Giornalista

IndiceA

Sommario

I.Profilo socio-culturale:
1. Informazione e interpretazione;
2. Un po' di storia;
3. La fisionomia del giornalista;
4. Il giornale oggi.
II.Crescita e crisi del giornalismo cattolico:
1. Dal 1860 al 1900;
2. Nel primo Novecento;
3. Dentro la storia o contro?;
4. Crisi e giudizio teologico.
III.Profilo spirituale:
1. Imitatori di s. Paolo;
2. Colleghi dei pastori-comunicatori;
3. Interiorità.

I - Profilo socio-culturale

1. Informazione e interpretazione

« Giornalismo - spiegano le enciclopedie - è tutto ciò che riguarda i giornali o i giornalisti ».

In realtà, sotto la voce giornalismo rientra oggi una gamma molto più ampia di interessi, di rapporti politici, di fatti sociali.

Il giornalismo si pone ormai come uno dei fenomeni centrali delle moderne società avanzate e tende per certi aspetti ad assumere un ruolo di sintesi culturale, legata all'incessante rielaborazione del dato quotidiano, come punto di riferimento essenziale nel divenire della vita comunitaria.

Proprio per queste sue caratteristiche - e per la ricchezza dei mezzi di diffusione - il giornalismo tende a superare il semplice riferimento informativo per assumere, proprio attraverso la complessità e l'ampiezza di un continuo confronto della notizia con una realtà più complessa e unitaria, anche una funzione di orientamento generale, che concorre senz'altro a determinare le grandi correnti di opinione.

In questo senso, nel giornalismo sono distinguibili due momenti concomitanti: l'informazione e la sua interpretazione.

Se l'ideale giornalistico di Girardin - direttore del primo grande giornale di massa nato in Francia nel secolo scorso - è quello di "riferire obiettivamente" gli avvenimenti, oggi a questa necessità basilare ( nessun giornale del resto potrebbe avere fortuna se alterasse sistematicamente il dato informativo ) si aggiunge l'esigenza di offrire anche una chiave interpretativa in cui si riflettono - sia pure talvolta inconsciamente - la personalità del giornalista, il suo modo di pensare e di vedere le cose, i suoi orientamenti politici, le sue convinzioni.

2. Un po' di storia

Il giornalismo moderno d'altronde è il punto di incontro fra questi due aspetti che caratterizzano l'intera storia del giornalismo, che possiamo datare al principio del '600, con la nascita delle prime "gazzette" a periodicità regolare, diffusesi rapidamente in Belgio, in Germania, in Inghilterra, in Francia e alle quali si accompagna - come espressione più personalizzata e rielaborata della notizia - il diluvio di "pamphlets", di opuscoli, libelli e mercuriali, in cui si frazionavano, secondo i vari settori, le correnti di informazione e di opinione dell'epoca.

Ma dobbiamo arrivare alla metà dell' '800, che segna la nascita della stampa popolare a grande tiratura, per cogliere il formarsi di una "coscienza professionale", che emerge ad es. chiarissima - verso il 1850 negli U.S.A. - attraverso le polemiche, nate insieme ai "penny papers" ( giornali da un penny ), fra il direttore del New York Herald che lanciava la stampa a sensazione a sfondo più o meno scandalistico, e il direttore del New York Tribune, Horace Greeley - uno dei grandi nomi del giornalismo americano -, fautore di un giornalismo d'opinione, riflessivo e pacato.

Era l'epoca in cui in Francia i più grandi nomi della letteratura - da Hugo a Lacordaire, da Dumas a Balzac - erano particolarmente attivi nel campo giornalistico; in Inghilterra, Charles Dickens era la firma di maggior spicco del Daily News e in Italia il giornalismo viveva soprattutto attraverso l'impegno intellettuale e civile di uomini come Gaspare Gozzi, Spaventa, Scarfoglio, Scialoja.

Giornalismo romantico e libertario, che, difendendo il proprio diritto ad esistere ed esprimersi, creava di fatto anche le premesse di una nuova democrazia e delle grandi libertà individuali e sociali delle moderne società avanzate.

Oggi certamente il giornalismo - con l'avvento delle grandi agenzie di informazione internazionali e nazionali, la ricchissima rete per la raccolta e la trasmissione delle notizie, la contemporaneità in ogni angolo della terra dell'accesso ai grandi avvenimenti e alle fonti informative - offre una base largamente omogenea e obiettivizzata dell'informazione, che tende quindi a standardizzarsi anche attraverso il progressivo processo di industrializzazione e concentrazione dei mezzi di trasmissione, siano essi per immagini - come per la televisione e il documentario - o attraverso quotidiani e periodici.

Sul piano tecnico-informativo il giornale tende a diventare sempre più il prodotto di équipes anonime, favorito in ciò dalla straordinaria accelerazione tecnologica nel settore della fotocomposizione elettronica e della stampa, con la possibilità di teletrasmettere in pochi minuti in qualsiasi punto le pagine già composte.

Nasce proprio da questa circostanza l'esigenza di caratterizzare meglio il giornale sul piano di un impegno culturale e - in senso lato - politico, che si esprime attraverso l'apporto di qualificati commentatori.

Soprattutto il giornalismo americano ci offre l'esempio di una rivalutazione del "columnist" che ridiventa - su una base informativa sostanzialmente omogenea e intercambiabile, e derivante da fonti unificate e comuni, cioè le grandi agenzie - l'elemento originale e qualificante del quotidiano e del periodico.

È soprattutto in questo aspetto che la professione del giornalista, genericamente ispirata ai principi della obiettività e della lealtà informativa, assume e riacquista anche il valore di una testimonianza diretta e personale degli eventi, del loro significato, delle loro interrelazioni politiche e sociali, attingendo per ciò stesso al campo della morale e della psicologia individuale e di massa, come espressione di un dato socio-culturale in grado di influenzare in vario modo la pubblica opinione.

3. La fisionomia del giornalista

L'art. 2 della legge italiana del 3 febbraio 1963 n. 69, istitutiva dell'ordine dei giornalisti, definisce in questa semplice proposizione i "diritti e doveri" della professione: « È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede ».

Non c'è dubbio che già in questa definizione - che tende a superare il concetto elementare di "obiettività informativa" - è insito un riferimento di natura morale: non si parla infatti di "informazione" bensì di « verità sostanziale dei fatti », dando con ciò stesso alla professione giornalistica una dimensione ed una responsabilità che toccano direttamente i valori morali.

È abbastanza evidente l'intenzione del legislatore di stabilire un principio nel quale possano riconoscersi sia il cronista legato alla stretta attualità degli avvenimenti, sia il commentatore che di questi - soprattutto nei loro aspetti politici e sociali - cerca di offrire al lettore una propria interpretazione.

In effetti, nella sua espressione più completa e qualificata, il giornalista non può essere un semplice registratore di fatti, ma diventa quasi inevitabilmente il tramite intellettuale tra il lettore e l'evento, la cui descrizione non può non coinvolgere in forma più o meno diretta ed esplicita la sensibilità personale, le concezioni particolari, l'apporto culturale del redattore.

In Italia - dove la situazione dei quotidiani pur rivela carenze e ritardi di varia natura, sia tecnici che culturali - è venuta tuttavia affermandosi una categoria giornalistica fortemente impegnata sul piano politico e civile, sia attraverso la stampa più propriamente di opinione, come diretta espressione dei vari partiti, sia attraverso la politicizzazione delle testate.

Ne è riprova la stessa nascita di nuove iniziative editoriali - come Il Giornale di Milano o La Repubblica di Roma - che, pur proponendosi come stampa genericamente indipendente, nascono in realtà attorno ad una propria concezione e scelta politica e culturale precisa, attraverso cui il quotidiano sceglie deliberatamente i propri lettori cercando di interpretarne e orientarne gli interessi e gli indirizzi particolari.

In questa sua funzione di raccordo e di tramite, il giornalista è portato ad assumere una fisionomia specifica ed una funzione che è insieme di interprete e di protagonista, e che sarà tanto più efficace quanto più egli saprà affinare quelle indispensabili doti di sensibilità e di agilità intellettuale che dovrebbero essere alla base dell'impegno professionale.

In questo giovano certamente non soltanto la specifica preparazione culturale del giornalista, il suo gusto, la sua capacità di aderire al fatto descritto ( secondo la formula tomistica secondo cui « veritas est adaequatio intellectus rei » ), ma una sua visione globale dei termini di riferimento, concettuali ed esistenziali.

In questo senso non mancano evidentemente anche forme deteriori di giornalismo, in quanto esse siano espressione - o si rivolgano esplicitamente - ad ambienti e manifestazioni di sottocultura, che presentano oggi una gamma senz'altro vasta e articolata del mondo giornalistico.

Ma in ogni caso il giornalismo riassume in sé - in senso positivo o negativo - una funzione e un impegno anche morali, in grado cioè di influire sui comportamenti e sulle scelte.

Possiamo distinguere tra varie forme di giornalismo: quello dichiaratamente politico, quello di opinione, quello più propriamente informativo, quello scandalistico, quello di evasione o specializzato secondo i vari settori dall'economia alla motoristica, dalla stampa sexy alla pubblicistica sociale.

Il filo conduttore è sempre la presenza del giornalista come intermediario fra una certa visione della realtà - per quanto essa possa apparire in qualche caso limitativa e carente - e un destinatario, che è il lettore.

Nel passaggio dall'evento alla sua illustrazione si determina, attraverso la partecipazione del giornalista, una specie di « valore intellettivo aggiunto » in cui si esprime la professionalità.

Questo "valore aggiunto" - che può essere di segno positivo o negativo, dal punto di vista di una morale soggettiva - varia evidentemente di intensità a seconda della notizia, dell'argomento trattato, dell'apporto culturale del giornalista, delle sue facoltà introspettive: ma non c'è dubbio che esso è sempre presente come elemento caratterizzante dell'attività giornalistica.

Proprio l'industrializzazione e la commercializzazione sotto vari aspetti della notizia, attraverso il fitto reticolo delle agenzie che offrono a tutti gli organi di stampa - siano grandi o piccoli, a carattere nazionale o locale, a grande o limitata diffusione - una identica base informativa, tendono a far emergere sempre più il giornalista individualmente dotato.

La stessa televisione - che si basa essenzialmente sull'informazione per immagini - sente il bisogno, nelle sue espressioni più mature come ad es. negli U.S.A., di completare la testimonianza documentaristica con l'interpretazione e il commento dello specialista.

In questa dimensione, il giornale e il giornalista riacquistano quindi una funzione che sembrava destinata a disperdersi: quella di essere un punto di riferimento più meditato per una migliore comprensione dell'evento e dei suoi collegamenti sociali, politici e in senso lato anche storici.

In questa funzione spetta evidentemente al giornalista porsi all'altezza di un compito che potremmo definire di "interprete sociale" e che richiede grande rigore intellettuale e morale.

4. Il giornale oggi

La professione giornalistica è legata, nella maggior parte dei casi, a grandi complessi industriali, con alti costi di investimento e di esercizio e il cui prodotto - cioè il giornale - viene deliberatamente venduto sotto costo, richiedendo quindi come dato necessario l'integrazione dell'apporto pubblicitario.

Ciò contribuisce a creare crescenti difficoltà per l'intero settore soprattutto dei quotidiani, che rivelano - specie in Italia - gravi deficit annuali.

( Secondo una recente indagine, questi superavano complessivamente, alla fine del 1977, la cifra di 300 miliardi di lire ).

Ciò si accompagna ad una persistente stagnazione delle vendite, che tendono anzi a contrarsi, con la progressiva scomparsa di testate, che sono oggi ridotte per l'Italia a poco più di settanta, con una diffusione complessiva di 4 milioni 900 mila copie al giorno.

Questo dato, indubbiamente allarmante, pone l'Italia agli ultimi posti nella graduatoria di vendita dei quotidiani nelle società industriali, ove si tenga conto che negli U.S.A. la cifra sale a 60 milioni di copie al giorno, in Giappone a 42 milioni, in Unione Sovietica a 39, in Gran Bretagna, Germania Federale e Francia ( con popolazione pressappoco analoga a quella italiana ) rispettivamente 27, 17 e 11 milioni di copie.

In Italia si nota anzi una certa contrazione anche della stampa periodica - soprattutto dei grandi settimanali - che avevano fatto segnare nel dopoguerra un autentico "boom" editoriale, ponendo il nostro Paese ai primi posti in questo specifico campo.

Il fenomeno di contrazione non trova spiegazioni attendibili, soprattutto se si tiene conto del notevole allargamento della base di lettori potenziali attraverso il notevole miglioramento della scolarizzazione e la marcata evoluzione economica e sociale verificatasi in questo dopoguerra con l'imponente fenomeno di urbanizzazione.

La spiegazione più normale, secondo la quale sarebbe la concorrenza televisiva di massa a mettere in crisi, sul piano economico e funzionale, la stampa quotidiana, non sembra reggere ad esempi che ci vengono da altre esperienze, come quella giapponese e americana, dove alla grande diffusione del mezzo televisivo si accompagna costantemente ( se si esclude un periodo di assestamento nel corso degli anni sessanta ) una contemporanea diffusione del quotidiano.

Negli U.S.A. anzi, secondo gli ultimi dati disponibili, l'intero settore della stampa è in una fase di rinnovata intensa espansione, sia attraverso la moltiplicazione delle testate, che tendono sempre più a diventare espressione e interpreti degli interessi delle comunità locali, sia attraverso l'aumento costante delle vendite.

Là il settore dei quotidiani ha chiuso il 1977 con un giro di affari che risulta di circa il 25 per cento superiore a quello dell'anno precedente.

Ciò sembra reso possibile soprattutto dalla diminuzione dei costi attraverso le moderne tecnologie della fotocomposizione elettronica e della stampa in offset e la formazione di grandi catene di giornali che pubblicano i medesimi servizi ed articoli per la parte generale, integrandoli con pagine di cronaca locale, che consentono la raccolta capillare della piccola pubblicità.

Quanto alle tirature, in Italia soltanto una decina di giornali superano le centomila copie al giorno, mentre in altri Paesi, come il Giappone, vi sono giornali che da soli raggiungono - come l'Ashaki Shimbun - 8 milioni 650 mila copie ( quasi il doppio della nostra intera tiratura ).

Seguono il Mainiki Shimbun e il Jmiuri Shimbun, sempre giapponesi, rispettivamente con 7 milioni 700 mila copie e 5 milioni 850 mila.

La Pravda è al quarto posto con 5 milioni 650 mila copie.

In Occidente il primo posto spetta all'inglese Daily Mirrar con 4 milioni 600 mila, cui segue il Daily Express con 4 milioni 300 mila, il tedesco Bild Zeitung con 2 milioni 800 mila, l'americano New York Daily News con 2 milioni 225 mila copie, il francese Franco Soir con un milione 280 mila.

Il primo dei giornali italiani, il Corriere della Sera, raggiunge una diffusione media quotidiana di 530 mila copie.

Sembra di poter dire che la crisi del quotidiano in Italia - a parte l'impegno e la preparazione dei singoli giornalisti, che presentano come categoria punte di alta e qualificata professionalità - è di ordine strutturale e che non potrà essere superata se non attraverso una radicale ristrutturazione dell'intero settore, soprattutto favorendo la nascita di nuove testate e di nuove iniziative editoriali a basso costo di esercizio, sull'esempio americano.

In particolare dovrebbero essere promosse gestioni a base cooperativistica, in grado di utilizzare in sede locale l'interscambio di notiziari e pagine comuni attraverso una adeguata rete di teletrasmissioni.

Esistono vari progetti in questo senso, che attendono tuttavia una più precisa definizione legislativa.

Ma è lecito pensare che questa sia una strada obbligata, se l'Italia vuole uscire dall'attuale situazione di grave ritardo rispetto ad altri Paesi europei: e soprattutto se vorrà utilizzare a pieno il notevole potenziale professionale di una categoria giornalistica che si dimostra particolarmente vivace e partecipe sul piano politico e culturale.

II - Crescita e crisi del giornalismo cattolico

1. Dal 1860 al 1900

Il giornalismo moderno risale ai primi decenni del sec. XIX, quello di impostazione cattolica al quinto decennio, ma le sue caratteristiche concrete si evidenziano definitivamente, almeno in Italia, solo verso il 1860, allorché il processo unitario può considerarsi come globalmente realizzato.

Sul principio è quasi per intero nelle mani di sacerdoti, ma poi il laicato vi entra con un peso sempre crescente; così pure si può dire che all'intransigenza o all'impegno puramente religioso e politicamente asettico o ferocemente polemico succede gradatamente l'accettazione della realtà circostante e l'impegno di animarla evangelicamente.

Cedeste processo dev'essere letto non soltanto in chiave socioculturale, ma anche in chiave spiritualistica, come effetto di dibattiti e di meditazioni individuali, che suggeriscono la graduale conversione sociopolitica e teologica; quando poi l'uno o l'altro personaggio permane nella nativa intransigenza, non di rado emana da lui la testimonianza della sofferenza accettata fino alle estreme conseguenze.

Emblema della maturazione critica e di una presenza ecclesiale in termini pressoché simili al dettato della costituzione del Vat II Gaudium et spes è la figura del gesuita Carlo M. Curci, il quale parte dal rigetto totale del giornalismo ( espresso fra l'altro nell'editoriale del primo numero della Civiltà Cattolica ) e di tutte le realtà politiche moderne, per giungere all'accettazione dell'uno e delle altre.

Vittima degli attacchi dei suoi antichi confratelli e colleghi di battaglie, egli scrive: « Considerando innanzi a Dio questa circostanza, mi è parso di vedervi un motivo di non parlare, ma di tacere; e tanto più volentieri lo fo, quanto il parlarne potrebbe recare dispiacere a persone, le quali se ora non mi riguardano come fratello, non potranno mai impedire che io le tenga e le ami sempre per tali ».

Egli postula un giornalismo cattolico destinato ad esercitare opera di testimonianza fuori della cerchia sacrale; non « infarcito di sagrestia », ma che tratti « i grandi interessi sociali, politici, parlamentari, amministrativi, economici, industriali » della nazione.

Un giornalismo che non continui a postulare la distruzione dell'unità nazionale, e che non scriva cose in cui non crede: « Certo - egli scrive -, io medesimo ho udito da più di un direttore e da più di un redattore che essi non credevano niente a quello che scrivevano…

Già il solo scrivere per giornali, massime quotidiani, per quasi nessun apparecchio che vi si reca, per la fretta precipitosa onde si fa, e pel velo dell'anonimo, sotto cui si presume che tutto debba passare, è cosa piena di pericoli per chiunque creda dovere rispettare come sacre le ragioni eterne della verità e della giustizia ».1

Il sac. Mario Palladino, nella relazione letta al VII Congresso Cattolico ( Bergamo 1877 ), situa il giornalismo come diga nei confronti del verismo dilagante, percepisce i pericoli dell'attività redazionale e intende affrontarli armato della carità di Cristo, « unica guida dell'intelletto e del cuore », e alla sequela del magistero dei vescovi e « della voce e della mano possente dell'Augusto Pontefice».

In questo caso «gli scrittori cattolici… concorreranno alla ricostruzione della vita moderna tanto universalmente scompaginata e saranno qualcosa di più: i cooperatori di Gesù Cristo.

La parola infinita, il Verbo di Dio, per l'Incarnazione si manifestò alle genti umane; e lo scrittore cristiano, riscaldando la sua parola all'infinito splendore della prima, e dandole durazione e bellezza nella forma della scienza e dell'arte, presterà mano all'opera di Cristo e della sua divina Incarnazione ».2

Il senso della professionalità e dell'abnegazione ascetica è espresso nella relazione approntata per il VII Congresso Cattolico del 1887: « Un giornale è un lavoro intellettuale e morale, ma è ancora un'impresa industriale e commerciale.

Non si scrive un giornale, o piuttosto non si deve scrivere unicamente per pascere la vanità dello scrittore e la curiosità del lettore, come non si scrive un giornale per soddisfare l'avidità del guadagno o per spillare i quattrini degli altri.

Ma si deve scrivere per difendere accuratamente la verità e la giustizia, per narrare con esattezza i fatti e gli avvenimenti ».3

D. Giacomo Margotti è, con d. Davide Albertario, una figura principe del giornalismo cattolico della seconda metà del secolo; come lui, venne al giornalismo più per obbedienza che per libera scelta, poiché questa professione tardò ad ottenere un decente statuto sociale presso gli intellettuali, tanto laici che "chierici".

Al giovane G. B. Casoni, che lo intervistava, il Margotti prediceva: « Si prepari a serie amarezze e a gravi dispiaceri, se anch'egli, come parmi di vedere, sarà chiamato da Dio al pesante mestiere di giornalista [che] …non è bello davvero.

Ciò nonostante non mancano le consolazioni, massime quando siete approvati e benedetti dal Papa ».4

Secondo una testimonianza del P. Raffaele Ballerini, egli « non tralasciava mai ogni anno di dedicare un tratto del suo giornale a pie considerazioni sul mese di Maria, che scriveva egli stesso e chiamava la sua predica»; e gli attribuiva questa dichiarazione: « Io posso dire con s. Paolo: "Positus sum ego Apostolus" ».5

L'Albertario, che condivideva con lui l'impostazione intransigente ma che più di lui fu accanto agli affamati e agli oppressi, in occasione dei torbidi popolari del '98 fu incarcerato unitamente agli agitatori socialisti ed anarchici.

Nell'autodifesa, disse fra l'altro ai magistrati : « Nessun teste è venuto a deporre contro di me…

Se io sono cattolico intransigente, lo sono perché questo è il mio dovere e il mio sentimento, e ciò io dico con soddisfazione, e questo mio dovere colla grazia di Dio adempirò sino alla morte ».6

Suo nipote mons. Paolo Pecora, dopo averlo visitato nel carcere di Finaiborgo, così scriveva alla sorella di lui: « È calmo e completamente rassegnato alla volontà di Dio.

Gli parlammo degli amici che tanto s'interessano di lui, dei giornali che continuamente ne parlano, e quando gli nominai il Popolo Cattolico, pianse ricordandomi i bei giorni del suo giornale…

"Ho perdonato, disse, e tutto accetto in penitenza dei miei peccati; del resto voi sapete pure per qual causa io soffro" ».7

L'accettazione della sofferenza assume in questi decenni contorni di vario genere, ma la pena morale nascente dall'inadeguatezza dei mezzi si coniuga costantemente con quella fisica: di percosse, agguati, sequestri di polizia, ferite, devastazioni è costellato il racconto di molti giornalisti, allorché scrivono le loro memorie.

Un emblema può essere indicato nel già ricordato volume di G. B. Casoni, in seguito e per molti anni direttore dell'Osservatore Romano.8

Altra fonte di preoccupazioni erano le difficoltà finanziarie, che sovente umiliavano lo slancio creativo dei giornalisti cattolici, i quali a volte si lanciavano in imprese generose ma completamente prive di basi; i giornali venivano fondati e chiusi con una naturalezza incredibile, fino ai casi limite della Metropoli dell'Orbe cattolico ( Roma ), che stampò in tutto quattro numeri, e della Croce, sempre di Roma, che raggiunse il record di due soli numeri tirati.

Ma anche i giornali di pianta discretamente stabile sperimentarono momenti molto difficili.

D. Raffaele Borrel li, direttore della Libertà Cattolica, così scriveva al card. Sanfeli ce, arc. di Napoli, il 23-1-93: « Quello che deve grandemente tenere in apprensione l'E.V.Rma è che se uno dei redattori si inferma o non è al suo posto per una ragione qualsiasi, la pubblicazione ne sentirà un grande spostamento sia per l'ora dell'andata in macchina, sia per la materia che conterrà.

È avvenuto il caso pel quale in un giorno la Liber. Catt. fu opera del solo direttore e del correttore ».9

Per queste strade, in un momento di grave crisi politica e religiosa, il giornalismo cattolico realizzava la presenza della luce e del sale nella massa.

In taluni casi la consapevolezza del proprio compito ecclesiale raggiunse punte elevate, e in questo senso bisognerebbe studiare da capo, fra l'altro, gli atti dell'Opera dei Congressi, che aveva dedicato una sezione al problema pubblicistico, il quale veniva affrontato ogni anno.

Nel III Congresso Regionale romagnolo, celebrato a Ferrara nell'aprile del 1895, il sacerdote giornalista prof. Adolfo Turchi di Cesena perveniva ad una formulazione degna del Vat II.

Dopo aver esposto con acutezza i problemi del settore e l'incomprensione che il clero riserva alla stampa, soprattutto al clero che vi si dedica, egli richiama la testimonianza del Ketteler relativa all'eventualità di s. Paolo giornalista, e soggiunge: « La capissero una buona volta questa verità quegli ecclesiastici, che nutrono ancora delle prevenzioni contro di noi.

Il mondo si è cambiato, e cambiato radicalmente.

Bisogna trasportare il nostro pulpito fuori di chiesa, là dove si trova la maggior parte degli uditori… ».10

2. Nel primo novecento

Proponiamo tre profili biografici di tendenze spirituali e professionali divergenti, benché in tutti sia saldo l'ancoraggio alla fedeltà cattolica e l'intento di realizzare l'edificazione d'una società migliore.

Ernesto Callegari, più noto sotto lo pseudonimo di Mikròs, lavorò prima al Cittadino di Genova e poi all'Unità Cattolica di Firenze, prolungando nel nostro secolo le tradizioni intransigenti.

Nel saluto ai lettori fiorentini ( 11-11-1917 ) egli ricorda di aver accettato il trasferimento su preciso comando di Benedetto XV, perciò in obbedienza; se non ci fosse questa certezza, « dispererei di me stesso e mi parrebbe un sacrificio ciò che è perfetta letizia, ossia il poter dedicare l'età matura declinata a servire la chiesa, a difendere la causa del papa, a mostrare amore al cattolicismo, alle tradizioni cristiane, alla verità il vero amore integrale per la nostra Italia ».

Questa obbedienza al papa è congiunta all'intento di affermare la fraternità universale, anche nelle ben prevedibili polemiche; è un « fermo proposito di cercare quella unione dei cuori, quello slancio dell'azione cattolica, che non si conseguiscono se non essendo molto giusti nelle idee, assai temperati nel disputare, e pieni di urbanità tranquilla anche dissentendo ed esprimendo il dissenso vivacissimo coi nostri fratelli e cogli avversari, senza fremiti e iracondie ».

Nell'editoriale dell'8-2-'18, in cui narrava la visita a Benedetto XV, riaffermava la sua fedeltà indiscussa, e « domandatene, io narrai la vita mia quasi monastica di Firenze: il lavoro giornaliero, che ha noie molteplici ed assidue, il raggio luminoso di avere inteso a fare il bene, a eseguire il comando del papa… ».

In occasione del bombardamento aereo di Venezia, egli esprimeva ( 5-3-1918 ) un'indignazione che collocava il giornalista al livello di difensore del genere umano: « Questa è inutile barbarie, perché non raggiunge nessuno scopo vero di guerra…

Se ragioniamo, bisogna concludere che la guerra aerea si palesò la più crudele di tutte, quella cioè che più contravviene alle norme del diritto delle genti… ».

Ma l'episodio chiave interviene il 30 marzo 1928.

I deputati ex-popolari, coagulatisi nel centro nazionale filofascista, avevano tenuto un convegno in Campidoglio, e il giornale fiorentino aveva presentato con simpatia l'avvenimento; lo stesso giorno, ricevendo la giunta romana dell'Azione Cattolica, Pio XI condannò severamente il convegno; nella data ricordata, l'Unità Cattolica s'apriva con uno scritto di Mikròs intitolato « Il mio Confiteor », che evidenzia fino allo struggimento l'inevitabilità del conflitto fra il bisogno di leggere liberamente gli eventi e il dovere dell'adesione incondizionata alla gerarchia: « L'amarezza nostra fu grande e viva quanto è viva e intera la volontà costante di servire fedelmente la s. Sede e di non venir meno, nell'intimo della coscienza…

Non sentimmo di aver peccato d'intenzione disobbediente; commettemmo un errore.

E l'errore, dobbiamo candidamente confessarlo, lo facemmo nella pura veste di giornalisti… ».

L'altra storia cattolica riguarda l'on. Paolo Mattei Gentili, l'animatore del noto "trust" voluto dal Grosoli, e che raggruppò diverse testate cattoliche, avviando la soluzione più moderna e perfetta che la storia del settore registri in Italia.

Nel momento del massimo sviluppo, l'organizzazione collegava il Corriere d'Italia ( Roma ) diretto dal Gentili, l'Avvenire d'Italia di Bologna, il Momento di Torino, il Messaggero Toscano di Pisa, l'Italia di Milano e il Corriere di Sicilia di Palermo.

Attorno ai due animatori vibravano giornalisti come Rocca d'Adria, Angelo Mauri, Vincenzo Mangano, Filippo Meda ed altri.

Il gruppo si mostrò sensibile alle ragioni del progresso tecnico e professionale, s'avvicinò straordinariamente alla sensibilità popolare, si può dire affiancasse produttivamente la crescita della comunità in cui operava.

I cardinali Maffi di Pisa e Ferrari di Milano condividevano più o meno apertamente queste scelte, ma altri gruppi cattolici non cessarono di ostacolarle in tutti i modi, fino a giungere alla nota « Avvertenza », che diceva: « A togliere l'equivoco che certi giornali vanno creando in mezzo al clero, si dichiara che la s. Sede non riconosce per conformi alle direttive pontificie e alle norme delle lettere di sua Santità all'Episcopato lombardo del 1° luglio 1911 i giornali…» e seguiva l'elenco delle testate del trust ( AAS 2-XII-12 ).

Il Corriere d'Italia il 7 dicembre pubblicava un editoriale della Soc. Ed. Romana, scritto dal Mattei Gentili dopo una seduta del consiglio direttivo, in cui, dopo aver professato obbedienza alla s. Sede, si afferma: « I nostri giornali, se sono diretti e scritti da cittadini italiani di franca fede cattolica, non vogliono pretendere di esser chiamati giornali cattolici nel senso comunemente inteso della parola, ossia d'essere organi ufficiali o ufficiosi o comunque autorevoli del pensiero della suprema autorità ecclesiastica…

Infatti i giornali nostri hanno un carattere necessariamente nazionale, mentre la chiesa, per la sua natura divina e per la sua universalità, trascende i confini delle nazioni…

Come scrittori cattolici, differenziandoci da coloro che cercano di soffocare con la congiura del silenzio l'attività delle organizzazioni cattoliche italiane, avremo cura di illustrare ampiamente il loro lavoro…

Un altro importantissimo compito spetta ai nostri giornali: difendere dai continui pericoli l'educazione morale del nostro popolo.

Proseguiremo perciò, proponendoci di raddoppiare la nostra vigilanza, ad ispirare le nostre pubblicazioni al più rigido rispetto per la morale nella cronaca degli avvenimenti, nelle relazioni letterarie ed artistiche, e perfino negli annunzi di pubblicità… ».

Il marchese Gaetano De Felice animò il mondo giornalistico prima a Napoli, poi a Roma, tentando il rinnovamento delle vecchie impostazioni alla Libertà Cattolica ( che sotto di lui significativamente lasciò cadere dalla testata l'aggettivo confessionale e si chiamò semplicemente La Libertà ) e succedendo poi al Mattei Gentili nella direzione del Corriere d'Italia.

Alla causa del giornalismo, che per lui come per molti suoi colleghi si identificò sempre con la causa della religione, della patria, dell'educazione popolare, egli sacrificò tutto, comprese le sostanze private.

In una lettera al card. Giuseppe Prisco, arciv. di Napoli ( 18-8-1898 ), domandando soccorso finanziario, diceva fra l'altro: « Io mi mortifico pensando che questa domanda possa tornarle molesta; ma mi conforta la coscienza di aver fatto quant'era in me per un'opera messa in servizio della chiesa, fino a vendere la proprietà della mia famiglia in Somma Vesuviana per estinguere circa 5.000 lire prestate in varie volte dal comm. Parlati e da altri… ».11

Quando il fascismo condannò a morte indolore il Corriere, il De Felice « declinò pian piano e nel 1936 ci lasciò.

Soffriva della malattia del giornalismo, al quale lui, giovane ancora, aveva dato anima, entusiasmo, fatiche, patrimonio.

Di certe malattie si vive; guai a doversene liberare per forza.

E sì che pene e dolori e affanni gliene aveva dati il giornale. Eppure… ».12

3. Dentro la storia o contro?

Il giornalista cristiano è un testimone che accompagna la storia e mentre la legge, l'anima anche, nei limiti e nelle modalità proprie del mestiere, confrontando la cronaca con la luce e la presenza divina; il giornalista laico che almeno sul piano dell'umanesimo e della buona volontà, nella ricerca della pace e dello sviluppo, è disponibile quotidianamente, ha una funzione altrettanto nobile.

Al principio del secolo Filippo Crispolti, uno dei cristiani più attivamente coinvolti nel giornalismo, scriveva: « Quando la rivoluzione incominciò, la stampa cattolica fu la principalissima forma della nostra attività.

Dinanzi all'irrompere dei liberali, temuti da noi per la loro veemenza e per la loro seduzione, la gente si era per lo più ridotta in casa.

La stampa nostra approvvigionò allora queste case isolate e chiuse; le approvvigionò di pane spirituale, illustrando loro le dottrine cattoliche, indicando e sfolgorando gli errori e i vizi degli uomini nuovi, incoraggiando i buoni a serbarsi puri da contatti pericolosi, confortandoli colla compiacenza delle polemiche vigorose ».

I campioni del giornalismo però rimanevano chiusi nelle loro torri d'avorio e il popolo rimaneva distaccato.

Essi furono « una forza religiosa per gli uomini religiosi e una forza politica in mezzo all'intera società », ma un diaframma di solitudine emarginava tanto gli operatori giornalistici che i destinatari di questa stampa: « in quel periodo… gli scrittori nostri moltiplicarono i giornali, ma non moltiplicarono laetitiam ».

I giornalisti compresero che dovevano scendere fra le moltitudini: « La passività d'esser lettori dovette lasciar luogo all'attività della generale lotta civile…

I pubblicisti di questa trasformazione, di cui il maggior esempio fu d. D. Albertario, cominciarono ad essere uomini di azione.

Uscirono dai loro uffici di redazione per essere non più giornalisti soltanto, ma organizzatori di società, oratori fra i nostri e fra gli avversari.

Non bastava. Bisognò trasformare l'ufficio educativo della stampa rispetto ai propri lettori.

Perché essi fossero pari alle nuove lotte non fu sufficiente come ai primi tempi farne degli uomini puri, bisognò farne degli uomini efficaci.

E il primo modo, per un'efficacia che doveva riferirsi a tutta la vita, fu di riportarli in mezzo ad essa.

Quindi l'ampliamento della materia.

Non più sola dottrina e sola polemica, ma studi e notizie di politica interna ed estera, d'industrie, di commerci, e di atti giudiziari, e di scuole, di letteratura e d'arte… ».

All'inizio del secolo il giornalismo cattolico aveva dunque un'adeguata consapevolezza di se stesso, e non esauriva la propria presenza al puro fatto professionale, bensì la collegava a quello pedagogico e in certo qual modo catechetico; mostrava anche una notevole crescita nel campo dell'autonomia della professione e del suo inserimento nella vita globale: « Forma di transizione fu quella del giornalismo cattolico antico; forma definitiva è quella del giornalismo cattolico d'oggi.

Al quale la fermezza della dottrina, l'alacrità della polemica sono sempre raccomandate giustamente, perché propter vitam non debba vivendi perdere causas; ma al quale incombe tuttavia l'obbligo nuovo di far dei lettori uomini interi, capaci di mostrare in sé che il cattolicismo è influente su tutta la vita civile e su tutti i progressi veri; memori che la formula sacra dell'instaurare in Christo si compie colla parola omnia ».13

4. Crisi e giudizio teologico

Senonché, immediatamente dopo questo avvio di stile professionale e cristiano, l'involuzione cattolica si manifestava in forme sempre più deplorevoli, con una chiusura alla realtà che, solo teoreticamente, sarà superata con Pio XII e globalmente otterrà cittadinanza a partire da papa Giovanni.

Una lettura teologica del fenomeno giornalistico, collegato col recupero della cronaca e dell'immersione nella realtà, esattamente come la Rivelazione ha fatto nel corso dei secoli per realizzare la redazione scritta della bibbia, è stata tentata da mons. L. Sartori al III Convegno nazionale della federazione italiana dei settimanali cattolici ( Padova, 23-26 sett. 1976 ) : « La teologia oggi deve incontrarsi col giornalismo, e prolungarsi in esso ».

Esso accompagna la storia, la quale « è anche poesia. Più spesso è dramma », dove si mescolano e si scontrano « anche conflitti e radicali contrapposizioni.

Scoprire l'originale irrepetibilità di ogni momento e frammento di storia è rilevare e rivelare la parte di novità e di miracolo, di rottura e promozione che ogni momento o frammento contiene in sé, e cioè la valenza profonda di forza divina che si nasconde in esso ».14

Sartori prevede che nel futuro « saranno sempre meno probabili le situazioni nelle quali pochi leaders potevano ispirare e condurre masse di credenti, e le grandi visioni erano sufficienti a inquadrare le moltitudini di adepti.

Domani quasi certamente… ogni credente dovrà rendersi capace di costruire il suo pezzo di storia, dovrà essere allenato a decifrare il suo frammento di segni dei tempi che lo riguarda».

Codesta personalizzazione della fede, codesta creatività domanda una disponibilità quotidiana a fiutare, saggiare, esplorare, ipotizzare.

La vicinanza col pubblicista, che per professione e con diuturno allenamento sta a contatto con questo impegno, avrà un valore straordinario.

Detto questo, il teologo esprime due riflessioni.

In primo luogo « bisogna dare spazio alla preghiera, all'invocazione della luce dello Spirito.

L'epiclesi è strettamente connessa con il discernimento della storia.

La bibbia ci testimonia il costante riferimento all'invocazione dello Spirito, in presenza di eventi da decifrare, di decisioni storielle da prendere.

Il lievito della storia viene sempre da Dio; non basta registrare i moti dell'uomo, in superficie ».

La seconda deduzione riguarda l'impegno di « rimettere le pagine nostre di oggi » in relazione alle pagine del passato e a quelle ipotizzabili per il futuro.

La pubblicistica diventa in tal modo un luogo teologico e catechetico, perché « le informazioni che giungono innumerevoli e incontenibili hanno fatto irruzione anche nelle comunità più remote e le hanno aperte per sempre…

Da un regime, da una mentalità di credenze, si è passati ad un regime di opinioni ».

Diventa anche luogo d'incontro per la riflessione spirituale, nuovo deserto clamante e germinatore di vita, come lo fu un tempo quello della Tebaide: « Quando fu chiesto al grande teologo protestante Karl Barth in che modo preparasse le sue omelie domenicali, rispose: "Prendo con una mano la bibbia e con l'altra il giornate, e leggo il giornale alla luce della Parola di Dio".

Se condensiamo sul concetto di giornale tutto ciò che esso contiene e il modo in cui lo contiene, avremo nella metodologia omiletica di Barth lo specifico dell'evangelizzazione attraverso la stampa di massa ».15

I protagonisti di questa presenza evangelica oggi sono, non certo esclusivamente ma principalmente, gli operatori di pubblicistica.

Fino a questo momento tale carisma, ampiamente riconosciuto a livello di enunciazione, specialmente nel postconcilio, di fatto non è stato ancora recepito a sufficienza nella cristianità.

Le ricerche mostreranno sempre più chiaramente quanti calvari hanno avuto luogo tra l'odore d'inchiostro e il fragore delle rotative, perché non sempre da alcuni settori si percepiva l'avvento di nuove forme ecclesiali che ricominciavano dagli Atti degli apostoli e, nei sotterranei tipografici, nelle nuove catacombe, assumevano il linguaggio del nostro tempo.

L'esperienza del passato deve illuminare questi nuovi ministeri, nuovi solo all'apparenza, e indurci a riconoscere loro la funzione del lievito che fermenta la massa e della luce che brilla sul candelabro.

III - Profilo spirituale

Un'elaborazione sistematica della spiritualità del giornalista non esiste ne a livello del magistero della chiesa ne nei normali trattati.

Linee più o meno suggestive, che aiutino a formulare spunti di una lettura in profondità dell'essenza della vita dedicata alla pubblicistica, esistono nelle biografie, nelle memorie, nella stessa opera di singoli giornalisti [ sopra, II ].

Ma gli interventi pontifici, sempre più circostanziati, ci offrono alcune direttrici che noi cercheremo di cogliere spigolando esclusivamente dai discorsi di Paolo VI.

Per quanto si riferisce ai documenti ecclesiali generali, spec. al decreto IM del Vat II e all'istruzione pastorale Communio et progressio ( 23-5-1971 ), ( v. ) Mass media I-IV.

1. Imitatori di s. Paolo

Come gli altri che seguono, il discorso del 1° dic. 1963 è rivolto ai giornalisti cattolici, ma alcuni temi e rilievi sono comuni a tutto il giornalismo del nostro tempo.

Il papa afferma che la professione obbliga i giornalisti a osservare le cose dal punto di vista terreno e profano, ossia « ad abbassare la testa » al livello della scena dove si svolgono gli avvenimenti sui quali bisogna documentarsi e poi descriverli: « Vi si trova per lui un pericolo di impoverimento, di disseccamento della sostanza della vita della sua anima ».

Gli avvenimenti devono essere letti dall'interno.

Quanto più la vita del giornalista è attiva, tanto maggiore è il bisogno di un ritorno alle sorgenti profonde ove l'anima ritempra le forze ».

Solo in questa interiorizzazione sarà possibile trovare le energie per resistere alle pressioni sociologiche e per compiere opera di liberazione attraverso la franca testimonianza resa alla verità.

In questo senso « il compito del giornalista ha una certa analogia con il sacerdozio.

Come il prete voi pure vivete per gli altri, non per voi stessi; avete la vocazione al servizio ».

Il riferimento all'attività e all'impostazione di vita di s. Paolo - uno dei più frequenti nella chiesa allorché si parla del giornalismo - è così espresso: « Vi fu giammai uomo più impegnato di lui nei dettagli delle cose terrene?

E non si è detto di Paolo che, se tornasse sulla terra, farebbe il giornalista?

Il suo sguardo però è penetrato nei cieli. Siate suoi imitatori ».16

Nel discorso del 10-2-1965 ai congressisti dell'UNDA,17 la tematica affrontata riguarda il giornalismo radiofonico e televisivo, ma essa è pienamente applicabile anche a quello stampato.

Il papa accentua soprattutto l'istanza della maturazione personale del giornalista sul piano professionale, ma anche l'impegno di far da tramite a contenuti che sono nel cuore stesso della fede: « Sarà per il pubblico un immenso profitto se questi due grandi mezzi [ radio e televisione ] sono animati da persone sufficientemente formate e capaci di far passare attraverso le trasmissioni le ricchezze del pensiero e della vita cristiana, da cui essi stessi sono nutriti, e di portare sugli avvenimenti giudizi ispirati al vangelo ».18

2. Colleghi dei pastori-comunicatori

La chiesa considera l'impegno comunicativo come un fatto estremamente importante, « un fatto che può e deve essere considerato globalmente, nella sua multiforme espressione, riducibile ad un essenziale ed unico aspetto, quello della trasmissione di una realtà spiritualizzata ( resa cioè pensiero, voce, visione… ) alla più larga cerchia possibile di esseri umani, così che la società ne sia informata e impressionata ».

Il papa anzi descrive il suo stesso magistero in termini di comunicazione sociale: « Noi, noi pure siamo addetti alla comunicazione sociale.

Ci pare di poter dire, sotto questo aspetto, che siamo vostri colleghi, e che oggi ci valiamo di questa ragione, diciamo così professionale, per marcare la profonda affinità che intercede fra la nostra missione e la vostra attività…

Noi siamo estremamente tesi verso lo scopo sommo e, in un certo senso, unico, della comunicazione sociale che è quello di formare, di edificare, di salvare l'uomo ».

« Una forte, chiara, sana coscienza sociale deve presiedere all'immissione nel circuito della comunità di parole, di visioni, di stimoli psicologici ed etici che alla comunità si riferiscono ».

Per realizzare un impegno comune tanto elevato, l'operatore pubblicistico deve migliorare se stesso, affinarsi, modellarsi sul Cristo: « Per comunicare davvero con gli altri bisogna ritrovare se stessi.

È questa l'energia di chi cerca il senso profondo della vita.

È l'energia della coscienza morale, bisognosa di luce, di ordine, di amore, di pace.

Saltiamo il drammatico processo intermedio, per concludere: bisognosa di Cristo » ( discorso del 6-5-1967 ).19

3. Interiorità

Particolarmente significativo è l'accento sullo stress a cui il groviglio e la febbrilità della professione può indurre gli operatori pubblicistici: « La vostra professione impone alla vostra coscienza una fatica che diventa sovente lotta estenuante per le esigenze intrinseche della norma cattolica e per le insidie, le difficoltà che ad essa oppone l'ambiente circostante ».

Per superare queste erosioni dello spirito e della psiche.

Paolo VI ricorda il « continuo richiamo all'interiorità dei vostri singoli spiriti », normale per giornalisti che si ispirano al cristianesimo.

« Voi siete, per dovere d'ufficio, obbligati ad una insonne attenzione e ad una ininterrotta osservazione del mondo esteriore; voi dovete stare continuamente alla finestra aperta sul mondo, vincolati a scrutare i fatti, gli avvenimenti, le opinioni, le correnti d'interesse e di pensiero del panorama, che è al di là della vostra cella interiore… ».

Il pericolo dell'alienazione, della perdita del contatto con se stesso, dell'erosione della personalità è costante, come pure il cedimento alla farragine delle cognizioni transeunti e provvisorie: « Al contrario di ciò che fu detto di s. Benedetto, che secum vivebat, viveva con se stesso, il giornalista vive spiritualmente fuori di sé ».

Il collegamento nell'U.C.S.I.20 e l'amicizia professionale « tiene acceso in ogni socio il ricordo, e col ricordo lo stimolo della coscienza del proprio carattere cattolico, che vuoi dire vincolo nutriente a quel mondo religioso, da cui solo in definitiva noi attendiamo, per il nostro destino personale ed anche per quello globale dell'umanità, la salvezza » ( discorso del 23-1-1969 ).21

Nell'insegnamento di d. Alberione Mass media V

1 C. M. Curri, Il giornalismo cattolico, il Sillabo e i cattolici liberali in Il moderno dissidio tra la chiesa e l'Italia, Firenze, Bencini 1878, 99, 101, 103, 104-105
2 La stampa in La Carità, Napoli, a. 22, voi. 36, 60, e 62
3 Studi e proposte per VII Congr. Catt. It…., Bologna, Tip. Arciv., 1886, 66. (Il Congresso avrebbe dovuto celebrarsi in Lucca nel 1886, ma ebbe luogo l'anno seguente a causa del veto della Prefettura)
4 Casoni, Cinquant'anni… (et bibl.), 87-88
5 CC 2-VII-87, 19
6 CC 1898, II, 228
7 CC 6-VIII-98, 362s
8 Casoni, o. e., spec. 70, 73, 104, 110 passim
9 Arch. st. dioc., Ris. arciv., f. 7, n. 101
10 III Congr, Reg… tenuto in Ferrara il 27-IV-1895, Atti e Doc., Faenza 1895, 70
11 Arch. st. dioc., Napoli, Ris. arciv., cart. Prisco, alla data
12 L. Gessi, Vomirli e Giornali, 94
13 F. Crispolti, Lo svolgimento della Stampa catt. ,in Italia, in: [Anichini], Ephemerides (cf bibl.), 6-7
14 L. Sartori, Libertà di Dio… (cf bibl.), 12ss. Si veda anche il nostro articolo sul Convegno in Vita Pastorale, 1976, 9, 31-36
15 R. Ferino, Il giornale e il periadico… (cf bibl.), 10, 9
16 Encicliche e discorsi di Paolo VI, Roma, Edizioni Paoline 1963ss: I, 428-432
17 Associazione cattolica internazionale per la radiodiffusione e televisione, con sede a Friburgo ( Svizzera )
18 Encicliche e discorsi… V, 131
19 Encicliche e discorsi…, XIII, 42-48
20 Unione Cattolica Stampa Italiana
21 Encicliche e discorsi…, XVIII, 50.54