Il Natale e la croce

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Dal messaggio dell'Arcivescovo di Torino « "Passio Christi, passio hominis"

La sofferenza umana redenta da Cristo », per l'Avvento 2009

- Card. Severino Poletto -

Riportiamo un passo del mirabile messaggio natalizio, in cui la letizia propria del Natale viene inserita nell'effusione di amore del Crocifisso, di cui la Sindone, che sarà esposta in primavera, è "muto testimone".

Potrebbe sembrare strano, a prima vista, questo accostamento tra il Natale del Signore, la sua passione cruenta e la sua morte ignominiosa sulla croce.

Siamo, infatti, soliti vivere il Natale come un momento di gioia intensa.

Il suo pensiero evoca in noi il clima avvolgente della Messa di mezzanotte, il tepore della festa in famiglia, la bellezza della neve, le nostre città e le nostre case illuminate e « vestite a festa ».

Se si è bambini, a Natale si attendono i doni; se si è adulti, ci si aspetta di interrompere il vorticoso ritmo degli impegni feriali e di far tacere, almeno per qualche istante, le ansie, le paure e le preoccupazioni, per concederci un momento di pace, tra gli affetti più cari.

C'è qualcosa di bello in tutto questo.

È il modo in cui ricordiamo, magari inconsapevolmente, che la nascita di Gesù significa che siamo salvi, che siamo tra le mani di Dio, che siamo circondati dall'abbraccio del suo amore e che la nostra vita e la storia dell'umanità sono raccolte e custodite in Dio.

Il Natale vuoi dire che nulla di ciò che è veramente umano è perso, e che tutto è destinato all'amore e dunque alla vita.

Ma è così perché la nascita nel tempo del Figlio di Dio non è qualcosa di statico, che si esaurisce in quel che è avvenuto nei primi istanti della sua vita umana, in quella grotta di Betlemme.

La nascita è l'inizio di un cammino e di una storia, che porterà il Figlio di Dio a condividere tutto quanto contrassegna la nostra umanità, anche la sofferenza e la morte.

C'è una bella icona della Natività, della scuola di Rublèv, che presenta la culla di Gesù Bambino con le fattezze di una tomba e le fasce che lo avvolgono come se fossero i teli che fasciano un morto.

Guardarla aiuta a contemplare un aspetto fondamentale del Natale: il Bambino della culla è lo stesso Gesù che, come ricorda il Vangelo, crescerà « in età, sapienza e grazia » ( Lc 2,52 ), ed è lo stesso Gesù che verrà rigettato dagli uomini, che sarà condannato, umiliato e ucciso sulla croce.

L'estrema conseguenza del suo nascere nel tempo sarà, per il Figlio di Dio, la morte.

Il compimento ultimo del vagito che Gesù ha emesso nei primi istanti della sua vita terrena sarà il grido straziante lanciato sulla croce nell'ora nona di quel venerdì in cui è morto: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » ( Mt 27,46 ).

Ci accostiamo, dunque, come i pastori, alla culla del Bambino, cercando però di vedervi già l'Agnello immolato nel venerdì santo.

Ci presentiamo come i magi, portando oro al Re dell'universo e incenso a Colui che è Dio; ma, come i magi, non dimentichiamo di portare la mirra, che indica l'umanità di Gesù, il suo assoggettarsi al decadimento, alla sofferenza e alla morte.

E che cosa significa questo suo sottomettersi al decadimento cui siamo sottoposti noi uomini, che nasciamo, cresciamo e poi, poco per volta invecchiarne, perdiamo vigore e ci indeboliamo?

E, soprattutto, che cosa vuoi dire che il Figlio di Dio, nascendo nel tempo, si è assoggettato anche alla sofferenza e alla morte?

Significa che Egli ha voluto condividere tutto della nostra umanità, così come si trova nella sua concretezza: veramente tutto, tranne il peccato.

Vuol dire che Egli ha inteso entrare nella nostra umanità, condividendo le bellezze e gli aspetti positivi di una vita che è affascinante e avvincente, ma partecipando anche a ciò che di più pesante e incomprensibile questa stessa vita umana può riservare, come il dolore, la sofferenza e una morte segnata dalla paura.

Gesù è entrato fino in fondo in queste dimensioni della nostra realtà umana.

E non l'ha fatto per dirci che, allora, la sofferenza e il dolore sarebbero un bene, qualcosa da ricercare o addirittura da desiderare, per sentirci magari più vicini a Dio.

Gesù ha condiviso il dolore e la sofferenza dell'umanità per mostrarci che il suo amore e la sua fedeltà nei nostri confronti arrivano fino al punto di patire ciò che noi uomini patiamo, fino al punto di condividere il dramma di quella domanda che, tutte le volte che siamo in preda al dolore e al male, noi ci facciamo: perché il male?

Perché si deve soffrire? Perché si subiscono dolori anche enormi, pur essendo giusti, pur avendo condotto una vita onesta?

Gesù, sulla croce, non soltanto patisce un dolore straziante, ma condivide con noi lo strazio della domanda del dolore e del male.

Questo non lo fa per aggiungere dolore a dolore o male a male; lo fa per mostrarci che il suo amore e la sua fedeltà nei confronti di tutta l'umanità giungono fino a condividere tutto quel che di più pesante e lacerante caratterizza la nostra vita.

Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica Salvifici doloris, ha espresso questo concetto in modo mirabile, quando ha scritto che nella passione di Gesù la sofferenza « è entrata in una dimensione completamente nuova e in nuovo ordine: è stata legata all'amore » ( n. 18 ).

Infatti, quella passione di Cristo rivela che Dio è amore, capace di condividere e di redimere tutto il male che ci affligge.

Quella stessa passione ci apre, poi, una nuova possibilità: nell'ora della nostra passione e della nostra morte, ci possiamo abbandonare con fiducia a Cristo, sentendoci custoditi nel suo cuore trafitto; e, in virtù della passione e morte di Gesù, possiamo divenire solidali con ogni sorella e fratello visitati dal male e dal dolore.