Della risurrezione dei morti

Capo XX - Né giudizio potrà avvenire, senza la risurrezione, dopo la morte, sia che l'anima si estingua col corpo sia che permanga da sola, perché un giudizio che cadesse solo sull'anima, mentre le azioni furono compiute da tutto l'uomo, sarebbe ingiusto.

1. Infatti, o la morte è estinzione totale della vita, dissolvendosi e corrompendosi insieme col corpo anche l'anima, o l'anima rimane in se stessa senza dissolversi né corrompersi, mentre si corrompe e dissolve il corpo, senza conservare più alcuna memoria né sentimento di quanto ha fatto o patito in forza dell'anima.

2. Ora, estinta totalmente la vita degli uomini, più non si vedrà alcuna provvidenza per gli uomini, che più non vivranno, né alcun giudizio per chi ha vissuto nella virtù o nel vizio; riaffioreranno allora tutti gl'inconvenienti d'una vita senza legge e tutta la serie di assurdità che l'accompagnano e, colmo di questa perversità, l'empia negazione di Dio.

3. Se poi il corpo si corrompe e le parti disciolte ritornano ciascuna all'elemento affine e l'anima rimane da sé, in quanto incorruttibile, nemmeno in tal caso avrà luogo il giudizio sull'anima, perché esso mancherebbe di giustizia, e non è lecito supporre che da Dio o per ordine di Dio sia fatto un giudizio che manchi di giustizia: ciò che avverrebbe nel caso nostro, non durando colui che ha praticato la giustizia o l'ingiustizia.

Invero chi ha compiuto le varie azioni della vita a cui si riferisce il giudizio è l'uomo, non l'anima da sola.

Per dir tutto in breve, un procedimento di tal fatta non sarebbe in alcun modo conforme al giusto.

Capo XXI - Infatti sarebbe ingiusto che il corpo non condividesse con l'anima il premio del bene che ha operato con lei, e che l'anima sola dovesse subire il castigo delle colpe commesse per istigazione del corpo, mentre di questo sonO proprie le passioni che inducono l'uomo al male.

1. Nella ricompensa delle buone azioni il corpo subirà evidentemente un trattamento ingiusto, perché, mentre divide con l'anima i travagli per operare il bene, non condivide il premio del bene compiuto; mentre l'anima spesso ottiene il perdono di talune colpe in considerazione dell'indigenza e del bisogno del corpo, il corpo non ha alcuna parte nelle opere buone per le quali ha sostenuto insieme i travagli della vita.

2. Così pure nel giudizio dei peccati non è osservata la giustizia riguardo all'anima, se essa sola deve pagare il fio dei mancamenti commessi per istigazione del corpo che la trascina ai propri appetiti e movimenti, ora afferrandola di sorpresa, ora trascinandola con una specie di violenza, talvolta anche andando d'accordo con lei che vuol compiacere e accontentare il corpo nelle sue naturali tendenze.

3. O non sarà ingiusto che l'anima, sia giudicata da sola di quei vizi per i quali non ha, secondo la sua natura, alcuna tendenza o movimento o impulso, come la lussuria, la violenza, l'avarizia e delle ingiustizie che ne derivano?

4. Siffatti mali nascono per lo più dal non saper gli uomini frenare il tumultuare delle passioni, che a sua volta ha origine dall'imperfezione e dal bisogno del corpo e dalle cure sollecite che a questo si dedicano: per questo infatti ha luogo ogni acquisto e, più ancora, ogni uso; così pure le nozze e tutte quelle azioni della vita che in sé e nelle circostanze vengono considerate colpevoli o no.

Sarà adunque giusto che là dove il primo a sentire è il corpo ed esso trascina l'anima a consentire e prendere parte a quelle azioni a cui è spinto, l'anima sola sia giudicata? che, mentre gli appetiti e i piaceri, come pure i timori e i dolori, di cui si deve rendere conto quando siano smoderati, hanno impulso dal corpo, i peccati che da essi provengono e le pene corrispondenti siano addossate soltanto all'anima, la quale non ha affatto tali bisogni o tendenze o timori, né è soggetta per se stessa a tali passioni naturali all'uomo?

5. Ma ammettiamo pure che le passioni appartengano non al corpo ma all'uomo, osservando giustamente che dai due elementi risulta una vita sola, quella dell'uomo: tuttavia non diremo che tali passioni convengano all'anima, solo che consideriamo obiettivamente la natura propria di essa.

6. Se l'anima non ha assolutamente bisogno d'alcun nutrimento, non si sentirà giammai attratta verso un oggetto di cui non abbisogna affatto per esistere, né portata verso qualche cosa di cui non può naturalmente usare in alcun modo, e neppure si rattristerà per la penuria di denaro o di possessioni che non la riguardano per nulla.

7. Se è inoltre superiore alla corruzione, nulla assolutamente teme che la possa corrompere: non paventa né fame né morte né mutilazione né lesione né fuoco né ferro, poiché da tutto ciò non può soffrire danno o dolore, dal momento che non la toccano affatto né i corpi né le facoltà corporee.

8. E se è assurdo attribuire le passioni all'anima come cosa propria, il riferire all'anima sola i peccati che dalle passioni scaturiscono e le pene relative è cosa supremamente ingiusta e indegna del giudizio di Dio.

Capo XXII - La virtù e il vizio non si possono attribuire all'anima disgiunta dal corpo: così la fortezza e la costanza, la continenza e la temperanza, la prudenza, la giustizia.

1. Ancora: non è assurdo che, mentre la virtù e il vizio non si possono neppur pensare in relazione all'anima disgiuntamente dal corpo ( poiché le virtù noi le riconosciamo come virtù dell'uomo, e così anche il vizio loro opposto, non dell'anima separata dal corpo e per sé esistente ), il premio o la pena relativa venga assegnata all'anima sola?

2. Come si potrebbe riferire la fortezza e la costanza all'anima sola, che non ha timore né di morte né di ferita né di mutilazione né di danno né di maltrattamento né dei dolori e delle sofferenze che ne derivano.

3. Come la continenza e la temperanza, mentre nessuna concupiscenza trascina l'anima al nutrimento o all'unione sessuale o agli altri piaceri e voluttà, nulla la turba all'interno né la stimola dall'esterno?

4. Come la prudenza, mentre da lei non dipende ciò che è da farsi o non farsi, da scegliersi o fuggirsi, anzi non le è insito alcun movimento naturale a cosa alcuna da fare?

5. E come potrebbe la giustizia essere veramente connaturale alle anime, sia fra di loro, sia in rapporto con gli esseri della medesima o di altra specie?

Esse non hanno né l'oggetto né il mezzo né il modo di dare ad ognuno equamente secondo il merito o la debita proporzione, eccettuato l'onore dovuto a Dio; non hanno, d'altra parte, impulso o movimento ad usare delle cose proprie o ad astenersi dalle altrui, giacché l'uso delle cose conformi a natura o l'astinenza.

Si ravvisa solo in chi è fatto in modo da poterne usare; ora l'anima non ha bisogno di nulla, non è naturalmente così fatta da poter usare di questa o di quella cosa, e perciò neppur si può trovare nell'anima così costituita l'attitudine a operare per proprio interesse.

Capo XXIII - Molte leggi, come quelle che prescrivono d'onorare i genitori o vietano l'adulterio, il furto, il desiderio della roba altrui, sono fatte per tutto l'uomo; é assurdo che l'anima sola ne subisca la sanzione.

Basti al nostro proposito ciò che s'è detto per sommi capi.

1. Ed ecco un'altra conseguenza, la più illogica di tutte: nel promulgare le leggi rivolgersi agli uomini, e applicare la sanzione di ciò che fu fatto secondo o contro le leggi soltanto alle anime.

2. Infatti, se è giusto che chi ricevette le leggi debba pur ricevere il castigo della loro violazione, e se le leggi le ricevette l'uomo, non l'anima per se stessa, l'uomo pure dovrà subire il castigo delle colpe, non l'anima per se stessa.

Non per le anime legiferò Iddio dover astenersi da ciò che non le riguarda affatto, come l'adulterio l'omicidio, il furto, la rapina, l'irriverenza verso i genitori, e in generale da ogni concupiscenza che torni a ingiustizia e danno del prossimo.

3. Il comandamento: Onora tuo padre e tua madre, non si adatta alle anime sole, alle quali non convengono tali nomi, poiché la denominazione di padre e madre non può appropriarsi alle anime, quasi generassero altre anime, ma agli uomini, in quanto generano uomini.

4. Così pure il comandamento: Non commettere adulterio, non si potrebbe convenientemente dire o pensare riferito alle anime, non essendovi in esse differenza di maschio e di femmina, né alcuna attitudine o tendenza all'accoppiamento.

E non essendovi tale tendenza, non è possibile che l'accoppiamento avvenga.

E dove non c'è accoppiamento affatto, non c'è neppure un accoppiamento legittimo, qual è il matrimonio.

E dove non c'è accoppiamento conforme alla legge, non è neppur possibile la tendenza o l'accoppiamento contrario alla legge, cioè con la donna altrui, nel che appunto consiste l'adulterio.

5. Nemmeno il divieto del furto o di desiderare la roba del prossimo è fatto per le anime: ché esse non abbisognano di quello che per naturale bisognò o vantaggio si suole rubare o predare, come l'oro, l'argento, gli animali o altra cosa utile per il nutrimento, il vestito o l'uso.

È inutile per l'anima immortale tutto quanto é oggetto di appetito, in quanto, utile, da parte di chi ne ha bisogno.

6. Ma una trattazione più completa di quest'argomento lasciamola a chi vuole spingere la sua ricerca a tutti i particolari, o prende gusto nel combattere con gli avversari.

A noi bastano le considerazioni ora svolte e quelle che in armonia con queste confermano la risurrezione; l'indugiare più a lungo sugli stessi argomenti sarebbe ormai intempestivo.

Non ci siamo già proposti di non tralasciare nulla di quanto si potrebbe dire, ma di far vedere per sommi capi ai convenuti che cosa bisogna pensare della risurrezione, adattando alla capacità dei presenti le prove che adducono a questa verità.

Capo XXIV - Resta da esaminare l'argomento desunto dal fine.

Come ogni essere, anche l'uomo deve avere un fine corrispondente alla sua natura, che non può essere né l'esenzione dal dolore né il godimento corporeo.

1. Esaminati come che sia gli argomenti proposti, resterebbe a studiare quello che si desume dal fine.

Veramente esso già appare dalle cose dette, ma occorrerà prenderlo in esame aggiungendo solo quanto é necessario perché non sembri che abbiamo trascurato di ricordare qualche punto di quelli enumerati poco innanzi, con pregiudizio della materia presa a trattare o della divisione posta da principio.

2. Per questa ragione dunque e per prevenire le altre obiezioni che si potrebbero fare, sarà bene aggiungere soltanto questa osservazione: che cioè e le cose risultanti da natura e quelle prodotte dall'arte debbono avere ciascuna un fine proprio.

Ce l'insegna il senso comune di tutti, ce l'attesta quanto avviene sotto i nostri occhi.

3. Non vediamo infatti che altro è il fine che si propongono gli agricoltori, altro i medici; così pure, altro il fine dei viventi che nascono dalla terra, altro il fine degli animali che su di essa crescono e hanno origine per una serie naturale di generazioni?

4. Che se ciò è evidente, e se alle forze della natura o dell'arte e alle rispettive operazioni deve di necessità corrispondere il fine ad esse connaturale, ne consegue assolutamente che anche il fine degli uomini, in quanto fine d'una natura propria e singolare, deve distinguersi dal fine comune degli altri esseri.

Certo non sarebbe giusto assegnare il medesimo fine agli esseri privi del giudizio di ragione e a quelli che operano secondo una legge e una ragione innata in loro e sono capaci di prudenza e di giustizia.

5. Fine proprio dell'uomo non può dunque essere l'esenzione dal dolore, ché questa gli sarebbe comune anche con gli esseri privi affatto di senso; e neppure il godimento di ciò che alimenta o diletta il corpo e l'abbondanza dei piaceri; se così fosse, alla vita delle bestie spetterebbe necessariamente il primato e la vita virtuosa non raggiungerebbe il suo fine.

Questo è fine proprio, io penso, di greggi e di armenti, non di uomini dotati d'anima immortale e di discernimento ragionevole.

Capo XXV - Nemmeno può essere fine ne dell'uomo la felicità dell'anima separata dal corpo, dovendo il fine riguardare tutto l'uomo.

Il che esige la risurrezione, senza la quale non può ricostituirsi l'unità del composto umano interrotta dalla morte; solo tosi l'uomo può raggiungere il proprio fine, che è godere per sempre della contemplazione di Dio e dei suoi decreti.

 1. Neppure è fine dell'uomo la felicità dell'anima separata dal corpo: ché, come si diceva, noi consideriamo la vita o il fine della vita non nell'una o nell'altra di queste parti di cui consta l'uomo, ma nel composto che risulta da entrambe; tale infatti è ogni uomo che ha sortito questa vita, e questa vita deve avere un fine suo proprio.

2. Che se il fine è del composto, e non può aver luogo mentre le due parti dell'uomo vivono in questa vita, per le ragioni già dette più volte, né nella condizione dell'anima separata ( poiché, quando il corpo sia disciolto o anche del tutto disperso, più non sussiste l'uomo come tale, sebbene l'anima continui ad esistere in se stessa ), necessariamente il fine dell'uomo dovrà ravvisarsi in qualche altro stato del composto e del medesimo vivente.

3. Ammessa questa necessaria conseguenza, deve assolutamente esservi una resurrezione dei corpi morti o anche andati in pieno sfacelo e debbono ricomporsi i medesimi uomini; poiché il fine non è stabilito indeterminatamente né la legge di natura è fatta per gli uomini presi in astratto, ma proprio per quelli stessi che vissero nella vita precedente.

Il ricomporsi poi dei medesimi uomini è impossibile, se non vengono restituiti i medesimi corpi alle medesime anime; d'altra parte è impossibile che il medesimo corpo riceva di nuovo la medesima anima se non mediante la risurrezione; avvenuta questa, si raggiunge pure il fine corrispondente alla natura dell'uomo.

4. Fine poi d'una vita capace di prudenza e di discernimento razionale si potrà giustamente definire il rimanere in eterno indissolubilmente unito a ciò a cui la ragione naturale s'accorda come suo primo e supremo oggetto, l'esultare cioè incessantemente nella contemplazione del Datore e dei suoi decreti; sebbene i più degli uomini, per l'attaccamento troppo forte e passionale alle cose di quaggiù, non raggiungano questo fine.

5. Poiché non vale la moltitudine di coloro che falliscono il fine loro conveniente a rendere vano il destino comune: ciascun uomo sarà esaminato a questo riguardo e a ciascuno sarà commisurato il premio o la pena meritata con la vita buona o cattiva.

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