Il potere della croce

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« Umiliò se stesso »

Nell'anno 630 d.C., l'imperatore di Bisanzio, Eraclio, avendo sconfitto il re persiano Cosroe, recuperò le reliquie della Santa Croce che questi aveva portato via da Gerusalemme, quattordici anni prima.

Quando si trattò di ricollocare la preziosa reliquia nella basilica eretta da Costantino sul Calvario, avvenne un fatto singolare che la liturgia ricorda con la festa dell'esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre.

« Eraclio - si leggeva un tempo nell'ufficio di tale festa - tutto ricoperto di ornamenti d'oro e di pietre preziose, fece per attraversare la porta che conduceva al Calvario, ma non vi riusciva.

Più si sforzava di avanzare, più si sentiva come inchiodato sul posto.

Stupore generale.

Il vescovo Zaccaria, allora, fece notare all'imperatore che forse quella tenuta da trionfo non si addiceva all'umiltà con cui Gesù Cristo aveva varcato quella soglia portando la croce.

Immediatamente l'imperatore si spoglia dei suoi abiti lussuosi e, a piedi nudi, vestito come un uomo qualsiasi, fa senza difficoltà il resto della strada e giunge al luogo dove doveva essere riposta la croce ».

Da questo episodio deriva, remotamente, il rito del Papa che tra poco, svestito dei paramenti e a piedi scalzi, si reca a baciare la croce.

Ma il fatto ha anche un significato spirituale e simbolico che riguarda tutti noi qui presenti, anche chi non si reca scalzo a baciare la croce.

Dice che non è possibile accostarsi al CrocifIsso, se prima non ci spogliamo di tutte le nostre pretese di grandezze, i nostri titoli; in una parola del nostro orgoglio e della nostra vanità.

Semplicemente non è possibile; ne saremo invisibilmente respinti.

È quello che vogliamo fare in questa liturgia.

Due cose semplicissime: prima, gettare ai piedi del Crocifisso tutto il carico di orgoglio del mondo e nostro personale; secondo, rivestirci dell'umiltà di Cristo e con essa tornare a casa « giustificati », come il pubblicano dal tempio ( Lc 18,14 ), cioè perdonati, rinnovati.

Nel profeta Isaia leggiamo queste parole di Dio: « Sarà piegato l'orgoglio dell'uomo, sarà abbassata l'alterigia umana, sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno » ( Is 2,17 ).

« Quel giorno » è il giorno del compimento messianico, il giorno in cui il Cristo dalla croce proclama che « tutto è compiuto » ( Gv 19,30 ).

Quel giorno, insomma, è questo giorno!

E come ha piegato, Dio, l'orgoglio degli uomini? Spaventandoli?

Mostrando loro la sua tremenda grandezza e potenza? Annientandoli?

No, l'ha piegato annientandosi: « Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma annientò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso » ( Fil 2,6-8 ).

Humiliavit semetipsum: ha umiliato se stesso, non gli uomini!

Ha piegato l'orgoglio e l'alterigia umana dall'interno, non dall'esterno.

E quanto si è umiliato! Non ci inganni lo splendore di questo luogo, della liturgia, dei canti, tutto l'onore di cui è circondata oggi la croce.

Ci fu un tempo in cui la croce non era nulla di tutto questo, ma solo infamia.

Una cosa da tenere lontana non solo dagli occhi, ma perfino dalle orecchie dei cittadini romani.1

Come era stato predetto, così morì: « senza apparenza, né bellezza, disprezzato, reietto dagli uomini, uno davanti al quale ci si copre la faccia, giudicato da tutti castigato, percosso da Dio, umiliato » ( Is 53,2-4 ).

Una sola persona al mondo sa davvero cos'è la croce, all'infuori di Gesù: Maria, sua madre.

Ella ha portato con lui « l'obbrobrio della croce » ( Eb 13,13 ).

Gli altri, compreso san Paolo, hanno conosciuto la « potenza della croce » ( 1 Cor 1,18 ), ella ne ha conosciuto anche la debolezza; gli altri hanno conosciuto la teologia della croce, lei la realtà della croce.

La croce è la tomba in cui si inabissa ogni orgoglio umano.

A esso Dio dice, come al mare: « Fin qui giungerai e non oltre e qui s'infrangerà l'orgoglio delle tue onde » ( Gb 38,11 ).

Sulla roccia del Calvario vanno a infrangersi tutti i flutti dell'orgoglio umano, e non possono passare oltre.

Troppo alto è il muro che Dio ha eretto contro di esso, troppo profondo l'abisso che gli ha scavato dinanzi.

« Il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato » ( Rm 6,6 ).

Il corpo dell'orgoglio, poiché questo è il peccato per eccellenza, il peccato che c'è dietro ogni peccato.

« Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce » ( 1 Pt 2,24 ).

Portò il nostro orgoglio nel suo corpo.

Dov'è la parte che ci riguarda in tutto ciò? Dov'è il "vangelo", cioè la buona e lieta notizia?

È che Gesù si è umiliato anche per me, in vece mia.

« Uno è morto per tutti, e quindi tutti sono morti » ( 2 Cor 5,14 ): uno si è umiliato per tutti, quindi tutti si sono umiliati.

Sulla croce Gesù è il nuovo Adamo che obbedisce per tutti.

È il capostipite, l'inizio di un'umanità nuova.

Agisce in nome di tutti e a beneficio di tutti.

Come « per l'obbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti giusti » ( Rm 5,19 ), così per l'umiltà di uno solo tutti sono stati costituiti umili.

La superbia, come la disobbedienza, non ci appartiene più.

È roba del vecchio Adamo. È vetustà, è morte.

La novità è ora l'umiltà.

Essa è piena di speranza, perché dischiude la nuova esistenza, basata sul dono, sull'amore, sulla solidarietà e non più sulla competitività, sull'arrivismo e sulla sopraffazione reciproca.

« Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove » ( 2 Cor 5,17 ).

Una di queste meravigliose cose nuove è l'umiltà.

Cosa significa, allora, celebrare il mistero della croce, « in spirito e verità »?

Cosa significa, applicata ai riti che stiamo celebrando, l'antica massima: « Riconoscete ciò che fate, imitate ciò che celebrate - Agnoscite quod agitis, imitarnini quod tractatis »?

Significa: realizzate dentro di voi quello che rappresentate all'esterno; compite ciò che commemorate!

Bisogna che questa sera io consegni a Cristo « il corpo del mio orgoglio », perché egli lo possa distruggere di fatto, come lo distrusse una volta per sempre, di diritto, sulla croce.

Quando ero ragazzo, alla vigilia di certe solennità, c'era l'usanza, nella mia terra, di accendere nelle campagne, al calar della notte, dei grandi falò che si vedevano da una collina all'altra e ogni famiglia portava la sua parte di legna o di sarmenti per alimentare il fuoco, mentre attorno a esso si pregava e si recitava il rosario.

Qualcosa del genere deve avvenire, spiritualmente, questa sera, in preparazione alla grande solennità di Pasqua.

Ognuno dovrebbe venire, in spirito, a gettare nella grande fornace della passione di Cristo il suo carico di orgoglio, di vanità, di autosufficienza, di presunzione, di alterigia.

Dobbiamo imitare quello che fanno gli eletti in cielo, nella loro liturgia di adorazione dell'Agnello, sulla quale è modellata la nostra qui sulla terra.

Essi - dice l'Apocalisse - avanzano in processione e, giunti davanti a Colui che siede sul trono, si prostrano e « gettano le loro corone davanti al trono » ( Ap 4,10 ).

Essi, le corone vere del loro martirio; noi, le false corone che ci siamo messi sul capo da soli.

Dobbiamo « configgere alla croce tutti i moti della superbia ».2

Non dobbiamo avere paura di deprimerci, di abdicare alla nostra dignità di uomini, o di cadere, così, in stati d'animo morbosi.

Qualcuno, all'inizio del nostro secolo, ha attaccato il cristianesimo, accusandolo di aver introdotto nel mondo quello che per lui era « il morbo » dell'umiltà ( E Nietzsche ).

Ma ora è la stessa filosofia a dirci che esistenza umana « autentica » è solo quella che riconosce la propria radicale « nullità ».3

La superbia è una via che porta alla disperazione, perché significa non accettarsi per quello che si è, ma voler disperatamente essere ciò che, nonostante tutti gli sforzi, non si potrà mai essere, cioè indipendenti, autonomi, senza alcuno al di sopra di sé, a cui dover dire grazie per ciò che si è.4

La moderna psicologia del profondo è giunta, per altra via, alla stessa conclusione.

Uno dei suoi massimi cultori, C.G. Jung, ha notato una cosa sorprendente.

Tutti i pazienti di una certa età che si erano rivolti a lui soffrivano, dice, di qualcosa che si poteva definire assenza di umiltà, e non guarivano finché non acquistavano un atteggiamento di rispetto e di umiltà nei confronti di una realtà più grande di loro, cioè un atteggiamento religioso.

L'orgoglio è una maschera che ci impedisce di essere veri uomini, prima ancora che credenti.

È umano essere umili! Le parole homo e humilitas derivano entrambe da humus, che vuol dire terra, suolo.

Tutto ciò che nell'uomo non è umiltà, è menzogna.

« Se uno pensa di essere qualcosa, mentre è nulla, inganna se stesso » ( Gal 6,3 ).

Appena decidiamo di disfarci dell'orgoglio, ci accorgiamo, con spavento, di quanto esso ci pervada dentro e fuori, di quanto siamo impastati di orgoglio.

Si dice che oltre il settanta per cento del corpo umano sia costituito di acqua, ma, forse, ancor più del settanta per cento dello spirito umano è costituito di orgoglio.

L'aria stessa che respiriamo è attraversata, a tutte le frequenze, da onde che trasportano parole e messaggi carichi di orgoglio.

C'è perfino chi crede di poter andare "oltre" Gesù Cristo e dichiara aperta una nuova era, « a New Age », fondata non già sull'incarnazione, ma su una costellazione, l'Acquario; non già sulla congiunzione della divinità con l'umanità, ma sulla congiunzione dei pianeti.

Si fondano ogni anno nuove religioni e nuove sette e si annunciano nuove vie di salvezza, come se quella rivelata da Dio, fondata su Cristo, non bastasse più agli uomini divenuti saggi e adulti; come se fosse troppo umile.

E cos'è tutto questo se non orgoglio e presunzione?

« O stolti Galati - diceva san Paolo - chi vi ha ammaliati, proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? » ( Gal 3,1 ).

O stolti cristiani, chi vi ha ammaliati, da farvi passare così presto a un nuovo vangelo?

Tutti smaniamo per farci notare. Se potessimo rappresentarci visivamente l'intera umanità, così come essa appare agli occhi di Dio, vedremmo lo spettacolo di una folla immensa di gente che si leva sulla punta dei piedi, che cerca di innalzarsi uno al di sopra dell'altro, schiacciando magari chi gli è accanto, e tutti che gridano: « Ci sono anch'io, ci sono anch'io nel mondo! ».

Fumo, vanità? Certo tutta questa superbia è fumo che la morte, come il vento, ogni giorno disperde.

« Vanità di vanità », la chiama il Qoelet.

Non un grammo di essa varcherà la soglia dell'eternità con noi e, se la varcherà, sarà per trasformarsi subito in capo d'accusa e di tormento.

Ma i suoi effetti sono ugualmente terribili.

Essa somiglia al fungo atomico che si leva minaccioso contro il cielo, come un pugno chiuso, ma che ricade poi sulla terra, seminando distruzione e morte all'intorno.

Quanta parte delle guerre passate e presenti ( compresa quella in atto tra opposte fazioni di cristiani in un martoriato paese ) non dipende dall'orgoglio?

La sofferenza dei poveri non dipende anch'essa, in buona parte, dall'orgoglio di certi capi che vogliono essere potenti, sicuri sul trono, avere perciò l'esercito più forte, le armi più terribili, e impegnano per esse le risorse che dovrebbero servire a migliorare le condizioni di vita, a volte spaventose, della loro gente?

Ma anche a livello di convivenza umana quotidiana, nelle famiglie e nelle istituzioni, quanta sofferenza ci provochiamo a vicenda con il nostro orgoglio, quante lacrime causate da esso!

Ma non ci dobbiamo fermare qui. Se ci fermiamo a denunciare questo orgoglio collettivo, non abbiamo fatto ancora quasi niente.

Può essere anzi orgoglio che si aggiunge ad altro orgoglio.

La processione che dobbiamo fare questa sera non è tanto verso l'esterno, quanto verso l'interno.

Dobbiamo lacerarci il cuore, non le vesti ( Gl 2,13 ).

È lì, nel mio cuore, che si annida il vero orgoglio, l'unico che io possa distruggere con la mia volontà, perché l'unico prodotto dalla mia volontà.

Impresa difficile quant'altra mai! Il pescatore di perle dei mari del sud, che tenta di raggiungere il fondo del mare, sperimenta la tremenda resistenza dell'acqua che lo spinge in su, con una forza pari e contraria al suo volume.

Sperimenta, senza saperlo, il principio di Archimede.

Chi cerca di immergersi al di sotto dello specchio d'acqua tranquillo delle proprie illusioni, di umiliarsi e di conoscersi per quello che è in verità, sperimenta la spinta, ancora più potente, dell'orgoglio che lo spinge a elevarsi, a emergere, a rimanere in superficie.

Anche noi siamo in cerca di una perla preziosa, la più preziosa che ci sia per Dio.

Essa si chiama un cuore « contrito e umiliato ».

Come si fa ad avere un cuore contrito e umiliato?

Chiediamo anzitutto l'aiuto dello Spirito Santo; abbandoniamo le difese e le resistenze.

Guardiamoci adesso, per un momento, se ci riusciamo, nello specchio della nostra coscienza.

Soli davanti a Dio.

Quanto orgoglio, quanta vanità e autocompiacenza, quanta falsa umiltà e ipocrisia; in quella circostanza, in quell'altra, in quel mio atteggiamento, in quell'altro.

Forse, ahimè, in questo stesso momento. Quanto "io", "io", "io".

« Arrossisci superba cenere - erubesce superbe cinis: Dio si umilia e tu ti esalti? », diceva a se stesso san Bernardo5 e sant'Agostino, prima di lui: « Il tuo Signore umile e tu superbo? Il Capo umile e un membro superbo? ».6

I cieli e la terra sono pieni della gloria di Dio; solo il cuore dell'uomo fa eccezione, perché è pieno della propria gloria, non di quella di Dio.

Così preoccupato di sé, da far servire alla propria gloria anche le cose fatte per Dio. Anche Dio!

Eppure « cos'hai che non hai ricevuto? » ( 1 Cor 4,7 ).

Per avere il cuore contrito e umiliato, bisogna fare una volta l'esperienza di chi è colto in flagrante, come quella donna del Vangelo, colta in flagrante adulterio che se ne stava lì, zitta e a occhi bassi, aspettando la sua sentenza ( Gv 8,3ss ).

Noi siamo ladri della gloria di Dio colti in flagrante.

Se ora, anziché fuggire altrove con il pensiero o irritarci dicendo tra noi: « Questo discorso è duro e chi lo può sopportare? » ( Gv 6,60 ), abbassiamo gli occhi, ci battiamo il petto e diciamo dal profondo del cuore, come il pubblicano: « O Dio, abbi pietà di me peccatore! » ( Lc 18,13 ), allora comincerà a operarsi anche in noi il miracolo del cuore contrito e umiliato.

Anche noi, come quella donna, anziché la condanna, sperimenteremo la gioia del perdono.

Avremo il cuore nuovo.

Le folle che assistettero alla morte di Cristo, « se ne tornarono a casa percuotendosi il petto » ( Lc 23,48 ).

Come sarebbe bello se potessimo imitarle!

Come sarebbe bello, se si ripetesse, anche qui tra noi, lo spettacolo di quelle tremila persone che, il giorno di Pentecoste, si sentirono « trafiggere il cuore » al pensiero di aver crocifisso Gesù di Nazaret e dissero a Pietro e agli altri apostoli: « Che dobbiamo fare, fratelli? » ( At 2,37 ).

Questo sarebbe davvero « imitare ciò che celebriamo ».

Un cuore affranto e umiliato « è sacrificio a Dio » ( Sal 51,19 ).

Oggi la Chiesa non celebra il sacrificio della Messa, perché il sacrificio di questo giorno dev'essere il nostro cuore contrito e umiliato.

« Il cielo è il mio trono, dice Dio, la terra lo sgabello dei miei piedi.

Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora?

Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie - oracolo del Signore.

Su chi volgerò lo sguardo? Sull'umile e su chi ha lo spirito contrito! » ( Is 66,1-2 ).

Il cuore umiliato è il paradiso di Dio sulla terra, la casa in cui ama prendere dimora e rivelare i suoi segreti.

Tutti gli avvenimenti esterni, per quanto grandiosi, compresi quelli che abbiamo vissuto di recente o che stiamo vivendo con il crollo dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est, restano ambigui, senza che nessuno possa sapere, in anticipo, se di essi ci si dovrà, un giorno, rallegrare o rammaricare.

Ma un cuore d'uomo che si umilia e si converte, no.

Esso è, per Dio, ciò che di più importante possa accadere sulla faccia della terra, una novità assoluta.

Ora che abbiamo deposto, almeno con il desiderio, tutto il nostro orgoglio ai piedi della croce, ci resta da fare brevemente la seconda cosa: rivestirci dell'umiltà di Cristo.

« Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero: confiderà nel Signore il resto d'Israele » ( Sof 3,12s ).

Cristo ha dato inizio sulla croce a questo popolo umile e povero che confida nel Signore; noi dobbiamo entrare ora a farne parte anche di fatto, come, per il battesimo, siamo già entrati a farne parte di diritto.

Gesù dice nel Vangelo: « Imparate da me che sono mite e umile di cuore » ( Mt 11,29 ).

Che cosa ha fatto mai Gesù, per dirsi umile? Ha forse sentito bassamente di sé, o parlato bassamente di sé?

Al contrario, egli si è proclamato « Maestro e Signore », uno che è dappiù di Giona, di Salomone, di Abramo, di tutti.

Che cosa ha dunque fatto? « Ha preso la forma di servo » ( Fil 2,7 ).

Non si è considerato piccolo, non si è dichiarato piccolo, ma si è fatto piccolo e piccolo per servirci.

Si è fatto, lui per primo, « il più piccolo di tutti e il servo di tutti » ( Mc 9,35 ).

Cristo non ha temuto di compromettere la sua dignità divina, abbassandosi fino ad apparire un uomo come gli altri.

L'umiltà di Cristo, oltre che di servizio, è fatta di obbedienza: « Si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte » ( Fil 2,8 ).

Umiltà e obbedienza appaiono qui quasi la stessa cosa.

Gesù sulla croce è umile perché non oppone alcuna resistenza alla volontà del Padre.

Ha « restituito a Dio il suo potere », ha compiuto il grande « mistero della pietà ».

L'orgoglio si spezza con la sottomissione e l'obbedienza a Dio e alle autorità costituite da Dio.

C'è qualcuno che nella vita ha solo e sempre discusso con Dio, come se si trattasse di un suo pari.

Ha finito per autoconvincersi di poter tenere in scacco anche Dio, perché ha tenuto in scacco gli uomini e i superiori.

Non si è mai veramente piegato e sottomesso a Lui.

Lo faccia, prima di morire, se vuole trovare finalmente la pace dell'anima.

Ricordi ciò che è scritto: « È terribile cadere nelle mani del Dio vivente! » ( Eb 10,31 ).

Cadervi, s'intende, da impenitenti.

Sulla croce, Gesù non ha solo rivelato, o solo esercitato, l'umiltà; l'ha anche creata.

L'umiltà vera, l'umiltà cristiana, consiste ormai nel partecipare allo stato inferiore di Cristo sulla croce.

« Abbiate in voi - dice l'Apostolo - gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù » ( Fil 2,5 ); gli stessi, non altri simili.

Fuori di questo, si possono facilmente scambiare per umiltà tante cose che sono invece o una dote naturale, o timidezza, o gusto dell'understatement, o semplice buon senso e intelligenza, quando non sono una forma raffinata di orgoglio.

Rivestiti dell'umiltà di Cristo, sarà più facile, tra le altre cose, lavorare per l'unità dei cristiani, perché unità e pace sono il naturale corteo dell'umiltà.

Lo sono anche in seno alla famiglia.

Il matrimonio nasce da un atto di umiltà.

Il giovane che si innamora e che, in ginocchio, come si usava una volta, chiede la mano della ragazza, fa il più radicale atto di umiltà della sua vita.

Si fa mendicante, ed è come se dicesse: « Dammi il tuo essere, che il mio non mi basta. Io non basto a me stesso! ».

Si direbbe che Dio abbia creato l'uomo maschio e femmina, perché imparassero a essere umili, a uscire da se stessi, a non essere alteri e autosufficienti, e perché scoprissero la beatitudine che c'è nel dipendere da qualcuno che ti ama.

Ha inscritto l'umiltà nella nostra stessa carne.

Ma, ahimè, quante volte l'orgoglio riprende, in seguito, il sopravvento e fa scontare all'altro l'iniziale bisogno che si è avuto di lui o di lei! Tra l'uomo e la donna si erge allora il terribile muro dell'orgoglio e della incomunicabilità che spegne ogni gioia.

Anche ai coniugi cristiani è rivolto, questa sera, l'invito a deporre ai piedi della croce ogni risentimento, a riconciliarsi tra loro, gettandosi, se possibile, le braccia al collo, l'uno dell'altro, per amore di Cristo che in questo giorno, sulla croce, « ha distrutto in se stesso l'inimicizia » ( Ef 2,16 ).

Il « popolo umile » era rappresentato, sotto la croce, da Maria, colei che un testo del concilio Vaticano II chiama « la prima di quegli umili e di quei poveri del Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza ».7

A lei rivolgiamo, dunque, la nostra preghiera: « O Maria, primizia del popolo umile e del resto d'Israele, serva sofferente accanto al Servo sofferente, nuova Eva obbediente accanto al nuovo Adamo, ottienici da Gesù, con la tua intercessione, la grazia di essere umili.

Insegnaci a "umiliarci sotto la potente mano di Dio", come ti sei umiliata tu. Così sia! ».

Indice

1 Cicerone, Pro Rubino
2 Agostino, Sulla dottrina cristiana, 2, 7, 9
3 M. Heidegger, Essere e tempo, 58
4 S. Kierkegaard, La malattia mortale
5 Bernardo di Chiaravalle, Lodi della Vergine, I, 8
6 Agostino, Sermone, 354, 9, 9
7 Lumen Gentium 55