Vangeli

Salvatore Garofalo

La raccolta degli scritti del N. T. si apre con quattro libretti sostanzialmente identici nel titolo e nel contenuto.

Tutti e quattro, difatti, sono chiamati « Vangelo » e riferiscono detti e fatti della vita di Gesù ( At 1,1 ).

Il titolo è noto già agli inizi del sec. II e diffuso tra le più disparate comunità cristiane, ma la sua uniformità - Vangelo secondo Matteo …Marco …Luca …Giovanni - non consente di farlo risalire agli autori stessi.

Probabilmente fu segnato sui fascicoli o sui rotoli di papiro che, in origine, contenevano i rispettivi libretti, da parte di chi ne curava la pubblica lettura nelle adunanze cristiane.

Un lettore che ignorasse il titolo e non avesse a sua disposizione le testimonianze della tradizione storica sarebbe in grado di identificare in qualche modo, mediante un esame interno dello scritto, soltanto l'autore del quarto Vangelo.

Gli altri tre non offrono nessun appiglio, il terzo è preceduto da una prefazione dell'autore e dal nome del destinatario, ma resta egualmente muto sulla persona dello scrittore.

Non è difficile dedurre, da tutto questo, che, agli autori, interessavano le cose dette più di chi le registrava, dal momento che non si trattava di composizioni originali su tema libero ma di raccogliere parole e fatti di un personaggio, e quale personaggio!

È vero che una biografia può legittimamente fregiarsi del nome dell'autore che l'ha scritta, ma fino a qual punto i Vangeli sono una biografia nel senso moderno di questo genere letterario?

Certo, nessuno di essi è una narrazione compiuta e distesa ( Gv 20,30; Gv 21,25 ); non soltanto nessuno esaurisce il tema, ma se non avessimo il quarto Vangelo non sarebbe neppure possibile stabilire una sufficiente trama cronologica per inquadrare gli avvenimenti in una successione tendente a stabilire le tappe di una vita.

Il termine « evangelo » non fu certo usato per indicare fin dal principio uno scritto del tipo dei quattro che oggi possediamo.

Giustino, un samaritano convertito al cristianesimo dopo una lunga esperienza filosofica, parla già, nella seconda metà del sec. il, di « memorie degli apostoli » dette « evangeli » ( Apol I,66 ), ma al suo tempo resta ancora in vigore un significato piuttosto tergo del termine.

I quattro libretti usano in varia misura e predilezione il sostantivo « evangelo » e il verbo « evangelizzare », ma è appunto la presenza del verbo che impedisce di restringere a uno scritto il sostantivo; l'evangelizzazione non mirava a comunicare un « evangelo », cioè un libro scritto, ma un messaggio di salvezza.

Il greco euagghelion, infatti, indicava nei classici una « buona notizia » e, al plurale, la ricompensa data a chi portava una buona notizia o i sacrifici offerti agli dèi per una buona notizia ricevuta.

In una iscrizione greca del 9 a. C. « evangeli » sono la somma dei benefici portati al mondo dall'imperatore romano Augusto, considerato come una divinità.

Un certo senso solenne e religioso è soggiacente al termine già nell'uso profano.

Fin dal principio del suo ministero Gesù stesso parla di un « evangelo » che si riferisce a lui ( « per me e per l'evangelo » Mc 8,35; Mc 10,29 ) e che sarà predicato in tutto il mondo ( Mc 13,10; Mc 14,9; Mc 16,15 ).

Ai discepoli del Battista che gli domandano se è lui il Messia, Gesù risponde appellandosi a Is 35,5s nel quale si parlava, tra l'altro, di « poveri evangelizzati » ( Mt 11,4-6 ).

Il « buon annunzio » per eccellenza - la « buona novella », come usiamo dire in italiano - era, per il mondo ebraico, l'annunzio messianico ( difatti, la versione greca della Bibbia ebraica introduceva col verbo « evangelizzare » alcune caratteristiche profezie relative ai tempi messianici, Is 40,3; Is 52,7; Is 60,6 ), cioè l'annunzio delle molteplici meraviglie che Dio avrebbe operato per condurre a salvamento, per mezzo del Messia annunziato e preparato dal V. T., Israele e il mondo.

Nei rimanenti scritti del N. T. « evangelo » ricorre con significativa frequenza nell'epistolario di Paolo ( sessantasei volte ), il più spesso accompagnato da una specificazione: « ev. di Dio » ( Rm 1,1 ), « ev. di Cristo » ( Rm 1,9 ), « ev. di Paolo » ma conforme a quello degli altri apostoli ( Gal 2,2-10 ).

Poiché Gesù ha non soltanto predicato la salvezza ma l'ha adempiuta ed è lui stesso la salvezza ( Gv 14,6 ), l'« evangelo » ha dimensioni storielle; non è, in altri termini, esposizione di un sistema filosofico-teologico ma vicenda di una persona che, sola, può dare la misura e l'intelligenza di quanto fu detto e fu fatto.

Nei tempi in cui furono scritti i quattro libretti - la prima generazione cristiana - molti erano in Palestina coloro che potevano conoscere per diretta esperienza singoli episodi e parole del Cristo ( At 2,22; At 26,26 ), ma chi poteva veramente dare la chiave della intelligenza profonda di quanto era stato visto e ascoltato erano coloro i quali avevano, al seguito del Cristo, in un'assidua consuetudine di vita e per mezzo di una istruzione e formazione particolarmente ad essi dedicata, conosciuto i « misteri del regno di Dio » ( Mt 13,11 ) ed erano stati investiti dal Maestro della missione di « testimoni » di lui ( Lc 24,48; At 1,8.22 ).

L'« evangelo » è la « testimonianza » dei dodici ( At 13,30-32 ).

Nella comunità cristiana primitiva vige la regola che non esiste « evangelo » al di fuori di quello che è predicato dagli apostoli, nel cui insegnamento è necessario « perseverare » ( At 2,42; Gal 1,6-9; 2 Gv 10 ); l'« evangelo », perciò, viene dall'alto - dai testimoni - non nasce dal basso, come frutto di una elaborazione anonima dei detti e dei fatti di Gesù nella quale siano riflesse esigenze psicologiche, religiose o di culto che abbiano potuto sostanzialmente modificare l'« evangelo » del Cristo.

Che il materiale evangelico abbia avuto per lunghi anni solo una trasmissione orale è un fatto che si deve ammettere, benché non si debba nemmeno sottovalutare l'affermazione di Lc 1,1 relativa a vari tentativi di scritture evangeliche fatte prima di lui.

Due fatti specialmente insegnano che, in realtà, agli inizi la trasmissione orale della storia di Gesù ebbe la preferenza:

1) il fatto che Gesù aveva ordinato ai suoi di « predicare » l'evangelo senza nessun accenno a un obbligo di conservare in iscritto il suo messaggio;

2) la naturale inclinazione degli Ebrei a servirsi della forma orale, sia per la trasmissione di fatti, sia per l'insegnamento.

Gli stessi Vangeli scritti conservano molti elementi che permettono di riconoscere una trasmissione orale, dalla presenza in essi di particolarità, che risultano appunto elementi dello stile e quasi della « tecnica » della trasmissione a voce.

L'antico storico della Chiesa Eusebio conserva la memoria di una indifferenza degli apostoli per lo scritto: « Si davano ben poca cura di scrivere libri » e « si decisero a scriverli perché spinti dalla necessità » ( Storia Eccl. III, 24, 3-5 ).

Nella metà del secondo secolo il vescovo Papia è « persuaso che il profitto tratto dalle letture non poteva stare a confronto con quello che si otteneva dalla parola viva e sonante » degli apostoli e dei discepoli del Signore ( in Eusebio, Storia Eccl. III, 39, 4 ).

Molte ragioni, di carattere polemico o irenico, sono alle origini dei Vangeli scritti ( Introd. ai singoli Vang. ) i quali sono tutti, in sostanza, una iniziazione alla intelligenza del mistero del Cristo.

Questo scopo non poteva prescindere da un'ambientazione precisa della sua vita nel tempo ma non esigeva una documentazione completa fin nei minimi particolari o la registrazione « fonografica » delle parole e dei fatti.

Dei discorsi, i Vangeli offrono per lo più una raccolta di sentenze di varia ampiezza legate alle circostanze nelle quali furono pronunziate o da esse indipendenti; dei fatti è data una scelta in cui la preoccupazione dominante non è il racconto per il racconto ma il racconto per l'insegnamento.

Nella tradizione letteraria ebraica questo tipo di storia antologica con fine didattico è antichissimo e rappresenta la caratteristica metodologia storica d'Israele, il quale è il solo popolo che abbia, nell'antichità, una teologia della storia.

L'attuale testo originale di tutti e quattro i Vangeli è scritto in greco; ben presto, difatti, le esigenze della evangelizzazione che aveva varcato i ristretti confini della Palestina per dilagare nel mondo greco-romano costrinsero gli apostoli a usare la lingua comune del mondo civile del loro tempo; naturalmente non la lingua dei letterati e tanto meno il greco dei modelli classici, ma quello « comune » ( koinè ) dell'uomo della strada.

Gesù aveva parlato in aramaico e il passaggio delle sue parole da questa lingua semitica nella greca, se ne fece perdere la fragranza nativa, non ne tradì il contenuto.

Dal commento ai testi sarà possibile rendersi conto assai spesso del sottofondo aramaico dell'attuale testo greco.

La tradizione storica cristiana che attribuì fin dal principio i quattro Vangeli a Matteo, Marco, Luca e Giovanni, merita un adeguato rilievo.

Se l'attribuzione del quarto Vangelo poteva farsi identificando, con l'aiuto degli altri tre, il « discepolo prediletto » ( Introd. a Gv ), la scelta dei nomi di Matteo, Marco e Luca dovette fondarsi su notizie precise.

Non c'era nessuna ragione - supposto che si procedesse per congettura o addirittura ispirandosi alla fantasia - perché il primo Vangelo fosse attribuito a Matteo, che non ha rilievo nella storia evangelica ed apostolica.

Il secondo Vangelo vien fatto risalire a Pietro, ma ciò nonostante porta il nome di Marco come effettivo estensore del libro.

La comunità cristiana primitiva conosceva nomi di discepoli ben più importanti di Marco e di Luca, per esempio Bamaba di Cipro, che iniziò Paolo all'apostolato, o Apollo, esperto nelle Scritture ed eccellente parlatore ( At 18,24ss ), il quale a Corinto veniva perfino contrapposto da alcuni a Pietro e a Paolo ( 1 Cor 1,12 ).

Nel primo secolo. Clemente Romano ( 92-101 ) e Ignazio di Antiochia ( m. 107/108 ) citano i Vangeli senza preoccuparsi di indicare i nomi degli evangelisti.

Verso il 130 Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia, fa i nomi di Matteo e di Marco; alla fine del sec. il Sant'Ireneo ( fra il 178-188 ) e il cosiddetto Canone o Frammento di Muratori citano i nomi di tutti e quattro gli evangelisti.

L'opportunità di mettere in chiaro i nomi degli autori dei libretti sembra essere stata determinata dalla pretesa che avevano gli eretici, come gli gnostici, di predicare un loro « evangelo » e di diffondere scritti che si fregiavano di questa qualifica.

Ad essi gli apologisti cristiani opposero il verace evangelo della tradizione apostolica, rilevando che i libretti custoditi dalla Chiesa risalivano per varie vie a coloro che Gesù aveva investito del mandato di predicare la sua buona novella: gli apostoli Matteo e Giovanni e i discepoli immediati degli apostoli Marco e Luca.

Per le esigenze stesse della polemica gli autori ortodossi non potevano correre il rischio di identificazioni congetturali e infondate; d'altra parte, se gli apologisti non fossero stati ligi a dati accertati, avrebbero scelto nomi più sonanti al posto di quelli di Matteo, Marco e Luca.

Resta da domandarsi perché mai non si sia pensato fin dal principio di redigere un solo testo evangelico collegiale, evitando le ripetizioni a vantaggio di una maggiore ricchezza di contenuto.

Certamente ciò sarebbe stato facile, ma una simile idea, per noi ovvia, non poteva nascere nella comunità cristiana, in cui la funzione dello scritto nella trasmissione dell'evangelo era solo considerata ausiliaria del mezzo precipuo dell'evangelizzazione: il magistero orale.

Sta il fatto che neppure Paolo, pur avendo scritto lettere di ampiezza imponente, ha pensato di redigere una summa dell'insegnamento cristiano.

Nella Chiesa primitiva vigeva il principio che « la fede proviene dall'ascolto ( cioè dalla predicazione ), e l'ascolto proviene dalla parola ( cioè dal mandato ) di Cristo » ( Rm 10,17 ).

L'evangelo è « la parola » per eccellenza, la « parola di Dio », la « parola di salvezza », la « parola della grazia » ( At 20,32 ) e i trasmettitori dell'evangelo sono « ministri della parola » ( Lc 1,2 ).

Gesù stesso non aveva scritto nulla e la diffusione del suo messaggio era stata da lui affidata a un insegnamento vivo.

Quando comparvero i Vangeli scritti, la Chiesa era già, da almeno vent'anni, viva e operante: solo il messaggio evangelico predicato dagli apostoli era alle basi della sua vita.

Da quanto si dirà nelle introduzioni a Mt., Mc. e Lc., si vedrà che, praticamente, i tre primi Vangeli hanno lo stesso schema generale: predicazione del Battista ed episodi della preparazione di Gesù al ministero pubblico ( battesimo, tentazione ), attività del Cristo in Galilea, ultimi avvenimenti a Gerusalemme conclusi con la croce e la risurrezione.

Un computo sommario porta al risultato che in ognuno dei Vangeli la parte non comune con gli altri è in ragione delle seguenti proporzioni: un terzo per Mt., un decimo per Mc., metà per Lc.

Accanto alla somiglianza nell'ordine generale del racconto si riscontra anche un parallelismo nell'ordine interno di alcune serie di fatti, disposti nella medesima successione ( Mt 16,13-17,23; Mc 8,27-9,32; Lc 9,18-45 ); gli stessi fatti vengono riferiti allo stesso modo e spesso con le stesse parole, il che si verifica non soltanto quando si tratta di parole pronunziate da Gesù, ma anche in brani redazionali, frasi di raccordo e di transizione, particolari senza importanza ( Mt 9,2-6; Mc 2,5-11; Lc 4,20-24 ).

A tali somiglianze e concordanze corrispondono dissomiglianze e differenze dello stesso genere; basti citare ad esempio la differente redazione delle beatitudini, le parole della istituzione della eucaristia e il titolo della croce, diversi in ognuno dei Vangeli.

Questa caratteristica di « concordia discorde » dei tre primi Vangeli permette di poterli disporre in colonne parallele che pongono contemporaneamente sotto gli occhi del lettore, in una « sinossi », cioè « visione simultanea », la triplice versione dello stesso fatto data dai tre evangelisti, che, perciò, sono detti « Sinottici ».

I fenomeni di concordanza e di discordanza dei tre primi Vangeli sono tali e tanti da non potersi attribuire al caso, e il problema della loro origine costituisce la classica questione sinottica, intorno alla quale, fin dall'antichità, si è esercitato l'ingegno degli studiosi.

Le soluzioni proposte sono tali e tante che è impossibile riferirle tutte.

I dati fondamentali risultanti dalle notizie trasmesseci dall'antichità cristiana e corroborate dall'esame interno dei Vangeli sono: il materiale confluito nei quattro libretti fu durante un certo numero di anni trasmesso oralmente dai predicatori cristiani, tra i quali si trovano dei carismatici indicati col nome di « evangelisti » ( At 21,8 ), il primo Vangelo, scritto in aramaico, fu Mt., al quale segui Mc.; terzo viene Lc., il quale ( 1,1 ) accenna ad altri precedenti tentativi di scritture evangeliche che non coincidono del tutto con quelle attualmente conservate, ultimo è l'attuale testo greco di Mt., traduzione dell'aramaico primitivo.

Limitatamente a questi elementi la soluzione del problema può ricercarsi nell'ambito della sola predicazione orale, la cui forma stereotipa, agevolata dalla particolare mentalità e dai metodi ebraici di insegnamento, avrebbe dato luogo alle somiglianze, mentre le divergenze possono esser nate o dal fatto che, in fin dei conti, questa trasmissione non era un nastro magnetico di registrazione o dalla necessità di adattare a diverse sensibilità ed esigenze ( Palestinesi, Greci, Romani ) il contenuto dell'evangelo.

La successione cronologica Mt.-Mc.-Lc., complicata dalla presenza di una traduzione greca di Mt., può dar luogo a un'altra soluzione, che, espressa nei suoi termini più elementari, ricerca le sopraddette concordanze e discordanze nel modo come Mc. ha utilizzato Mt. aramaico e Lc. si è servito di Mc. e di Mt. aramaico o greco.

Dopo di che, entriamo nel vasto mare delle ipotesi che introducono nuovi elementi, più o meno giustificati.

Una delle più antiche postula l'esistenza di un Vangelo primitivo aramaico perduto, di cui i Sinottici sarebbero traduzioni nello stesso tempo simili e diverse; altri pensa ad una primitiva traduzione greca di questo supposto Vangelo unico aramaico, rimaneggiata con aggiunte, soppressioni e ritocchi: queste diverse edizioni sarebbero state utilizzate indipendentemente dagli autori degli attuali Sinottici.

La massima parte dei critici non cattolici si attiene a una ipotesi il cui punto di partenza è una testimonianza storica del sec. II. Papia ( Eusebio, Storia Eccl. III, 39,15-16 ), parlando di Mt., dice che questi raccolse i loghia di Gesù.

Loghia, propriamente « discorsi », può benissimo indicare, in greco, un insieme di insegnamenti e di narrazioni, ma, limitandolo agli insegnamenti, i critici introducono nella storia letteraria dei Vangeli un proto-Mt., rappresentato appunto da una raccolta di parole ( loghia ) di Gesù, e un proto-Mc. - oggi si preferisce mettere al suo posto l'attuale Mc. - che sarebbe stato un'antologia di racconti.

I tre attuali Sinottici avrebbero variamente utilizzato queste due fonti.

La più recente ipotesi cattolica, anch'essa tutt'altro che immune da critiche, propone una soluzione assai complessa del problema.

Punto di partenza è la predicazione orale degli apostoli sia aramaica che greca.

Tutt'e due hanno origine in Palestina, la prima a profitto degli indigeni, la seconda a vantaggio di quei Giudei ellenisti convertiti al cristianesimo che nella città santa ebbero in funzione e, forse, una influenza notevole.

Questa fase orale dell'evangelo continua anche dopo la pubblicazione del primo Vangelo scritto.

Da Lc. apprendiamo l'esistenza di saggi evangelici frammentari, comprendenti racconti e discorsi, che possono forse essere identificati in alcune pericopi sinottiche staccate o debolmente legate al contesto.

Segui Mt. aramaico, riconoscibile nel fondo comune dei Sinottici e specialmente in alcuni aspetti arcaici ( aramaismi ) e schematici dei testi.

Si trattava di un sommario sistematico ed impersonale della catechesi apostolica di Gerusalemme che consentiva adattamenti successivi a comunità di diversa origine etnica.

Di questo Vangelo si ebbero vari tentativi di traduzione, forse anche scritti.

L'attuale traduzione greca del primo Vangelo potrebbe risalire allo stesso Matteo, ma, in pratica, sia Mt. aramaico sia il primo Mt. greco sono scomparsi.

Il Mt. greco si può considerare come conservato per intero, adattato a nuovi lettori, negli attuali tre Sinottici.

Nell'ambiente apostolico ebbe origine un altro scritto aramaico, tradotto ben presto in greco, forse nella stessa Gerusalemme, che conteneva brani scelti del materiale evangelico non utilizzati dal Mt. aramaico e fu incorporato negli attuali Mt. e Lc.

Il blocco caraneristico di Lc 9,15-18,14 ( Introd. a Lc ) è la migliore prova per affermare l'esistenza di questa antologia.

Venne poi Mc. che subì l'influenza fondamentale della predicazione gerosolimitana di Pietro, già raccolta schematicamente in Mt. Fu, però, la catechesi romana dell'apostolo che diede al secondo Vangelo il suo carattere.

L'attuale Mt. è una nuova edizione riveduta e accresciuta della prima traduzione greca dell'omonimo Vangelo aramaico: esso conserva Mt. aramaico attraverso la prima traduzione greca, di cui è il miglior testimone.

Inoltre, si è giovato di alcune fonti minori per i racconti dell'infanzia e per quelli della passione, e di una raccolta di « Testimonianze », cioè una serie di testi del V. T. che si usava citare dalla apologetica cristiana orale per dimostrare la messianità del Cristo ( Introd. a Mt. ).

Lc. ha riprodotto i dati della catechesi apostolica primitiva con addizioni, omissioni e ritocchi, nei quali si riconosce uno spirito greco.

Egli dipende da Mc., ma non possiamo dire fino a qual punto ne dipenda attraverso la traduzione greca primitiva di Mt. aramaico.

Fonti proprie a Lc. sono quella aramaica - ma tradotta in greco - dalla quale è ricavato « il vangelo dell'infanzia », la tradizione orale, parecchi elementi dei racconti della passione e della risurrezione, tradizioni « giovannee » raccolte prima che confluissero nell'attuale Gv.

Questa ricostruzione è appoggiata a esami letterari e critici minuziosissimi, per es. dei brani sinottici appartenenti a quelle che vengono indicate come la triplice tradizione ( brani presenti, cioè, in tutti e tre i Sinottici ) e la doppia tradizione ( che si ritrovano, cioè, in due Sinottici: Mt.-Mc. o Mc.-Lc. o Mt.-Lc. ).

Effettivamente la soluzione del problema sinottico si fonda sull'esame di ogni pericope, comunque sinottica, dal punto di vista della ricerca delle fonti, ma non è sempre possibile una conclusione chiara, tale da non poter postulare una soluzione diversa da quella proposta. I fenomeni sinottici non sono riducibili a fenomeni meccanici, per spiegare i quali è sufficiente trovare una chiave.

È necessario tenere in debito conto anche alcuni elementi criticamente imponderabili, come ad esempio la psicologia e le abitudini letterarie degli autori, non sempre rilevabili in un testo che fino a un certo punto conserva le caratteristiche personali degli autori.

Un certo sistema potrà spiegare moltissime cose; è anche possibile che la massa delle singole soluzioni sia tale da poter guardare con fiducia a una soluzione complessiva, ma forse mai ad una soluzione totale.

È inutile avvertire che il problema sinottico è un problema di carattere letterario, che non coinvolge la verità dei Vangeli.

Gli antichi, come Sant'Agostino, si preoccupavano di armonizzare i vari testi senza risalire alle loro origini come intendono fare gli studiosi moderni.

Per una via o per l'altra l'armonizzazione si può sempre trovare, anche indipendentemente da una soluzione sistematica del problema sinottico.