Osservazioni sulla morale Cattolica

Capitolo VI

Sulla distinzione dei peccati in mortali e veniali

La distinzione fra peccati mortali e peccati veniali cancellò quella che noi trovavamo nella nostra coscienza fra le colpe più gravi e più perdonabili.

Si videro collocati gli uni accanto gli altri i delitti che ispirano il più profondo orrore insieme coi falli che la nostra debolezza riesce a mala pena ad evitare.

Si può credere che l'illustre autore ammetta in sostanza, con la Chiesa cattolica, la distinzione dei peccati in mortali e veniali di loro natura; poiché divide le offese in più gravi e in più perdonabili.

È noto che questa distinzione fu apertamente rigettata da Lutero e da Calvino; i quali ritennero invece i due vocaboli, ma dandogli un tutt'altro significato, repugnante alla ragione comune, non meno che alla fede cattolica.

Ecco una delle proposizioni del primo su questo punto: Perciò dissi che nessun peccato è veniale di sua natura, ma che tutti meritano la dannazione; e che l'essere alcuni veniali e da attribuirsi alla grazia di Dio.

E, in termini non meno espliciti, il secondo: Tengano i figlioli di Dio, che ogni peccato è mortale; perchè è una ribellione contro il voler di Dio, la quale provoca necessariamente la sua ira; perchè è una prevaricazione, dalla legge, prevaricazione alla quale è intimato, senza eccezione, il giudizio di Dio; e che le colpe dei santi sono veniali, non di loro natura, ma perche ottengono il perdono dalla misericordia di Dio.

La censura dell'illustre autore non cade dunque che sull'applicazione della massima, cioè sulla classificazione dei peccati, che dice opposta a quella che trovavamo nella nostra coscienza.

Su di che mi fu lecito di osservare prima di tutto, che la nostra coscienza, priva della rivelazione, non può mai essere un'autorità a cui ricorrere per riformare in ciò il giudizio, non solo della Chiesa, ma qualunque giudizio: non sarebbe che appellare da una coscienza a un'altra.

Al sentire che la distinzione dei peccati mortali dai veniali cancellò quella che trovavamo nella nostra coscienza, tra l'offese più gravi e le più condonabili, parrebbe che, quando la Chiesa insegnò questa distinzione, ne abbia trovata nelle menti degli uomini una anteriore, precisa e unanimemente ricevuta, e che a questa abbia sostituita la sua.

Ma il fatto sta che il principio astratto di questa distinzione era bensì universalmente ricevuto, e faceva parte del senso comune; ma che, riguardo all'applicazione, il giudizio della coscienza era ( come s'è osservato più volte ) vario secondo i luoghi, i tempi, e gl'individui; che ad alcuni faceva parer colpa grave ciò che per altri era colpa leggera, o non colpa, o anche virtù; che alcuni perfino ( e non erano i meno pensatori ) tenevano che tutte le colpe fossero pari; e, per conseguenza, rifiutavano il principio medesimo.

La Chiesa, istituita per illuminare e per regolare la coscienza, la Chiesa, fondata appunto perchè questa non era ne incorrotta, ne unanime, ne infallibile, non può esser citata al suo tribunale.

Quale doveva dunque essere per la Chiesa il criterio a giudicare della gravità delle colpe?

Certo, la parola di Dio.

Uno degli uomini che hanno più meditato, e scritto più profondamente su questa materia, sant'Agostino, osserva che: alcune cose si crederebbero leggerissime, se nelle Scritture non fossero dichiarate più gravi che non fare a noi; e da ciò appunto deduce che: col giudizio divino, e non con quello degli uomini si deve decidere della gravità delle colpe.

Non prendiamo, dice anche altrove, non prendiamo bilance false per pesare ciò che ci piace, e come ci piace, dicendo, a nostro capriccio, questo è grave, questo è leggero; ma prendiamo la bilancia divina delle Scritture, e pesiamo in essa ciò che è colpa grave, o per dir meglio, riconosciamo il peso che Dio ha dato a ciascheduna.

Perchè, il vero appello è dalla coscienza alla rivelazione, cioè dall'incerto al certo, dall'errante e dal tentato all'incorruttibile e al santo.

Che se, con questa coscienza riformata e illuminata dalla rivelazione, osserviamo quello che la Chiesa c'insegna sulla gravità delle colpe, non troveremo che da ammirare la sua sapienza, e la sua fedeltà alla parola divina, della quale è interprete e depositaria.

Vedremo che quelle cose che essa ascrive a peccato grave, vengono tutte da disposizioni dell'animo contrarie direttamente al sentimento predominante d'amore e d'adorazione che dobbiamo a Dio, o all'amore che dobbiamo agli uomini, tutti nostri fratelli di creazione e di riscatto; vedremo che la Chiesa non ha messo tra le colpe gravi nessun sentirnento che non venga da un core superbo e corrotto, che non sia incompatibile, con la giustizia cristiana, nessuna disposizione che non sia bassa, carnale o violenta, che non tenda ad avvilir l'uomo, a stornarlo dal suo nobile fine, e a oscurare nella sua anima i segni divini della somiglianza col Creatore; e sopra tutto nessuna disposizione per la quale non sia espressamente intimata nelle Scritture l'esclusione dal regno dei cieli.

Ma, specificando queste disposizioni, la Chiesa ha ben di rado enumerati gli atti in cui si trovino al punto di renderli colpe gravi.

Sa e insegna che Dio solo vede a qual segno il core degli uomini s'allontani da Lui; e fuorché nei casi in cui gli atti siano un'espressione manifesta dall'essersi il core ritirato da Lui, essa non ha che a ripetere: Chi è che conosca i delitti? ( Sal 19,12 )

Oltre le disposizioni, ci sono delle azioni per le quali nelle Scritture è pronunziata la morte eterna: sulla gravità di queste non può cader controversia.

Oltre di queste ancora, la Chiesa ha dichiarate colpe gravi alcune trasgressioni delle leggi stabilite da essa con l'autorità datale da Gesù Cristo.

Non c'è alcuna di queste leggi che tema l'osservazione d'un intelletto cristiano, spassionato e serio; alcuna che non sia, in un modo manifesto e diretto, conducente all'adempimento della legge divina.

Non sarà qui fuori del caso di discuterne una brevemente.

È peccato mortale il non assistere alla Messa in giorno festivo.

Chi non sa che la sola enunciazione di questo precetto eccita le risa di molti?

Ma guai a noi, se volessimo abbandonare tutto ciò che ha potuto essere soggetto di derisione!

Quale è l'idea seria, quale il nobile sentimento, che abbia potuto sfuggirla?

Nell'opinione di molti non può esser colpa se non l'azione che tenda direttamente al male temporale degli uomini; ma la Chiesa non ha stabilite le sue leggi secondo questa opinione sommamente frivola e improvida: la Chiesa insegna altri doveri; e quando essa regola le sue prescrizioni secondo tutta la sua dottrina, bisogna prima confessare che è consentanea a sé stessa; e se le prescrizioni non paiono ragionevoli, bisogna provare che tutta la sua dottrina è falsa; non giudicare la Chiesa con uno spirito che non è il suo, e che essa riprova.

È notissimo che la Chiesa non ripone l'adempimento del precetto nella materiale assistenza dei fedeli al Sacrificio, ma nella volontà d'assisterci: essa ne dichiara disobbligati gl'infermi e quelli che sono trattenuti da un'occupazione necessaria; e ritiene trasgressori quelli che, presenti con la persona, ne stanno lontani col core: tanto è vero che, anche nelle cose più essenziali, vuole principalmente il core dei fedeli.

Posto ciò, vediamo quali disposizioni certe supponga la trasgressione di questo precetto.

La santificazione del giorno del Signore è uno di quei comandamenti che il Signore stesso ha dati all'uomo.

Certo, nessun comandamento divino ha bisogno d'apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l'uomo al suo Creatore.

Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più nella maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità, e stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato degli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro altri oggetti dei quali si disingannerà quando gli abbia posseduti; l'uomo prostrato dalla sventura, è l'uomo inebbriato da un prospero successo; l'uomo ingolfato negli affari, e l'uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine, e l'importanza del nostro fine.

E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali, per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti; giorni dell'uomo indòtto nello studio il più alto, e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d'eterno contento a cui aneliamo, e di cui l'anima nostra sente d'esser capace: in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le, comuni preghiere, rammentandoci le comuni miserie ed i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli.

La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive ai suoi figli la maniera d'adempirlo più ugualmente e più degnamente.

E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrificio di Gesù Cristo, quel Sacrificio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze?

Il cristiano che volontariamente si astiene in un tal giorno da un tal Sacrificio, può mai essere un giusto che viva della fede? ( Rm 1,17 )

Può far vedere più chiaramente la non curanza del precetto divino della santificazione?

Non ha evidentemente nel core un'avversione al cristianesimo?

non ha rinunciato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante?

non ha rinunziato a Gesù Cristo?

Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell'aria mortale del gentilesimo.

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