Osservazioni sulla morale Cattolica

Parte prima

Capitolo I

Sulla unità di fede

L'unità della fede, che non può risultare se non da un assoggetta mento assoluto della ragione alla credenza, e che per conseguenza non si trova in nessun'altra religione allo stesso grado che nella cattolica, lega completamente tutti i membri di questa Chiesa a ricevere gli stessi dommi, a sottomettersi alle stesse decisioni, a formarsi con gli stessi insegnamenti

Che l'unità della fede si trovi nel più alto grado, o piuttosto assolutamente, nella Chiesa cattolica, è questo un carattere evangelico di cui essa si vanta; poiché non ha inventata quest'unità, ma l'ha ricevuta; e, tralasciando tanti luoghi delle Scritture dov'essa è insegnata, ne riporterò due, in cui si trova non solo la cosa, ma la parola.

San Paolo nell'Epistola agli Efesi, dice espressamente: Una e la fede; e dopo avere enumerati vari doni e ufizi che sono nella Chiesa, stabilisce per fine di essi l'unità della fede, e della cognizione del Figliolo di Dio.

L'illustre autore non adduce gli argomenti per cui l'unità della fede non deva poter resultare che dalla schiavitù assoluta della ragione alla credenza.

Se la cosa fosse così, non si potrebbero conciliare i passi citati dianzi, con quell'altre parole del medesimo apostolo: il razionale vostro culto.

Ma non solo si conciliano; si spiegano anzi, e si confermano a vicenda.

Certo, la fede include la sommissione della ragione: questa sommissione è voluta dalla ragione stessa, la quale riconoscendo incontrastabili certi princìpi, è posta nell'alternativa, o di credere alcune conseguenze necessarie, che non comprende, o di rinunziare ai princìpi.

Avendo riconosciuto che la Religione Cristiana è rivelata da Dio, non può più mettere in dubbio alcuna parte della rivelazione; il dubbio sarebbe non solo irreligioso, ma assurdo.

Supponendo, per un momento, che l'unità della fede non fosse espressa nelle Scritture, la ragione che ha ricevuta la fede deve adottarne l'unità: non ha più bisogno per questo di sottomettersi alla credenza; ci deve arrivare per una necessità logica.

La fede sta nell'assentimento dato alle cose rivelate, come rivelate da Dio.

Suppongo che l'autore, scrivendo questa parola fede, le ha applicata quest'idea, perchè è impossibile applicargliene un'altra.

Ora, repugna alla ragione che Dio riveli cose contrarie tra di loro; se la verità è una, la fede dev'esserlo ugualmente, perchè sia fondata sulla verità.

La connessione di quest'idee è chiaramente accennata nel testo già citato in parte: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.

Dall'unità di Dio resulta necessariamente l'unità della fede, e da questa l'unità del culto essenziale.

Bacone mostrò di tenere questa per una verità fondamentale, dove disse: Tra gli attributi del vero Dio si pone che e un Dio geloso: onde il suo culto non soffre ne mescolanza, ne compagnia.

L'idee di fede e di pluralità sono così contradittorie, che il linguaggio stesso pare che repugni a significare la loro unione; poiché si dirà bene le diverse religioni, opinioni, credenze religiose, ma non già le diverse fedi.

Per religione s'intende un corpo di tradizioni, di precetti, di riti; e si vede assai bene come ce ne possa essere più d'una.

Così nelle opinioni si considera piuttosto la persuasione di chi crede, che la verità delle cose credute.

Ma per fede s'intende persuasione fondata sulla rivelazione divina; e benché popoli di vario culto credano che l'opinione loro abbia questo fondamento, il linguaggio ricusa l'espressipne che significherebbe la coesistenza di rivelazioni diverse, perchè la ragione la riconosce impossibile.

Molti di diversa religione possono credere di posseder la fede; ma un uomo non può ammettere che questi molti la possiedano.

Se questa fosse una sofisticheria grammaticale, vaglia per tale, bastando l'argomento semplicissimo col quale s'è provato che l'unità - della fede non suppone altro assoggettamento della ragione, che alle leggi del raziocinio.

Non voglio certamente dire con ciò, che la fede stessa consista in una semplice persuasione della mente: essa è anche un'adesione dell'animo; e perciò dalla Chiesa è chiamata virtù.

Questa qualità le è contrastata dal Voltaire, in un breve dialogo dove la bassa e iraconda scurrilità del titolo stesso indica tutt'àltro, che quella tranquillità d'animo con cui si devono pure esaminare le questioni filosofiche.

« Un onest'uomo sostiene, « contro un escremento di teologia che la fede non è punto una virtù, con questo argomento: È forse virtù il credere? o quello che tu credi ti sembra vero, ed in questo caso non c'è merito a crederlo; o ti sembra falso, ed allora è impossibile che tu lo creda ».

È difficile d'osservare più superficialmente di quello che abbia qui fatto il Voltaire.

Per escludere dalla fede ogni cooperazione della volontà, egli non considera nel credere se non l'operazione della mente, che riconosce vera o non vera una cosa; riguarda quest'operazione come necessitata dalle prove, non ammettendo altro a determinarla, che le prove stesse; considera insomma, la mente come un istrumento, per così dire, passivo, su di cui le probabilità operano la persuasione o la non credenza: come se la Chiesa dicesse che la fede è una virtù dell'intelletto.

È una virtù nell'uomo; e per vedere come sia tale, bisogna osservare la parte che hanno tutte le facoltà dell'uomo nel riceverla o nel rigettarla.

Il Voltaire lascia fuori due elementi importantissimi: l'atto della volontà, che determina la mente all'esame, e la disposizione del core, che influisce tanto nell'ammettere o nel rigettare i motivi di credibilità, e quindi nel credere.

In quanto al primo, le verità della fede sono in tante parti così opposte all'orgoglio e agli appetiti sensuali, che l'animo sente un certo timore e una certa avversione per esse, e cerca di distrarsene; tende insomma ad allontanarsi da quelle ricerche che lo condurrebbero a scoperte che non desidera.

Ognuno può riconoscere in se questa disposizione, riflettendo all'estrema attività della mente nell'andare in cerca d'oggetti diversi, per occupare l'attenzione, quando un'idea tormentosa se ne sia impadronita.

La volontà di metter l'animo in uno stato piacevole influisce su queste operazioni in una maniera così manifesta, che quando ci si presenta un'idea che riconosciamo importante, ma sulla quale non ci piace di fermarci, ci accade spesso di dire a noi stessi: non ci voglio pensare; e lo diciamo, quantunque convinti che questo non pensarci ci potrà cagionare dei guai nell'avvenire; tanto è allora in noi il desiderio di schivare un sentimento penoso nel momento presente.

Questa mi pare una delle ragioni della voga che hanno avuta, e hanno in parte ancora, gli scritti che combattono la religione col ridicolo.

Secondano una disposizione comune degli uomini, associando a idee gravi e importune una serie d'idee opposte e svaganti.

Posta quest'inclinazione dell'animo, la volontà esercita un atto difficile di virtù, applicandolo all'esame delle verità religiose; e il solo deternarsi a un tale esame suppone non solo un'impressione ricevuta di probabilità, ma un timore santo dei giudizi divini, e un amore di quelle verità, il quale superi o combatta almeno l'inclinazioni terrestri.

Che poi l'amore o l'avversione alle cose proposte da credersi influisca potentemente sulla maniera d'esaminarle, sull'ammetterne o sul rigettarne le prove, è una verità attestata dall'esperienza più comune.

Si sparga una notizia in una città che abbia la disgrazia d'esser divisa in partiti; essa è creduta da alcuni, discreduta da altri, a norma degl'interessi e delle passioni.

Il timore opera, al pari del desiderio, sulla credenza, portando talvolta a negar fede alle cose minacciate, e talvolta a prestargliene più di quello che si meritino; la qual cosa avviene spesso quando si presenti un mezzo di sfuggirle.

Quindi sono così comuni quell'espressioni: esaminare di bona fede, giudicare senza prevenzione, spassionatamente, non farsi illusione, e altre simili, le quali significano la libertà del giudizio dalle passioni.

La forza d'animo, che mantiene questa libertà, è senza dubbio una disposizione virtuosa: essa nasce da un amore della verità, independente dal piacere, o dal dispiacere che ne può venire al senso.

Si vede quindi quanto sapientemente alla fede sia dato il nome di virtù.

Siccome poi la mente umana non sarebbe arrivata da sé a scoprire molte verità della religione, se Dio non le avesse rivelate; e siccome la nostra volontà corrotta non ha da sé quella forza di cui s'è parlato; così la fede è chiamata dalla Chiesa e una virtù e un dono di Dio.

Tornando da questa lunga digressione al passo che stiamo esaminando, confessò di non intendere chiaramente il senso di quella proposizione: che l'unità di fede non si trova in alcun'altra religione allo stesso grado che nella cattolica.

Come ci possono essere diversi gradi nell'unità di fede, il più e il meno in un'unità qualunque?

O quest'altre religioni propongono come vera la loro fede, e devono insegnare che è vera essa sola, o ammettono che qualche altra lo possa essere; e come possono chiamar fede la loro, che in fatto è un vero dubbio?

Ogni volta che una di queste religioni s'avvicina al principio dell'unità, cioè quando esclude ogni dottrina opposta alla sua, ciò accade perchè in quella religione si sente allora vivamente che è assurdo il dir vera una proposizione, e non rigettare ciò che la contradice.

E ogni volta che s'allontana da quel principio, ciò accade perchè, non sentendosi certi della propria fede, s'accorda agli altri ciò che si chiede per sé, la facoltà di chiamar fede ciò che non importa la condizione del credere.

È la transazione della falsa madre del giudizio di Salomone: Non sia ne tuo, ne mio; ma si divida.

Ma non ci sono mezze fedi vere, più di quello che ci siano mezzi bambini vivi.

Infatti, né l'illustre autore indica quale sia il grado dell'unità di fede, fino al quale la ragione deva arrivare; né è possibile l'indicarlo, giacché l'assunto sarebbe contradittorio.

Dire che la ragione deva assoggettarsi alla fede, ma in un certo grado, qualunque sia, è dichiarare la fede infallibile insieme, e bugiarda.

Infallibile, in quanto, per sé, e come fede, può legittimamente richiedere un assoggettamento qualunque della ragione: bugiarda, in quanto, richiedendo un assoggettamento che la ragione può legittimamente limitare, ridurre a un certo grado, e fargli, dirò così, la tara, afferma più di quello che gli si deva credere.

Il non essere la Chiesa cattolica soggetta alle fluttuazioni accennate sopra; il trovarsi in essa, non un maggiore o minor grado d'unità di fede, ma l'unità della fede; questo dirsi e poter essere immutabile, è un carattere doppiamente essenziale della verità dei suoi insegnamenti.

È la condizione necessaria della ragione, come della fede; due doni d'un solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia dei quali è divinamente espressa nelle parole già citate dell'Apostolo: il razionale vostro culto.

Indice