La teologia mistica di San Bernardo

Regula LXXIII

Nel 1112 il giovane Bernardo entrò nell'abbazia di Cìteaux accompagnato da quattro fratelli e da circa venticinque amici.

Questi arrivi inattesi ridiedero vita a una riforma monastica che stava per morire d'inedia.

I fatti, nelle linee essenziali sono noti e non dobbiamo raccontarli ancora una volta,1 però è importante sapere ciò che quei giovani attendevano da Citeaux e ciò che vi avrebbero trovato entrandovi.

Ignorandolo non si potrebbe spiegare l'esistenza stessa dell'ascetica e della mistica cistercense.

Infatti la sua esistenza è un problema.

Gli storici oggi parlano abitualmente del « Rinascimento » del XII secolo.

L'espressione è facilmente giustificabile, ma l'aspetto più notevole è che, nella mente di coloro che ne parlano, questo rinascimento sembra dipingersi con colori chiari sul fondo scuro del misticismo cistercense: « Questo secolo, il secolo di san Bernardo e della sua mula, fu per molti aspetti un'età di vita fresca e vigorosa; contrassegnata dalle crociate, dalla nascita delle città e dei primi stati burocratici dell'Occidente, quest'epoca vide la pienezza dell'arte romanica e gli albori di quella gotica, il diffondersi delle letterature volgari, la riscoperta dei classici latini, della poesia latina e del diritto romano, lo studio della scienza greca con le sue appendici arabe e di buona parte della filosofia greca, il sorgere delle prime università europee.

Il XII secolo ha lasciato la sua impronta sull'istruzione superiore, sulla scolastica, sugli ordinamenti giuridici europei, sull'architettura e la scultura, sul dramma liturgico, sulla poesia latina e volgare.

Il tema è troppo ampio per un singolo volume e per un singolo autore ».2

Nulla di più vero, e lo è ancora più di quanto non pensi l'eminente storico.

San Bernardo, e quella mula che egli si ostina a non guardare, non sono soltanto l'elemento di contrasto sul quale risalta questo Rinascimento, ma ne sono parte integrante; forse ne sono persino l'espressione migliore, perché san Bernardo è il contrario del monaco incolto; non ignora ciò che disprezza, semplicemente l'ha superato.

La letteratura mistica del XII secolo completa armoniosamente la letteratura profana e la corona, e la riformerà rapidamente a propria immagine.

Per chi non si accontenta di questi settori di storia paralleli, ciascuno dei quali è considerato da uno storico che non si preoccupa dei settori vicini, la nascita della poesia cortese e del romanzo cortese, e tutta questa letteratura amorosa in lingua francese, è preceduta o accompagnata da una ricca speculazione teologica sull'amore, le cui opere si snodano senza interruzione dall'inizio del secolo fino alla sua fine e si prolungano anche nei secoli successivi.

Limitandoci al XIIl secolo, diciamo che tre gruppi di teologi sembrano aver preso l'iniziativa e la guida del movimento.

Essi stessi non sono un inizio assoluto, ma il XII secolo, su questo punto come su molti altri, rappresenta nondimeno un nuovo punto di partenza, una sorta di ripresa della quale non possiamo ancora valutare la fecondità.

La scuola certosina, di cui Guigo I sembra l'iniziatore, la scuola benedettina e cistercense, fondate da Guglielmo di Saint-Thierry e da san Bernardo, la scuola vittorina, con Ugo e Riccardo di San Vittore, hanno coltivato il problema dell'amore con gelosa predilezione.

Ciascuno di questi dottori, o dei loro discepoli, ha voluto prendere posizione sulla questione e risolverla, senza pretendere di creare dal nulla gli elementi della soluzione, ma adattandoli al proprio modo di pensare e di sentire.

Tra questi riserviamo un posto particolare ad alcuni autori isolati, come Abelardo, che a prima vista possono apparire come corpi estranei, ma le cui idee aberranti hanno agito talvolta da fermento e si sono rivelate feconde per le reazioni che hanno provocato.

È forse troppo presto per compilare una tavola cronologica di questi autori e delle loro opere, tanto più che la data esatta di molte di esse potrebbe avere un'approssimazione di circa dieci anni; ma le pazienti ricerche di Dom Andre Wilmart, che tanto ha fatto per sbrogliare la matassa di questa letteratura, ci permettono almeno di fissare un certo numero di punti di riferimento, attorno ai quali il resto può essere collocato con sufficiente approssimazione.

Nonostante le incertezze, o anche le inesattezze, tale quadro è sufficiente per dare l'impressione dell'importanza e della continuità dello sforzo che si è sviluppato, attraverso tutto il XII secolo, per chiarire il problema dell'amore.

Ci limitiamo agli autori più importanti e alle loro opere più rappresentative nella scuola certosina, benedettina e cistercense.

Date approssimative Autori Opere
1115 Guigo I, il Certosino Meditationes
1121 (o poco dopo) P. Abelardo Introduction ad theologiam
1119/35 Guglielmo di Saint-Thierry De contemplando Deo
- De natura et dignitate amoris
- Meditativae orationes
1125 San Bernardo Epistola de cantate ad Carthu-sianos ( costituisce l'ultima parte del De diligendo Deo, capp. XII-XV )
1125/26 De gradibus humilitatis et su-perbiae
1127/35 De diligendo Deo, capp. l-XI
1135/38 Super Cantica Canticorum, sermoni 1-24
1136/40 P. Abelardo Super Epistolam ad Romanos
1138/53 San Bernardo Super Cantica Canticorum, sermoni 25-86
1138 Guglielmo di Saint-Thierry Expositio in Epistolam ad Romanos
1141/42 Aeiredo di Rievaulx Speculum Caritatis
1144 Guglielmo di Saint-Thierry Speculum fidei - Aenigma fidei
1145 Epistola aurea ad Fratres de Monte Dei, libri I-II
1145/50 Guigo II, il Certosino Scala claustralium
1154/67 Gilberto di Hoyland In Cantica Canticorum, sermoni 1-41 ( Il sermone 41, che contiene l'elogio funebre di Aeiredo di Rievaulx, è quindi del 1167 )
1160/70 Guigo II, il Certosino Meditationes
1163/64 Aeiredo di Rievaulx De oneribus
1164/65 - Be spirituali amicitia
1166 - De anima
1167/72 Gilberto di Hoyland In Cantica Canticorum, sermoni da 46 alla fine
1187/89 Adamo il Certosino De quadripertito exercitio cellae
1190 Anonimo Meditationes piissimae de cognitione humanae conditionis

Due uomini dominano tutta questa storia: san Bernardo di Chiaravalle e Guglielmo di Saint-Thierry.

Sarebbe necessario considerarli tutti e due contemporaneamente e questa è una delle maggiori difficoltà di questo studio, poiché sono molto diversi e, allo stesso tempo, inseparabili.

L'uno, Bernardo, prevale incontestabilmente per la santità e la profondità dottrinale, ma l'altro, Guglielmo, non gli è inferiore - anzi talvolta sembra superarlo - per la forza di cui dà prova nell'elaborazione della loro comune sintesi dottrinale.

Il problema si complica ulteriormente a causa della cronologia dei loro rapporti.

Sarebbe molto più semplice se potessimo considerare Bernardo come il maestro e Guglielmo come il discepolo.

Guglielmo vorrebbe anche farcelo credere, ed in realtà lo è stato, ma il discepolo non ha insegnato nulla al maestro?

Bernardo è nato nel 1090; Guglielmo, nato verso il 1085, forse addirittura nel 1080, era quindi maggiore di età di almeno cinque anni.

Bernardo è morto nel 1153, Guglielmo verso il 1148, precedendo così nella tomba colui di cui aveva iniziato a scrivere la storia.

Sono quindi quasi esattamente contemporanei; Guglielmo non può essere considerato come un giovane che, andando da san Bernardo come da un maestro dal quale deve imparare tutto, si sia accontentato di ricevere da lui una sintesi dottrinale già completa.

Inoltre Guglielmo non è un cistercense della prima ora; educato a Reims, nel monastero benedettino di Saint-Nicaise, vi prende l'abito, viene eletto abate del monastero di Saint-Thierry nel 1119 ed è soltanto nel 1135 che si dimette da questa carica per entrare nel monastero cistercense di Signy.

Con ogni probabilità nel 1135 la dottrina di Bernardo è completamente formata, così come quella di Guglielmo.3

Pur riconoscendo che dal 1125 l'influsso personale di Bernardo varca ampiamente i confini dell'Ordine nascente, è giusto notare che la formazione ascetica e teologica di Guglielmo non ne dipende direttamente.

Nella misura in cui queste due vite si sono intrecciate, quando e in che senso si sono effettuati gli scambi?

Ammesso che Bernardo abbia donato quasi tutto, a sua volta non avrebbe ricevuto nulla? Non lo sappiamo.

Comunque sia, Guglielmo mantiene la propria personalità ben distinta, la sua opera è importante e, nel caso fosse andata completamente distrutta, quella di san Bernardo non basterebbe a rimpiazzarla.

Dietro questi due maestri si delineano alcune figure di secondo piano.

Appartenente a una generazione successiva, Aelredo di Rievaulx dipende, tuttavia, ancora direttamente da san Bernardo.

Essendo vissuto nel XII secolo, la distanza cronologica che lo separa dal maestro non è considerevole; sebbene influssi dottrinali si siano interposti tra lui e san Bernardo, egli rimane, nonostante la forza delle differenze personali, un interprete qualificato del maestro di cui si sente costantemente la presenza nei suoi scritti.

Se ne potrebbero citare altri, quali Gilberto di Hoyland e Isacco della Stella, ma questi tre nomi sembrano designare bene i tre fondatori e interpreti principali di quella che si può chiamare la Scuola Cistercense presa in sé stessa, indipendentemente dall'influsso, del resto così esteso e profondo, che ha esercitato, per esempio, sulla scuola certosina o, più in generale, al di fuori dell'Ordine Cistercense.

Cosa avevano in comune e, almeno al livello in cui esiste, come si spiega la loro unità?

Anzitutto non è possibile non notare una rimarchevole analogia di formazione intellettuale e di gusti tra questi uomini così diversi.

A parte Isacco, in cui si notano i segni evidenti di un vivo interesse per la dialettica e la metafisica, nessuno sembra essere stato toccato dal movimento filosofico del loro tempo.

Se fosse necessario classificarli, li annovereremo piuttosto tra gli anti-dialettici: san Bernardo attaccherà Abelardo e Gilberto della Porretta, ed è Guglielmo di Saiint-Thierry che lo spingerà all'attacco; Aelredo vivrà tranquillo al di fuori delle controversie di scuola, e Isacco, tranne che in qualche notevole sermone, coltiverà la psicologia più che la metafisica.

In generale la loro cultura profana è soprattutto letteraria.

Si distingue anche dalla scuola di Chartres perché Platone non vi è considerato più di Aristotele; l'uno e l'altro sono trattati come dei sofisti, la cui ragione era condannata in anticipo all'errore perché mancava loro la luce della fede.

Invece, tutti i rappresentanti della scuola cistercense che abbiamo nominato scrivono con cura.

Sono degli stilisti. Nutriti di Cicerone e di sant'Agostino, hanno rinunciato a tutto tranne che all'arte dello scrivere bene.

San Bernardo ha anche saputo crearsi un latino molto personale, ricco, ma non sovraccarico di citazioni bibliche, armonioso e di una sonorità tutta interiore - Doctor mellifluus -,allo stesso tempo fedele alle tradizioni classiche e libero della libertà che si addice alle lingue vive.

I suoi periodi sono molto articolati, spesso formati da opposizioni antitetiche.

Ama raccogliere i propri pensieri, al momento opportuno, in brevi formule di un sorprendente vigore.

Inclina raramente alla declamazione, abusa talvolta della arguzia, e l'allitterazione gli è così facile da apparire in luoghi dove, coloro a cui costa qualche sforzo, preferirebbero non incontrarla.

Il fatto è che a lui non costa alcuno sforzo, non deve neppure cercarla; talvolta spiace soltanto che non l'abbia eliminata.

È tutto quanto gli resta della grande esitazione della sua giovinezza: essere un uomo di lettere o diventare un santo?

Bernardo ha trovato il modo di restare uomo di lettere e di divenire santo.

Forse l'imponente serie delle loro opere interesserà solo parzialmente alcuni storici per i quali il modo di pensare e di sentire di un'epoca non fa parte della storia: tuttavia esso non è meno rivelatore di una corrente profonda e continua, di cui non si troverà certamente analogo nell'XI secolo e che cambierà sensibilmente direzione nel XIII.

È uno degli elementi indispensabili nel panorama del XII secolo e si collega all'insieme del quadro con tratti la cui importanza non può sfuggire a nessuno, non appena li si individui.

Infatti, tutti coloro che lo conoscono ammettono che il XII secolo fu, a suo modo, un'epoca umanistica.

Lo fu sicuramente molto più di quanto lo si immagini.

In quel periodo lo studio dei classici latini fu coltivato non solo a Chartres, ma un po' dovunque.

A questo proposito si parla sempre di Chartres, e a ragione, ma quanti altri centri di studi letterari sono scomparsi senza lasciare traccia?

Ad esempio non sapremmo quasi nulla della scuola molto modesta di Saint-Vorles, se non sapessimo che la letteratura latina medievale le deve san Bernardo.

Questo non è senza importanza, anche per lo studio della mistica cistercense, perché rinunciando al mondo per entrare a Cìteaux, è proprio a questa cultura classica, tra le altre cose, che Bernardo rinunciò, ma, in un senso, era troppo tardi, poiché egli l'aveva già ricevuta.

Egli stesso, più tardi, raccomanderà ai suoi novizi di lasciare i loro corpi alla porta del monastero e di lasciarvi entrare solo lo spirito.

È ciò che egli aveva fatto prima di loro, ma quante cose erano entrate nel monastero insieme al suo spirito!

robabilmente egli si imponeva di interdire l'ingresso a Ovidio, ma Grazio riuscì a prendervi piede; Persie e Giovenale hanno fornito spunti ai disprezzatori del mondo; e soprattutto un ospite imprevisto si è introdotto, insinuandosi attraverso le vie più nascoste fino al cuore stesso della teologia mistica: Cicerone.

L'influsso di Cicerone sulla concezione cortese dell'amore nel XII secolo non è stato preso in sufficiente considerazione dagli storici della letteratura francese.

La sua dottrina dell'amicizia disinteressata, nata dall'amore della virtù, basata sulla virtù, fonte di valore e di nobiltà morale, che trova in sé la propria ricompensa, non era certamente sconosciuta ai poeti di quel tempo.

Non la si può considerare una delle fonti della mistica cistercense in senso stretto, perché questa dottrina, bisogna dirlo, non ha nulla di mistico; ma è necessario conoscerla, se si vuole collocare la teologia cistercense dell'amore al posto che le spetta nell'insieme del XII secolo.

Per quanto hanno di comune, questi movimenti legati tra di loro, alcuni dei quali sono manifestamente estranei allo spirito del cristianesimo, devono verosimilmente ricollegarsi a una origine non cristiana; a prima vista, ve ne è una che si offre immediatamente come possibile e persino verosimile: è questo umanesimo del XII secolo, il cui influsso può essersi esercitato su san Bernardo così come sui poeti dell'amore cortese.

È vero che, in primo luogo, non si vede bene ciò che l'antichità potrebbe aver insegnato ai cristiani riguardo alla natura dell'amore.

Gli uomini del XII secolo leggevano solo il latino; nella letteratura latina Ovidio era il solo teorico dell'amore a cui essi potevano rivolgersi, ed è noto che i suoi consigli erano inutilizzabili per coloro che cercavano di costituire una dottrina dell'amore che fosse, se non mistica, almeno accettabile per i cristiani.

Infatti, vedremo che l'invasione delle scuole di lettere operata da Ovidio provocherà la violenta reazione di Guglielmo di Saint-Thierry.

Le scuole di carità cistercensi si schierano contro le scuole profane; contro il falso maestro del falso amore esse reclamano e proclamano i diritti del solo Maestro e del solo amore: lo Spirito Santo.

Evidentemente non è in questa direzione che dobbiamo cercare.

Al di fuori dell'amore propriamente detto c'era un altro sentimento sul quale gli Antichi sembravano aver riversato tutti i tesori di tenerezza, dignità, disinteresse, di cui si erano dimostrati così avari nei confronti dell'amore.

È l'amicizia.

Aggiungiamo che, su questo terreno, l'indagine può essere molto rapidamente circoscritta.

Senza negare che altri influssi avrebbero potuto esercitarsi, o anche con la certezza che altri si sono esercitati, si può ammettere come estremamente verosimile che nulla si può paragonare per importanza al De amicitia di Cicerone.

In effetti gli uomini del XII secolo hanno trovato in quest'opera un gran numero di elementi che potevano attingere direttamente o adattare alle proprie necessità.

Per non cedere alla tentazione di accumulare delle analogie discutibili, ci limitiamo a un ristretto numero di nozioni il cui influsso non sembra possa essere negato.

1. Richiamando alla memoria il magnifico elogio che Cicerone fa dell'amicizia ( cap. VI ), ricorderemo espressamente, come un elemento tecnico importante, l'identificazione dell'amicizia con ciò che Cicerone chiama benevolentia.

Il termine è reso molto male da « benevolenza ».

« Ben volere » sembra già più accettabile.

In realtà benevolentia significa: il sentimento che vuole il bene dell'oggetto amato, per l'oggetto amato in se stesso.

Può esservi parentela senza questo sentimento, ma non amicizia.

Da qui si vede come l'amicizia prevalga sul legame familiare: « sublata enim benevolentia, nomen amicitiae tollitur, propinquitatis manet » ( cap. V ).

2. L'origine dell'amicizia si trova nell'amore, in opposizione all'utilità.

Intendiamo dire che la benevolentia è generata da un sentimento interno di affetto ( sensum diligendi ), una tenerezza ( caritatem ), che ci porta a volere soltanto il bene dell'oggetto amato ( cap. VIII ).

3. L'utilità è quindi conseguente all'amicizia, ma non si può ammettere che ne sia la causa: « Sed, quanquam utilitates multae et magnae consecutae sunt, non sunt tamen ab earum spe causae diligendi profectae » ( cap. IX ).

« Amare autem, nihil aliud est, nisi eum ipsum diligere, quem ames, nulla indigentia, nulla utilitate quaesita » ( cap. XXVII ).

4. Di conseguenza, tutto il frutto dell'amicizia si trova nello stesso amore di benevolenza che portiamo per un nostro amico: « … sic amicitiam, non spe mercedis adducti, sed quod omnis eius fructus in ipso amore inest, expetendam putamus » ( cap. IX ).

Cfr. « Atque etiam mihi qui-dem videntur, qui utilitatis causa fingunt amicitias, amabilissimum nodum amicitiae tollere: non enim tam utilitas parta per amicum, quam amici amor ipse, delectat … Non igitur utilitatem amicitia, sed utilitas amicitiam, consecuta est » ( cap. XIV ).

Più avanti incontreremo, in san Bernardo, un riferimento quasi letterale a Cicerone: « fructus ejus, usus_ ejus ».4

5. La causa che fa nascere l'amicizia è la virtu; ma nessun uomo si affeziona a un altro uomo per la sua virtù, a meno che egli stesso sia virtuoso.

La causa più profonda di questo sentimento è quindi in fin dei conti, la somiglianza; la natura infatti non ama nulla tanto quanto ciò che le assomiglia: « Quod si etiam illud addimus, quod recte addi potest, nihil esse, quod ad se rem ullam tam alliciat, tam attrahat, quam ad amicitiam similitudo: concedetur profecto verum esse, ut bonos boni diligant, addiscantque sibi quasi propinquitate conjunctos, atque natura: nihil enim est appetentius similium sui, nihil rapacius quam natura » ( cap. XIV ).

6. Aggiungiamo infine quest'ultimo elemento, al quale a prima vista non si darebbe importanza, ma che, come vedremo più avanti, è di importanza notevole: l'amciziae è un sentimento essenzialmente reciproco.

È un mutuo accordo delle volontà, una « consensio ».

Non vi è uno solo di questi vari elementi che non sia entrato nella struttura della mistica cistercense e si può dire che i più importanti hanno esercitato un certo influsso sulla concezione cortese dell'amore.

La benevolentia di Cicerone è molto simile alla « buona volonta » di Chrétien de Troyes; la dottrina del disinteresse dell'amore vero, almeno nella misura in cui appartiene alle due scuole, deriva sicuramente da Cicerone.

Bisogna tuttavia aggiungere che c'è un aspetto che i nostri autori non sembrano aver gustato nel De omicida: la sua definizione dell'amicizia.

Cicerone, nel capitolo VI del suo trattato, ne propone loro una densa, complicata, carica di risonanze stoiche: « Est autem amicitia nihil aliud, nisi omnium divinarum humanarumque rerum, cum benevolentia et charitate, summa concordia ».

Conteneva troppe implicazioni stoiche e di metafisica latente per soddisfare i nostri autori.

Tranne Aelredo, che si è imposto il compito di rifare il trattato di Cicerone, nessuno, che io sappia, pare essersene interessato.

Invece, altre due definizioni dell'amicizia hanno attirato l'attenzione dei nostri mistici o teorici dell'amore.

La prima è ancora tratta da Cicerone, ma non dal De amicitia; si trova nel De inventione rhetorica, libro il, n. 55: « Amicitia est voluntas erga aliquem rerum bonarum, illius ipsius causa, quem diligit, cum ejus pari voluntate ».

La definizione era veramente perfetta, nel senso che riassumeva completamente l'insegnamento del De amicitia.

Vi si trovava anzitutto il richiamo alla benevolenza, poi al carattere disinteressato dell'amore e infine al carattere di reciprocità dell'amore, di quel « redamare » del quale Cicerone aveva detto nel De amicitia che non vi è nulla « jucundius » ( De amicitia, cap. XIV ).

Notare che « redamare », così familiare a san Bemardo, è usato da Cicerone come una sorta di neologismo; avrà pieno successo nel medio evo e diverrà più tardi popolare nel « sic nos amantem quis nos redamaret ».

A questa definizione è utile unire un altro passo del De amicitia che non da una definizione dell'amicizia propriamente detta, ma una che eventualmente poteva sostituirla: « Nam cum amicitiae vis sit in eo, ut unus quasi animus fiat ex pluribus … » ( cap. XXV ).

L'analogia di queste espressioni con l'unitas spiritus cara ai nostri mistici, permette di comprendere come essi hanno potuto raccogliere questi dati, all'inizio così estranei al problema che li interessava, e utilizzarli per la sua soluzione.

Per quanto sia necessario conoscerli, questi fatti non ci spiegano nulla dell'origine di questa ondata mistica, la cui forza è percepibile a partire all'incirca dal 1125 e che dilagherà nel XII secolo.

La nascita di questo movimento è un problema urgente come quello della nascita della letteratura in lingua volgare o dell'arte ogivale.

Fa parte della storia allo stesso titolo degli altri e la sua soluzione non è più facile da trovare.

A dire il vero, problemi di questo tipo non hanno mai una soluzione, perché tali movimenti dipendono da condizioni materiali assai complesse, da noi moIto poco conosciute, e più ancora da condizioni spirituali tanto più misteriose quanto più pura è la loro stessa spiritualità.

Ma soprattutto bisogna dire che questi movimenti prima di essere effetti, sono essi stessi avvenimenti che attendono di diventare cause.

Ciò che noi sappiamo è che verso il 1120, nel monastero benedettino di Saint-Thierry, Guglielmo di Liegi iniziava a scrivere, o a pensare, un De natura et dignitate amoris, e che verso il 1125 san Bernardo indirizzava a dei certosini, in risposta a delle Meditationes colme di amore divino, una Epistola de Cantate che ben presto avrebbe integrato il suo De diligendo Deo.

Al di là di questa teologia, il dramma passionale di Eloisa e Abelardo, più fecondo di idee di quanto normalmente si supponga, concentra tutte le attenzioni sul problema dell'amore.

Questi sono, anzitutto, degli avvenimenti.

Pertanto non è proibito domandarsi quali condizioni storiche abbiano, non tanto determinato, quanto occasionato, questo rinnovamento mistico i cui primi due focolai si accendono contemporaneamente a Saint-Thierry e a Cìteaux.

Nessuno ignora che il monastero di Cìteaux era nato da un grande sforzo per restaurare nella sua purezza l'osservanza della regola benedettina.

Roberto di Molesme e i suoi successori: Alberico, santo Stefano Harding, avevano energicamente perseguito l'impresa, la quale aveva già trovato il proprio orientamento definitivo quando Bernardo e i suoi compagni raccolsero il piccolo gruppo dei loro discepoli.

È quindi naturale supporre che la Regola di san Benedetto abbia esercitato un notevole influsso sul pensiero di san Bernardo.

È quindi con piena ragione che Dom Ursmer Berlière, all'inizio del proprio libro su L'Ascése bénédictine, scrive riguardo a Cìteaux: « La sua formazione ascetica si fonda sulla Regola; la letteratura che ha prodotto è un fiore straordinario, un frutto maturo dell'antico insegnamento benedettino ».

Gli studi che seguiranno confermeranno, su molti punti, la verità di questo giudizio.

Aggiungiamo tuttavia che qui non si tratta esattamente di questo, perché se è facile capire a prima vista che la meditazione della Regola benedettina ha provocato lo sbocciare di una teologia ascetica, non si vede immediatamente come possa aver favorito la nascita di una teologia mistica.

San Benedetto si tiene volutamente su un piano più modesto; molti l'avevano letto; prima di Roberto di Molesme e di san Bernardo c'erano stati eccellenti benedettini, santi benedettini; l'Ordine, se aveva bisogno di una riforma, aveva però conosciuto epoche di splendore spirituale, anche nel corso del medio evo, e tuttavia in nessun momento si riscontra una spinta mistica il cui vigore sia paragonabile a quello di cui XII secolo fu lo stupito testimone.

Come spiegare questo fenomeno?

Sembra lo si possa fare solo conservando tutta la sua forza al desiderio di osservare la vita benedettina pura da cui erano animati Bernardo e i suoi compagni.

Intendiamo con ciò dire che per loro non era sufficiente una perfetta osservanza letterale della Regola.

Ciò verso cui tendeva la loro anima, non era solo una vita benedettina strettamente regolare, ma anche la perfezione cristiana alla quale questa vita può condurre.

Ora, per essere un vero benedettino, basta praticare con zelo i primi settantadue capitoli della Regola.

Già questo non è facile, e sebbene san Benedetto avesse pensato di non imporre ai suoi monaci nulla che fosse eccessivamente duro o doloroso, si comprende facilmente come molti tra loro abbiano giudicato sufficiente lo sforzo richiesto per osservarli; se anche molti ne sono rimasti al di sotto, gli storici che ne scrivono, confortevolmente seduti al loro tavolo da lavoro tra due lunghe notti e due dei loro tre pasti quotidiani, mostrerebbero cattivo gusto a giudicarli.

Tuttavia è giusto dire che per san Benedetto stesso questo non era sufficiente per fare un perfetto cristiano, a meno di aggiungere a questa osservanza quella del settantatreesimo e ultimo capitolo.

È sufficiente citarlo e valutarne i termini per convincersene.

LXXIII. Che l'osservanza della giustizia non è interamente contenuta in questa regola

Abbiamo scritto questa Regola per mostrare che coloro che la osservano nei monasteri danno prova di una condotta assai lodevole e un inizio di vita religiosa.

Quanto a coloro che tendono verso questa vita nella sua perfezione, hanno gli insegnamenti dei santi Padri, la cui osservanza conduce l'uomo al vertice della perfezione.

Infatti quale pagina, quali parole, garantite dall'autorità divina nell'Antico o nel Nuovo Testamento, non sono una regola inflessibile della vita umana?

Quale libro dei Padri santi e cattolici non risuona di inviti da seguire per arrivare seguendo il diritto cammino al nostro creatore?

Vi sono inoltre le Conferenze dei Padri, le loro Istituzioni e le loro Vite e anche la Regola del nostro santo padre Basilio, infatti esse cosa rappresentano se non mezzi di virtù per monaci buoni e obbedienti?

Per noi, pigri, malvagi e negligenti, vi è in ciò di che arrossire di confusione.

Quindi, chiunque tu sia, tu che affretti il passo verso la patria celeste, segui fino in fondo, con l'aiuto di Cristo, questa minima regola di inizio che ho scritto, e così perverrai infine, con la protezione di Dio, a quelle più alte vette della dottrina e della virtù che ho appena ricordato.

Così sia. Fine della Regola

Fine della Regola, il che significa che la Regola non ha fine.

L'Amen di san Benedetto è stato ascoltato.

Per capire come Bernardo abbia arricchito con una rinascita mistica il rinnovamento di cui sovrabbonda il XII secolo, è sufficiente ammettere che queste ultime parole siano risuonate nella sua anima come un richiamo irresistibile.

Perché esse siano state intese così non è cosa che la storia possa spiegare, può solo constatare e mettersi in condizione non solo di chiarire la genesi della mistica cistercense, ma anche di mettere un po' di ordine nel problema così difficile delle sue fonti.

La prima questione che si pone è, in effetti, di sapere chi può aver suggerito a Guglielmo di Saint-Thierry e a san Bernardo l'idea che la_vita mistica di unione a Dio è il coronamento della vita monastica.

Non mi nascondo ciò che il problema, considerato in una certa prospettiva, potrebbe avere di ingenuo, ma spero di considerarlo da un altro punto vista.

Certamente la vita mistica ha origini diverse rispetto ai libri; probabilmente non mancano grandi mistici, a noi sconosciuti, che non hanno mai scritto nulla e non hanno letto molto.

Non è la stessa cosa se cercano le origini di una mistica speculativa, perché allora si tratta di una teologia e nessuna teologia nasce dal nulla o si riduce alla trasposizione concettuale di una esperienza non riflessa.

In realtà non è sempre così neppure per l'esperienza mistica, perché sebbene possa nascere spontaneamente in un'anima isolata, essa è spesso la ricompensa di un lungo sforzo, il compimento di una promessa, la realizzazione di una speranza e di un'ambizione nata dall'esempio.

Quali incoraggiamenti, quali stime li avevano ricevuto Guglielmo e Bernardo?

Il rapimento di san Paolo?

Probabilmente, ma chi allora avrebbe osato aspirarvi?

Qualche parola di Teartulliano,5 i commentari di Origene sul Cantico dei Cantici, che Bernardo ha conosciuto, ma il cui spirito è così diverso da quello del suo;6 l'ammirevole dottrina di Gregorio di Nissa, « il cui influsso su san Bernardo attraverso Massimo è indubbio,7 ma che forse non ha conosciuto di prima mano.

In tutto ciò non vi è nulla che sia un formale invito alla vita estatica o almeno un invito che Bernardo abbia con certezza inteso.

Si può andare oltre e fare la medesima osservazione per quanto riguarda sant'Agostino.

A parte il caso unico del rapimento di Ostia, le esperienze mistiche personali sono assenti nell'opera di Agostino.

Tra tutti coloro che prima di san Bernardo, a partire dall'inizio del IX secolo, lo avevano letto e meditato, nessuno, nemmeno lo stesso Anselmo, aveva pensato che se ne potesse ricavare una mistica.

Per determinare un movimento come il movimento cistercense erano necessarie cose diverse rispetto alle considerazioni teologiche, profonde ma astratte.

Era necessario il travolgente contagio dell'esempio, ed è proprio ciò che Bernardo e i suoi compagni trovavano nelle Vitae Patrum: le Vite dei Padri del Deserto.8

Anzitutto devono a loro l'aver conosciuto il modello di una mortificazione, nei confronti della quale, tutto quanto si sarebbe potuto in seguito tentare, non sarebbe stato altro che una penitenza moderata.

L'ascetismo cistercense, come d'altra parte quello dei Certosini, risale certamente ai Padri del Deserto; i cenobiti dell'Egitto rivivono in Francia negli uni, gli eremiti dell'Egitto negli altri.

Cìteaux e la Chartreuse sono i « deserti » popolati dagli asceti del XII secolo e che si moltiplicano con una rapidità incredibile.

Voler praticare alla lettera la Regola di san Benedetto, ivi compreso l'ultimo capitolo, significa quindi impegnarsi al seguito di sant'Antonio, di Macario o di Pacomio.

La Storia Lausiaca era una sorta di racconto meraviglioso per mostrare ciò che atleti spirituali potevano imporsi per amore di Cristo.

I racconti di queste vite di mortificazione, letti davanti alla comunità radunata, erano, per anime avide di perfezione, altrettante provocazioni all'eroismo.

Qui hanno appreso il significato delle espressioni usate da san Benedetto per designare la vita monastica: « Ad tè ergo nunc meus sermo dirigitur; quisquis abrenuntians propriis voluntatibus.

Domino Christo vero regi militaturus oboedientiae tortissima, atque praeclara arma sumis »;9 ma contraendovi il loro ardore ascetico, vi raccolsero anche pressanti inviti alla vita mistica.

Sant'Antonio stesso era stato un mistico e le grazie straordinarie non erano sconosciute nel deserto d'Egitto.10

Inoltre, invitando i monaci a ricorrere a Cassiano, la Regola li indirizzava a un maestro che aveva espressamente descritto l'estasi come la massima ricompensa della vita ascetica condotta dai Padri del Deserto.

L'influsso di Cassiano sulla scuola benedettina è stato affermato parecchie volte e con piena ragione.

È stato detto che Cassiano era la lettura preferita da san Benedetto11 e, infatti, tutte le edizioni critiche della Regola rinviano frequentemente a queste tre fonti principali: la Scrittura, san Basilio, Cassiano.

La dottrina di Cassiano non si limita all'ascetismo, fosse pure ìl più eroico.

La via purgativa vi è considerata come assolutamente necessaria, ma a titolo di introduzione alla vita contemplativa, il cui punto culminante è la « Visione di Dio »;12 la meditazione sulla Scrittura vi si trasforma spesso in preghiera, come in Origene, e la preghiera « pura » termina talvolta nell'estasi: « Ad coelestes illos rapiebamur excessus … ».

I testi in cui Cassiano descrive queste esperienze sono troppo noti perché valga la pena riprodurli,13 ma è importante sottolineare il fatto che impegnandosi a seguire la Regola sino alla fine, san Bernardo e i suoi compagni si siano messi alla scuola del maestro per il quale l'estasi era l'ambizione più alta del cristiano.

San Gregorio Magno, che non senza ragione viene considerato come benedettino, non poteva che rafforzare, su questo punto, l'esempio di Antonio e l'insegnamento di Cassiano.

Non è esagerato dire che gli scritti di san Bernardo sono impregnati della sua dottrina e della sua terminologia quasi quanto quelli di sant'Agostino.

Nulla di straordinario, d'altra parte, dal momento che Gregorio stesso si era spesso ispirato ad Agostino.

Prima di Bernardo, Gregorio insegna che non si può raggiungere il vertice della vita spirituale senza passare attraverso alcuni gradi.

Per possedere pienamente Dio, bisogna staccarsi completamente da se stessi: « Tunc vero in Deo piene proficimus, cura a nobis ipsis funditus defecerimus ».14

La via da seguire è regolare e annuncia quella che sarà proposta da san Bernardo; anzitutto il disprezzo di sé e l'umiltà: contemp tus sui, poi il timore di Dio: timo,r infine l'amore, amor.15

L'amor d'altra parte è per lui, come per Agostino, la forza motrice dell'anima: machina mentis16 ed è ciò che ci conduce alla contemplazione mistica di Dio.17

Questa contemplazione non può che essere gioia e dolcezza, come l'amore che essa corona.18

Nessuno sa come la luce divina penetri nell'anima ,19 ma almeno si sa che talvolta essa la infiamma al punto da separarla completamente dalla carne e da sottometterla interamente a Dio.

Esperienza breve, conoscenza oscura, l'estasi non può venir confusa con la visione beatifica, ma è come uno sforzo momentaneo dell'uomo per raggiungerla senza avere sopportato la morte del corpo.20

Si può quindi affermare con grande verosimiglianza che il primo invito alla vita mistica è venuto a san Bernardo dalla meditazione della Regola di san Benedetto e dagli esempi che essa consigliava di seguire: Collationes Patrum et Institufa et Vitas eorum.

Tuttavia qui siamo solo all'inizio di una strada veramente interminabile, perché dobbiamo ancora chiederci da cosa è costituita la mistica speculativa di san Bernardo, da quali precedenti sintesi ha tratto gli elementi della propria.

Un'indagine sulle fonti del testo di san Bernardo dovrebbe prendere in considerazione tutte le formule che ha preso in prestito o alle quali si è ispirato.

Nutrito come era della Bibbia e dei Padri, una tale ricerca non avrebbe mai fine.

Questo non significa che sarebbe priva di utilità: lungi da ciò; non si può tentare di comprenderlo senza risalire spesso alle fonti scritturistiche dove il suo pensiero più che attingere vi è immerso.

Tuttavia, per tentare di ricostruire la sua sistematica, non ci si può impedire di pensare che convenga, in vista di questo scopo particolare, procedere diversamente.

La teologia mistica di san Bernardo è una creazione incontestabilmente originale, nella quale tutti gli elementi sono nondimeno tradizionali, e che sembra essere nata dalla combinazione di vari blocchi dottrinali, ciascuno dei quali conserva, anche nella nuova sintesi, la propria struttura e il segno evidente della propria origine.

Tutto si svolge infatti come se san Bernardo si fosse posto un problema personale ma anche come se avesse fatto la scommessa di risolvere questo problema con l'ausilio di dati nessuno dei quali fosse estraneo alla tradizione scritturistica e patristica.

Aggiungiamo che l'ha vinta e che ha vinto la partita.

Forse questo è uno dei segreti dell'incessante rinnovamento del pensiero cristiano e della sua inesauribile vitalità.

Ogni volta che un santo pone una nuova domanda, o una vecchia domanda sotto una nuova forma, la tradizione cristiana fornisce gli elementi della risposta; ma bisogna che vi sia il santo che la pone.

San Bernardo ha posto la propria: come può la vita benedettina essere utile per realizzare questa vita di unione a Dio nell'amore verso la quale egli tendeva con tutte le proprie forze?

La tradizione gli ha fornito gli elementi per la risposta; essa gli avrebbe fornito gli elementi per la risposta a ogni altro problema riguardante i mezzi o il fine della vita cristiana; ma solo lui poteva ordinarli in una sintesi che fu quella della sua stessa vita spirituale, poiché la sua vita non è che la realizzaziqne concreta della sua dottrina, e la sua dottrina la formula astratta della sua vita.

Ora, prima di ogni altra cosa, bisogna collocare all'inizio del suo pensiero un primo blocco: l'insieme dei testi scritturistici tratti dal capitolo IV della prima Lettera di san Giovanni sull'unione dell'anima a Dio nell'amore.

Forse san Bernardo ha trovato e citato molti altri testi nei quali si esprime la medesima dottrina, ma non si può negare l'impressione che, nel suo pensiero, tutto inizi da qui e vi debba ritornare.

L'unica riserva da fare riguarderebbe lo stesso Vangelo di san Giovanni; tuttavia bisogna dire non che l'autorità di questo Vangelo sia minore, ai suoi occhi, di quella della Lettera - il che sarebbe decisamente assurdo - ma che persino i testi più illustri del quarto Vangelo sull'unione a Dio nell'amore vengono ordinati, nel pensiero di Bernardo, attorno alla sintesi così densa, ricca e completa, contenuta nella prima Lettera.

Cerchiamo di ricavarne gli elementi essenziali.

I. L'unione a Dio nell'amore ( 1 Gv 4 )

1. Innanzitutto la nozione fondamentale su Dio per chi lo considera non come causa metafisica, ma come il fine e il mezzo della vita spirituale; Dio è amore.

« Deus caritas est » ( 1 Gv 4,9 ).

2. Se Dio è carità ne consegue che il possesso della carità è la condizione necessaria per ogni conoscenza di Dio.

Non si poteva caricare questo testo di tutto ciò che la speculazione teologica vi avrebbe successivamente trovato, ma non si può neppure contestare che questa speculazione sia stata sollecitata, provocata da questo testo.

Vi si trova infatti l'origine della dottrina, divenuta poi famosa, della carità come conoscenza o anche come visione di Dio.

Il minimo che si possa dire è che un tale testo suppone che colui che in sé non ha nulla di ciò che Dio è per essenza è incapace di conoscere Dio.

San Bernardo stesso non aggiungerà quasi nulla al testo; ritengo infatti che non aggiungerà assolutamente nulla poiché si accontenterà di precisare che la « somiglianza » dell'uomo a Dio è la condizione della nostra conoscenza di Dio e che tale somiglianza è l'opera della carità.

Che questa precisazione sia o non sia sottintesa nel testo di Giovanni non ha molta importanza e la nozione fondamentale rimane: « Qui non diligit, non novit Deum, quoniam Deus caritas est » ( 1 Gv 4,9 ).

3. Se Dio è carità e se per conoscerlo è necessario che la carità sia in noi, bisogna necessariamente che la carità sia donata da Dio.

Questa è l'origine della distinzione, cosi importante in san Bernardo, tra la Carità che è Dio e la carità che è in noi il « dono » di Dio.

La distinzione viene suggerita dal testo dove si dice che la carità viene da Dio: « Caritas ex Deo est » ( 1 Gv 4,7 ).

4. Una nuova tesi, non meno importante, si aggiunge alle precedenti con l'identificazione del dono della carità con il dono dello Spirito Santo.

È un punto che i mistici cistercensi hanno sempre presente nel loro pensiero; questo spiega perché, nella loro dottrina, lo Spirito Santo ha sempre il ruolo di legame per mezzo del quale l'anima si trova unita a Dio e la vita spirituale diviene una partecipazione a quella divina: « In hoc cognoscimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis, quoniam de Spiritu suo dedit nobis » ( 1 Gv 4,13 ).

5. Facciamo un passo ulteriore; questa presenza in noi della carità, che è dono dello Spirito Santo, e che solo ci permette di conoscere Dio, è per noi anche il sostituto della visione di Dio che ci manca.

Nessuno ha mai visto Dio, ma se la carità è in noi, poiché essa è il dono di Dio, Dio dimora in noi e il nostro amore per lui allora è perfetto.

Esista quindi, ( in mancanza di una visione di Dio che non ci è concessa, una presenza di Dio nell'anima che segna il punto di perfezione della carità in noi: « Deum nemo vidit unquam. Si diligamus invicem, Deus in nobis inanet et caritas eius in nobis perfeota est » ( 1 Gv 4,2 ).

« Et nos cognovimus et credidimus caritati, quam habet Deus in nobis. Deus caritas est: et qui manet in cantate, in Deo manet, et Deus in eo » ( 1 Gv 4,16 ).

6. Il motivo per cui dobbiamo amare Dio Carità è chiaro: Egli ci ha amati per primo.

È forse superfluo insistervi per mostrare che questo è il problema del De diligendo Deo di san Bernardo e qual'è la sua risposta: « Nos ergo diligamus Deum, quonaim Deus prior dilexit nos » ( 1 Gv 4,9 ).

7. Da quali segni riconosceremo che abbiamo seguito questo precetto?

Come sapere che la carità di Dio è in noi?

Da due segni, il primo dei quali è l'amore che abbiamo per il prossimo.

Tutti gli uomini sono fratelli in Gesù Cristo, quindi se qualcuno sostiene di amare Dio, che non vede, e non ama i propri fratelli, che vede, è un mentitore.

Troviamo qui il punto di partenza di tutti gli sviluppi nei quali san Bernardo richiede l'amore del prossimo come un momento necessario dell'iniziazione alla carità: « Si quis dixerit quoniam diligo Deum, et fratrem suum oderit, mendax est » ( 1 Gv 4,20 ).

8. Ecco il secondo indizio della presenza della carità nell'anima: scaccia il timore.

Là dove regna si stabilisce infatti, allo stesso tempo, la fiducia per il giorno del giudizio.

Questa fiducia nata dalla carità è un elemento essenziale della dottrina di san Bernardo.

Penetrati dalla carità, siamo divenuti in questo mondo, in virtù di questo dono, ciò che Dio è in virtù della sua natura; come possiamo quindi temere il suo giudizio?

« In hoc perfecta est caritas Dei nobiscum, ut fiduciam habeamus in die judicii; quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo » ( 1 Gv 4,17 ).

Si capisce quindi perché la contemplazione di san Bernardo passi attraverso la considerazione del giudizio e come il punto preciso nel quale il timore del castigo divino cede il posto alla « fiducia » segni l'entrata dell'anima nell'estasi.

Si vede anche perché, più semplicemente, il progresso dell'amore consiste nel far passare l'uomo dallo stato in cui egli è asservito al timore ( servus ) a quello in cui soltanto ama.

L'amore bandisce il timore: « Timor non est in caritate: sed perfecta oaritas foras mittit timorem, quoniam timor poenam habet; qui autem timet, non est perfectus in caritate » ( 1 Gv 4,18 ).

Sì può quindi vedere che si tratta di un blocco dottrinale passato tale e quale, con tutte le sue articolazioni essenziali, nella teologia mistica di san Bernardo.

Si può anche dire che è presente ovunque, come la solida roccia sulla quale è costruito tutto l'edificio.

Pertanto non è unico.

Su questa base era necessario costruire un'altra dottrina, per spiegare come l'amore può far sì che Dio dimori in noi e noi in Dio.

San Bernardo ha fatto appello per questo aspetto a una seconda fonte che, data la natura speculativa del problema posto, non poteva più essere scritturistica, ma doveva essere teologica.

È a Massimo il Confessore tradotto da Scoto Eriugena, che ha chiesto una dottrina dell'estasi e della divinizzazione dell'anima nell'amore.

II. La divinizzazione nell'estasi

È molto difficile misurare l'influsso esercitato da Dionigi sulla mistica cistercense.

È notevole che lo stile dionisiano non abbia lasciato alcuna traccia nel modo di scrivere di san Bernardo; il linguaggio dionisiano, così caratteristico, non ha fornito quasi nessun elemento alla terminologia usata da san Bernardo: nessun superlativo, nessun periodo pesante e ingombrante che imita termini greci a fatica mascherati in latino.

Il termine « teofania », quasi inevitabile in uno scrittore che ha frequentato Dionigi, e che si ritrova almeno una volta in Guglielmo di Saint-Thierry,21 non sembra appartenere al vocabolario di san Bernardo.

Ci si può persino chiedere se abbia letto Dionigi o, piuttosto, ce lo si potrebbe domandare se la cosa, in se stessa verosimile, non lo fosse diventata ancora di più dal momento che egli ha certamente letto, nella traduzione di Scoto Eriugena, un testo di Massimo il Confessore a cui si è ampiamente ispirato.

Il fatto è importante non solo in se stesso, ma anche per la storia della mistica cistercense e dell'influsso di san Bernardo; infatti egli ha sempre avuto avversari, talvolta illustri, che si sono interessati in modo particolare a questo tallone d'Achille.

Ci saranno molte occasioni per convincersi che questa mancanza è stata più apparente che reale, ma la vera funzione di un avversario non è proprio quella di considerare le mancanze apparenti come se fossero reali?

Si dà il caso che Scoto Eriugena, non contento di tradurre Massimo, abbia inserito nel proprio De divisione naturae lo stesso frammento al quale san Bernardo si sarebbe ispirato.

Da qui a sospettare e accusare san Bernardo di panteismo eriugeniano, non vi era che un passo, il quale è stato compiuto.

Forse, per essere corretto, avrebbe dovuto accertarsi subito se Eriugena stesso era panteista, o se lo era Massimo, o stabilire che non ci si poteva ispirare a un testo non panteista dal momento che era stato utilizzato da un autore accusato di panteismo, sia che fosse stato accusato a torto o a ragione e che ne fosse consapevole o no.

Un controversista trascinato dalla foga non si preoccupa di queste distinzioni e di fatto la presenza di un « blocco » massimiano nella sintesi di san Bernardo gli ha talvolta nuociuto nell'opinione dei teologi.

Quali elementi principali l'analisi permette di distinguervi?

1. Innanzitutto è da Massimo ( o da Dionigi, ma non siamo sicuri di Dionigi mentre lo siamo di Massimo ) che san Bernardo sembra aver tratto il termine che in lui designa l'estasi: excessus.

Tutte le cose si muovono verso Dio, come verso il supremo Bene immobile.

Il fine del loro movimento, che è anche il loro bene, è il raggiungimento di questo Bene immobile.

Gli esseri naturali tendono verso di lui per loro stessa natura; gli esseri intelligenti tendono verso di lui per la conoscenza e l'amore.

Da qui il movimento estatico che li porta a lui: « Si autem intelligit, omnimo amat quod intelligit; si amat, patitur omnimo ad ipsum ut amabile excessum » ( Massimo, Ambigua, cap. il, P.L. 122, 1202 A ).

2. L'effetto di questo « excessus » è di far sì che colui che ama « fiat totum in toto amato » ( op. cit., 1202 A ), in modo tale che non desideri altro che lui stesso; da ogni lato circoscritto da Dio è come l'aria totalmente illuminata dalla luce o il ferro liquefatto nel fuoco: « Sic aer per totum illuminatus lumine, et igne ferrum totum toto liquefactum, aut si quid aliud talium est » ( op. cit; 1202 B).

San Bernardo riprenderà le stesse immagini nel De diligendo Deo, X,28, III,143.

L'espressione « liquescere » si ritrova anche in Dil x,28, m,143,21.

3. Questa liquefazione, o fusione, dell'anima nell'estasi non è la sua distruzione; al contrario la sostanza dell'anima resta intatta e, anzi, dal l'excessus è stabilita nella sua vera natura: « Non conturbet vos, quod dictum est; non enim ablationem propriae potentiae fieri dico, sed positionem magis secundum naturam fixam et immutabilem, id est excessum intellectualem » ( Massimo, op. cit., 1202 C-D ).

4. L'excessus non può essere completo in questa vita; si compirà solo nell'altra.

Nell'attesa questa fusione dell'anima nell'amore è una partecipazione analogica alla beatitudine futura: " participationem per sinulitudinem solummodo accipimus » ( op. cit., 1202 B ), ed è ineffabile.

5. L'excessus rende così l'anima simile a Dio, perché riporta l'immagine verso il suo modello: 174 velut imagine redeunte ad principale exemplum » ( op. cit., 1202 D; cfr. 1207 B ).

6. Il risultato di questa assimilazione è una deificazione: deificatio: « magis autem Deus per deificationem facta » ( op. cit., 1202 D ); « theosin » ( 1206 B ); « et totus factus Deus … », ecc. ( 1208 B ).

È importante notare qui, come nel caso della prima lettera di san Giovanni, che san Bernardo sembra aver usato a fondo tutte le risorse che un unico testo metteva a sua disposizione.

La somiglianza letterale di alcune frasi - i due paragoni tratti da Massimo - rafforza l'impressione, già fondata in se stessa, che questa sequenza di idee, comune alle due dottrine, sia realmente passata da Massimo a san Bernardo.

Ma è importante aggiungere che, mentre la usava, Bernardo la saldava al blocco giovanneo così da unificarli.

Dio è carità, ci dona la carità, dimora così in noi e fa che noi dimoriamo in lui.

In che modo? Riconducendo le immagini che noi siamo, al loro modello, spogliandoci del nostro volere per unirci al suo; liquefacendoci, per così dire, affinché passiamo in lui nell'estasi, attendendo di passarvi completamente nella gloria, non per perderci, ma per stabilirci in una perfezione eterna.

Queste sono già fonti di ispirazione di cui è superfluo sottolineare l'importanza.

Tuttavia non è tutto, perché se è importante conoscere il fine e i mezzi, non è sufficiente averne una conoscenza teorica, ma è altrettanto necessario sapere con quali metodi pratici potremo mettere in opera questi mezzi e raggiungere il fine verso il quale essi conducono.

San Bernardo, ancora una volta, era lontano dal trovarsi senza risorse, poiché aveva a sua disposizione tutto il tesoro della tradizione patristica.

Nessuno più di lui era capace di attingervi, poiché ne aveva fatto l'inventario, e si resta sorpresi, leggendolo, per l'abilità con la quale sceglie, interpreta e adatta ai propri fini le dottrine dei Padri.

È vero che anche qui un influsso domina ancora su tutti gli altri e che si può nuovamente parlare di un blocco dottrinale utilizzato da san Bernardo: è quello dell'ascesi benedettina.

III. L'ascesi benedettina

La Regula monasteriorum non è ne un trattato di filosofia ne un trattato di teologia mistica o ascetica; è una regola di vita monastica, ma che assomiglia ai testi della Scrittura per il contenuto con il quale nutre all'infinito il pensiero.

Non dimentichiamo d'altra parte che è appesantita da tutta la speculazione di Cassiano, che essa riassume o alla quale spesso si ispira, e che, per chi conosceva l'opera di Cassiano, era legittimo leggere dietro le parole che ne suggerivano la presenza.

In questo testo così denso alcuni elementi sembrano aver particolarmente attirato l'attenzione di san Bernardo e sono questi che tentiamo di ordinare.

1. Ricordiamo anzitutto l'idea centrale che attraversa tutta la Regola: il primo dovere di colui che vuole servire Dio è di rinunciare alla propria volontà: « Abrenuntians propriis voluntatibus » ( Regula, Prologo ).

San Benedetto lo intende in un modo del tutto pratico; con ciò vuole infatti dire che non ci si può impegnare completamente nel servizio di Dio senza sottomettersi agli ordini di un Abate e obbedirgli; è quello che non fanno i « girovaghi » ( op. cit., I, 10 ), ma è ciò che bisogna fare in un monastero benedettino: « Nullus in monasterio proprii sequatur cordis voluntatem ». ( III, 8 ).

Il precetto ritorna costantemente: « Abnegare semetipsum sibi …; voluntatem propriam odere » ( IV ); « … voluntatem propriam deserentes … » ( V ).

Citiamo infine per completare con una citazione scritturistica, quest'ultimo testo: « voluntatem vero propriam ita tacere prohibemur, cum dicit Scriptura nobis; et a voluntatibus tuis avertere ( Sir 18,30 ) » ( VII ).

Nulla è più importante - per chi vuole comprendere san Bernardo e il ruolo giocato nella sua dottrina dall'eliminazione sistematica del proprium; bisogna però aggiungere il metodo con il quale questa eliminazione deve essere realizzata.

2. Questo metodo è la pratica dell'umiltà, alla quale è dedicato l'intero capitolo VII della Regola.

San Benedetto vi descrive i dodici gradi ascendenti di questa virtù.

La nostra vita viene paragonata a una scala - la scala di Giacobbe - i cui lati sono il corpo e l'anima; i gradini: i dodici gradi dell'umiltà che noi saliamo faticosamente con le nostre azioni per elevarci a Dio ( VII ).

Si può dire, senza timore di sbagliare, dal momento che lo stesso san Bernardo lo afferma all'inizio del suo trattato, che il De grodibus humilitatis et superbiae non è che un commento teologico di questo capitolo.

3. Un terzo elemento della Regola, particolarmente importante in quanto si eleva quasi al livello della speculazione, assegna all'umiltà lo stesso ruolo che essa avrà nella mistica di san Bernardo.

Prima di tutto conduce alla carità: « Ergo bis omnibus humilitatis gradibus ascensis monachus mox ad caritatem Dei perveniet … » ( VII ).

Invano domanderemmo a san Benedetto di descriverci il modo in cui l'umiltà introduce la carità mediante la rinuncia al proprio volere; sarà proprio l'opera di san Bernardo ad approfondire questo aspetto e a ricostruire questo meccanismo, nella Regola ha trovato almeno la formulazione del problema da risolvere e l'enunciato della sua soluzione; il suo apporto personale è stato quello di fornirne la dimostrazione.

4. Superando questo punto nella stessa frase in cui lo presenta, san Benedetto aggiunge immediatamente: « ad caritatem Dei perveniet illam quae perfecta foris mittit timorem » ( VII ).

Si ricollega quindi, in un sol colpo, al testo della prima lettera di san Giovanni 4,18 che abbiamo già citato e che si trova quindi doppiamente raccomandato all'attenzione di san Bernardo.

Per capire tutta la portata di questa citazione nel luogo in cui si trova, bisogna ricordarsi che, dall'inizio della Regola, san Benedetto non ha smesso d'insistere sull'importanza della meditazione del giudizio.

Il timore, e non solo il timore di Dio, ma anche quello del castigo di Dio, gioca un ruolo fondamentale nella iniziazione alla vita spirituale così come egli la concepisce - è altrettanto importante vedere che alla fine di questa iniziazione la carità si sostituisce, come motivo delle nostre azioni, al timore: « Per quam ( caritatem) universa quae prius non sine formidine óbservàbat, absque ullo labore velut naruraliter ex consuetudine incipiet custodire, non jam timore gehennae, sed amore Christi et consuetudine ipsa bona et delectatione virtutum » ( VII ).

Aggiungendo, molto brevemente, che lo Spirito Santo mostrerà questi effetti della carità nell'anima purificata, san Benedetto termina di abbozzare la sintesi a cui san Bernardo darà la giustificazione dottrinale: la sostituzione dell'amore al timore per mezzo dello Spirito Santo, come ricompensa della lunga iniziazione all'umiltà, è infatti il tema che svilupperanno in più riprese il De diligendo Deo e i sermoni sul Cantico dei Cantici.

Il suo posto è al centro dell'ascesi di san Bernardo e poiché è ancora a Cassiano che ne risale l'origine, non cessiamo di muoverci nello spazio delimitato dal capitolo LXXIII della Regola: « necnon et Collationes Patrum et Instituta et Vitas eorum … », sono da leggere: Collationes, XI,8 e Instituta, IV,39.

Tentiamo ora di collegare questo terzo blocco agli altri due, otterremo così una sorta di scheletro della teologia mistica di san Bernardo.

Dio è carità; per il dono della carità egli dimora in noi e noi in lui; questa unione si realizza sin d'ora nell'estasi che è coronamento in noi della vita di carità e che ci unisce a Dio rendendoci simili a lui; ma per raggiungere questa unione beatificante bisogna partire dal timore, spogliarsi nell'umiltà di tutto il volere proprio, sino a quando, sostituendosi la carità al timore, realizzeremo per amore la volontà di Dio.

Ricostruiamo la medesima sintesi in senso inverso, a partire dal « neque aliud habere proprium » ( XXXIII ), otterremo così un valido schema della dottrina di san. Bernardo.

Questo è vero; ma osserviamo subito che non avremmo altro che una specie di quadro che resterebbe da riempire per fare, di questo insieme di precetti, un'autentica teologia.22

Osserviamo soprattutto che nulla è più facile per uno storico che combinare gli elementi ricavati da san Bernardo per ricostruire l'ossatura della sua dottrina; è lui che ci ha insegnato a farlo.

Avremmo mai pensato di unirli secondo questo ordine, se la sintesi che egli ne ha fatto non fosse mai esistita?

Evidentemente no.

È quanto non dobbiamo mai dimenticare studiando le fonti di san Bernardo.

Lui stesso si è spesso gloriato di non aver quasi mai proposto delle dottrine che non fossero state insegnate prima di lui.

Questa non è, da parte sua, finta umiltà, ma l'espressione sincera di ciò che fu sempre il suo atteggiamento di fronte a questi problemi, poiché era convinto che dovesse essere così.

Non si finirà quindi mai di trovare negli scritti a lui anteriori espressioni o pensieri simili ai suoi; si potrà sempre mostrare, anche al di fuori delle fonti principali che abbiamo appena analizzato, che san Bernardo segue ora sant'Ambrogio, ora sant'Agostino,23 o che si ispira ai commentati di Origene e di Beda al Cantico dei Cantici; non si dirà nulla su di lui che non sia stato detto prima di noi.

Per ricavare, da questo insieme di dati sparsi nella Scrittura e nelle opere dei Padri, la teologia mistica di san Bernardo, era necessaria la vita spirituale e il genio speculativo propri di san Bernardo.

Se con l'immaginazione la si sopprime, cosa resta al suo posto?

Il XII secolo non si è sbagliato; se noi non sentiamo quale vuoto lascerebbe la sua assenza, i contemporanei di san Bernardo si sono nutriti dell'abbondanza della sua pienezza.

Tentare di vivere integralmente la Regola di san Benedetto, come tentare di vivere quella di san Francesco, è tentare di vivere integralmente la vita del Vangelo, e non ci sarà mai nulla di più raro né di più originale.

Indice

1 Sulla vita di san Bernardo consultare, tra le molte altre, l'opera classica di E. Va-candard. Vie de saint Bernard, abbe de Clairvaux, 1 voi., Gabalda, Paris 1927, o anche il libro più breve di G. Goyau, Saint Bernard, Flammarion, Paris 1907
2 C.H. Haskins, Thè Renaissance of thè Twelth Century, Harvard Ùniversity Press, Cambridge 1927, pp. vn-ix (tr. it. La rinascita del xn secolo. II Mulino, Bologna 1972, p. 6). G. Pare - A. Brunet - P. Tremblay, La Renaissance du xn" siede. Les écoles et l'enseignement, Vrin, Paris 1933. M. Bloch, Les caractères originausc de l'histoire rurale francasse, Les Belles - Lettres, Paris 1931, p. 17
3 La conclusione s'impone se bisogna considerare il De contemplando Dea e il De natura et dignitate amoris come i primi trattati spirituali di Guglielmo datandoli tra il 1119 e il 1135. È quanto propone Dom A. Wilmart, La sèrie et la date des ouvrages de Guillaume de Sainf-Thierry, in " Revue Mabillon ", 14 (1924), pp. 157-167, in particolare p. 166. Lo studio che ho potuto fare della dottrina di Guglielmo , non mi ha suggerito nulla che si opponga a questa ipotesi, anzi pare confermarla. Sui rapporti tra san Bernardo e Guglielmo si troveranno osservazioni intelligenti nell'eccellente lavoro di L. Malevez. La dottrine de l'imago et de la connaissance mysti-que chez Guillaume de Saint-Thierry, in " Recherches de science religieuse ", 22 (1931), p. 181, nota 6, e in A. Adam, Guillaume de Saint-Thierry, sa vie et ses. osuvres, Bourg en Bresse 1923, capp. il e EC
4 Su questo punto l'influsso di Cicerone non ha mai cessato completamente di esercitarsi. Se ne potrebbero individuare tracce in vari autori che san Bernardo, Guglielmo di Saint-Thierry e Aeiredo di Rievauk hanno assiduamente frequentato. Vedi per esempio Cassiano, Liber de amicitia, P.L., 49, 1011-1044, ma soprattutto S. Ambrogio. De officiis ministrorum, n, 22, P.L., 16, 190-194. È sufficiente consultare le note di questa edizione per vedere fino a che punto sant'Ambrogio si ispira a Cicerone, particolarmente al De officiis e al De Amicitia. Il tema dell'amicizia disinteressata vi si ritrova indicato brevemente, ma chiaramente, (P.L., 16, 192 C). Se ne potrebbero rintracciare altri, ma nulla, nei testi di questo genere, permette di prevedere il vivo interesse che avranno per il De amicitia gli scrittori ascetici e mistici del secolo XII
5 Il termine tecnico « estasi » ( extasis ) sembra sia stato introdotto nella terminologia cristiana da Tertulliano; egli stesso dice di ispirarsi ai Greci. Lo usa nel suo Adversus Marcione, IV, 22. Il termine significa che l'uomo si trova momentaneamente collocato, per una grazia divina, al di fuori della propria ragione. " In spi ritu enim homo constitutus, praesertim cum gloriam Dei conspicit, vel cum per ip sum Deus loquitur, necesse est excidat sensu, obumbratus scilicet virtute divina " (Rouet de Journel, Enchiridion asceticum, 65, p. 30, P.L., 2, 418). Nel secondo testo Tertulliano non esita a ritornare sulla stessa idea: l'estasi i una amentia, una assenza di spirito. Tertulliano, nel De anima, vuole spiegare che cosa sono i sogni per i cristiani. Tra le caratteristiche del sogno sottolinea l'illusion< di vedere cose reali. Come spiegarla? Durante il sonno, l'anima non agita il corpo ma è lei stessa che si muove ("et si caret opera membrorum corporalium, suis utilitur", P.L., 2, 725 B). Si ha l'impressione di aver fatto cose in realtà non fatte:" actu enim fiunt, effectu non fiunt " (ibid.}; in altri termini, si realizzano senza produrre effetti. Questa è precisamente l'estasi: " Hanc vim ecstasim dicimus, excessum sensus, et amentiae instar. Sic et in primordio, somnus cum ecstasi dedicatus ( Gen 2 ); Et misil Deus ecstasin in Adam, et obdormìvit. Somnus enim corpori provenit in quietem; ecstasis animae accessit adversus quietem; et inde jam forma, somnmn ecstasi miscens, et natura de forma " (De Anima, cap. 45, P.L., 2, 725 C; cfr. anche 726 B). Si tratta quindi di un caso particolare della sua psicologia materialista; siamo ben al di sotto di san Giovanni e di san Paolo. Ne siamo persino agli antipodi. Sappiamo infatti che Tertulliano, abbandonata la Chiesa e passato al Montanismo, aveva scritto un trattato in sei libri De exstasi (P.L., 2, 1131-1134). Quest'ultimo trattato è andato perduto; sembra che avesse voluto dimostrarvi l'ispirazione di Montano contro i cattolici (gli psychicos}. La dottrina era sostanzialmente quella del De Anima. I Padri (Epifanie, Gerolamo) protesteranno vivamente contro l'assimilazione dell'estasi a una amentia. L'estatico, il profeta, dirà Gerolamo; " liber est vi-sionis intelligentis universa quae loquitur " (P.L., 2, 1194 C)
6 San Bernardo, Div 34, vi-i, 228-233, ha commentato un'omelia di Origene, In Levitici) 10,9. Gli ascoltatori hanno protestato: " Quidnam sibi vult insolitus iste grunnitus, aut quis inter vos nescio quid submurmurat? ". Vedi J. Ries, Das geist-liche Leben, seinen Enfwickiungssfufen nach der Lehre des hi. Bernhard, Herder, Preiburg im Breisgau 1906, p. 16. Sugli elementi ellenistici della mistica cristiana, ve-i di R. Arnou, Le désir_ de Dtey^dans laJohtIosophie de Plofin, Alcan, Paris 1931, pp. t-"'~53T282. Su Filone il Giudeo e la sua mistica, vedi J. Martin, Philon, Alcan, Paris 1907, pp. 142-154; sulle sue estasi, p. 151 e E. Bréhier, Les idées philosophiques et religieuses de Philon d'Alexandrie, Vrin, Paris 1925, pp. 196-205. I due testi di Origene che Bernardo aveva certamente a sua disposizione sono:
Origenis homiliae in Cantica Canticorum, tradotto da S. Gerolamo, in W.A. Baeh-rens, Origenes Werke, vili, J.C. Hinrichs, Leipzig 1925, pp. 26-60; Origenis com-mentarìum in Cantica Canticorum, tradotto da Rufino, op. cit., pp. 61-241. Le due omelie offrono una esposizione semplice e in qualche modo popolare del significato di questo testo; il commentario è molto approfondito. Sponsa rappresenta, nel commentario, prima la Chiesa, stanca degli angeli e dei Profeti, che attende la venuta di Cristo (In C.C., i, p. 90, r. 4).; poi l'anima, che chiede di esser visitata dall'illu-minazione del Verbo (p. 91, r. 4-15). Questa visita è simboleggiata dal bacio: oscu-lum. L'immagine suggerisce un contatto immediato tra l'anima e il Verbo. La natura di questo contatto è l'illuminazione divina che chiarisce il senso simbolico della Scrittura in un'anima perfetta (op. cit., i, pp. 91-92). La molteplicità degli " oscula ", che per Bernardo significherà quella delle esperienze affettive, in Origene significa quella dei sensi della Scrittura che vengono in tal modo rivelati. L'effetto di questa unione è quindi l'intelligenza spirituale e mistica della Scrittura: " spirita-lis scilicet intelligentia et mystica " (In C.C., i, p. 100, r. 28-29). Essa viene donata all'anima dall'amore divino (p. 91, r. 29) e ricevuta nella gioia; tuttavia Origene sembra considerarla come essenzialmente cognitiva (vedi il commento aS'Infroduxit me rex, op cit., pp. 108-109). L'amore è necessario, ma come fonte di intellezione (p. 220, r. 7-16; p. 223, r. 26-29; p. 233, r. 9-13); è per questo che l'illuminazione divina ricompensa la preghiera (Rouet de Journel, Enchiridion asceticum, pp. 53-54) che, d'altra parte, non si separa dalla meditazione del testo sacro. La vita mistica è soprattutto la vita dello Spirito Santo illuminatore nell'anima del teologo che cerca la verità nella Scrittura, con il suo alternarsi di luce e di oscurità corrispondente alla presenza e alla assenza dello Sposo. ( In C.C., Hom. 1, p. 39, r. 15-23 ). È la mistica di un esegeta. La differenza di mentalità è quindi sensibile; è però possibile che san Bernardo abbia talvolta utilizzato Origene trasferendolo su un piano più affettivo. Confronta l'ultimo testo di Origene citato: " Saepe, Deus testis est, sponsum mihi adventare conspexi… " con san Bernardo: " Fateor et mihi adventasse Verbum,-in insipientia dico-, et pluries… ", SC 74, 5, n, 242, 16-17
7 Gregorio di Nissa, Commentarius in Canticum Canticorum, P.G., 44, 755-1120. L'opera è composta da quindici Omelie. Il Prologo definisce l'oggetto del commentario: individuare nel testo la " filosofia " che vi si trova nascosta (756 A). Usa, come Origene, che si scusa di seguire (763 B), il metodo allegorico. Il Cantico dei Cantici è un mistero; può esser svelato solo a coloro che hanno già purificato il loro cuore (via purgativa). Il significato è l'unione spirituale e immateriale dell'anima, che è la Sposa, con Cristo, lo Sposo. Questo testo riveste quindi, per così dire, l'anima con un vestito nuziale per il matrimonio mistico con Dio {Hom. 1, 765 B); è un epitalamio che celebra l'intimo avvicinamento ( ^vày.paoie ) dell'anima umana con il divino (769 D-722 A). Sul Cantico come trasmettitore dell'influsso sacro, vedi Gregorio di Nissa, op. cit., P.G., 44, 765 B-C. Il Cantico dei Cantici contiene, secondo^ Gregorio di Nissa, una filosofia, quella del Santo dei Santi; essa ci indica il cammino verso Dio (765 D) e corrisponde all'età perfetta della vita spirituale (768 A-B). Il suo segreto si riassume in una parola:. " Ama". L'amore conduce all'avàxpoKJts dell'anima con Dio, termine verso il quale san Paolo ci invita a tendere ( Ef 4,4 );
ci sia un solo corpo e un solo spirito (772 A, D). È difficile andare molto lontano su questa strada mediante la conoscenza che si ha in questa vita, perché Dio è ineffabile (Hom. 3, 820 C - 821 B); san Giovanni l'ha detto (1,8); san Paolo l'ha confermato ( 1 Tm 6,16 ); Mosè l'aveva detto prima di loro ( Es 33,20 ), è per questo che tutta la conoscenza che, qui sulla terra, abbiamo di lui è soprattutto negativa {De beatitudinibus, 6; P.G., 44, 1267 C): questa è una delle idee principali sviluppate da Gregorio, prima di Dionigi, nel suo De vita Moysis (ihid., 328, 375 D-378 C, 386 D). Ma possiamo conoscerlo indirettamente per la somiglianzà che hanno con lui le sue creature (379 A). È vero in particolare per l'anima. Creata a immagine e somiglianzà di Dio (Hom. 15, 1091 ss.; De hominis opificio, P.G., 44, 123-256, e In Scripturae verba " 'Faciamus hominem "…, P.G., 44, 257-298), essa ha lasciato che questa somiglianzà venisse cancellata dal peccato. L'uomo non vede più Dio guardando se stesso perché il proprio cuore non è più puro; se lo purifichiamo, Dio vi riapparirà; è quindi sempre possibile vedere Dio in noi, perché se la purezza regna in tè, vi è anche Dio (De beatitudinibus, 6, P.G., 44, 1270-1271, 1272 C). Questa conoscenza rimane oscura; è quindi meglio ricordarsi che Dio è carità (In C.C., Hom. 4, P.G., 44, 846 C-D) e che san Paolo stesso, sebbene rapito al cielo, si è ancora scontrato con il mistero (In C.C., Hom. 5, P.G., 44, 858 D e 859 B). Il Cantico dei Cantici ci insegna la via che ci condurrà il più vicino possibile a lui: purificazione del cuore, meditazione sul Cantico dei Cantici, contemplazione anagogica;
preghiera, che unisce l'anima a Dio illuminandola con l'intelligenza dei Profeti e della Legge; attraverso questa duplice intelligenza si introduce infine nell'anima la visione della vera luce, il desiderio di vedere il sole e questo desiderio finalmente si realizza. Dio rimane incomprensibile (Hom. 5, 875 C-D); ci sono delle ascensioni indefinite a partire dalla fede (Hom. 5, 876 A; 8, 944 C); tuttavia, in ogni grado di questa illuminazione, l'anima è veramente unita a Dio, " entrambi passano l'uno nell'altro, Dio scende nell'anima e l'anima passa in Dio " (Hom. 6, 889 D). Le due caratteristiche dominanti di questa esperienza sono la sublimità e l'incompiutezza, infatti rimane sempre più bene da possedere di quanto se ne possieda (Hom. 8, 941 C; Hom. 11, 1000 A - 1001 A). Questa dottrina (ben riassunta in Hom. 12, 1033 D -1037 A) riserva un ruolo importante, nella vita ascetica e mistica, al libero arbitrio (Hom. 12, 1025 D - 1028 A), e può essere avvicinata a quella di san Gregorio di Nazianzo: cfr. Rouet de Journel, Enchiridion ascetkum, 307, p. 175-176, e 309, pp. 176-177. Sul ruolo giocato dalla nozione d'immagine in Gregorio di Nissa, vedi F. Die-kamp, Die Gotteslehre des hi. Gregor von Nyssa, Aschendorff, Mùnster 1896, pp. 67-73; sulla conoscenza di Dio nello specchio dell'anima, pp. 73-90; sulla visione mistica e l'estasi, pp. 90-101. H. Koch, Das mystìche Schauen belm hi. Gregor von Nyssa, in " Theologische Quartalschrift ", 80 (1898), pp. 397 ss. insiste sull'influsso esercitato da Filone su Gregorio, così come su Dionigi.
8 È un punto sul quale tutti gli storici della mistica benedettina sono d'accordo. U. Berlière, L'ascése bénédictine, Desclée, Paris 1930, p. 62. C. Butier, Le monachismo bénédictin, Ve. fr. C. Grolleau, J. De Gigord, Paris 1924, pp. 81-82, e soprattutto, dello stesso autore. Western Mysticism. Thè Teaching of SS. Augustine, Gregory and Bernard on Contemplation and thè Contemplative Life. Neglected Chapters in thè Hisfory of Religìon, Constable, London, 1922 (tr. it. Il misticismo occidentale. Contemplazione e vita contemplativa nel pensiero di Agostino, Gregario e Bernardo^ II ^Mulino, Bologna^ 1970T~Quesìe'opere'sono di7on3amentaIe"importan2S;~dìcono tutto l'essenziale sugudementi mistici delle dottrine di Agostino, di Gregorio Magno e di Cassiano, senza i quali non esisterebbe la mistica cistercense. Devo ricordare, per non fingere di ignorarne l'esistenza, il libro di G.G. Coul-ton, Five Centuries of Religìon, i, S. Bernard, His Predecessors and Successors, Cambridge University Press, Cambridge 1929. È difficile giudicare obiettivamente quest'opera: "NaHatgi^gBerebbe-Ja-'varietà della sua documentazione, se non fosse per la incomprensione delle cose trattate. L'autore vuole reagire, e a ragione, contro l'immaginazione di un'epoca d'oro medievale che in effetti non è mai esistita. Lo fa con una passione che ha le apparenze del ragionamento scientifico, ma che può illudere solo quelli, tra i suoi lettori, che non hanno una conoscenza diretta del medio evo. L'opera è assai curiosa. Il suo oggetto dichiarato è descrivere, anche se in modo sommario: " la vita e l'opera di quelle miriadi di chiostri anonimi che dominarono così naturalmente nel medioevo… " (p. xxxviii). È un bell'argomento, tra la storia scandalosa, che il Prof. Coulton ha sempre evitato, e l'agiografia o l'apologetica che egli detesta. Argomento anche molto difficile, perché le miriadi di monaci comuni hanno scritto poco e non hanno molta storia; almeno bisognava attenersi al tema. Cosa c'entrano in questo quadro san Benedetto e san Bernardo? Sono dei claustrali anonimi? In ogni caso riferendosi ad essi bisognava considerarli con completezza. Il pericolo di studiare san Bernardo in rapporto ai mediocri, era che l'autore potesse credersi autorizzato a non dedicare una sola pagina (su oltre cinquecento) all'esposizione della dottrina che il suo personaggio principale ha elaborato, della quale hanno vissuto lui e molti anonimi. Coulton ammetterà con convinzione " of ignoring essentid evidence "? Ne dubito, anche se è evidente
9 S. Benedetto, Regala monasteriorum. Prologo, ed. B. Linderbauer, p. 12, r. 6-8. C. Butier, Thè Lausiac history of Palladius, University Press, Cambridge, t. i, 1898; t. il, 1904. S. Gaselee, Thè psychology of thè monks of thè Egyptian desert, in "Thè Philosopher ", 10 (1932), pp. 73-81. Per san Basilio si può consultare: W.K.L. Clarke, Thè ascetic works of saint Basii, S.P.C.K., London 1925. Cfr. U. Berlière, L'ascése bénédictine, p. 63 e nota 2. J.M. Besse, Les mystiques bénédictins, pp. 63-64
10 Rouet de Journel, Enchiridion asceticum, pp. 111-112. San Benedetto è stato descritto da san Gregorio Magno come un estatico: P.L., 66, 137 B-C
11 C. Butier, Le monachismo bénédictin, cap. v, pp. 49-52
12 Cassiano, Collationes, XIV, 9, P.L., 49, 955 B. Cfr. Collationes, I, 8, P.L., 49, 492 A B: " theoria ", " contemplatio ", " Dei solius intuitum "
13 Cassiano, Collationes, XIX, 5, P.L., 49, 1132 A. Cfr. C. Butier, Le monachismo bénédictin, pp. 84-88. Su Gregorio Magno, ibid., pp. 88-92; e anche " On remarquera que ce mysticisme de saint Grégoire et de saint Bernard est, dans tous ses traits caractéristique, en plein accord avec celui de l'abbé Isaac de Scété, tei qu'il est rapportò dans la neuvième conférenoe de Cassien… ", p. 97. Su Gregorio Magno, op. cit., p. 97.
Dom C. Butier ha ben descritto, in maniera generale, le caratteristiche del misticismo di san Bernardo; tuttavia io non andrò lontano quanto lui riguardo la natura puramente oggettiva, empirica e descrittiva di questa dottrina (p. 96). Essa non è filosofica, ma è una teologia e credo quindi che il suo carattere speculativo sia molto accentuato
14 S. Gregorio Magno, Moralia, xxii, 20, 46, P.L., 76, 241 A
15 Op. cit., xxn, 20, 50, P.L., 76, 243-244
16 Unde necesse est ut quisquis ad contemplationis studia properat, semetipsum prius subtiliter interroget, quantum amat. Machina quippe mentis est vis amoris, quae hanc dum a mundo extrahit, in alta sustollit", S. Gregorio Magno, Moralia, vi, 37, 58, P.L., 75, 762-763. Cfr. op. cit., vii, 15, 18, col. 775
17 Op. cit., XXII, 20, 51, P.L., 76, 244
18 " Nobis praesentibus spiritus transit, quando invisibilia cognoscimus, et tamen haec non solide sed raptim videmus. Neque enim in suavitate contemplationis inti-mae diu mens figitur, quia ad semetipsam ipsa immensitate luminis reverberata revo-catur. Cumque intemam dulcedinem degustai, amore aestuat, ire super semetipsam nititur, sed ad infirmitatis suae tenebras fracta relabitur; et magna virtute proficiens, videt quia videri non possit hoc quod ardenter diligit, nec tamen ardenter diligerei, nisi aliquatenus videret. Non ergo stat, sed transit spiritus, quia supernam lucem nostra nobis contemplatio et inhiantibus aperit, et mox infirmantibus abscondit ", S. Gregorio Magno, Moralia, V, 33, 58, P.L., 75, 711 (cfr. un metodo di meditazione mistica chiaramente agostiniana, op. cit., V, 34, 62, col. 713). " … Sapor intimae contemplationis… ", VIII, 30, 49, col. 832
19 Unde aliquando ad quamdam inusita-tam dulcedinem intemi saporis admittitur… ", XXIII, 21, 43, P.L., 76, 277-278. " Dum enim audita supercoelestia amamus, amata jam novimus, quia amor ipse noti-tia est ", In Evangelio, II, 27, 4, P.L., 76, 1207 A. Altri testi sulla contemplazione mistica: op. cit., XXXVI, 65-66, P.L., 75, 715-716. Larghezza, lunghezza e profondità di Dio: IX, 14, P.L., 75, 930 A-C. " Op. cit., XXIX, 22, 43, P.L., 76, 500-501
20 " Saepe autem ita mens accendimi-, ut quamvis in carne sit posita, in Deum tamen orimi subjugata carnali cogitatione rapiatur; nec tamen Deum sicut est con-spicit, quia hanc nimirum, sicut dictum est, in carne corruptibili pondus primae damnationis premit. Saepe, ita ut est, absorberi desiderai, ut aeternam vitam, si possit fieri, sine interventu corporeae mortis attingat… Sancti igitur (i. e. Paulus) viri videre verum mane appetunt, et, si concedatur, etiam cuna corpore illud attingere lucis intimae secretum volunt. Sed quantolibet ardore intentionis exsiliant, adhuc an-tiqua nox gravat, et corruptibilis hujus carnis oculos, quos hostis callidus ad concu-piscendam aperuit, judex justus a contuitu interni sui fulgoris premit ", S. Gregorio Magno, Moralia, iv, 24, 45, P.L., 75, 659. Noi vediamo Dio come in una " visione notturna ", op. cit., v, 30, 53, col. 707-708. Cfr. xxui, 20, 39, P.L., 76, 274-275. Questa visione è parziale e temporanea; l'anima vi è " ultra se rapta "; " in qua-dam novitate aliquo modo recreatur "; " Ibi mens ex immenso fontis infusione superni roris aspergitur " xxiv, 6, 11, P.L., 76, 292. L'anima è subito " reverberata ", ibid, 12, col. 292-293. È per questo che in Apoc 8,1 leggiamo: " Factum est silen-tium in coelo, quasi media hora "; come l'esercizio della contemplazione non può essere perfetto in questa vita, " nequaquam bora integra factum in coelo silentium dicitur, sed quasi media hora, ut neque ipsa media hora piene sentiatur, cucn prae-mittitur quasi… ", In Ezechielem, il, 2, 14, P.L., 76, 957.
21 Cfr. " Jam frequentes et improvisae theophaniae… ", Guglielmo di Saint-Thier-ry, Liber de natura et dignitate amoris, iv, 10, P.L., 184, 386 C. Ritengo del tutto sbagliato dire, come è stato fatto (P. Pourrat, La spirifualité chrétienne, n, Gabal-da, Paris 1921, pp. 194-195), che in Guglielmo ci siano tracce del cosiddetto panteismo di Eriugena; non è però impossibile che l'abate di Saint-Thierry abbia letto Eriugena. Confrontare, in particolare, Giovanni Scoto Eriugena, De divisione na-turae, i, 12, P.L., 122, 452 C-D, e Guglielmo di Saint-Thierry, In Cantica Cantica-rum, cap. il, P.L., 180, 528 C-D. Si potrebbe qui pensare a una fonte comune, ad esempio Isidoro di Siviglia (io l'ho esplorata senza successo), ma è certo che il linguaggio di Guglielmo ricorda talvolta il " canto " dionisiano, così facilmente riconoscibile all'orecchio abituato ("Et sicut semper sibi indissimilis Deus indissimiliter dissimilia in creatura operatur… " Epistola ad fratres de Monte Dei, il, 3, 16, P.L., 184, 348 D), cosa che non sì verifica mai quando si legge san Bernardo.
22 Lo si vedrebbe ancor meglio se si proseguisse questa analisi, non tanto delle fonti, ma degli antecedenti dottrinali seguiti da san Bernardo. Infatti esiste almeno un quarto " blocco " che è entrato nell'edificio da lui così pazientemente costruito; è la dottrina della libertà contenuta nella Lettera ai Romani, da cui Bernardo ha tratto il suo De grafia et libero arbitrio. Si vedrà più avanti come la " libertas a miseria " coincida in definitiva con l'estasi; questo è un vero colpo di genio che conferisce a tutta la dottrina una profondità ammirevole; l'identificazione che opera tra l'ascesi e la mistica porta a compimento la completa unificazione della vita cistercense. Ogni suo sforzo per liberarsi dal peccato contribuisce a liberarlo dalla miseria, la cui liberazione quasi completa è l'estasi, preludio della beatitudine. Una intuizione così profonda, quando collega dottrine così conosciute, fa della loro sintesi una cosa diversa rispetto alla somma dei loro elementi
23

Si offrirà più avanti l'occasione per sottolineare l'importanza dell'influsso di sant'Ambrogio su alcuni aspetti importanti della mistica cistercense. Per quanto riguarda sant'Agostino non si può dubitare che il suo influsso sia stato ugualmente profondo; supponevo persino, iniziando questo lavoro, che sarebbe stato preponderante, ed è solo l'esame paziente dei fatti che, con mia grande sorpresa, mi ha fatto abbandonare questa opinione o meglio questa convinzione non motivata. San Bernardo lo conosceva a meraviglia e si è spesso ispirato alle sue Enarrationes in Psalmos, soprattutto per quanto riguarda la dottrina della carità. Molte articolazioni del suo pensiero sono agostiniane, ma si direbbe che le strutture della sua dottrina non sono costituite come quelle di cui è fatta la dottrina di Agostino. Per convincersene basta paragonare l'estasi agostiniana di Ostia, così metafisica, all'estasi affettiva di san Bernardo. L'estasi agostiniana, ottenuta con il progressivo superamento delle sensazioni, delle immagini e dei giudizi, sembra, in confronto, neo-platonica ( vedi l'importante studio di J. Maréchai, La vision de Dieu au sommet de la contemplation d'après saint Augustin, in "Nouvelle Revue Theologique ", 57 (1930), pp. 89-109.191-214 ). Ma si può convincersene anche confrontando san Bernardo con i suoi amici o successori. È impossibile leggere Guglielmo di Saint-Thierry senza incontrare subito un gioco di formule agostiniane, come l'amore « pondus animae », o anche di dottrine agostiniane come quella della « memoria » che è al centro stesso della sua mistica, mentre ha un ruolo molto limitato in san Bernardo. Il fatto è evidente; A. Adam ( op. cit., pp. 104-105 ) può scrivere che se Guglielmo non è sparito nella scia di san Bernardo, ma ha conservato la propria personalità, dipende dal fatto che « essendo l'amico intimo di san Bernardo, ha saputo anche essere discepolo di sant'Agostino ». Se san Bernardo lo fosse stato allo stesso livello di Guglielmo, il suo amico non si distinguerebbe più da lui. Si può tentare la stessa esperienza leggendo il De spirituali amicitia di Aeiredo di Rievaulx, incontestabilmente un discepolo di san Bernardo, ma che dall'inizio del suo trattato si rivela in grado di scrivere « alla maniera delle Confessioni ». La realtà è questa, ma confesso che mi sorprende. Se, come credo, è vera, posso spiegarmela solo ritornando alla Regola di san Benedetto. Probabilmente essa non escludeva in nulla sant'Agostino, ma dirigeva espressamente Bernardo verso la prima lettera di Giovanni, verso Cassiano e verso Gregorio Magno; egli li meditò e, avendo trovato in questi scritti gli elementi della dottrina che cercava, non ebbe più nulla di essenziale da chiedere a sant'Agostino. Fornisco questa spiegazione per quanto essa può valere; forse, malgrado i miei sforzi per comprenderla, la vera natura di questo influsso, anche a causa del suo carattere diffuso, mi è sfuggita. L'influsso di sant'Agostino su san Bernardo si esercita soprattutto nella dottrina dell'amore. San Bernardo ha raccolto, sistematizzato e approfondito una quantità di indicazioni sparse nelle opere di sant'Agostino. Per esempio: nella contemplazione è meglio che l'anima dimentichi se stessa per amore del Dio immutabile, o si disprezzi penitus per rapporto a lui: De libero arbitrio, III, 25,76. San Bernardo dice di più, ma sant'Agostino lo aiutava. La causa principale dell'incarnazione fu che Dio volle dimostrarci il suo amore per invitarci ad amarlo: De cathechixandis rudibus, IV, 7. Vedremo san Bernardo drammatizzare questa idea in un sermone. Per quanto concerne la natura stessa dell'amore: « Quod non propter se amatur, non amatur », Soliloquio, XII, 22. Questo amore deve essere gratuito: « Quid est gratuitum? Ipse propter se, non propter aliud », Enarrationes in Psalmos, 54,10. È quindi un amore casto, in quanto disinteressato: « Non est castum cor, si Deum ad mercedem colit. Quid ergo? Mercedem de Dei cultu non habebimus? Habebimus piane, sed ipsum Deum quem colimus ", Enarrationes in Psalmos, 55,17. « Premium Dei, ipse Deus est », Enarrationes in Psalmos, 73,32. È in questo senso che l'amore di Dio è « gratuitus », Enarrationes in Psalmos, 105,40. L'amore casto genera il timore casto, Enarrationes in Psalmos, 128,8-9. Per quanto riguarda la causa e l'ordine dell'amore, Agostino insegna, ben inteso, che Dio ne è il creatore e che quindi esso è universale: « Deus quem amat omne quod potest amare, sive sciens, sive nesciens », Soliloquio I,1, 2 Che l'amore di sé è spontaneo: « Ut se quisque diligat, praecepto non opus est », De doctrina christiana, I, 35,39. Che bisogna anche iniziare dall'amore di sé; H.M. Delsart nell'introduzione alla sua traduzione del De diligendo Dea ( p. 5, nota 1 ) cita un testo decisivo in questo senso: « Ergo dilectio unicuique a se incipit et non potest nisi a se incipere, et nemo monetur ut se diligat », Sermo, 368, 4, 4. Non è sicuro che questo sermone sia autentico ( io stesso credo che non lo sia ), ma san Bernardo può averlo letto come se fosse stato di sant'Agostino. H.M. Delsart indica per errore: Sermo 268; il P.F. Cayré ha voluto correggere per me questo errato riferimento.