I servi di Cana

Capitolo 1

Laudato sì, mi Signore

cum tucte le tue creature

spetialmente messer lo frate sole

lo quale jorna, et allumini per lui

et ellu è bellu e radiante cum grande splendore,

de te altissimu,

porta significatione.

C'è nel nostro vivere il Cristianesimo sempre qualcosa di estremamente gelido.

La figura del Cristo diventa per troppi di noi come una specie di Scienza.

Una realtà da studiare, un fatto storico interessante perché incide nell'umanità da duemila anni.

Avvicinare il « Protagonista » dei Vangeli in termini differenti, con un'angolatura umana, realistica, vorrei dire corposa non è l'abitudine dei cristiani.

Si vive, certo, il messaggio con una volontà ben precisa, ma il Cristo che vi si incontra è così diafano, addirittura etereo. Normalmente non si bada a questo atteggiamento perché appunto l'aver trasformato in Scienza il Personaggio porta alla logica conseguenza di un rapporto religioso « a freddo ».

L'entusiasmo bruciante, il fuoco caldo dello Spirito creano perplessità, disturbano quella quiete interiore che da sempre sta alla base del nostro vivere la Parola di Dio.

L'atmosfera di tenerezza dà fastidio per chi si è costruito una religione cristiana esclusivamente tecnicizzata.

E di solito ci si tiene lontani, quando si è seri e concreti, da quel modo di esprimere il Cristo a colori che paiono sdolcinati.

Si ha timore di cadere in una mentalità puerile, o peggio senile se, chiudendo gli occhi, si ascolta l'anima usare la tenerezza, la delicatezza, la commozione nei confronti del falegname di Nazareth.

Eppure se ci fermiamo un attimo a pensare, se sospendiamo il nostro quotidiano e ricerchiamo con fredda determinazione la strada verso Cristo, ci accorgiamo con estremo stupore che nel più profondo del nostro esiste ancora una fiammella di nostalgia per un contatto « reale » con il Cristo, la nostalgia di un discorso con Lui che esca dai soliti canoni della vita e lasci via libera allo sfogo di questo destino nostro, l'essere uomini con un carico di mistero che grava in ogni istante sulle spalle.

Solitamente si fugge subito da questa strana sensazione.

Si ha paura di divenire alienati, preda di allucinazioni, spettatori angosciati di un sogno che finisce all'alba.

Ecco perché la « santità » non morde nella nostra vita.

Porta in sé qualcosa di troppo strano, inconcepibile per l'uomo che sta per vivere il terzo millennio cristiano.

L'Agiografia non trova molto spazio né nelle nostre biblioteche né fra le nostre letture proprio per quella sorta di panico indecifrabile che sfiora la pelle quando ci si sente a tu per tu con la figura solitaria del Cristo.

Sarà per questa ragione che il nostro Cristianesimo ha un suono troppo metallico e non è capace né di insaporire né di convincere la vita.

Si fa sempre uno sforzo di ogni senso per togliere al messaggio la sua tonalità di mansuetudine e di dolcezza.

Una colpa sconosciuta quindi ci nasconde e priva di quell'alone particolare che avvolge il Cristianesimo e il personaggio del Cristo.

Anche la nostra preghiera così spesso congelata rimane mutilata di questo legame autenticamente « religioso ».

Ed è difficile sbloccare una simile situazione, uscire fuori dalla struttura che si è precostruita.

Nasce il panico quando si deve affrontare Dio su un piano di « amicizia reale ».

Per noi che viviamo alla meno peggio il messaggio, pure ingolfati nel banale quotidiano, resta complicato inserire la Parola di Dio, il suo « verbo » fra le realtà dell'esistenza di tutte le ore.

Se ci pensiamo, si crea uno stacco ben preciso fra quello che per noi è « il concreto » e Dio.

L'Assoluto lo si preferisce in conclusione evanescente, appunto.

Così, quando si prende con decisione la via che conduce alla ricerca di un tracciato spirituale segnato dal passaggio di qualche testimone evangelico, si ha come l'impressione d'inoltrarsi in un sistema galattico completamente sconosciuto alle nostre facoltà, e soprattutto in un modo di pensare che non pare affatto in sintonia con il vivere di una persona normale.

Forse per questa ragione c'è nel mondo un immenso oceano di inimicizia nei confronti del Vangelo.

Proprio per quella sensazione di sbavatura che può derivare da una presentazione di « santità » o di rapporto con il Cristo intonato esclusivamente al mielato e quindi poco idoneo a essere inserito nella violenza di un'esistenza umana turbata da troppi conflitti morali e fisici, da paure a catena prodotte dalla immaturità della persona e dalla passionalità ubriaca dei potenti della terra.

Ma anche la « santità » è un fenomeno della vita.

C'è fra di noi chi ha il coraggio di prendere Dio sul serio e di tessere con Lui un'« amicizia reale ».

Sono figure e figure che costellano da due millenni il mistero del Corpo Mistico.

Figure che è indispensabile analizzare, avvicinare, capire.

Capire soprattutto.

Perché si tratta proprio di scoprire la grande ragione che ha scatenato in loro la scoperta « reale » di Dio, l'amicizia « reale » con Lui, l'appassionato abbandono al suo progetto.

Ogni testimone del messaggio porta con sé una ragione.

Tutto ciò costituisce il caleidoscopico firmamento della Chiesa che brilla nel tempo, oltre il tempo e si inabissa nell'eterno.

Un mondo particolare che non può essere escluso dalla nostra attenzione, specialmente quando ci si è impegnati in primo piano a ricercare e a vivere il grande tema del verbo.

Queste figure hanno un'incisività particolare.

Lasciano una traccia.

Rimane sempre qualcosa del loro passaggio.

È il « perché » di fondo che ci spinge ad accostarle.

La scoperta, in definitiva, della concretizzazione di un carisma che giunge direttamente dallo Spirito e ci lascia sbalorditi per la sua capacità di offrire in termini esatti sale e luce alla terra.

Avvicinare Fra Leopoldo Musso converso francescano, nato a Terruggia Monferrato nel 1850 e morto a Torino nel 1922, è come provare improvvisamente uno « choc ».

Non per la sua vita.

Modesta, silenziosa, umilissima.

Ma per il modo o lo stile di costruire un rapporto concreto con il Cristo.

Lo Spirito soffia veramente dove vuole.

Il suo vento caldo investe ogni destino e ne trae lo stupore estatico della Pentecoste.

Fra Leopoldo Musso ebbe come servizio nell'arco della sua vita religiosa di essere semplicemente un cuoco, un cuoco reale e concreto di convento.

Fra le sue marmitte si innesta e si sprigiona improvvisamente la « religione », il « legare insieme » cioè con Dio.

È la sua cucina che si trasforma in testimone muto di un dialogo impensabile, assurdo addirittura per noi, con quel Cristo che per troppi è soltanto Scienza, ma per chi ha capito diventa in un modo abbacinante vita ...

Lo stupefacente del Cristianesimo sta proprio in queste scelte « assurde » di Dio.

Pare quasi che la logica debba sparire per lasciare spazio sempre alla diversità che diventa « santità ».

Probabilmente sarà per questa parola « diversità » che si teme di affrontare il rapporto reale con Cristo.

Noi temiamo troppo la sua vicinanza, il suo trasfigurarsi, il suo svelarsi.

Abbiamo forse troppa paura di accettarlo come un Bene dell'esistenza, come un compagno di viaggio, un vero, concreto Protagonista della Storia.

Temo che spesso ci si costruisca un Cristo su misura, non lasciando spazio né alla sua Parola né alla sua Presenza.

Non è poi tanto impossibile credere di essere religiosi quando in realtà non lo si è affatto.

La cucina e le pentole di Fra Leopoldo capovolgono il nostro tranquillo, logico modo di vedere le cose.

Cancellano come una folata di vento tutti i segni stabiliti della nostra Scienza su Dio e ci affliggono dinanzi alla scoperta di un Cristianesimo scarno, semplice sino al midollo, ma capace di costruire colossi e di tracciare vie nuove.

Un Cristianesimo che sboccia all'improvviso dove uno meno se lo aspetta.

La traccia del passaggio di Fra Leopoldo Musso, il solco iniziato dalla sua vita noi lo possediamo in quella realtà che si chiama « L'Adorazione a Gesù Crocifisso », « L'Unione Catechisti », la « Casa di Carità Arti e Mestieri » e il Diario che lasciano perplessi tutti noi per la singolarità della loro origine e del loro significato.

Ancora una volta si tratta di fissare l'attenzione sulla « ragione », il grande « perché » che ha mosso lo Spirito a intrecciare un rapporto di concretezza con il cuoco di un convento francescano.

Esistono nel Cristianesimo figure dominanti, ad alto livello di sapienza e di santità.

E tuttavia anche nella grandiosità di questa luminosa costellazione c'è sempre da rimanere stupiti, abbacinati dalla trama misteriosa che l'Amore di Dio tesse per unirsi in continuazione all'uomo che ha redento.

Accanto ai nomi che rimbalzano da secoli sulle labbra di tutti, compaiono, come una scoperta nuova, i volti, i gesti, le parole, la testimonianza di creature apparentemente silenziose ma che Dio ha trasformato in messaggio.

Più mi fisso a pensare alla Chiesa, più mi rendo conto che essa possiede in sé la capacità di rinnovarsi, di offrire in continuazione stimoli, entusiasmi provocatori, desideri e speranze giovani che elettrizzano e ancora una volta ripropongono in termini precisi l'esperienza vivissima del Cristo.

Fra Leopoldo Musso incontrerà un giorno un Fratello delle Scuole Cristiane: Fratel Teodoreto Garberoglio.

Ed è con Fratel Teodoreto che assicura la fune della « Religione », quel legame insieme che riconduce, anche se con profonda sofferenza, alla « Sorgente » !

Esiste questo fenomeno continuo nella Chiesa di Cristo: lo scossone che riporta necessariamente all'origine di tutto il messaggio, lo stupefatto scoprire che anche per noi è possibile provare il brivido di Pietro, di Giovanni, di Maddalena, di Paolo, dei discepoli di Emmaus.

Fra Leopoldo scopre a un tratto Cristo come esperienza.

Ne fa partecipe Fratel Teodoreto.

L'innesto del lirismo francescano nella stupenda freschezza lasalliana fonda l'amicizia.

È su questo « bene », su questo « dono », su questa « lode » che viene seminata la grande speranza affidata nuovamente a uno sparuto gruppo di discepoli.

Fratel Teodoreto fonderà l'Unione Catechisti del SS. Crocifisso e di Maria SS. Immacolata.

Torna alla mente San Tommaso d'Aquino nella sua sublime interpretazione dell'Etica a Nicomaco di Aristotele.

Nel Libro VIII di quell'opera il Dottore Angelico proclama: « Amare: haec est laus amantium » (« Amare: questa è la lode di coloro che si amano »).

È stupenda questa definizione, questo modo di sentire e respirare cristianamente la vita.

Fra Leopoldo Musso scopre senza essere né teologo né filosofo questa suprema realtà nella sorgente stessa del Vangelo.

La grande « ragione », il « perché » si rivela nella Croce, anzi in quel Corpo che viene straziato sulla Croce, in quella terribile cosa che fu e che è la morte di Cristo.

Non c'è amore più grande.

L'aveva detto Cristo stesso.

E non c'è quindi lode più alta, inno più commovente, impegno più profondo della invocazione di quel Ragazzo che muore gridando: « Perché mi hai abbandonato? »

È qui che si blocca tutto.

È qui che la cucina di Fra Leopoldo si trasforma in cattedra.

Penetrare in quella parentesi di tempo in cui il Cristo scopre la sua tremenda solitudine sulla Croce.

Tutto si incentra in questo spazio, in questo spasimo quasi tinteggiato da colori foschi.

Non ci si pensa quasi mai.

Eppure il Padre ha voluto che il Figlio testimoniasse il supremo atto d'amore in quello spazio, catena interminabile di minuti.

Tutto acquista significato in quella spaventosa domanda del Cristo che si rivolge al Padre, ma con profonda amarezza anche all'uomo.

Una domanda che invoca una risposta concreta, una risposta da parte di chi è capace di intendere in un modo profondo il senso di quel Corpo crocifisso.

Il Cristianesimo ha la sua realtà più forte in questo spazio di abbandono, in questa domanda che il Cristo, l'« eternamente Giovane » come lo definirà il Concilio Ecumenico Vaticano II, pone al Padre e all'uomo.

C'è un realismo crudele in questo spazio.

E non a caso la Croce è divenuta il simbolo dei cristiani.

Il messaggio tramandato nel tempo di generazione in generazione grida quella solitudine, e chiede all'umanità di non dimenticare.

È questo spazio che mette paura in fondo all'anima e che costruisce direi quasi l'urgenza di volgere lo sguardo altrove e di vedere quindi un Cristo differente, ben diverso da quella « cosa » orribile che gli occhi di Maria e di Giovanni videro.

Nella grande architettura cristiana la Croce acquista adagio adagio tonalità più limitate, meno brutali.

Ma c'è sempre un colpo d'ala improvviso che ripropone la Verità.

Stiamo vivendo un momento storico semplicemente affascinante a livello di Chiesa.

Contrasti e grandi bagliori, momenti forti che lanciano sempre là, sul Calvario, sotto quella Croce.

E uno è obbligato a chinare la testa, a pensare per un attimo al radicalismo cristiano, in definitiva all'essenziale.

Stiamo vivendo il tempo della Crocifissione come esperienza nel Corpo della Chiesa stessa.

È il momento in cui, al di là di ogni bizantinismo, siamo pressati a guardare in faccia « l'uomo dei dolori ».

A ricordare la pagina dolorosa del Vangelo di Giovanni in cui si fissa per sempre l'attimo del colpo di lancia inferto al Costato del Maestro.

« Giunti a Gesù, vedendolo già morto, non gli spezzarono le gambe ma uno dei soldati gli trafisse il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua.

E chi ha veduto ne dà testimonianza, e la sua testimonianza è veritiera, ed egli sa che dice il vero, affinché anche voi crediate.

Questo, infatti, accadde perché si adempisse la Scrittura: "Non gli sarà spezzato un solo osso "; e ancora un'altra Scrittura dice: " Vedranno colui che hanno trafitto " » ( Gv 19,35-36 ).

Come non si può dimenticare la profezia di Zaccaria: « Sulla casa di David e sugli abitanti di Gerusalemme verserò uno spirito di pietà e di implorazione; guarderanno a colui che avranno trafitto e faranno il lamento per lui come nel lamento per un figlio unico, faranno amaro cordoglio per lui come nel cordoglio per un primogenito » ( Zc 12,10 ).

Tutto ciò per giungere alla convinzione che è necessario dare una risposta precisa, che potremmo anche definire riparazione, a quanto è successo quel venerdì che la Storia ha poi chiamato « santo ».

Giovanni Paolo II, Vicario del Crocifisso, ha offerto alla Chiesa che sta per sbocciare nel suo terzo millennio una testimonianza vivida e cruenta del « come » e del « perché » essere cristiani oggi.

L'attentato in Piazza San Pietro riporta con violenza che crede al mistero della presenza dell'odio che continua nel tempo la sua lotta contro l'Amore.

L'odio che vuole annullare nel silenzio la « Parola ».

Ma la « Parola » continua a essere Carne e ad abitare in mezzo a noi.

C'è tutto un discorso di fondo da illuminare in pieno in queste briciole di tempo che ci separano dal Duemila.

Il Vicario di Cristo che ricorda Gesù di Nazareth come Redentore, « Ricco di misericordia » e che, in 31 paragrafi di una Lettera Apostolica, scrive la sinfonia della Sofferenza.

La Chiesa di oggi che rivive la propria giovinezza dopo un Anno straordinario dedicato alla Redenzione, trova stranamente la propria forza nel dolore.

È appunto al dolore che il Papa si riferisce « con trepido rispetto ».

Questa Lettera, conosciuta come la Salvifici doloris, sottolinea come « la Redenzione si è compiuta mediante la Croce di Cristo, ossia mediante la sua sofferenza ».

La data del documento è l'11 febbraio 1984, memoria liturgica della Immacolata di Lourdes, testimone dolorosa di una tragedia che ha le sue radici più profonde nella brutalità del cuore umano.

Il punto centrale della situazione cristiana viene espresso nella « ricerca della risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza ».

il Papa afferma che nel Crocifisso, il quale portò con sé la stessa domanda che fu di Giobbe e di tutti i sofferenti, c'è pure « il massimo della possibile risposta a questo interrogativo ».

La puntualizzazione della questione viene posta nella preghiera del Getzemani: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!

Però non come voglio io, ma come vuoi tu ».

Tali parole « provano la verità dell'Amore mediante la verità della sofferenza ...

La sofferenza è un subire il male davanti al quale l'uomo rabbrividisce ».

Ancora una volta il tema dell'abbandono, il senso più straziante della solitudine di Cristo.

È in tale contesto che si innesta stupendamente l'avventura terrena del fratello converso francescano cuoco del Convento di San Tommaso a Torino.

« Se Fra Leopoldo - scrive l'indimenticabile e amato domenicano Padre Ceslao Pera - avesse seguito il suo istinto " carismatico " e piantate le marmitte avesse preso l'atteggiamento del " fondatore ", avrebbe combinato una bella frittata, uscendo dal seminato, saltando il muro con lo slancio della superbia camuffata di libertà, con l'ambizione della vanagloria camuffata di misticismo.

E sarebbe stato un gran pasticcio non degno di un Cuoco a servizio di Dio secondo la regola del Santo Padre Francesco ».

La vivacità toscana di Padre Pera si sente sino in fondo e sottolinea bene la sapienza di Fra Leopoldo Musso nel mettersi a disposizione del Cristo nella sua cucina, pronto per l'esperienza di riparazione nei confronti del Crocifisso.

Se la lode di coloro che si amano è amare, Fra Leopoldo ama.

E in questa realtà che gli fa rivivere il tema delle Beatitudini offre « a suo modo », con i mezzi che ha a disposizione, la sua risposta al dolore di Cristo.

Fra Leopoldo scopre che la sofferenza umana, con la passione di cristo, si presenta in un modo nuovo, viene innalzata a livello di redenzione.

Per cui ogni uomo è chiamato a partecipare a quella sofferenza, cioè a esperimentare quello spazio terrificante di abbandono in cui il Cristo compie la Redenzione.

Ci sono le parole di Paolo, l'uomo sconvolto dalla « ragione » della Croce sulla via di Damasco: « partecipi delle sofferenze di Cristo, noi portiamo nel nostro corpo la morte di Cristo, affinché la sua vita si manifesti nel nostro corpo ».

Come rispondere compiutamente a questo inaudito progetto che lega l'uomo a Dio?

Sarà l'interrogativo di sempre.

La Chiesa vi ha riflettuto ieri, oggi, e se lo porrà ancora nel tempo perché è difficile accettare di partecipare alla Redenzione.

Giovanni Paolo II sottolinea « il carattere creativo della sofferenza » in quanto ciascuno di noi completa « a suo modo » la sofferenza redentrice.

Al punto che « quel senso salvifico scende a livello dell'uomo e diventa, in qualche modo, la sua risposta personale ».

Senza forse si riesce a capire finalmente la grande « ragione » d'essere del Cristianesimo nel mondo.

Ma si capisce anche la grande fuga del mondo dal Cristianesimo, l'ostilità alla redenzione come riconquista dell'uomo.

E il nostro tempo sottolinea fortemente questa ostilità, preferendo l'uomo svuotato, privato di ogni capacità di comprendere il proprio compito nell'arco dell'avventura terrena.

L'uomo nemico dell'uomo, l'uomo che deride l'uomo, l'uomo che costruisce la morte dell'uomo.

Ancora l'eco di Paolo: « ... portiamo nel nostro corpo la morte di Cristo, affinché la sua vita si manifesti nel nostro corpo ».

Parole che fanno paura.

E dipingono a caratteri forti, se ce ne fosse bisogno, il grande motivo della fuga dei discepoli dinanzi al Crocifisso, il tradimento di Pietro primo Papa della Storia, dinanzi all'orrore di partecipare dal vivo alla Redenzione.

Si spiega come la Chiesa soffra di contrasti e si inabissi in continuazione fra chiari e oscuri.

Tutto viene sempre riferito alla « Sorgente ».

E la « Sorgente » è quel Corpo crocifisso che stigmatizza, per cui vuole giungere al nocciolo della questione, la cattiva volontà dell'uomo a ricostruire la sua stessa immagine.

Sembra strano che un messaggio di tale portata venga percepito in modo così incisivo da un cuoco francescano nei primi decenni del '900, in una cucina di convento.

Ma sotto lo sguardo di Dio nulla avviene di casuale.

Fa riflettere che il rapporto fra Dio e lo sconosciuto converso avvenga in una città come Torino.

Ma è qui che il mistero della Provvidenza ha depositato come in un grande e variegato reliquiario umano la terribile prova del Crocifisso: la Sindone.

Fra Leopoldo è attratto da quella prova.

Vi passa accanto lunghe ore per riflettere in profondità su quel momento, o spazio, che ha capovolto il mondo.

Ci deve essere stata una specie di sintonia tra il lenzuolo sacro e il cuoco del Convento di san Tommaso.

E di una cosa possiamo essere certi.

Il dramma della Passione si inserisce attraverso la « prova » del Crocifisso in un modo indelebile nell'anima e in tutte le fibre di Fra Leopoldo.

Nasce una tenerezza traboccante di simpatia, desiderio di vicinanza, di comprensione e partecipazione al problema di quel Gesù che la Storia condanna a morte fuori della città.

C'è un'urgenza riparatrice che freme nell'intimo del converso francescano.

Qualcosa gli dice che ciò che è da farsi è ripartire da quella traccia, immettersi nel grande fiume di quella sofferenza.

Riportando il proprio Cristianesimo alla sorgente solitaria del Calvario, Fra Leopoldo improvvisamente scopre il senso e il valore dell'uomo.

Ognuno di noi può incidere profondamente in sé e negli altri se accetta di affrontare la collaborazione con il tema della Croce.

È sconvolgente scoprire che ogni cristiano ripete « a suo modo » un brano della Redenzione.

Ed è ancora più sconvolgente accettare volutamente di riconoscere la propria sofferenza come capacità redentiva.

È indubbio che la Sindone di Torino abbia avuto un ruolo travolgente nella personalità di Fra Leopoldo, al punto di creare in lui uno spasimo continuo perché il mondo da cui era circondato non si accorgeva della « ragione » della presenza di quella traccia.

L'intreccio di amicizia con Fratel Teodoreto rompe, in un certo senso, gli argini della riflessione personale.

L'esperienza individuale, il turbamento dell'anima vengono condivisi con l'amico.

Il tema della « Riparazione » valica i chiostri francescani e si inserisce nel cuore dei Fratelli delle Scuole Cristiane.

C'è questa novità da sottolineare, questo offrire una sapienza preziosa senza invidia, perché serva a molti, a innumerevoli esseri.

Chi meglio dei Fratelli Lasalliani poteva essere il destinatario di una simile scoperta?

Generazioni di giovani passavano nelle loro Scuole e in questo campo fertilissimo e pieno di entusiasmo Fra Leopoldo, tramite l'azione di Fratel Teodoreto, semina ciò che l'uomo della Sindone offre.

E l'offerta captata prima nel silenzio della contemplazione diviene ora parola fisica, esperienza vissuta in prima persona della sofferenza del Cristo.

Il Maestro di Nazareth finalmente parla.

L'interlocutore è Fra Leopoldo.

Il fenomeno non è inconsueto nella Chiesa che vive intensamente sulla scia della Redenzione.

Ma impressiona sempre il sapere che la « Parola » continua nel tempo la sua missione e spinge le creature umane verso traguardi insperati.

Alla normalità e alla logica del nostro Cristianesimo quotidiano crea fastidio o imbarazzo questo sentire che Dio comunica fisicamente con qualcuno.

Siamo immediatamente tentati di negare il fatto, di rifugiarci nelle moderne espressioni che si rifanno ad allucinazioni o alle turbe psichiche dei personaggi.

Esiste una specie di disprezzo per tutto ciò che riguarda il rapporto corposo fra Dio e l'uomo.

Abituati alla Scienza di Dio, ci è difficile accettare la tenerezza o se vogliamo addirittura, in questo caso, la debolezza di Dio.

È l'eterno problema di non capire che Dio agisce in un modo « diverso » da noi e che la sua vita preme sulla nostra per avere diritto al proprio spazio di Protagonista e di Maestro.

Per cui ci prende la timidezza, quasi un pudore panico, un senso profondo di incredulità e di derisione nel confronto del « privilegio » che trasforma in strumenti divini creature definite prive di successo.

Non ci piace parlarne.

O la cosa è seria, appoggia su un piedestallo scientifico e viene distanziata per bene dalla nostra esistenza, oppure non se ne fa assolutamente niente.

A Fra Leopoldo Musso e al suo messaggio è successo così.

L'identico modo di Massabielle e Fatima, la cocciuta ostilità che ha avvolto Padre Pio da Petralcina, testimonianza cruenta del Crocifisso, l'ironia che punge tutto ciò che ha sapore di simpatia da parte di Dio nei confronti dell'uomo ...

Per poter affrontare e capire ciò che avvenne nell'anima e nella vita di Fra Leopoldo è indispensabile inoltrarsi in quel Diario che, per consiglio del Canonico Ermando Bracco e di Fra Giovanni Caneparo dei Sacramentini, egli scrisse a incominciare dalla vigilia di Natale del 1907.

« Mi fu di pena ascoltare i loro consigli », dice Fra Leopoldo, « perché troppo meschino è il mio sapere, ma poi mi arresi e diedi ascolto ai loro saggi suggeirmenti.

E prima di pormi a scrivere, sapendo che ben miseramente riesco a farmi intendere, mi prostrai ginocchioni per terra recitando il" Veni Sancte Spiritus " affinché la divina bontà dello Spirito Santo mi venisse in aiuto ».

Sulle pagine vengono fissati i momenti e le esperienze che il cuoco di San Tommaso vive nella lenta scoperta della Redenzione.

Nulla di clamoroso.

Tutto ha un sapore di raffinata delicatezza.

Ciò che colpisce è la spontaneità, la normalità di quanto accade.

Per Fra Leopoldo non esiste lo « straordinario » ma la completezza della vita perché Dio si svela Amico.

È questa amicizia che gli interessa e che non vuole perdere più.

« Una mattina, nella Chiesa di San Dalmazzo, ero ansioso di ricevere la S. Comunione e, appena l'ebbi ricevuta, sento il mio buon Gesù dirmi: " Fra me e te, in avvenire, ci sarà una grande intimità " ». ( 1893 )

Il messaggio viene dunque annunziato e trasmesso attraverso una profonda, intima simpatia che lascia sbalorditi.

Il rapporto tra il Crocifisso e Fra Leopoldo nasce su una promessa divina ben sottolineata.

E l'atmosfera è già chiara sin dall'origine.

Grande intimità

Il che vuol dire luce.

Fra Leopoldo spalanca se stesso a questo sole che ha incontrato a un bivio della vita.

Ne vuole essere invaso.

Con quella luce e con la gioia che ne deriva vuole costruire qualcosa per trasmettere « a suo modo » agli altri il grande tema dell'uomo.

« Grande intimità », un'espressione che arriva dal cuore dello stesso Crocifisso.

Fra Leopoldo è raggiante per questa confidenza divina.

Cerca di afferrare tutto il significato del desiderio d'amore che nasce dalla richiesta del suo Signore.

Un atto di decisione si impone.

È necessario contraccambiare il Cristo.

Offrire al Maestro una risposta che sia all'altezza di una simpatia e di un'amicizia che abbia finalmente qualcosa di concreto, qualcosa che metta le radici nella verità di ogni uomo e in ogni giorno.

Fra Leopoldo, di fronte alla grande intimità offerta dal Crocifisso, comprende che è indispensabile porsi sul cammino del contraccambio d'amore.

Non è possibile lasciare il Cristo solo con il suo immenso dono senza offrire almeno una manciata anche piccola della propria avventura terrena.

Un'affermazione del Crocifisso che Fra Leopoldo fisserà sulle pagine del Diario mette in luce in un modo immediato la risoluzione del cuoco di San Tommaso: « Tu ami me. Io amo te ». ( 27 settembre 1908 )

Il Cristo si rivela nella sua totale dedizione d'amore verso il destino di ogni uomo.

Fra Leopoldo sottolinea le parole del Crocifisso e non pare neppure stupito quando la voce divina sussurra: « Leopoldo, sei contento di me? » ( 19 ottobre 1908 )

Entra in campo un clima di normalità, un filo logico conduttore di un discorso appassionante che nel cammino spirituale dell'umile francescano giunge a delle vette strepitose di autentica Mistica.

Fra Leopoldo è contento di Dio?

Sembra quasi di sentire dell'umiltà di Dio, addirittura della mendicità alla quale Dio si riduce per affermare la necessità del recupero del tema della carità.

Fra Leopoldo non ha dubbi.

L'amore ha la sua sorgente nel cuore stesso di Dio.

Ciò che più lo sconvolge è il dover riconoscere che Dio ama e ha amato anche quando l'uomo non lo ama.

Si tratta di annunziare questo messaggio dimenticato.

Recuperare appunto la carità perché non si può amare se non si è amati.

Dio non può essere abbandonato nella propria solitudine amorosa senza una risposta definitiva, decisiva da parte di un uomo che vuole autenticamente partecipare alla vita.

Indice