qq. 46-49.

È una breve esposizione di quanto la teologia può dirci intorno all'influsso della passione di Cristo sull'umanità peccatrice, e immediatamente sui sacramenti della Chiesa.

I - Presupposti estranei alla « Somma ».

3 - Dopo aver indicato quanto è reperibile nelle altre parti dell'Opera per una monografia completa sulla penitenza, dobbiamo segnalare brevemente quello che le è del tutto estraneo, e che segna i limiti della sintesi tomistica.

Fino al Concilio di Trento [ 1545-1563 ] le vicende storiche subite dalla prassi penitenziale della Chiesa erano conosciute in maniera del tutto inadeguata.

Perciò non sarà inutile ricapitolarle brevemente per i nostri lettori meno provveduti, pur avendo l'intenzione di segnalarle in nota tutte le volte che sembreranno necessarie per l'illustrazione del testo.

I teologi scolastici non hanno mai dubitato dell'istituzione divina di questo sacramento; ma in seguito alla lotta del protestantesimo contro la fede e la prassi cattolica relativa ai sacramenti, gli apologisti e i teologi non mancarono di ricercare più accuratamente le fonti bibliche dello stesso sacramento della penitenza, e di sottolineare tutti gli accenni alla prassi penitenziale negli scritti dei primi Padri della Chiesa.

Il Concilio di Trento ( cfr. DENZ. - 5., 1542, 1670, 1703, 1710 ), oltre ai testi di S. Matteo ( Mt 16,19; Mt 18,18 ), in cui si parla del potere delle chiavi, pose in evidenza il testo di S. Giovanni, in cui si conferisce espressamente il potere di rimettere i peccati : « Ricevete lo Spirito Santo; a coloro cui rimetterete i peccati saranno rimessi, e a coloro cui li riterrete saranno ritenuti » ( Gv 20,22-23 ).

Contro le stranezze della pseudo-riforma che pretendeva dimostrare l'istituzione medioevale della confessione dei peccati, gli apologisti potevano citare persino gli Atti degli Apostoli, in cui S. Luca ci narra, come ad Efeso « molti di quelli che avevano creduto venivano a confessare e dichiarare i loro atti … » ( At 19,18 ).

- È vero che codeste confessioni possono aver preceduto il battesimo, ma nessuno può escludere che siano avvenute anche dopo di esso.

D'altra parte la lettera di S. Giacomo, la Didaché e molti altri documenti della Chiesa primitiva esortano i fedeli a confessare i loro peccati.

Ora, non c'è altro motivo per escludere che quegli antichi scrittori intendevano parlare della confessione davanti ai vescovi e ai sacerdoti, se non il preconcetto di chi ha una tesi prefabbricata da difendere.

Costoro sono pronti a giurare che quelle confessioni erano pubbliche e che erano dovute a manifestazioni di fervore personale da part di neofiti, i quali non si pentavano di correggere così reciprocamente la loro condotta: senza tener conto che la storia successiva della Chiesa spiega quelle parole in perfetta coerenza con la prassi sacramentale.

D'altra parte, se è già tanto ostica la confessione delle colpe davanti al ministro autorizzato ad assolverle, molto più ripugnante ( e quindi storicamente meno probabile ) doveva essere la confessione davanti all'assemblea dei fedeli, o davanti a persone animate dalla stessa fede, ma non legate a un compito specifico nella comunità.

Comunque le testimonianze del secondo e del terzo secolo intorno alla penitenza sacramentale sono ormai indiscutibili.

Va però notato che la prassi che ne risulta è molto diversa da quella attuale, soprattutto su due punti.

Prima di tutto il penitente era tenuto alla penitenza pubblica: in secondo luogo codesta penitenza, o espiazione, doveva precedere il rito di riconciliazione, ossia di assoluzione.

4 - Il cristiano dopo il battesimo era impegnato a vivere « in novità di vita ».

Perciò non si ammetteva che si potesse ricadere nei peccati gravi di cui venivano rimproverati i pagani.

La vocazione alla fede era considerata vocazione alla santità: il battesimo chiudeva definitivamente un'esistenza di peccato.

Ma non ci volle molto a comprendere che il peccato poteva riprendere il sopravvento su questo o su quell'altro dei fratelli.

E se questi fedifraghi, toccati dalla grazia di Dio chiedevano perdono, non si poteva ricorrere una seconda volta al battesimo.

La Chiesa però aveva piena coscienza di poterli riconciliare con Dio mediante il potere sacro conferito da Cristo alla sua gerarchia, non senza aver prima imposto severe sanzioni.

Non aveva agito così S. Paolo verso l'incestuoso di Corinto? ( cfr. 1 Cor 5,1-13 ; 2 Cor 2,5-11; 2 Cor 7,8-13 ).

Gli scandali pubblici non erano gli unici casi in cui si esigeva la penitenza pubblica di cui parliamo.

Da Origene fino a S. Agostino ed oltre sono numerosissime le testimonianze che ci illuminano in proposito.

L'adulterio, p. es., e la fornicazione semplice esigevano quel trattamento.

Nessuno esigeva dal colpevole la confessione pubblica: ma questi aveva lo stretto obbligo di presentarsi al vescovo, o a un sacerdote che ne avesse la facoltà, per manifestare la propria colpa.

Toccava al vescovo o al sacerdote stabilire se il caso esigeva la penitenza pubblica, e in quale misura.

Ma la colpa rimaneva occulta.

Aggregato al ceto dei penitenti, il cristiano colpevole doveva considerarsi in un certo senso scomunicato.

La sua partecipazione alla vita liturgica della Chiesa era ridotta a quella dei catecumeni, con in più l'obbligo di chiedere perdono davanti alla porta dell'edificio sacro.

A questo si aggiungeva l'obbligo del digiuno, soprattutto in determinate epoche dell'anno.

Altro particolare importante della primitiva prassi penitenziale era la rigida norma che escludeva la reiterazione.

Chi era stato accettato una volta alla penitenza, « seconda tavola di salvezza », non poteva esservi riammesso una seconda volta.

Perciò chi ricadeva doveva affidarsi soltanto alla misericordia di Dio, e attendere la riconciliazione della Chiesa solo in punto di morte.

Questo rigore ebbe come risultato immediato lo sforzo del clero e dei teologi a restringere il numero dei peccati « capitali « o « mortali » da sottoporre alla penitenza pubblica.

E come risultato ultimo notiamo la diminuzione progressiva dei peccatori che si sottopongono a quella penitenza.

L'istituto penitenziale declinò in modo rapido e definitivo con il crollo dell'impero romano.

Nei monasteri intanto la correzione fraterna portava a incrementare le pratiche penitenziali, compresa la confessione sia privata che pubblica.

Nacque così la penitenza di devozione anche per i peccati veniali, che notoriamente non esigeva l'aggregazione al ceto dei penitenti, né un periodo più o meno lungo di espiazione prima dell'assoluzione.

La soddisfazione che veniva imposta poteva essere compiuta normalmente dopo il perdono accordato dal sacerdote.

5 - Mentre nei secoli VI e VII in oriente e in occidente la penitenza pubblica era in pieno decadimento, un gruppo di monaci ebbe l'incarico di convertire alla fede cattolica l'Irlanda e la Gran Bretagna.

Essi applicarono ai nuovi convertiti il sistema penitenziale vigente nei monasteri, senza badare alla gravità dei peccati, accordando subito l'assoluzione.

La differenza stava solo nel modo e nella misura della penitenza espiatoria.

Per i peccati più gravi si esigevano gravi penitenze, che giungevano fino all'obbligo di abbracciare la vita monastica.

Quando poi nei secoli successivi i monaci irlandesi ed anglosassoni vennero come missionari sul continente europeo inselvatichito, propagarono anche la nuova prassi penitenziale, che nel frattempo aveva elaborato delle tariffe ben precise per ogni peccato.

La penitenza tariffata s'impose rapidamente, nonostante la resistenza di qualche sinodo.

Intorno al mille si nota però l'abbandono progressivo della penitenza rigidamente tariffata, lasciando tutto all'arbitrio del sacerdote.

I teologi del secolo XIII conobbero la penitenza sotto questa forma, che sostanzialmente è rimasta inalterata fino ai nostri giorni.

Come abbiamo già detto, S. Tommaso non conobbe le vicende che abbiamo descritto, e che d'altronde non si possono oggi ignorare per una sintesi teologica intorno al sacramento della penitenza.

II - Problemi aperti e soluzione tomistica.

6 - Il Dottore Angelico aveva trovato i teologi impegnati in dispute vivaci intorno all'efficacia sacramentale della penitenza; perché presso i maestri del secolo XII era prevalsa l'idea che dopo tutto il perdono di Dio dipende esclusivamente dalle disposizioni del penitente.

Se questi è davvero contrito, prima ancora dell'assoluzione la grazia e la carità riprendono possesso della sua anima.

Cosicché il sacerdote confessore non potrà fare altro che dichiarare l'assoluzione come già avvenuta.

Tutti quegli antichi maestri, seguendo Pietro Lombardo, ritenevano indispensabile la confessione come parte integrante della contrizione stessa e come controprova della sua sincerità; ma di fatto il valore e la necessità del sacramento venivano ad essere compromessi dalla loro teoria contrizionista.

Altri teologi pensavano che l'assoluzione del sacerdote avesse il compito di rimettere solo parte della pena temporale, dovuta al peccato anche dopo la remissione della colpa.

Ma questo non farebbe che ridurre l'assoluzione a una forma di soddisfazione.

All'inizio del secolo XIII Guglielmo d'Auvergne [ m. 1248 ] apre una controversia di capitale importanza, « fa distinzione tra contrizione ( pentimento ispirato dalla carità ) e attrizione ( pentimento in cui la carità non ha ancor parte ) e si domanda come si possa passare dall'attrizione alla contrizione, che sola permette di ottenere il perdono ( ex attrito contritus ).

Secondo alcuni teologi il passaggio è l'effetto delle disposizioni personali del penitente: sì compie ex opere operantis; secondo altri si deve al sacramento: si compie ex opere operato.

Per i primi, l'assoluzione, è solo una causa occasionale del perdono: il confessore prega Dio di mutare l'attrizione in contrizione [ Guglielmo d'Alvernia, Alessandro di Hales, S. Bonaventura ].

In opposizione, i secondi ( specie Sant'Alberto Magno ) mettono in primo piano il decisivo compito dell'assoluzione.

Poiché la contrizione include il desiderio dell'assoluzione, è l'assoluzione che, anche in voto, concorre al perdono.

Vedremo come San Tommaso dia a questo problema una soluzione completamente originale che rispetta interamente i due termini del problema » ( MELLET M., « La penitenza », in Iniziazione Teologica, Brescia, 1956, vol. IV, pp. 507 s. ).

7 - Un altro problema aperto per la teologia sacramentaria era costituito dalla difficoltà di riscontrare nella penitenza gli elementi costitutivi di ogni sacramento, ossia la materia e la forma, che già S. Agostino aveva distinto parlando di elementum e di verbum.

Data la singolare struttura della penitenza, era difficile determinarne la materia.

Ci volle uno sforzo considerevole per giungere a percepirne la materia remota negli stessi peccati da sottoporre al giudizio del confessore, e più ancora per riscontrare la materia prossima negli atti del penitente relativi alle colpe passate.

La soluzione tomistica si basa sulla visione sintetica del sacramento in tutti gli elementi di cui si compone.

L'Aquinate applica con sicurezza l'analogia del dualismo ilemorfico, scorgendo l'unità sostanziale della penitenza nel confluire intenzionale, anche se non simultaneo, sia degli atti del penitente ( contrizione, accusa e soddisfazione ), sia dell'assoluzione sacerdotale, in un atto unico di perdono ovvero di « giustificazione ».

Egli applica alla penitenza con tutto rigore il concetto di sacramento quale segno efficace della grazia.

Sua materia sono gli atti del penitente sua forma è l'assoluzione del sacerdote.

Materia e forma non agiscono separatamente, ma come causa unica : cosicché gli atti del penitente e il potere delle chiavi costituiscono insieme la causa della remissione dei peccati ( cfr. 4 Sent., d. 22, q. 2, a. 1, ad 1: III, q. 86, a. 6 ).

Naturalmente l'efficacia spetta in modo principale alla forma e quindi all'assoluzione: mentre la significazione si riscontra principalmente nella materia ossia negli atti del penitente.

Per S. Tommaso la formula indicativa dell'assoluzione ha il diretto potere di rimettere il peccato come la formula del battesimo ( cfr. III, q. 84, a. 3, ad 5: Suppl. q. 10, a. 1 ).

8 - In connessione con i problemi della penitenza egli aveva studiato e definito con la massima precisione i quattro momenti in cui si articola la giustificazione del peccatore:

a) infusione della grazia;

b) moto del libero arbitrio verso Dio;

c) moto del libero arbitrio contro il peccato;

d) remissione dei peccati ( Cfr. 4 Sent., d. 17, q. 1, a. 4 ; I-II, q. 113, aa. 5-8 ).

Anche qui egli aveva insistito nel rilevarne la simultaneità e la reciproca implicanza.

Ma soprattutto aveva sottolineato la necessità di distinguere in codesto processo due ordini : un ordine secondo la causalità materiale, partendo cioè dal soggetto che subisce la trasmutazione; e un ordine di causalità efficiente, che parte dalla causa agente.

Ebbene, secondo la causalità materiale, ossia rispettivamente al soggetto, è logico disporre i quattro atti suddetti partendo dal moto del libero arbitrio contro il peccato, e disponendo in fasi successive il moto verso Dio, la remissione dei peccati e finalmente l'infusione della grazia.

Ma in base alla causalità efficiente, ossia in ordine di natura, al primo posto dobbiamo mettere l'infusione della grazia, quindi la remissione dei peccati, il moto della volontà verso Dio e quello contro il peccato.

Ora, in codesto processo il sacramento della penitenza interviene normalmente a rendere efficaci gli atti esterni del penitente che predispongono alla remissione del peccato e all'infusione della grazia, in modo da produrre quella contrizione che la implica.

D'altra parte quando la contrizione è perfetta implica a sua volta il desiderio di quegli atti esterni di penitenza che sono parti integranti del sacramento; le quali, come il sacramento stesso, derivano la loro efficacia dalla passione di Cristo fonte prima della grazia per l'umanità peccatrice ( III, q. 84, a. 5 ).

« Il sacramento non agisce solo actu, ma anche proposito: Sacramentum in proposito ( in voto ) existens è l'espressione ripetuta di continuo.

Questa teoria non è proprietà esclusiva dell'Aquinate.

I principi di essa sono già presenti nell'opera del suo maestro S. Alberto [ 4 Sent., d. 17, a. 1, ad 6; d. 18, a. 1, ad i; a. 7 ].

Al contrario Alessandro di Hales e Bonaventura la respingono.

Di fatto essa non può reggersi.

Nella misura in cui appare comprensibile che Dio tenga conto dell'intenzione dell'uomo per il conferimento della grazia, nella stessa misura è impossibile l'idea che il sacramento, senza aver ancora agito, possa esercitare un'efficacia strumentale » ( POSCHMANN B., Pénitence en onction des malades, Parigi, 1966, p. 151 ).

Il Poschmann con altri respinge così la teoria tomistica in proposito, perché non tiene conto abbastanza della particolarissima causalità che l'Aquinate accorda al desiderio della confessione.

Non è a credere che codesto desiderio agisca come causa efficiente, alla maniera dell'assoluzione stessa.

Esso agisce come parte integrante di quell'atto del penitente che è la contrizione, ossia nell'ordine della causalità materiale, che è quanto dire come causa dispositiva.

Anche quando codesto desiderio è inserito in un atto perfetto di contrizione, non cessa di esser causa dispositiva della grazia: esattamente come lo sono gli atti del penitente nell'istante in cui riceve l'assoluzione.

« In quanto però codesta contrizione implica, col relativo proposito, la virtù delle chiavi, opera sacramentalmente in virtù del sacramento della penitenza, così come agisce in virtù del battesimo il desiderio di esso, com'è evidente nell'adulto che ha il battesimo solo nel desiderio.

Da ciò non segue che causa efficiente della remissione della colpa sia propriamente parlando la contrizione, bensì la virtù delle chiavi, ovvero il battesimo » ( De Verit., q. 28, a. 8, ad 2 ).

Secondo l'Aquinate il desiderio del penitente pone in atto l'ordine sacramentale non in quanto dipende dall'azione ministeriale dell'uomo, bensì in quanto promana direttamente dall'iniziativa divina.

Nel caso concreto la virtù delle chiavi è chiamata in causa non per restringere a un compito ecclesiastico la remissione della colpa; ma perché intervenga efficacemente in essa l'influsso della passione di Cristo: « La passione di Cristo senza la cui virtù non può essere perdonato il peccato né originale né attuale, opera in noi mediante la pratica dei sacramenti, che da essa ricevono la loro efficacia.

Quindi per la remissione della colpa, sia attuale che originale, si richiedono i sacramenti della Chiesa, ricevuti o di fatto o col desiderio » ( Suppl., q. 6, a. 1 ).

9 - Se si vuole che l'influsso redentivo di Cristo abbia un'efficacia, ovvero una causalità non puramente intenzionale, ma fisica, è pur necessario giungere a queste determinazioni, che permettono di parlare di un battesimo di desiderio e di un valore sacramentale della penitenza interiore.

Ma in che senso dobbiamo intendere l'aggettivo sacramentale?

Ci sembra che qui sia proprio il caso di ricordare che codesto termine nel dizionario dell'Aquinate ha un valore analogico che oscilla tra i sacramenti veri e propri e i così detti sacramentali.

D'altra parte tra gli stessi coefficienti che contribuiscono a formare un sacramento ( materia, forma, ministro ) non tutti hanno lo stesso valore, anche se per tutti si usa l'aggettivo sacramentale.

Perciò pur riconoscendo alla confessione in voto un valore « sacramentale », non è detto che S. Tommaso voglia equipararla senz'altro all'assoluzione, ossia al sacramento vero e proprio.

Lo stesso rilievo vale a proposito della confessione o accusa dei peccati, fatta a un laico in caso di necessità ( cfr. Suppl., q. 8, a. 2, ad 1; « Confessio laico ex desiderio sacerdotis facta sacramentalis est quodammodo; quamvis non sit sacramentum perfectum » ).

10 - L'equivoco circa la sacramentalità degli atti del penitente è anche più grave a proposito della problematica confessione « informe ».

Nell'unico testo in cui ne parla il Santo sembra voglia affermare che « come parte del sacramento » la confessione, o accusa delle colpe, di suo può esser valida, anche se priva di carità e di contrizione.

« Sebbene allora [ il penitente non contrito ] non riceva il frutto dell'assoluzione, tuttavia comincerà a riceverlo quando cesseranno le cattive disposizioni …

Perciò chi si è confessato senza pentimento non è tenuto a ripetere la confessione: però dopo è tenuto a confessare la sua cattiva disposizione » ( Suppl., q. 9, a. 1 ).

Secondo molti studiosi qui S. Tommaso avrebbe sostenuto la stranissima idea che una confessione sacrilega possa reviviscere col pentimento successivo.

Ma, come vedremo meglio annotando il testo, con ogni probabilità siamo dinanzi a tutt'altra cosa.

L'Autore si domanda se colui il quale in confessione presenta la sua accusa mal disposto, ossia privo di contrizione sincera, sia tenuto a presentarla una seconda volta, quando acquista le buone disposizioni.

E risponde che l'accusa, o confessione informe può bastare.

Ma è evidente che codeste disposizioni devono essere mutate prima dell'assoluzione, sia che la dilazione consista in pochi secondi, come nella penitenza ordinaria; sia che essa abbia una consistenza maggiore, come poteva avvenire nella penitenza pubblica oppure nelle assoluzioni dilazionate.

Ciò che è posto in discussione non è la informità » del sacramento nel suo complesso, ma quella del solo atto del penitente che è l'accusa o confessione.

La quale confessione, per essere parte del sacramento, di suo dovrebbe presentare i caratteri della santità e non quelli della colpa.

Che questa sia l'interpretazione esatta del pensiero dell'Aquinate risulta dal problema analogo nella formulazione di S. Bonaventura, sempre a commento della dist. 17 del 4 Sent.: « An quis quoad modum obligetur confiteri ex cantate » ( In 4 sent., d. 17, P. TI, a. 2, q. 3 ).

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