Costumi della Chiesa cattolica e costumi dei Manichei

Indice

I costumi della Chiesa cattolica

1.1 - Come replicare alle invettive dei Manichei

Credo di aver mostrato a sufficienza in altri libri come possiamo replicare alle invettive con le quali i Manichei si scagliano in modo maldestro ed empio contro la Legge chiamata Antico Testamento e di cui fanno vana ostentazione tra gli applausi degli ignoranti.

Ma posso ricordarlo in breve anche qui.

Chiunque, per quanto sia di scarso ingegno, capisce facilmente che l'esposizione delle Scritture va richiesta a coloro che se ne professano maestri.

Può capitare infatti, anzi capita sempre, che molte delle cose che agli indotti sembrano assurde, se sono esposte da persone più dotte, appaiono tanto degne di lode e, una volta chiarite, vengono accolte con tanto maggiore gradimento quanto più difficile era chiarirle quando non erano tali.

Ciò accade comunemente per i santi libri dell'Antico Testamento, purché colui che se ne sente urtato cerchi un pio maestro piuttosto che un empio laceratore di questi libri e sia mosso più dallo zelo del ricercatore che dalla temerità del censore.

Supponiamo poi che, desiderando apprendere queste cose, si imbatta per caso in vescovi o sacerdoti o simili responsabili e ministri della Chiesa cattolica, i quali o si guardano dallo svelare a chiunque i misteri o, contenti di una fede semplice, non si curano di conoscere le cose più alte.

Non per questo disperi di trovare la scienza della verità laddove non tutti gli interrogati sono capaci di insegnarla e non tutti gli interroganti sono degni di apprenderla.

Occorre pertanto usare diligenza e pietà: con l'una si troveranno coloro che sanno, con l'altra si meriterà di sapere.

1.2 - I due artifici dei Manichei

Ma due soprattutto sono gli artifici con i quali i Manichei raggirano gli imprudenti per attirarli alla loro scuola: uno è quello di criticare le Scritture, che o intendono male o vogliono che siano intese male; un altro è quello di ostentare l'apparenza di una vita pura e di specchiata continenza.

Questo libro conterrà ciò che pensiamo, in conformità con la disciplina cattolica, relativamente alla vita e ai suoi costumi: da esso forse si capirà quanto sia facile simulare la virtù e quanto sia difficile possederla.

Se posso, seguirò la regola di non scagliarmi contro i loro vizi, peraltro a me ben noti, con lo stesso accanimento con il quale essi si scagliano contro ciò che ignorano, poiché, se possibile, voglio che guariscano piuttosto che far loro guerra.

Quanto alle Scritture, mi servirò delle testimonianze che sono costretti ad ammettere, cioè di quelle del Nuovo Testamento, del quale tuttavia non proporrò nessuno dei passi che, quando sono messi alle strette, hanno l'abitudine di dire che sono stati interpolati, ma citerò soltanto quelli che sono obbligati ad approvare e lodare.

Inoltre, non farò menzione di alcuna testimonianza tratta dalla disciplina apostolica che non mi sarà possibile mettere a confronto con l'equivalente del Vecchio Testamento, affinché, se vorranno finalmente destarsi, una volta che abbiano smesso di perseverare nei loro sogni, e aspirare alla luce della fede cristiana, si rendano conto che non è affatto cristiana la vita che ostentano e che appartiene solo a Cristo la Scrittura che lacerano.

2.3 - Metodo: autorità e ragione

Da dove, dunque, comincerò? Dall'autorità o dalla ragione? L'ordine naturale vuole che, nell'apprendere qualcosa, l'autorità preceda la ragione.

Invero, può sembrare debole la ragione che, non appena concessa, ricorre subito all'autorità per affermarsi.

Ma poiché le menti umane, offuscate dalla consuetudine delle tenebre che le avvolgono nella notte dei peccati e dei vizi, non sono in grado di fissare lo sguardo nello splendore e nella purezza della ragione; perciò, molto opportunamente si è provveduto che fosse l'autorità, come obnubilata dai rami dell'umana natura, a guidare il loro sguardo esitante verso la luce della verità.

Dal momento però che abbiamo a che fare con uomini che in ogni cosa pensano, parlano e agiscono contro l'ordine e, soprattutto, non sanno dire se non che, in primo luogo, bisogna rendere ragione, mi adeguerò al loro costume, accettando nel discutere un procedimento che, lo confesso, ritengo errato.

Trovo piacere infatti ad imitare, per quanto posso, la mansuetudine del mio Signore Gesù Cristo, che prese su di sé il male stesso della morte, del quale voleva liberarci.

3.4 - La felicità consiste nel godere del bene supremo

Cerchiamo dunque mediante la ragione in che modo l'uomo debba vivere.

Di certo tutti vogliamo vivere felici e nel genere umano non c'è nessuno che non dia il proprio assenso a questa proposizione, prima ancora che sia completamente formulata.

Ma, a parer mio, felice non si può dire né chi non ha ciò che ama, qualunque cosa essa sia, né chi ha ciò che ama, se gli nuoce, né chi non ama ciò che ha, anche se è un'ottima cosa.

Infatti chi desidera quello che non può ottenere, si tormenta; chi ha ottenuto quello che non si deve desiderare, sbaglia; chi non desidera quello che si deve ottenere, è un povero malato.

Ma nessuna di queste eventualità capita all'animo senza renderlo infelice; e poiché la miseria e la felicità abitualmente non stanno insieme in un medesimo uomo, nessuno di costoro dunque è felice.

Resta, se ben vedo, una quarta ipotesi relativamente a dove si può trovare la felicità, e questa si dà quando ciò che costituisce il bene supremo dell'uomo è amato e posseduto.

Che altro infatti significa ciò che chiamiamo godere, se non possedere ciò che si ama?

Ora, nessuno è felice se non gode del bene supremo dell'uomo, e chiunque ne gode, non può non essere felice.

Se pensiamo pertanto di essere felici, dobbiamo essere in possesso del nostro bene supremo.

3.5 - Condizioni richieste dal bene dell'uomo

Cerchiamo quindi in cosa consista il bene supremo dell'uomo, che di certo non può essere inferiore all'uomo stesso.

Senza dubbio chiunque segue ciò che è inferiore alla propria natura, inevitabilmente diviene egli stesso inferiore.

Ma è necessario che ognuno segua il bene supremo.

Il bene supremo dell'uomo dunque non è inferiore all'uomo.

Consisterà forse in qualche cosa di simile a ciò che è l'uomo in se stesso?

Certamente, se non esiste niente di superiore all'uomo di cui egli possa godere.

Se invece troviamo qualche cosa che è più eccellente dell'uomo e che può essere posseduto da lui, che l'amerà, chi dubiterà che, per essere felice, egli non debba sforzarsi di tendere a tale bene, manifestamente superiore a lui stesso che vi tende?

D'altro canto, se essere felice consiste nel pervenire a quel bene rispetto al quale non può essercene uno superiore, allora tale bene è quello che chiamiamo supremo.

Ma, finalmente, come può essere incluso in questa definizione colui che al suo bene supremo non è ancora pervenuto?

O, in che modo è il bene supremo, se c'è qualche cosa di più alto a cui si può pervenire?

Se dunque esiste, deve essere di tale natura che non è possibile perderlo contro la propria volontà, poiché nessuno è disposto a confidare in un tale bene, sapendo che può essergli strappato, ancorché voglia conservarlo e tenerlo ben stretto.

Ma chi non confida nel bene di cui gode, potrà essere felice con tanto timore di perderlo?

4.6 - Qual è il bene supremo dell'uomo

Cerchiamo dunque quel che è meglio per l'uomo.

Senza dubbio è difficile trovarlo, se prima non si è considerato e chiarito che cosa sia l'uomo stesso.

Non penso che ora ci si aspetti da me una definizione dell'uomo.

Ma, dal momento che quasi tutti ammettono o di certo - e ciò è sufficiente - io e quelli con i quali sto ragionando conveniamo che siamo composti di anima e di corpo, mi sembra piuttosto che qui si debba chiedere che cosa è l'uomo in se stesso: se l'una e l'altra di queste due cose che ho nominato o il solo corpo o la sola anima.

Quantunque infatti l'anima e il corpo siano due e nessuno dei due si chiamerebbe uomo in assenza dell'altro ( infatti né il corpo è un uomo se manca l'anima, né l'anima a sua volta è un uomo se essa non dà vita al corpo ), tuttavia può capitare che uno dei due sia considerato come l'uomo e tale sia chiamato.

Che intendiamo dunque per uomo? L'anima e il corpo a modo di biga o di centauro, o il solo corpo, in quanto è ad uso dell'anima che lo regge, come appunto chiamiamo lucerna non l'insieme della fiamma e del vasetto ma il vasetto soltanto, sebbene in ragione della fiamma?

Oppure significhiamo che l'uomo non è altro che l'anima, ma per la ragione che regge il corpo, al modo stesso che chiamiamo cavaliere non il cavallo e l'uomo insieme, ma l'uomo soltanto, tuttavia a motivo del fatto che è capace di guidare il cavallo?

È difficile decidere su questa controversia; oppure, se è facile per la ragione, richiede un lungo discorso e ora non c'è la necessità di sobbarcarsene la fatica e di subirne il ritardo, perché, comunque sia e cioè che il nome di uomo si addica ad entrambi, o al corpo soltanto, o all'anima soltanto, il bene supremo del corpo non è il bene supremo dell'uomo.

Quello bensì che è il bene supremo del corpo e dell'anima insieme o dell'anima soltanto, tale è il bene supremo dell'uomo.

5.7 - L'anima è il bene supremo del corpo

Se invece cerchiamo quale sia il bene supremo del corpo, una ragione certa ci spinge ad ammettere che risiede in ciò per cui il corpo è nella migliore condizione possibile.

Ma di tutte le cose che giovano alla sua vita nessuna è migliore e più eccellente dell'anima.

Sicché il bene supremo del corpo non è il piacere, non l'assenza di dolori, non la forza, non la bellezza, non l'agilità, né alcun'altra delle qualità che siamo soliti enumerare tra i beni del corpo, ma solamente l'anima.

Con la sua presenza essa infatti conferisce al corpo tutte le qualità enumerate e la vita stessa che tutte le supera.

Non per questo però mi pare che l'anima costituisca il bene supremo dell'uomo, sia che per uomo si intenda l'anima e il corpo insieme sia l'anima da sola.

Come infatti la ragione ravvisa il bene supremo del corpo in ciò che è migliore del corpo e che gli dà vigore e vita, così, che l'uomo consista nel corpo e nell'anima o nell'anima da sola, bisogna trovare, se mai esiste, qualcosa che supera l'anima e che, qualora essa la segua, la faccia diventare ottima, per quanto è possibile nel suo genere.

Tale cosa, se riusciremo a trovarla, sarà senza dubbio quella che, rimosse tutte le esitazioni, dovremo giustamente chiamare il bene sommo dell'uomo.

5.8 - Ovvero, se il corpo è l'uomo, non posso non ammettere che l'anima stessa costituisce il bene supremo dell'uomo.

Senonché, quando si tratta di costumi e vogliamo conoscere quale condotta di vita occorre tenere per raggiungere la felicità, non si danno precetti né si cerca una disciplina per il corpo.

Insomma, relativamente ai buoni costumi, bisogna far intervenire quella parte di noi che indaga e apprende, operazioni, queste, proprie dell'anima.

Non è dunque in gioco il corpo quando ci affanniamo per ottenere la virtù.

Ne consegue perciò, come avviene di fatto, che il corpo stesso è diretto molto meglio e in modo più onesto quando è diretto da un'anima che possiede la virtù e la condizione è tanto più eccellente quanto più lo è quella dell'anima che governa se stessa secondo una giusta legge.

E allora il bene supremo dell'uomo sarà ciò che rende l'anima eccellente, anche se chiamiamo uomo il corpo.

Dunque, se il cocchiere, che è ai miei ordini, nutre e guida con assoluta maestria i cavalli ai quali è preposto e, per quanto lo riguarda, gode della mia liberalità quanto più mi è obbediente, chi potrà negare che non solo lui ma anche i cavalli debbano a me la loro eccellente condizione?

Pertanto, che l'uomo sia o il solo corpo o la sola anima o che sia l'uno e l'altra insieme, a mio avviso si deve cercare soprattutto ciò che rende ottima l'anima.

Infatti, una volta conseguito questo bene, è impossibile che l'uomo non stia ottimamente o, di certo, molto meglio che se esso solo gli mancasse.

6.9 - Dio è il bene supremo dell'anima

Nessuno poi metterà in dubbio che è la virtù a rendere l'anima perfetta.

Però molto giustamente si può chiedere se questa virtù possa esistere anche per se stessa oppure soltanto nell'anima.

Ne nasce di nuovo una questione molto profonda e che richiede un lunghissimo discorso.

Ma forse me la caverò, e non male, con queste poche parole.

Dio, spero, mi assisterà perché, per quanto la mia debolezza lo consente, esponga cose tanto grandi non solo con lucidità, ma anche con brevità.

Infatti, checché ne sia di queste due eventualità, o che la virtù possa essere per se stessa senza l'anima o che non possa essere che nell'anima, indubbiamente l'anima segue qualcosa per acquistarla e cioè o la stessa anima o la virtù o una terza cosa.

Ma, se per acquistare la virtù segue se stessa, segue qualcosa di stolto, giacché tale è essa prima di avere acquistato la virtù.

Ora, l'auspicio più grande di chi cerca è di conseguire ciò che cerca.

Pertanto, o l'anima non desidererà raggiungere ciò che cerca - ipotesi rispetto alla quale non si può dire niente di più assurdo e di più strano - oppure, seguendo se stessa che è stolta, raggiungerà proprio quella stoltezza che vuole evitare.

Se poi segue la virtù con il desiderio di acquistarla, come può seguire ciò che non esiste o come può desiderare di acquistare ciò che ha?

Sicché o la virtù è fuori dell'anima oppure, se non piace chiamare virtù lo stesso abito e quasi qualità propria dell'anima sapiente ( qualità che non può sussistere che nell'anima ), bisogna che l'anima segua qualche altra cosa da cui derivi la propria virtù.

Perciò, a mio giudizio, essa non può pervenire alla sapienza né andando dietro a nulla né seguendo la stoltezza.

6.10 - Dunque questa terza possibilità, seguendo la quale l'anima consegue la virtù e la sapienza, è o l'uomo sapiente o Dio.

Ora, sopra si è detto che deve essere tale che non possiamo perderla contro la nostra volontà.

Ebbene, supposto che riteniamo sufficiente seguire l'uomo sapiente, chi esita a pensare che ci può essere tolto non solo senza il nostro consenso, ma anche malgrado la nostra opposizione?

Dunque non resta altro che Dio: seguendolo, viviamo bene; possedendolo, viviamo non solo bene, ma anche felicemente.

Se taluni negano che esista, con quali discorsi penserò di persuaderli, quando non so neppure se si debba ragionare con loro?

Poniamo tuttavia che sia opportuno; allora bisognerà ricorrere a tutt'altro principio, a tutt'altro ragionamento e a tutt'altro cammino rispetto a quello seguito fin qui.

Ora, peraltro, ho a che fare con uomini che ammettono l'esistenza di Dio e non solo questo, ma riconoscono anche che egli non trascura le cose umane.

Non vedo, in effetti, come possa essere chiamato in qualche modo religioso chi esclude che la divina provvidenza abbia cura almeno delle nostre anime.

7.11 - La ragione conduce a Dio, ma solo la fede consente all'uomo di penetrare nella sua saggezza

Ma come seguiamo colui che non si vede? O come lo vediamo noi che siamo non solo uomini, ma uomini stolti?

Sebbene infatti si scorga con la mente e non con gli occhi, quale mente da ultimo si può trovare idonea, coperta come è da una nube di stoltezza, ad attingere quella luce o anche solo a tentare di farlo?

Conviene dunque ricorrere agli insegnamenti di coloro che, con ogni probabilità, sono stati dei sapienti.

Fin qui è stato possibile condurre la ragione, in quanto procedeva nelle cose umane più con la sicurezza del costume che con la certezza della verità.

Ma, una volta pervenuta alle cose divine, rivolge altrove lo sguardo: non può riguardarle, palpita, si infiamma, brucia d'amore, è abbagliata dalla luce della verità e ritorna, non per sua scelta ma per spossatezza, alle sue tenebre abituali.

A questo punto c'è da temere, come da tremare, che l'anima non si procuri una debolezza maggiore proprio laddove, sfinita, cerca riposo.

A noi, dunque, bramosi di rifugiarci nelle tenebre, ci venga in aiuto, per dispensazione dell'ineffabile sapienza, quella opacità dell'autorità, invitandoci a godere le sue ombre con gli eventi meravigliosi e le parole dei libri santi, quasi segni più temperati della verità.

7.12 - Le verità della fede

Che si sarebbe potuto fare di più per la nostra salvezza?

Che cosa di più benefico, di più generoso della divina provvidenza si sarebbe potuto immaginare? Essa non ha abbandonato affatto l'uomo allontanatosi dalle sue leggi e divenuto a buon diritto e meritatamente, per cupidigia di cose mortali, propagatore di una stirpe mortale.

Quel giustissimo potere, infatti, operando con modi mirabili e incomprensibili, attraverso certe misteriose successioni delle cose a lui sottomesse, in quanto le ha create, esercita sia la severità del castigo sia la clemenza del perdono.

Quanto ciò sia bello, grande, degno di Dio, e infine quanto sia il vero che cerchiamo, di certo noi non potremo mai comprenderlo se, cominciando dalle cose umane e più vicine, avendo fede nella vera religione e rispettando i suoi precetti, non seguiremo la via che Dio ha aperto per noi con la scelta dei Patriarchi, con il vincolo della legge, con il vaticinio dei Profeti, con il mistero dell'uomo incarnato, con la testimonianza degli Apostoli, con il sangue dei martiri e con la conversione delle genti.

Per questo nessuno mi chieda più la mia opinione: piuttosto ascoltiamo gli oracoli e sottomettiamo i nostri meschini ragionamenti alle parole divine.

8.13 - Dio è il sommo bene a cui si deve tendere con il più grande amore

Vediamo come il Signore stesso nel Vangelo ci ha ordinato di vivere e come anche l'apostolo Paolo; sono queste infatti le Scritture che essi non osano condannare.

Ascoltiamo dunque quale bene finale tu, o Cristo, ci prescrivi: non c'è dubbio, sarà quello a cui ci comandi di tendere con il più grande amore.

Sta scritto: Amerai il Signore Dio tuo. ( Mt 22,37 )

Dimmi anche, te ne prego, la misura di questo amore; temo infatti di essere infiammato dal desiderio e dall'amore del mio Signore più o meno di quanto sia necessario.

Con tutto il tuo cuore, dice; ma non basta. Con tutta la tua anima; ma non basta neppure questo.

Con tutta la tua mente. Che si vuole di più? Lo vorrei forse, se vedessi che vi può essere dell'altro.

E che cosa aggiunge Paolo a queste parole? Noi sappiamo, egli dice, che tutte le cose concorrono al bene di coloro che amano Dio. ( Rm 8,28 )

Che dica anche lui la misura dell'amore. Chi dunque, dice, ci separerà dalla carità di Cristo?

Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? ( Rm 8,35 )

Abbiamo udito ciò che si deve amare e in quale misura: vi dobbiamo tendere assolutamente, vi dobbiamo riportare tutte le nostre determinazioni.

Dio è per noi la somma dei beni, Dio è per noi il bene sommo.

Non dobbiamo rimanere al di sotto, né cercare al di sopra, perché al di sotto c'è il pericolo, al di sopra il nulla.

9.14 - L'A. e il N. Testamento concordano sui precetti della carità

Su via, ora ricerchiamo o, piuttosto, giacché la cosa è a portata di mano e si può vedere molto facilmente, prestiamo attenzione se questi pensieri tratti dal Vangelo e dall'Apostolo concordano anche con l'autorità dell'Antico Testamento.

Che dirò del primo, tratto, come è a tutti noto, dalla legge data attraverso Mosè?

Vi è scritto infatti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. ( Dt 6,5 )

Questo passo dell'Antico Testamento poi lo potrei mettere a confronto con ciò che è detto dall'Apostolo, come egli stesso mi suggerisce, evitandomi ulteriori ricerche.

Infatti, dopo aver affermato che nessuna tribolazione, nessuna angoscia, nessuna persecuzione, nessuna necessità materiale, nessun pericolo, nessuna spada può separarci dalla carità di Cristo, subito ha aggiunto: Come sta scritto: poiché per causa tua siamo colpiti tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. ( Rm 8,28 )

Essi, al solito, dicono che questi passi sono stati introdotti dai corruttori delle Scritture: non hanno niente da opporre, tanto da essere costretti a rispondere così miseramente.

Ma chi non comprende che solo questa poteva essere l'ultima parola di uomini sconfitti?

9.15 - Nei libri del V. Testamento tutto concorda con la fede cristiana

A costoro nondimeno domando: negate che questo pensiero sia nell'Antico Testamento o affermate che dissente da quello dell'Apostolo?

Quanto alla prima alternativa, ci sono i libri che parlano; quanto alla seconda, invece, questi uomini che tergiversano e fuggono per precipizi o li riporterò alla pace, se acconsentiranno a riguardare un po' indietro e a considerare quanto è stato detto, oppure li incalzerò con l'interpretazione di coloro che giudicano con imparzialità.

Invero, che cosa può accordarsi meglio di questi due pensieri tra loro?

Infatti la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo mettono duramente alla prova l'uomo posto in questa vita.

E tutte queste parole sono contenute nella sola testimonianza dell'Antica Legge nella quale è detto: Per causa tua siamo colpiti.

Restava la spada, che non porta affanni alla vita, ma toglie la vita che trova.

A questo appunto risponde l'altro inciso: Siamo trattati come pecore da macello. ( Rm 8,28 )

La carità stessa, invero, non poteva essere significata in modo più efficace delle parole: per causa tua.

Supponi dunque che questo passo non si trovi nell'Apostolo Paolo, ma che sia da me proferito: che altro dovrai dimostrare, o eretico, all'infuori che esso o non è contenuto nell'Antica Legge o non si addice all'Apostolo?

Che se non osi dir niente dell'una e dell'altra ipotesi ( e a ciò ti spinge inevitabilmente, da un lato, la lettura del codice nel quale sta chiaramente scritto e, dall'altro, quanti comprendono che niente può addirsi meglio a ciò che ha detto l'Apostolo ), perché pensi che ti sia di qualche utilità tentare di insinuare che le Scritture sono state corrotte?

Da ultimo, che risponderai a chi ti dirà: io così lo intendo, così lo accetto, così lo credo, e non per altro leggo quei Libri se non perché sento che in essi tutto concorda con la fede cristiana?

Dì piuttosto, se ne hai il coraggio e sei intenzionato a contraddirmi, che non si deve prestare fede a quanto si racconta degli Apostoli e dei martiri, cioè che hanno subito per Cristo gravi tribolazioni, che sono stati trattati dai loro persecutori come pecore da macello.

Che se non puoi dirlo, perché accusi falsamente il libro nel quale io trovo ciò che, secondo la tua stessa confessione, io devo credere?

10.16 - L'insegnamento della Chiesa relativamente a Dio. Il dualismo manicheo

Tu concederai che di certo è un dovere amare Dio, ma non quello adorato da coloro che accettano l'autorità dell'Antico Testamento?

Dite dunque che non si deve adorare quel Dio che ha fatto il cielo e la terra : è lui infatti che viene annunciato in tutte le parti di quei libri: tutto questo mondo, significato con il nome di cielo e terra, voi confessate che ha per autore e artefice un Dio e un Dio buono.

È vero che quando si nomina Dio con voi si deve parlare con riserva, perché ammettete l'esistenza di due divinità, l'una buona, l'altra cattiva.

Se dite che rendete un culto e che, a vostro avviso, tale culto va reso al Dio che ha creato il mondo, ma non a quello che l'autorità dell'Antico Testamento raccomanda, vi comportate con impudenza, sforzandovi di interpretare male un pensiero ed una parola altrui che noi abbiamo compreso bene e in modo utile.

Ma lo fate assolutamente invano, perché le vostre discussioni stolte ed empie in nessun modo possono essere assimilate ai ragionamenti di quegli uomini pii e dottissimi, i quali nella Chiesa cattolica spiegano queste Scritture a chiunque lo voglia e ne sia degno.

Noi intendiamo la Legge e i Profeti molto diversamente da come pensate voi.

Smettete di errare; noi non ci prostriamo ad un Dio insoddisfatto, geloso, indigente, crudele, avido del sangue degli uomini o degli animali, a un Dio che si compiace di vizi e di crimini e il cui dominio è limitato ad una piccola parte della terra.

È infatti contro queste ed altre ciance dello stesso genere che voi avete l'abitudine di inveire con violenza ed abbondanza di parole.

Ma proprio per questo le vostre invettive non ci toccano: con la vostra eloquenza tanto più veemente quanto più inadatta, non bistrattate altro che credenze da vecchierelle e da ragazzi.

Chiunque passa da noi a voi, mosso da tale eloquenza, non condanna l'insegnamento della nostra Chiesa, ma dà prova di non conoscerlo.

10.17 - Per questo, se avete nel cuore sentimenti di umanità, se avete cura di voi stessi, cercate piuttosto con diligenza e pietà in che senso quelle parole sono state dette.

Cercate, o miseri, perché la fede con la quale si attribuisce a Dio qualcosa che non gli si addice, noi la riproviamo con più veemenza di voi e con più abbondanza di parole; inoltre, perché circa le cose dette sopra, quando sono intese in senso letterale, noi correggiamo l'ingenuità e deridiamo l'ostinazione.

E ci sono molte altre cose, per voi incomprensibili, che l'insegnamento cattolico vieta di credere a coloro che, superata una certa puerilità di mente non per il passare degli anni ma per l'applicazione dell'intelletto, procedono verso la maturità della sapienza.

Per esempio, si insegna quanto sia stolto credere Dio contenuto in uno spazio, per infinitamente esteso che lo si supponga, e si giudica empio pensare che egli stesso o una sua parte si muova e passi da un luogo ad un altro.

E se qualcuno opina che qualche parte della sua sostanza o natura possa subire in qualche modo un'alterazione o un cambiamento, è accusato di incredibile demenza e di empietà.

Così avviene che tra noi si incontrano fanciulli che si rappresentano Dio sotto forma umana e tale congetturano che sia, opinione rispetto alla quale non c'è niente di più abietto.

Ma ci sono anche dei vecchi, e in gran numero, i quali, con la stessa mente vedono la sua maestà rimanere inviolabile e immutabile non solo al di sopra del corpo umano, ma anche al di sopra della stessa mente.

Queste età però, come si è già detto, devono essere distinte non in base al tempo, ma in base alla virtù e alla prudenza.

Ora, è vero che tra voi non si trova nessuno che si raffiguri la sostanza di Dio sotto forma di corpo umano, ma non c'è neppure nessuno che la consideri incontaminata dalla macchia dell'errore umano.

Quelli pertanto che, quasi come bambini, si sostentano alle mammelle della Chiesa cattolica, se non diventeranno preda degli eretici, sono nutriti ciascuno secondo le proprie capacità e le proprie forze.

Essi sono condotti chi ad un modo, chi ad un altro, prima fino alla perfetta maturità dell'uomo, ( Ef 4,13 ) poi alla maturità e alla canizie della sapienza, ( Sap 4,8; Sir 6,18 ) così che, per quanto vogliono, è dato loro di vivere e di vivere assai felicemente.

11.18 - La beatitudine consiste nel possedere Dio, cioè il sommo bene

Seguire Dio è il desiderio della beatitudine, possederlo la beatitudine stessa.

Ma lo seguiamo amandolo e lo possediamo non già divenendo proprio come lui, ma molto simili ed essendo in rapporto con lui in un modo straordinario e chiaro, cioè circonfusi e immersi nella luce della sua verità e santità.

Egli infatti è la luce stessa dalla quale ci è concesso di essere illuminati.

Dunque il massimo comandamento e il primo che conduce alla vita beata è questo: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.

Infatti tutto concorre al bene di coloro che amano Dio. ( Dt 6,5; Mt 22,37-38; Rm 8,28 )

È per questo che, poco dopo, il medesimo Paolo dice: Sono sicuro che né la morte, né la vita, né gli angeli, né la virtù, né il presente, né il futuro, né l'altezza, né la profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dalla carità di Dio, che è in Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 8,38-39 )

Se, pertanto, per coloro che amano Dio tutto concorre al bene, nessuno dubita che il sommo bene, che è chiamato anche il bene supremo, non solo debba essere amato, ma debba esserlo in modo che niente dobbiamo amare di più.

Questo significano ed esprimono le parole con tutta l'anima, con tutto il cuore e con tutta la mente.

Di grazia, chi dubiterà, stabilite tutte queste idee e fermamente credute, che per noi non c'è niente altro di più eccellente che Dio, a raggiungere il quale bisogna affrettarsi, prima di tutto il resto?

Parimenti, se nessuna cosa ci separa dalla sua carità, che ci può essere non solo di migliore, ma anche di più sicuro di questo bene?

11.19 - Nulla può separare l'uomo da Dio

Ma esaminiamo brevemente una per una le parole dell'Apostolo.

Nessuno ci separa da Dio con la minaccia della morte: la facoltà con cui amiamo Dio infatti può morire solo quando cessa di amarlo, poiché la morte in se stessa altro non è che non amare Dio, ossia anteporre qualcosa all'amore per lui e alla sua sequela.

Nessuno ci separa da lui con la promessa della vita: nessuno infatti ci allontana dalla sorgente con la promessa dell'acqua.

Non ci separa l'angelo, perché l'angelo non è più potente della nostra mente quando noi aderiamo a Dio.

Non ci separa la virtù, perché, se la virtù a cui qui ci riferiamo è quella che esercita un certo potere in questo mondo, la mente che aderisce a Dio è di gran lunga più sublime dell'intero mondo; se invece la virtù in questione è l'abito perfettamente retto del nostro spirito, allora essa, se si trova in altri, favorisce la nostra unione con Dio, se è in noi, la realizza essa stessa.

Non ci separano le presenti molestie, perché le troviamo tanto più leggere quanto più tenacemente ci attacchiamo a lui, dal quale cercano di separarci.

Non ci separa la promessa di beni futuri, perché qualunque bene futuro è Dio che lo promette con maggiore certezza e niente è migliore di Dio, che senza dubbio è già presente a coloro che gli sono saldamente attaccati.

Non ci separano né l'altezza né la profondità, perché, se per caso queste parole significano l'altezza e la profondità del sapere, non sarò curioso per non essere separato da Dio e nessuna dottrina, quasi che voglia preservarmi dall'errore, mi separerà da lui, perché nessuno errerebbe a meno che non sia separato da lui.

Se poi l'altezza e la profondità sono prese per significare le cose superiori e le cose inferiori di questo mondo, chi vorrà promettermi il cielo per separarmi dal creatore del cielo?

O quale inferno mi terrorizzerà perché abbandoni Dio, dal momento che, se non l'avessi mai abbandonato, non conoscerei l'inferno?

Infine, quale luogo potrà separarmi dalla carità di colui che di certo non sarebbe tutto in ogni luogo, se fosse in qualche luogo?

12.20 - Con la carità e l'umiltà ci si avvicina a Dio, con la cupidigia e la superbia ci si allontana

Non ci separa da lui alcun'altra creatura, ( Rm 8,39 ) aggiunge l'Apostolo. O uomo dei più profondi misteri!

Non si è accontentato di dire: una creatura; ma dice alcun'altra creatura, ammonendoci che ciò stesso con cui amiamo Dio e mediante cui aderiamo a lui, cioè l'anima e la mente, non è una natura.

L'altra creatura dunque è il corpo.

E se l'anima è qualcosa di intelligibile, ossia che si può conoscere solo con l'intelligenza, l'altra creatura comprende tutto il sensibile, cioè quanto, per così dire, dà qualche notizia di sé per mezzo della vista, dell'udito, dell'odorato, del gusto e del tatto, ed è necessario che sia inferiore rispetto a ciò che si afferra con la sola intelligenza.

Poiché, dunque, neanche Dio poteva essere conosciuto dalle anime degne di conoscerlo se non mediante l'intelligenza ( nonostante egli sia in se stesso una mente superiore alla mente dalla quale è conosciuto in quanto ne è il creatore e il fondamento ), c'era da temere che lo spirito umano, per il fatto di essere annoverato tra gli esseri invisibili ed intelligibili, si reputasse della medesima natura di colui stesso che l'ha creato e così, per la superbia, si allontanasse da colui al quale deve essere unito per la carità.

Diviene infatti simile a Dio, per quanto gli è concesso, quando gli si sottomette per esserne rischiarato ed illuminato.

E se con questa sottomissione che lo rende simile a Dio si avvicina a Lui più possibile, inevitabilmente se ne allontana con l'audacia con la quale vuole essergli ancora più simile.

È la medesima audacia con la quale si rifiuta di sottomettersi alle leggi di Dio, mentre ambisce ad essere padrone di se stesso, come se fosse Dio.

12.21 - Quanto più dunque l'anima si allontana da Dio non per distanza spaziale ma per amore e cupidigia delle cose inferiori a se stessa, tanto più si riempie di stoltezza e di miseria.

Pertanto, essa ritorna a Dio con l'amore, però non con quello con cui aspira ad eguagliarlo, ma con quello col quale aspira a sottomettersi a lui.

E quanto più lo avrà fatto con passione e con applicazione, tanto più sarà felice ed eccelso e, sotto la sola dominazione di Dio, sarà completamente libero.

Per questo deve sapere che è una creatura: deve infatti credere nel suo creatore così come è, cioè inviolabile e immutabile, come comporta la natura della verità e della sapienza, e deve invece confessare che, da parte sua, può cadere nella stoltezza e nell'inganno, anche a causa degli errori dei quali desidera liberarsi.

Deve inoltre guardarsi affinché l'amore per l'altra creatura, cioè per questo mondo sensibile, non la separi dalla carità divina, che la santifica perché sia definitivamente felice.

Nessun'altra creatura dunque, poiché anche noi non siamo che creature, ci separa dalla carità di Dio, che è in Gesù Cristo nostro Signore.

13.22 - Cristo e lo Spirito Santo uniscono a Dio

Che il medesimo Paolo ci dica chi è questo Cristo Gesù nostro Signore.

Ai chiamati, egli dice, predichiamo Cristo, Virtù di Dio e Sapienza di Dio. ( 1 Cor 1,24 )

E allora? Cristo stesso non dice forse: Io sono la verità? ( Gv 14,6 )

Se dunque cerchiamo che cosa sia vivere bene, cioè tendere alla beatitudine vivendo rettamente, ciò sarà di certo amare la Virtù, amare la Sapienza, amare la Verità, e amare con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente la Virtù che è inviolabile e invitta, la Sapienza a cui non segue la stoltezza, la Verità che non sa trasformarsi e mostrarsi diversa da come è sempre.

È attraverso questa che si conosce il Padre stesso, perché è detto: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. ( Gv 14,6 )

Ci unisce ad essa la santità; una volta santificati, infatti noi ardiamo di una carità piena e perfetta, la quale soltanto fa sì che non ci allontaniamo da Dio e ci conformiamo a lui piuttosto che a questo mondo.

Poiché, come dice il medesimo Apostolo, ci ha predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo. ( Rm 8,29 )

13.23 - È per la carità dunque che ci conformiamo a Dio e prese da lui forma e figura e separati da questo mondo, non siamo più confusi con le cose che devono essere a noi sottomesse.

E questo avviene per opera dello Spirito Santo: La speranza poi, dice l'Apostolo, non confonde, perché la carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,5 )

Ma in nessun modo potremmo essere rinnovati per mezzo dello Spirito Santo, se egli stesso non restasse sempre integro e immutabile; e questo non potrebbe sicuramente avvenire, se egli non fosse della natura di Dio e della medesima sostanza di Colui al quale appartiene per sempre l'immutabilità e, per così dire, l'invariabilità.

La creatura infatti, e non sono io a proclamarlo, ma lo stesso Paolo, è stata sottomessa alla caducità. ( Rm 8,20 )

E ciò che è soggetto a caducità non può separarci dalla caducità e unirci alla verità.

Questo appunto ci dà lo Spirito Santo, il quale perciò non è una creatura, perché tutto quello che è, o è Dio o è creatura.

14.24 - Solo la carità conduce l'uomo a Dio Trinità

Dunque dobbiamo amare Dio come una certa unità trina, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, di cui non dirò niente altro, se non che è l'essere stesso.

Dio infatti è in modo vero e sommo: Da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose.

Queste sono parole di Paolo. E che aggiunge dopo? A lui gloria, ( Rm 11,36 ) in modo assolutamente chiaro.

Non dice infatti " a loro ", perché Dio non è che uno solo.

Ma che vuol dire a lui gloria, se non che a lui spetta la fama più eccellente, più alta e più estesa?

Poiché, quanto meglio e più diffusamente è divulgata, tanto più ardentemente è onorata ed amata.

Quando questo avviene, il genere umano non fa che incamminarsi con passo sicuro e costante verso la vita perfetta e beatissima.

Nelle questioni concernenti i costumi e la maniera di vivere, non penso che si debba cercare più oltre quale sia il bene sommo dell'uomo, al quale tutto debba essere riportato.

È stato posto in chiaro infatti, sia mediante la ragione, per quanto ne siamo stati capaci, sia mediante quell'autorità divina che sorpassa la nostra ragione, che tale bene altro non è che Dio stesso.

Invero quale altro sarà il bene supremo dell'uomo se non quello il cui possesso lo rende perfettamente beato?

Ma questi è Dio soltanto, a cui di certo non siamo capaci di essere uniti se non mediante l'affetto, l'amore, la carità.

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