Orientale Lumen

Indice

Conoscere l'Oriente cristiano, un'esperienza di fede

5 "Nell'indagare la verità rivelata in Oriente e in Occidente furono usati metodi e prospettive diversi per giungere alla conoscenza e alla proclamazione delle cose divine.

Non fa quindi meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior luce dall'uno che non dall'altro, cosicché si può dire allora che quelle varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi".10

Portando nel cuore le domande, le aspirazioni e le esperienze a cui ho accennato, la mia mente si volge al patrimonio cristiano dell'Oriente.

Non intendo descriverlo né interpretarlo: mi metto in ascolto delle Chiese d'Oriente che so essere interpreti viventi del tesoro tradizionale da esse custodito.

Nel contemplarlo appaiono ai miei occhi elementi di grande significato per una più piena ed integrale comprensione dell'esperienza cristiana e, quindi, per dare una più completa risposta cristiana alle attese degli uomini e delle donne di oggi.

Rispetto a qualsiasi altra cultura, l'Oriente cristiano ha infatti un ruolo unico e privilegiato, in quanto contesto originario della Chiesa nascente.

La tradizione orientale cristiana implica un modo di accogliere, di comprendere e di vivere la fede nel Signore Gesù.

In questo senso essa è vicinissima alla tradizione cristiana d'Occidente che nasce e si nutre della stessa fede.

Eppure se ne differenzia, legittimamente e mirabilmente, in quanto il cristiano orientale ha un proprio modo di sentire e di comprendere, e quindi anche un modo originale di vivere il suo rapporto con il Salvatore.

Voglio qui avvicinarmi con rispetto e trepidazione all'atto di adorazione che esprimono queste Chiese, piuttosto che individuare questo o quel punto teologico specifico, emerso nei secoli in contrapposizione polemica nel dibattito tra Occidentali e Orientali.

L'Oriente cristiano fin dalle origini si mostra multiforme al proprio interno, capace di assumere i tratti caratteristici di ogni singola cultura e con un sommo rispetto di ogni comunità particolare.

Non possiamo che ringraziare Dio, con profonda commozione, per la mirabile varietà con cui ha consentito di comporre, con tessere diverse, un mosaico così ricco e composito.

6 Vi sono alcuni tratti della tradizione spirituale e teologica, comuni alle diverse Chiese d'Oriente, che ne distinguono la sensibilità rispetto alle forme assunte dalla trasmissione del Vangelo nelle terre d'Occidente.

Così li sintetizza il Vaticano II: "È noto a tutti con quanto amore i cristiani orientali compiano le sacre azioni liturgiche, soprattutto la celebrazione eucaristica, fonte della vita della Chiesa e pegno della gloria futura, con la quale i fedeli uniti col Vescovo hanno accesso a Dio Padre per mezzo del Figlio, Verbo Incarnato, morto e glorificato, nell'effusione dello Spirito Santo, ed entrano in comunione con la santissima Trinità, fatti "partecipi della natura divina" ( 2 Pt 1,4 )"11

In questi tratti si delinea la visione orientale del cristiano, il cui fine è la partecipazione alla natura divina mediante la comunione al mistero della santa Trinità.

Vi si tratteggiano la "monarchia" del Padre e la concezione della salvezza secondo l'economia, quale la presenta la teologia orientale dopo sant'Ireneo di Lione e quale si diffonde presso i Padri cappadoci.12

La partecipazione alla vita trinitaria si realizza attraverso la liturgia e in modo particolare l'Eucaristia, mistero di comunione con il corpo glorificato di Cristo, seme di immortalità.13

Nella divinizzazione e soprattutto nei sacramenti la teologia orientale attribuisce un ruolo tutto particolare allo Spirito Santo: per la potenza dello Spirito che dimora nell'uomo la deificazione comincia già sulla terra, la creatura è trasfigurata e il Regno di Dio è inaugurato.

L'insegnamento dei Padri cappadoci sulla divinizzazione è passato nella tradizione di tutte le Chiese orientali e costituisce parte del loro patrimonio comune.

Ciò si può riassumere nel pensiero già espresso da sant'Ireneo alla fine del II secolo: Dio si è fatto figlio dell'uomo, affinché l'uomo potesse divenire figlio di Dio.14

Questa teologia della divinizzazione resta una delle acquisizioni particolarmente care al pensiero cristiano orientale.15

In questo cammino di divinizzazione ci precedono coloro che la grazia e l'impegno nella via del bene ha reso "somigliantissimi" al Cristo: i martiri e i santi.16

E tra questi un posto tutto particolare occupa la Vergine Maria, dalla quale è germogliato il Virgulto di Jesse ( Is 11,1 ).

La sua figura è non solo la Madre che ci attende ma la Purissima che - realizzazione di tante prefigurazioni vetero-testamentarie - è icona della Chiesa, simbolo e anticipo dell'umanità trasfigurata dalla grazia, modello e sicura speranza per quanti muovono i loro passi verso la Gerusalemme del cielo.17

Pur accentuando fortemente il realismo trinitario e la sua implicazione nella vita sacramentale, l'Oriente associa la fede nell'unità della natura divina alla inconoscibilità della divina essenza.

I Padri orientali affermano sempre che è impossibile sapere ciò che Dio è; si può solo sapere che Egli è, poiché si è rivelato nella storia della salvezza come Padre, Figlio e Spirito Santo.18

Questo senso della indicibile realtà divina si riflette nella celebrazione liturgica, dove il senso del mistero è colto così fortemente da parte di tutti i fedeli dell'Oriente cristiano.

"In Oriente si trovano pure le ricchezze di quelle tradizioni spirituali, che sono state espresse specialmente dal monachesimo.

Ivi infatti fin dai gloriosi tempi dei santi padri fiorì quella spiritualità monastica, che si estese poi all'Occidente e dalla quale, come da sua fonte, trasse origine la regola monastica dei latini e in seguito ricevette ripetutamente nuovo vigore.

Perciò caldamente si raccomanda che i cattolici con maggior frequenza accedano a queste ricchezze dei padri orientali, le quali trasportano tutto l'uomo alla contemplazione delle cose divine".19

Vangelo, Chiese e culture

7 Già altre volte ho messo in evidenza che un primo grande valore vissuto particolarmente nell'Oriente cristiano consiste nell'attenzione ai popoli e alle loro culture, perché la Parola di Dio e la sua lode possano risuonare in ogni lingua.

Su questo tema mi sono soffermato nella Lettera enciclica Slavorum apostoli, ove rilevavo che Cirillo e Metodio "desiderarono diventare simili sotto ogni aspetto a coloro ai quali recavano il Vangelo; vollero diventare parte di quei popoli e condividerne in tutto la sorte";20

"si trattava di un nuovo metodo di catechesi".21

Nel fare questo essi espressero un atteggiamento molto diffuso nell'Oriente cristiano: "Incarnando il Vangelo nella peculiare cultura dei popoli che evangelizzavano, i santi Cirillo e Metodio ebbero particolari meriti per la formazione e lo sviluppo di quella stessa cultura o, meglio, di molte culture".22

Rispetto e considerazione per le culture particolari si uniscono in essi alla passione per l'universalità della Chiesa, che instancabilmente si sforzano di realizzare.

L'atteggiamento dei due fratelli di Salonicco è rappresentativo, nell'antichità cristiana, di uno stile tipico di molte Chiese: la rivelazione si annuncia in modo adeguato e si fa pienamente comprensibile quando Cristo parla la lingua dei vari popoli, e questi possono leggere la Scrittura e cantare la liturgia nella lingua e con le espressioni che sono loro proprie, quasi rinnovando i prodigi della Pentecoste.

In un tempo nel quale si riconosce come sempre più fondamentale il diritto di ogni popolo ad esprimersi secondo il proprio patrimonio di cultura e di pensiero, l'esperienza delle singole Chiese d'Oriente ci si presenta come un autorevole esempio di riuscita inculturazione.

Da questo modello apprendiamo che se vogliamo evitare il rinascere di particolarismi e anche di nazionalismi esasperati, dobbiamo comprendere che l'annuncio del Vangelo deve essere, ad un tempo, profondamente radicato nella specificità delle culture ed aperto a confluire in una universalità che è scambio per il comune arricchimento.

Tra memoria e attesa

8 Spesso oggi ci sentiamo prigionieri del presente: è come se l'uomo avesse smarrito la percezione di far parte di una storia che lo precede e lo segue.

A questa fatica di collocarsi tra passato e futuro con animo grato per i benefici ricevuti e per quelli attesi, in particolare le Chiese dell'Oriente offrono uno spiccato senso della continuità, che prende i nomi di Tradizione e di attesa escatologica.

La Tradizione è patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del Risorto incontrato e testimoniato dagli Apostoli che ne hanno trasmesso il ricordo vivente ai loro successori, in una linea ininterrotta che è garantita dalla successione apostolica, attraverso l'imposizione delle mani, fino ai Vescovi di oggi.

Essa si articola nel patrimonio storico e culturale di ciascuna Chiesa, plasmato in essa dalla testimonianza dei martiri, dei padri e dei santi, nonché dalla fede viva di tutti i cristiani lungo i secoli fino ai nostri giorni.

Si tratta non di una ripetizione immutata di formule, ma di un patrimonio che custodisce il vivo nucleo kerygmatico originario.

È la Tradizione che sottrae la Chiesa al pericolo di raccogliere solo opinioni mutevoli e ne garantisce la certezza e la continuità.

Quando gli usi e le consuetudini propri di ciascuna Chiesa vengono intesi come pura immobilità, si rischia certo di sottrarre alla Tradizione quel carattere di realtà vivente, che cresce e si sviluppa, e che lo Spirito le garantisce proprio perché essa parli agli uomini di ogni tempo.

E come già la Scrittura cresce con chi la legge,23 così ogni altro elemento del patrimonio vivo della Chiesa cresce nella comprensione dei credenti e si arricchisce di apporti nuovi, nella fedeltà e nella continuità.24

Solo una religiosa assimilazione, nell'obbedienza della fede, di ciò che la Chiesa chiama "Tradizione" consentirà a questa di incarnarsi nelle diverse situazioni e condizioni storico-culturali.25

La Tradizione non è mai pura nostalgia di cose o forme passate, o rimpianto di privilegi perduti, ma la memoria viva della Sposa conservata eternamente giovane dall'Amore che la inabita.

Se la Tradizione ci pone in continuità con il passato, l'attesa escatologica ci apre al futuro di Dio.

Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie e quindi di autocelebrarsi o di abbandonarsi alla tristezza.

Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito.

Il Signore Gesù è venuto a morire per noi ed è risorto dai morti, mentre la creazione, salvata nella speranza, soffre ancora nelle doglie del parto ( Rm 8,22 ); quello stesso Signore tornerà per consegnare il cosmo al Padre ( 1 Cor 15,28 ).

Questo ritorno la Chiesa invoca, e di esso è testimone privilegiato il monaco e il religioso.

L'Oriente esprime in modo vivo le realtà della tradizione e dell'attesa.

Tutta la sua liturgia, in particolare, è memoriale della salvezza e invocazione del ritorno del Signore.

E se la Tradizione insegna alle Chiese la fedeltà a ciò che le ha generate, l'attesa escatologica le spinge ad essere ciò che ancora non sono in pienezza e che il Signore vuole che diventino, e quindi a cercare sempre nuove vie di fedeltà, vincendo il pessimismo perché proiettate verso la speranza di Dio che non delude.

Dobbiamo mostrare agli uomini la bellezza della memoria, la forza che ci viene dallo Spirito e che ci rende testimoni perché siamo figli di testimoni; far gustare loro le cose stupende che lo Spirito ha disseminato nella storia; mostrare che è proprio la Tradizione a conservarle dando quindi speranza a coloro che, pur non avendo veduto i loro sforzi di bene coronati da successo, sanno che qualcun altro li porterà a compimento; allora l'uomo si sentirà meno solo, meno rinchiuso nell'angolo angusto del proprio operato individuale.

Il monachesimo come esemplarità di vita battesimale

9 Vorrei ora guardare il vasto paesaggio del cristianesimo d'Oriente da un'altura particolare, che permette di scorgerne molti tratti: il monachesimo.

In Oriente il monachesimo ha conservato una grande unità, non conoscendo, come in Occidente, la formazione dei diversi tipi di vita apostolica.

Le varie espressioni della vita monastica, dal cenobitismo stretto, come lo concepivano Pacomio o Basilio, all'eremitismo più rigoroso di un Antonio o di un Macario l'egiziano, corrispondono più a stadi diversi del cammino spirituale che alla scelta tra diversi stati di vita.

Tutti comunque si rifanno al monachesimo in sé, in qualsiasi forma esso si esprima.

Inoltre il monachesimo non è stato visto in Oriente soltanto come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani, ma particolarmente come punto di riferimento per tutti i battezzati, nella misura dei doni offerti a ciascuno dal Signore, proponendosi come una sintesi emblematica del cristianesimo.

Quando Dio chiama in modo totale come nella vita monastica, allora la persona può raggiungere il punto più alto di quanto sensibilità, cultura e spiritualità sono in grado di esprimere.

Ciò vale a maggior ragione per le Chiese orientali, per le quali il monachesimo costituì una esperienza essenziale e che ancora oggi mostra di fiorire in esse, non appena la persecuzione ha termine e i cuori possono levarsi in libertà verso i cieli.

Il monastero è il luogo profetico in cui il creato diventa lode di Dio e il precetto della carità concretamente vissuta diventa ideale di convivenza umana, e dove l'essere umano cerca Dio senza barriere e impedimenti, diventando riferimento per tutti, portandoli nel cuore ed aiutandoli a cercare Dio.

Vorrei anche ricordare la fulgida testimonianza delle monache nell'Oriente cristiano.

Essa ha indicato un modello di valorizzazione dello specifico femminile nella Chiesa, anche forzando la mentalità del tempo.

Durante recenti persecuzioni, soprattutto nei Paesi dell'Est europeo, quando molti monasteri maschili furono chiusi con violenza, il monachesimo femminile ha conservato accesa la fiaccola della vita monastica.

Il carisma della monaca, con le caratteristiche che le sono specifiche, è un segno visibile di quella maternità di Dio alla quale sovente si richiama la Scrittura santa.

Guarderò dunque al monachesimo, per individuare quei valori che sento oggi molto importanti per esprimere l'apporto dell'Oriente cristiano al cammino della Chiesa di Cristo verso il Regno.

Senza essere esclusivi talvolta né della sola esperienza monastica né del patrimonio dell'Oriente, questi aspetti hanno spesso acquisito in esso una connotazione particolare.

D'altronde noi stiamo cercando di valorizzare non l'esclusività ma l'arricchimento reciproco in ciò che l'unico Spirito ha suscitato nell'unica Chiesa di Cristo.

Il monachesimo è stato da sempre l'anima stessa delle Chiese orientali: i primi monaci cristiani sono nati in Oriente e la vita monastica è stata parte integrante del lumen orientale trasmesso in Occidente dai grandi Padri della Chiesa indivisa.26

I forti tratti comuni che uniscono l'esperienza monastica d'Oriente e d'Occidente fanno di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l'unità vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra le Chiese.

Tra Parola ed Eucaristia

10 Il monachesimo in modo particolare rivela che la vita è sospesa tra due vertici: la Parola di Dio e l'Eucaristia.

Ciò significa che esso è sempre, anche nelle sue forme eremitiche, al contempo risposta personale a una chiamata individuale ed evento ecclesiale e comunitario.

È la Parola di Dio il punto di partenza del monaco, una Parola che chiama, che invita, che personalmente interpella, come accadde agli Apostoli.

Quando una persona è raggiunta dalla Parola, nasce l'obbedienza, cioè l'ascolto che cambia la vita.

Ogni giorno il monaco si nutre del pane della Parola.

Privato di esso egli è come morto, e non ha più nulla da comunicare ai fratelli, perché la Parola è Cristo, al quale il monaco è chiamato a conformarsi.

Anche quando canta con i suoi fratelli la preghiera che santifica il tempo, egli continua la sua assimilazione della Parola.

La ricchissima innografia liturgica, della quale vanno giustamente fiere tutte le Chiese dell'Oriente cristiano, non è che la continuazione della Parola letta, compresa, assimilata e finalmente cantata: quegli inni sono in gran parte delle sublimi parafrasi del testo biblico, filtrate e personalizzate attraverso l'esperienza del singolo e della comunità.

Di fronte all'abisso della divina misericordia al monaco non resta che proclamare la coscienza della propria povertà radicale, che diviene subito invocazione e grido di giubilo per una salvezza ancora più generosa, perché insperabile dall'abisso della propria miseria.27

Ecco perché l'invocazione di perdono e la glorificazione di Dio sostanziano gran parte della preghiera liturgica.

Il cristiano è immerso nello stupore di questo paradosso, ultimo di una infinita serie, tutta magnificata con riconoscenza nel linguaggio della liturgia: l'Immenso si fa limite; una vergine partorisce; attraverso la morte Colui che è la vita sconfigge per sempre la morte; nell'alto dei cieli un corpo umano si asside alla destra del Padre.

Al culmine di questa esperienza orante sta l'Eucaristia, l'altro vertice indissolubilmente legato alla Parola, in quanto luogo nel quale la Parola si fa Carne e Sangue, esperienza celeste ove essa torna a farsi evento.

Nell'Eucaristia si svela la natura profonda della Chiesa, comunità dei convocati alla sinassi per celebrare il dono di Colui che è offerente ed offerta: essi, partecipando ai santi Misteri, divengono "consanguinei"28 di Cristo, anticipando l'esperienza della divinizzazione nell'ormai inseparabile vincolo che lega in Cristo divinità e umanità.

Ma l'Eucaristia è anche ciò che anticipa l'appartenenza di uomini e cose alla Gerusalemme celeste.

Essa svela così compiutamente la sua natura escatologica: come segno vivente di tale attesa, il monaco prosegue e porta a pienezza nella liturgia l'invocazione della Chiesa, la Sposa che supplica il ritorno dello Sposo in un "marana tha" continuamente ripetuto non solo a parole, ma con l'intera esistenza.

Una liturgia per tutto l'uomo e per tutto il cosmo

11 Nell'esperienza liturgica, Cristo Signore è la luce che illumina il cammino e svela la trasparenza del cosmo, proprio come nella Scrittura.

Gli avvenimenti del passato trovano in Cristo significato e pienezza e il creato si rivela per ciò che è: un insieme di tratti che solo nella liturgia trovano la loro compiutezza, la loro piena destinazione.

Ecco perché la liturgia è il cielo sulla terra e in essa il Verbo che ha assunto la carne permea la materia di una potenzialità salvifica che si manifesta in pienezza nei Sacramenti: lì la creazione comunica a ciascuno la potenza conferitale da Cristo.

Così il Signore, immerso nel Giordano, trasmette alle acque una potenza che le abilita ad essere lavacro di rigenerazione battesimale.29

In questo quadro la preghiera liturgica in Oriente mostra una grande attitudine a coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel calore dei sentimenti che suscita nel cuore dell'umanità salvata.

Nell'azione sacra anche la corporeità è convocata alla lode e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più cari per esprimere la divina armonia e il modello dell'umanità trasfigurata,30 si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi.

Il tempo prolungato delle celebrazioni, la ripetuta invocazione, tutto esprime un progressivo immedesimarsi nel mistero celebrato con tutta la persona.

E la preghiera della Chiesa diviene così già partecipazione alla liturgia celeste, anticipo della beatitudine finale.

Questa valorizzazione integrale della persona nelle sue componenti razionali ed emotive, nell' "estasi" e nell'immanenza, è di grande attualità, costituendo una mirabile scuola per la comprensione del significato delle realtà create: esse non sono né un assoluto, né un nido di peccato e di iniquità.

Nella liturgia le cose svelano la propria natura di dono offerto dal Creatore all'umanità: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" ( Gen 1,31 ).

Se tutto ciò è segnato dal dramma del peccato, che appesantisce la materia e ne ostacola la trasparenza, questa è redenta nell'Incarnazione e resa pienamente teoforica, cioè capace di metterci in relazione con il Padre: questa proprietà è massimamente manifesta nei santi Misteri, i Sacramenti della Chiesa.

Il Cristianesimo non rifiuta la materia; la corporeità viene anzi valorizzata in pieno nell'atto liturgico, nel quale il corpo umano mostra la sua intima natura di tempio dello Spirito e giunge ad unirsi al Signore Gesù, fatto anch'egli corpo per la salvezza del mondo.

Né questo comporta una esaltazione assoluta di tutto quanto è fisico, perché conosciamo bene quale disordine abbia introdotto il peccato nell'armonia dell'essere umano.

La liturgia rivela che il corpo, attraversando il mistero della Croce, è in cammino verso la trasfigurazione, la pneumatizzazione: sul monte Tabor Cristo lo ha mostrato splendente come è volere del Padre che torni ad essere.

Ed anche la realtà cosmica è convocata al rendimento di grazie, perché tutto il cosmo è chiamato alla ricapitolazione nel Cristo Signore.

Si esprime in questa concezione un equilibrato e mirabile insegnamento sulla dignità, il rispetto e la finalità della creazione e del corpo umano in particolare.

Esso, rigettato parimenti ogni dualismo ed ogni culto del piacere fine a se stesso, diventa luogo reso luminoso dalla grazia e quindi pienamente umano.

A chi cerca un rapporto di autentico significato con se stesso e con il cosmo, così spesso ancora sfigurato dall'egoismo e dall'ingordigia, la liturgia rivela la via verso l'equilibrio dell'uomo nuovo e invita al rispetto per la potenzialità eucaristica del mondo creato: esso è destinato ad essere assunto nell'Eucaristia del Signore, nella sua Pasqua presente nel sacrificio dell'altare.

Uno sguardo limpido alla scoperta di sé stessi

12 A Cristo, l'Uomo-Dio, si volge lo sguardo del monaco: nel volto sfigurato di Lui, uomo del dolore, egli già scorge l'annuncio profetico del volto trasfigurato del Risorto.

All'occhio contemplativo il Cristo si rivela come alle donne di Gerusalemme, salite a contemplare il misterioso spettacolo del Calvario.

E così, formato a quella scuola, lo sguardo del monaco si abitua a contemplare Cristo anche nelle pieghe nascoste della creazione e nella storia degli uomini, essa pure compresa nel suo progressivo conformarsi al Cristo totale.

Lo sguardo progressivamente cristificato impara così a distaccarsi dall'esteriorità, dal turbine dei sensi, da quanto cioè impedisce all'uomo quella lievità disponibile a lasciarsi afferrare dallo Spirito.

Percorrendo questa strada egli si lascia riconciliare con Cristo in un incessante processo di conversione: nella coscienza del proprio peccato e della lontananza dal Signore, che si fa compunzione del cuore, simbolo del proprio battesimo nell'acqua salutare delle lacrime; nel silenzio e nella quiete interiore ricercata e donata, dove si apprende a far battere il cuore in armonia con il ritmo dello Spirito, eliminando ogni doppiezza o ambiguità.

Questo divenire sempre più sobrio ed essenziale, più trasparente a se stesso, può farlo cadere nell'orgoglio e nell'intransigenza, se arriva a ritenere che ciò sia il frutto del suo sforzo ascetico.

Il discernimento spirituale, nella continua purificazione, lo rende allora umile e mansueto, cosciente di percepire solo qualche tratto di quella verità che lo sazia, perché è dono dello Sposo, lui solo pienezza di felicità.

All'uomo che cerca il significato della vita, l'Oriente offre questa scuola per conoscersi ed essere libero, amato da quel Gesù che disse: "Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò" ( Mt 11,28 ).

A chi cerca la guarigione interiore, egli dice di continuare a cercare: se l'intenzione è retta e la via onesta, alla fine il volto del Padre si farà riconoscere, impresso com'è nelle profondità del cuore umano.

Un padre nello Spirito

13 Il percorso del monaco non è scandito in genere unicamente da uno sforzo personale, ma fa riferimento ad un padre spirituale, al quale si abbandona con fiducia filiale nella certezza che in lui si manifesta la tenera ed esigente paternità di Dio.

Questa figura dà al monachesimo orientale una straordinaria duttilità: per l'opera del padre spirituale il cammino di ogni monaco è infatti fortemente personalizzato nei tempi, nei ritmi, nei modi della ricerca di Dio.

Proprio perché il padre spirituale è il punto di raccordo e di armonizzazione, ciò consente al monachesimo la più grande varietà di espressioni, cenobitiche ed eremitiche.

Il monachesimo in Oriente ha così potuto essere realizzazione delle attese di ciascuna Chiesa nei vari periodi della sua storia.31

In questa ricerca l'Oriente insegna in modo particolare che ci sono fratelli e sorelle ai quali lo Spirito ha elargito il dono della guida spirituale: essi sono punti di riferimento preziosi, perché guardano con l'occhio di amore che Dio tiene su di noi.

Non si tratta di rinunciare alla propria libertà, per farsi gestire da altri: si tratta di trarre profitto dalla conoscenza del cuore, che è un vero carisma, per essere aiutati, con dolcezza e fermezza, a trovare la strada della verità.

Il nostro mondo ha un estremo bisogno di padri.

Spesso li ha rifiutati, perché gli sembravano poco credibili, o il loro modello appariva ormai superato e poco attraente per la sensibilità corrente.

Stenta tuttavia a trovarne di nuovi, e allora soffre nella paura e nell'incertezza, senza modelli e punti di riferimento.

Colui che è padre nello Spirito, se è veramente tale - e il popolo di Dio ha sempre mostrato di saperlo riconoscere -, non farà uguali a se stesso, ma aiuterà a trovare la strada verso il Regno.

Certo, anche all'Occidente è dato il dono mirabile di una vita monastica, maschile e femminile, che custodisce il dono della guida nello Spirito ed attende di essere valorizzata.

In quell'ambito e dovunque la grazia susciti tali preziosi strumenti di maturazione interiore, possano i responsabili coltivare e valorizzare un tale dono e tutti avvalersene: sperimenteranno così quale consolazione e quale sostegno sia la paternità nello Spirito per il loro cammino di fede.32

Comunione e servizio

14 Proprio nel progressivo distacco da ciò che nel mondo lo ostacola nella comunione col suo Signore, il monaco ritrova il mondo come luogo ove si riflette la bellezza del Creatore e l'amore del Redentore.

Nella sua orazione il monaco pronuncia una epiclesi dello Spirito sul mondo ed è certo che sarà esaudito, perché essa partecipa della stessa preghiera di Cristo.

E così egli sente nascere in sé un amore profondo per l'umanità, quell'amore che la preghiera in Oriente così spesso celebra come attributo di Dio, l'amico degli uomini che non ha esitato ad offrire suo Figlio perché il mondo fosse salvo.

In questo atteggiamento è dato talora al monaco di contemplare quel mondo già trasfigurato dall'azione deificante del Cristo morto e risorto.

Qualunque sia la modalità che lo Spirito gli riserva, il monaco è sempre essenzialmente l'uomo della comunione.

Con questo nome si è indicato fin dall'antichità anche lo stile monastico della vita cenobitica.

Il monachesimo ci mostra come non vi sia autentica vocazione che non nasca dalla Chiesa e per la Chiesa.

Ne è testimonianza l'esperienza di tanti monaci che, rinchiusi nelle loro celle, portano nella loro preghiera una straordinaria passione non solo per la persona umana ma per ogni creatura, nell'invocazione incessante affinché tutto si converta alla corrente salvifica dell'amore di Cristo.

Questo cammino di liberazione interiore nell'apertura all'Altro fa del monaco l'uomo della carità.

Alla scuola dell'apostolo Paolo che indica la pienezza della legge nella carità ( Rm 13,10 ), la comunione monastica orientale è sempre stata attenta a garantire la superiorità dell'amore rispetto ad ogni legge.

Essa si manifesta anzitutto nel servizio ai fratelli nella vita monastica, ma poi anche alla comunità ecclesiale, in forme che variano nei tempi e nei luoghi, e vanno dalle opere sociali alla predicazione itinerante.

Le Chiese d'Oriente hanno vissuto con grande generosità questo impegno, a cominciare dalla evangelizzazione, che è il servizio più alto che il cristiano possa offrire al fratello, per proseguire in molte altre forme di servizio spirituale e materiale.

Si può anzi dire che il monachesimo sia stato nell'antichità - e, a varie riprese, anche in tempi successivi - lo strumento privilegiato per l'evangelizzazione dei popoli.

Una persona in relazione

15 La vita del monaco dà ragione dell'unità che esiste in Oriente fra spiritualità e teologia: il cristiano, e il monaco in particolare, più che cercare verità astratte, sa che solo il suo Signore è Verità e Vita, ma sa anche che egli è la Via ( Gv 14,6 ) per raggiungere entrambe; conoscenza e partecipazione sono dunque un'unica realtà: dalla persona al Dio tripersonale attraverso l'Incarnazione del Verbo di Dio.

L'Oriente ci aiuta a delineare con grande ricchezza di elementi il significato cristiano della persona umana.

Esso è centrato sull'Incarnazione, dalla quale trae luce la stessa creazione.

In Cristo, vero Dio e vero uomo, si svela la pienezza dell'umana vocazione: perché l'uomo diventasse Dio il Verbo ha assunto l'umanità.

L'uomo, che conosce continuamente il gusto amaro del suo limite e del suo peccato, non si abbandona allora alla recriminazione o all'angoscia perché sa che dentro di sé opera la potenza della divinità.

L'umanità è stata assunta da Cristo senza separazione dalla natura divina e senza confusione,33 e l'uomo non è lasciato solo a tentare, in mille modi spesso frustrati, una impossibile scalata al cielo: vi è un tabernacolo di gloria, che è la persona santissima di Gesù il Signore, dove divino e umano si incontrano in un abbraccio che non potrà mai essere sciolto: il Verbo si è fatto carne, in tutto simile a noi eccetto il peccato.

Egli versa la divinità nel cuore malato dell'umanità e, infondendovi lo Spirito del Padre, la rende capace di diventare Dio per grazia.

Ma se questo ci ha rivelato il Figlio, allora a noi è dato di accostarci al mistero del Padre, principio di comunione nell'amore.

La Trinità santissima ci appare allora come una comunità di amore: conoscere un simile Dio significa sentire l'urgenza che egli parli al mondo, che si comunichi; e la storia della salvezza non è che la storia d'amore di Dio per la creatura che egli ha amato e scelto, volendola "secondo l'icona dell'icona" - come si esprime l'intuizione dei Padri orientali -,34 cioè plasmata ad immagine dell'Immagine, che è il Figlio, condotta alla comunione perfetta dal santificatore, lo Spirito d'amore.

E anche quando l'uomo pecca, questo Dio lo cerca e lo ama, perché la relazione non sia fratturata e l'amore continui a scorrere.

E lo ama nel mistero del Figlio, che si lascia uccidere sulla croce da un mondo che non lo riconobbe, ma è risuscitato dal Padre, quale garanzia perenne che nessuno può uccidere l'amore, perché chiunque ne è partecipe è toccato dalla gloria di Dio: è quest'uomo trasformato dall'amore che i discepoli hanno contemplato sul Tabor, l'uomo che noi tutti siamo chiamati ad essere.

Un silenzio che adora

16 Eppure continuamente questo mistero si vela, si copre di silenzio,35 per evitare che, in luogo di Dio, ci si costruisca un idolo.

Solo in una purificazione progressiva della conoscenza di comunione, l'uomo e Dio si incontreranno e riconosceranno nell'abbraccio eterno la loro mai cancellata connaturalità d'amore.

Nasce così quello che viene chiamato l'apofatismo dell'Oriente cristiano: più l'uomo cresce nella conoscenza di Dio, più lo percepisce come mistero inaccessibile, inafferrabile nella sua essenza.

Ciò non va confuso con un misticismo oscuro dove l'uomo si perde in enigmatiche realtà impersonali.

Anzi, i cristiani d'Oriente si rivolgono a Dio come Padre, Figlio, Spirito Santo, persone vive, teneramente presenti, alle quali esprimono una dossologia liturgica solenne e umile, maestosa e semplice.

Essi però percepiscono che a questa presenza ci si avvicina soprattutto lasciandosi educare ad un silenzio adorante, perché al culmine della conoscenza e dell'esperienza di Dio sta la sua assoluta trascendenza.

Ad esso si giunge, più che attraverso una meditazione sistematica, mediante l'assimilazione orante della Scrittura e della liturgia.

In questa umile accettazione del limite creaturale di fronte all'infinita trascendenza di un Dio che non cessa di rivelarsi come il Dio-Amore, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nel gaudio dello Spirito Santo, io vedo espresso l'atteggiamento della preghiera e il metodo teologico che l'Oriente preferisce e continua ad offrire a tutti i credenti in Cristo.

Dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata: la teologia, per poter valorizzare in pieno la propria anima sapienziale e spirituale; la preghiera, perché non dimentichi mai che vedere Dio significa scendere dal monte con un volto così raggiante da essere costretti a coprirlo con un velo ( Es 34,33 ) e perché le nostre assemblee sappiano fare spazio alla presenza di Dio, evitando di celebrare se stesse; la predicazione, perché non si illuda che sia sufficiente moltiplicare parole per attirare all'esperienza di Dio; l'impegno, per rinunciare a chiudersi in una lotta senza amore e perdono.

Ne ha bisogno l'uomo di oggi che spesso non sa tacere per paura di incontrare se stesso, di svelarsi, di sentire il vuoto che si fa domanda di significato; l'uomo che si stordisce nel rumore.

Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio che permetta all'Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi di comprendere quella parola.

Indice

10 Unitatis Redintegratio 17
11 Unitatis Redintegratio 15
12 S. Ireneo, Contro le eresie, V, 36, 2: SCh 153/2, 461;
S. Basilio, Trattato sullo Spirito Santo, XV, 36: PG 32, 132; XVII, 43, l.c., 148; XVIII, 47, l.c., 153
13 S. Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, XXXVII: PG 45, 97
14 Contro le eresie, III, 10, 2: SCh 211/2, 121; III, 18, 7, l.c., 365; III, 19, 1, l.c., 375; IV, 20, 4: SCh 100/2, 635; IV, 33, 4, l.c., 811; V, Pref., SCh 153/2, 15
15 Innestati in Cristo "gli uomini diventano dèi e figli di Dio, …la polvere è innalzata ad un tale grado di gloria da essere ormai uguale in onore e deità alla natura divina", Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, I: PG 150, 505
16 Giovanni Damasceno, Sulle immagini, I, 19: PG 94, 1249
17 Giovanni Paolo II, Redemptoris Mater 31-34;
Unitatis Redintegratio 15
18 S. Ireneo, Contro le eresie, II, 28, 3-6: SCh 294, 274-284;
S. Gregorio di Nissa, Vita di Mosè: PG 44, 377;
S. Gregorio di Nazianzo, Sulla santa Pasqua, or. XLV, 3-4: PG 36, 625-630
19 Unitatis Redintegratio 15
20 Giovanni Paolo II, Slavorum apostoli 9
21 Unitatis Redintegratio 11
22 Unitatis Redintegratio 21
23 "Divina eloquia cum legente crescunt": S. Gregorio Magno in Ezechiel, I, VII, 8: PL 76, 843
24 Dei Verbum 8
25 Commissione Teologica Internazionale, Interpretationis problema (ottobre 1989), II, 1-2: EnVat 11, pp. 1717-1719
26 Grande è stato l'influsso in Occidente della Vita di Antonio, scritta da S. Atanasio
La ricorda, tra gli altri, S. Agostino nelle sue Confessiones, VIII, 6
Le traduzioni di opere dei Padri orientali, tra le quali le Regole di S. Basilio: PG 31, 889-1305;
la Storia dei monaci d'Egitto: PG 65, 441-456, e gli Apoftegmi dei Padri del deserto: PG 65, 72-440 segnarono il monachesimo in Occidente.
Guglielmo di Saint-Thierry, Epistula ad Fratres de Monte Dei: SCh 223, 130-384
27 S. Basilio, Regola breve: PG 31, 1079-1305;
S. Giovanni Crisostomo, Sulla compunzione: PG 47, 391-422;
Omelie su Matteo, om. XV, 3: PG 57 , 225-228;
S. Gregorio di Nissa, Sulle beatitudini, om. 3
28 Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, IV: PG 150, 584-585;
Cirillo d'Alessandria, Trattato su Giovanni, 11: PG 74, 561; ibid., 12, l.c., 564;
S. Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo, om. LXXXII, 5: PG 58, 743-744
29 S. Gregorio di Nazianzo, Discorso XXXIX: PG 36, 335-360
30 Clemente di Alessandria, Il Pedagogo, III, 1, 1: SCh 158, 12
31 Significative sono, ad esempio, le esperienze di Antonio.
S. Atanasio, Vita di Antonio, 15;
S. Pacomio, Les vies coptes de saint Pakhôme et ses successeurs, ed. L. Th. Lefort, Louvain 1943, p. 3;
La testimonianza di Evagrio il Pontico, Trattato pratico, 100: SCh 171, 710
32 Giovanni Paolo II, Omelia ai Religiosi e alle Religiose, 6 ( 2 febbraio 1988 )
33 Symbolum Chalcedonense
34 S. Ireneo, Contro le eresie, V, 16, 2: SCh 153/2, 217; IV, 33, 4: SCh 100/2, 811;
S. Atanasio, Contro i Gentili, 2-3 e 34: PG 25, 5-8 e 68-69;
L'incarnazione del Verbo, 12-13: SCh 18, 228-231
35 Il silenzio ( "hesychia" ) è una componente essenziale della spiritualità monastica orientale.
Cfr. Vita e detti dei Padri del Deserto;
Evagrio il Pontico, Le basi della vita monastica: PG 40, 1252-1264