Supplemento alla III parte

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Articolo 5 - Se chi è in peccato mortale possa esercitare lecitamente l'ordine ricevuto

Pare che chi è in peccato mortale possa esercitare lecitamente l'ordine ricevuto.

Infatti:

1. Chi non lo esercita quando vi è tenuto per ufficio, commette peccato.

Se dunque peccasse anche esercitandolo, non potrebbe evitare il peccato.

Il che è inammissibile.

2. La dispensa è « un'eccezione alla legge ».

Perciò, anche se per legge l'esercizio dell'ordine ricevuto fosse illecito, tuttavia con la dispensa diverrebbe lecito.

3. Chi partecipa al peccato altrui, pecca lui stesso mortalmente.

Se quindi un ordinato pecca mortalmente esercitando il proprio ordine in stato di peccato, allora pecca anche chi da lui riceve o richiede le cose sacre.

Il che sembra assurdo.

4. Se costui pecca esercitando il proprio ordine, fa peccato mortale con qualsiasi atto ad esso relativo.

Così dunque, concorrendo molti atti all'esercizio dell'ordine, egli dovrebbe commettere altrettanti peccati mortali.

Il che sembra estremamente duro.

In contrario:

1. Dionigi [ Epist. 8,2 ] ha scritto: « Costui », ossia chi non è illuminato [ dalla grazia ], « sembra molto presuntuoso, mettendo mano alle funzioni sacerdotali; e non sente timore e vergogna nel trattare le cose divine senza dignità, pensando che Dio ignori i segreti della sua coscienza; e pensa di poter ingannare colui che egli falsamente chiama Padre; e osa servirsi delle parole di Cristo per pronunziare sui segni divini, non oso dire delle preghiere, ma delle immonde bestemmie ».

Perciò il sacerdote che indegnamente esercita il proprio ordine è come un bestemmiatore, o un ipocrita.

Quindi pecca mortalmente.

E per lo stesso motivo peccano in caso analogo tutti gli altri ordinati.

2. La santità è richiesta negli ordinandi in quanto indispensabile per esercitare le loro funzioni.

Ora, chi si presenta agli ordini in peccato mortale pecca mortalmente.

A maggior ragione quindi pecca chiunque esercita in stato di peccato il proprio ordine.

Dimostrazione:

La legge [ Dt 16,20 ] comanda di « compiere santamente le cose sante ».

Perciò chi esegue le funzioni del proprio ordine in modo indegno compie le cose sante in maniera non santa, e quindi agisce contro la legge, per cui pecca mortalmente.

Chi infatti esercita un ufficio sacro in peccato mortale, senza dubbio lo esercita indegnamente.

Perciò è evidente che fa peccato mortale.

Analisi delle obiezioni:

1. Costui non può dirsi perplesso, così da essere costretto a peccare: poiché può abbandonare il peccato, oppure rinunziare all'ufficio che lo obbliga a esercitare il proprio ordine.

2. La legge naturale non ammette dispense.

Ora, è di legge naturale che uno tratti santamente le cose sante.

Quindi in questo caso nessuno può dispensare.

3. Fino a che la Chiesa tollera un suo ministro in peccato mortale, i sudditi sono in dovere di ricevere da lui i sacramenti, essendovi obbligati.

Tuttavia fuori del caso di necessità non è prudente indurre costui a esercitare il proprio ordine, quando si è persuasi che egli è in peccato mortale.

Persuasione che comunque uno potrebbe anche abbandonare, considerando che la grazia divina può convertire un uomo all'istante.

4. Uno pecca mortalmente tutte le volte che in peccato mortale agisce come ministro della Chiesa; e tante volte quante compie tale atto: poiché, come dice Dionigi [ De eccl. hier. 1,1,5 ], « agli immondi non è permesso neppure toccare i simboli », cioè i segni sacramentali.

Perciò quando costoro toccano le cose sacre nell'esercizio delle loro funzioni, fanno peccato mortale.

Non così invece se toccano le cose sacre per qualche necessità, o quando ciò sarebbe lecito anche ai laici: ad es. per battezzare in caso di necessità, oppure per raccogliere il corpo di Cristo caduto per terra.

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