La teologia mistica di San Bernardo

Schola caritatis

Bernardo e i suoi compagni cosa venivano a chiedere a Cìteaux quando, nel 1112, bussarono alla porta del monastero?

Non si può pensare che essi vi abbiano portato una dottrina già costituita, la stessa che noi oggi studiamo negli scritti dell'abate di Chiaravalle; al contrario, quei giovani venivano a istruirsi sulle regole della vita cristiana e a imparare a praticarla.

Possiamo almeno dire che non è senza aver riflettuto a lungo, né senza cognizione di causa, che, dopo il loro mese di ritiro a Chàtillon-sur-Seine, si rivolsero a Cìteaux.

Dobbiamo a un anonimo monaco di Chiaravalle, che più tardi scrisse l'Exordium magnum Ordinis Cisterciensis, una spiegazione così chiara del senso della vita cistercense per coloro che l'abbracciarono agli inizi, che la cosa migliore che possiamo fare è quella di apprendere da lui i motivi della loro decisione.

Come la concepiscono i suoi primi partecipanti, la riforma cistercense non è una innovazione nella vita benedettina e la vita benedettina non è una innovazione nella vita cristiana.

Per gli autentici discepoli di Cristo non c'è più nulla da inventare, ma troppo spesso vi è la necessità di riformarsi.

È quanto fanno Bernardo, Stefano Harding, Roberto di Molesme: essi ritornano a san Benedetto, e attraverso san Benedetto, alla forma di vita perfetta che fioriva nella Chiesa primitiva.

Anche nel XII secolo non si aveva l'ingenua illusione di una Chiesa primitiva nella quale tutti i membri fossero stati dei perfetti cristiani.

Il numero dei santi è sempre stato esiguo; predicato a tutti, il Vangelo non è mai stato recepito se non sulla misura di coloro che lo ricevevano, ma è proprio per questo che si è formato, dagli inizi, un gruppo ristretto di perfetti imitatori di Cristo, la cui presenza, agendo come lievito, fermentava la massa dall'interno, e le impediva di corrompersi.

Sembra che gli Apostoli, subito dopo la morte di Cristo, abbiano formato un gruppo di questo tipo, cioè una scuola di maestri la cui stessa vita era un insegnamento; essi non insegnavano altro che il Vangelo offerto a tutti e tuttavia si temeva di unirsi a loro a causa del rigore con il quale ne seguivano gli insegnamenti: « Erano soliti stare insieme sotto il portico di Salomone; degli altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava » ( At 5,12-13 ).

Essi furono i primi monaci e il loro esempio ci rivela quello che sempre fu il senso della vita monastica: vita di una élite che, con la predicazione e l'esempio, mantiene lo spirito assoluto del Vangelo in un mondo incapace di conformarvisi.1

Il nome che l'autore dell'Exordium dà a questo gruppo è tipicamente benedettino; è una scuola, la scuola della Chiesa primitiva: schola primitìvae Ecclesiae.

Già san Benedetto aveva annunciato all'inizio della Regola che aveva intenzione di aprire una scuola del servizio divino: dominici schola servitii.2

I Cistercensi avevano molte ragioni per riprendere questa espressione dandole un senso nuovo.

Nel XII secolo la Francia si popola di scuole dove si insegnano le scienze profane e le lettere antiche.

Non esiste solo Saint-Vorles, dove il giovane Bernardo aveva studiato e il cui programma doveva aver ben presto sorpreso o almeno inquietato il suo animo avido di Cristo, ci sono anche Parigi, Reims, Laon, Chartres, tanti altri nomi celebri, i cui maestri però sono sempre gli stessi: Cicerone, Virgilio, Ovidio, Grazio, portavoci eloquenti di un mondo che non aveva letto il Vangelo.

Perché non richiedere un altro maestro, l'unico che ha parole di vita eterna?

Unus est enim magister vester ( Mt 23,8 ); l'uomo non ha che un maestro, il Cristo: magister vester unus est, Christus ( Mt 23,10 ).

Cìteaux, Chiaravalle e Signy si mettono quindi contro Reims, Laon, Parigi e Chartres, scuole contro scuole, e rivendicano, in terra cristiana, i diritti di un insegnamento più cristiano di quello con cui veniva inquinata una gioventù avida di Cristo.

In questo non vi è nulla che debba sorprendere, perché Cìteaux e Chiaravalle non sono altro che filiali e continuatrici di quella Scuola di Gerusalemme, fondata dai primi apostoli, o di quella di Antiochia, i cui illustri maestri furono Paolo e Barnaba.

Il vero nome dei loro allievi è « Cristiani »; la dottrina di Cristo è la sola che vi si insegna ed è quella che ha sempre la maggior importanza quando si fonda una nuova scuola.

Antonio, Pacomio, Macario, Pafnuzio, Basilio non hanno desiderato altro che ricondurre i loro discepoli alla vita dei perfetti della Chiesa primitiva.3

Benedetto stesso si appella a loro redigendo questa Regola dove tutta la perfezione è ricondotta all'amore di Dio e del prossimo.4

Cìteaux, a sua volta, non ha altra ambizione che quella di ristabilire nel suo rigore l'osservanza della Regola benedettina, cioè della vita cristiana, che è la vita di carità.5

Se si aggiunge che il monaco anonimo che ci riferisce queste notizie, non può trattenersi dal citare due volte Grazio e una volta Ovidio,6 avremo un'immagine abbastanza esatta dello spirito che conduceva quei giovani atleti al chiostro.

Essi vi fuggivano il mondo, ma la più grande tentazione del più distaccato tra di loro era stata quella di diventare un uomo di lettere7 ed egli ha trovato il modo di divenire santo pur cedendo ad essa.

Malgrado il suo severo ascetismo, san Bernardo non è mai caduto nel puritanesimo letterario; i muri dei suoi monasteri sono nudi,8 ma non senza stile.

Non a caso compone come Guglielmo di Saint-Thierry o Aeiredo di Rievaulx.9

Questi Cistercensi hanno rinunciato a tutto tranne che all'arte dello scrivere bene; ognuno di questi severi asceti porta in sé un umanista che non vuole morire.

Comunque sia, resta vero che i Cistercensi non si sono fatti una concezione scolare della vita monastica, ma una concezione monastica della vita di scuola.

Essi hanno riportato la Scuola nel Chiostro e quando hanno paragonato quest'ultimo alle scuole, lo hanno fatto per mostrare che esso si sostituisce ad esse e ne dispensa, come la fede si sostituisce alla filosofia e ne dispensa.

In effetti la Regola di san Benedetto è proposta a tutti, ma non è imposta a nessuno.

Nessuno è obbligato a seguirla e si può ottenere la salvezza senza assoggettarvisi.

Tuttavia, se la si abbraccia, aiuta efficacemente a ottenerla, a condizione che la si segua fedelmente dopo averla abbracciata.

Finché non si è preso l'impegno di assoggettarvisi, la Regola non impone nulla come necessario e la volontà rimane completamente libera nei suoi confronti; ma una volta che se ne è liberamente fatta professione, ciò che era rimasto facoltativo diviene necessario.

Il monaco quindi assume liberamente la Regola, ma in seguito deve necessariamente osservare la legge che si è liberamente imposto.

Felice necessità, d'altra parte, quella che lo obbliga alla perfezione.

In ogni modo, gli articoli della Regola benedettina, una volta che viene accettata, non sono più consigli, ma precetti - ante professionem voluntaria, posi professionem necessaria10 - e ogni disobbedienza grave ai suoi ordini è una colpa.

Ciò che la Regola prescrive è essenzialmente ciò che bisogna fare per acquisire e conservare la carità, che è il fine della vita cristiana.11

Solo e soltanto questo, che si impara bene esclusivamente in un chiostro, e in nessun modo nelle scuole.

Perché quindi preoccuparsi di ciò che è inutile, col rischio di perdere il necessario?

Guardate Abelardo, il professore per eccellenza, cosa insegna?

Troppo spesso insegna errori che mettono in pericolo la vita della fede e nei quali cade per averle voluto sostituire la filosofia.

Anche dove il suo insegnamento non è falso, è pericoloso per lo spirito che lo anima.

È l'orgoglio che spinge la ragione a voler comprendere ciò che dobbiamo umilmente accettare per fede; svuotare il mistero, significa eliminare il nostro merito, perché significa rifiutare quell'atto di umiltà che Dio ci chiede di compiere se vogliamo raggiungere un giorno la verità.

Ciò che rende pericoloso l'atteggiamento di Abelardo è quindi, soprattutto, la sua pretesa di vedere tutto faccia a faccia e di lasciare campo libero alla ragione nei misteri che la superano.12

D'altra parte, le intenzioni dei professori raramente sono pure e Abelardo purtroppo non è l'unico di questa categoria.

Alcuni imparano per sapere, altri perché si sappia che sanno, altri ancora per vendere la loro scienza.

Imparare per sapere, è una curiosità vergognosa - turpis curiositàs - l'uso dell'intelligenza che prende il proprio gioco come fine; imparare affinché gli altri ci riconoscano sapienti, è vanità; imparare per vendere la propria scienza è cupidigia e, peggio ancora: simonia, poiché è commercio di beni spirituali - turpis quaestus, simonia.13

La verità è che bisogna scegliere le scienze in vista della propria salvezza, cioè per acquisire la carità, così come si scelgono gli alimenti del corpo per la salute.

Ogni scienza così scelta e acquisita è « prudenza », tutto il resto è « curiosità », non è alla scuola di Abelardo che si impara a scegliere la scienza, ma a quella di Benedetto, a quella di Cristo.

Per sapere quali scienze sono utili, è sufficiente pensare a coloro che le insegnano: « Pietro, Andrea, i figli di Zebedeo e tutti gli altri condiscepoli non sono stati scelti in una scuola di Retorica o di Filosofia, ed è tuttavia per mezzo loro che il Salvatore ha compiuto l'opera di salvezza nel centro della terra ».14

L'espressione ricorre spesso negli scritti di san Bernardo e sempre con il medesimo significato: « Gaudeo vos esse de hac schola, de schola videlicet Spiritus, ubi bonitatem, et disciplinam, et scientiam discatis … Numquid quia Platonis argutias, Aristotelis versu-tias intellexi, aut ut intelligerem laboravi? Absit, inquam, sed quia testimonia tua exquisivi ».15

Ciò che il cistercense apprende a questa scuola è la più importante fra tutte le arti, quella di vivere, e l'apprende direttamente da Cristo: « Tu es enim magister et dominus, cuius schola est in terris et cathedra in coelo … Exultaverunt gigantes philosophi non ad currendam viam tuam, sed ad quaerendam gloriam vanam ».16

Ma Cristo si serve anche di altri maestri, in quanto ciò che Egli stesso insegna è la carità, che Egli solo può dare, mentre gli altri maestri insegnano il timore di Dio, il rispetto della Regola, in una parola, la vita di penitenza attraverso la quale il cuore si purifica e si prepara a ricevere la carità: « In schola Christi sumus; siamo nella scuola di Cristo » - è a Chiaravalle che furono pronunciate queste parole - « e noi veniamo istruiti con una duplice dottrina: una ci è insegnata dall'unico e vero - Maestro, l'altra, dai suoi ministri.

Dai suoi ministri, il timore; da Lui stesso, la dilezione.17

È per questo che, quando manca il vino, egli ordina ai propri ministri di riempire le idrie di acqua e, ancora oggi ogni giorno, se la carità si raffredda, i ministri di Cristo riempiono d'acqua le idrie, cioè di timore i nostri pensieri.

E a ragione si interpreta « acqua » con « timore », perché come l'acqua spegne il fuoco, così il timore spegne il desiderio libidinoso, e come l'acqua pulisce la sporcizia del corpo, la paura purifica quella dell'anima.

Riempiamo dunque con acqua questa idria, cioè il nostro pensiero, perché colui che teme non trascura nulla, ed è un pensiero pieno quello nel quale non può cadere la negligenza.

Ma l'acqua appesantisce, il timore è dolore; andiamo quindi da colui che trasforma l'acqua in vino, che trasforma cioè il timore e il suo dolore in amore, e potremo così capire ciò che insegna sulla dilezione.

Infatti dice: ecco qual è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri, quasi dicesse: Vi prescrivo molte cose per mezzo dei miei ministri, ma questo ve lo raccomando io stesso e in modo particolare.

E in un altro passo: da questo tutti sapranno che voi siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri.

Quindi amiamoci gli uni gli altri, per dimostrare che siamo i discepoli della verità.

E in questa mutua dilezione facciamo attenzione a tre cose, perché Dio è carità - Deus caritas est - e noi dobbiamo preoccuparci solo di essa: che nasca, che cresca, che si conservi ».18

Questa lezione non è stata dimenticata dai compagni di san Bernardo e si è anche magnificamente sviluppata nell'opera di Guglielmo di Saint-Thierry.

Infatti la famosa Epistola ad Frafres de Monte Dei, che è certamente uno dei suoi capolavori, si basa interamente su questa concezione.

Scritto per i Certosini, questo trattato è l'opera di un monaco che si rivolge a monaci e che prima di tutto vuole sapere qual è il vero senso della vita monastica.

I saggi di questo mondo, pieni dello spirito di questo mondo, mirano alla più alta saggezza, ma lambiscono la terra; lasciamoli saggiamente discendere all'inferno.19

Ben diversa è la vita del monaco, perché per lui non si tratta soltanto di servire Dio, ma di aderirvi: « Anche altri credono in Dio, lo conoscono, lo amano e lo riveriscono, a voi appartiene di averne la sapienza, l'intelligenza, la conoscenza, la gioia. Ciò è grande, è difficile ».20

Ma, dopotutto, perché un certosino si rinchiude nella propria cella?

Per dedicarsi a Dio, risponde il nostro Cistercense, e per gioire di Lui.

Certamente non si raggiunge questo ideale senza sforzi, ma l'Abate non è lì per incoraggiarli e dirigerli?

Infatti egli insegna; è un vero professore i cui allievi sono i novizi: « Primumque docendus est rudis incola eremi, secundum apostolicam Pauli institutionem … Rursumque docendus est caverò … », « Deinde docendus est ani-malis incipiens et Christi tyrunculus Deo appropinquare ».21

« Docendus est etiam in oratione sua sursum cor levare ».

Scuola di esperti di Cristo più che non di studenti, perché gli esercizi sono azioni concrete; scuola speciale di carità - specialis caritatis schola -, dove se ne coltiva lo studio, se ne discutono i problemi e determinano le soluzioni, non tanto con dei ragionamenti, quanto con la ragione, la verità stessa delle cose e l'esperienza.22

Perché e come insegnare l'amore, è ciò che ci resta ora da determinare.

Si tratta di restituire all'uomo sfigurato la somiglianza divina che ha perso.

Se la Regola benedettina, come la interpretano i cistercensi, mira anzitutto all'acquisizione e conservazione della carità, è per il fatto che è una regola di vita e che, come l'anima è la vita del corpo, la carità è la vita dell'anima.

Il legame che unisce l'anima al corpo è ben diverso da quello che la unisce a Dio; infatti essa da vita « per necessità » a quella parte di materia a cui è unita e, d'altra parte, è per questo che abbiamo detto che il suo amore inizia « necessariamente » con l'essere carnale.

Non è così per l'amore che ha verso Dio, poiché in quanto cosciente di sé e volontario, è libero.

L'anima esiste là dove essa ama.

Non potendo impedirsi di amare il proprio corpo, essa non può non essere nel proprio corpo, ma essa è in Dio solo se ama Dio.

Se lo ama, si trova alla sorgente della propria vita in quanto anima; se non lo ama, la sua vita spirituale è morta poiché, privata della sorgente che la vivifica, essa appassisce.

L'anima ama Dio per mezzo della carità;23 è quindi mediante la carità che comunica con la sorgente della propria vita e la prima cosa da fare per ridarle la vita è di iniziarla alla carità.

Quale sarà il primo momento di questa iniziazione?

È chiaro che il primo ostacolo da superare è l'amore smodato del corpo che trattiene l'anima lontana da Dio; si spiega così la severità dell'ascetismo cistercense.24

Non si tratta di uccidere il corpo: questo sarebbe uccidere l'uomo, ma innanzitutto si può cercare di riportare l'anima nei limiti della necessità naturale e di ridurre la cupidigia.

Occorre fare ancora di più.

Accontentarsi dei piaceri naturali e necessari è un programma che Epicuro aveva già proposto agli uomini; non poteva bastare al Cistercense, perché ci si potrebbe limitare a questo se la natura fosse come Dio l'ha creata, non ancora viziata dal peccato originale.

La colpa è sempre presente, con quel tremendo castigo: la concupiscenza, tanto che, prima di poter seguire la natura, bisogna risollevarla.

È per questo che il Cistercense mortifica il proprio corpo, che ostacola la carità con le proprie continue esigenze.25

Per mortificarlo bisogna ricondurlo al di qua dei limiti della necessità naturale e impedirgli di morire più che permettergli di vivere: misura delicata da rispettare, ma che san Bernardo ha saputo mantenere sino a sessantatre anni.

Il primo obiettivo di chi vuole vivere la vita di carità, non è quindi neppure di ridurre il corpo a ciò che è sufficiente per assicurargli la salute, cosa che in sé è tuttavia buona e desiderabile ma di infliggergli una dura disciplina; questo è il prezzo con cui l'anima paga la propria libertà.

Questo ascetismo del corpo, il cui precetto è contenuto in poche righe, ma la cui pratica dura tutta una vita, non è che la condizione necessaria per una ascesi del pensiero, che ora dobbiamo descrivere.

La cosa è tanto più facile in quanto, a parte le inevitabili variazioni su un tema familiare che san Bernardo ha ripreso più volte, l'ordine che raccomanda di seguire resta costante.

Ciò d'altra parte è imposto dalla natura del problema.

Recole primordia, attende media, memorare novìssima tua: haec pudorem adducunt, ista dolorem ingerunt, illa metum incutiunt.

Ciò che conferisce all'esecuzione di questo programma il suo carattere propriamente cistercense è che essa suppone l'applicazione di quel metodo di analisi psicologica del quale, come abbiamo detto, san Bernardo ha fatto uno dei fondamenti della sua mistica.

Ne è annunciata l'idea immediatamente dopo le parole che sono state appena citate, con un richiamo di questa parola dal Cantico dei Cantici ( Ct 1,7 ): Si ignoras tè, o pulcherrima mulierum.

Sapere da dove veniamo, dove siamo, dove andiamo; significa sapere ciò che eravamo, ciò che siamo, ciò che saremo; in breve, significa conoscere se stessi.

La prima cosa da fare, per chi vuole istruirsi sulla carità, è quindi imparare a conoscersi, e questa è la vera scienza, la sola necessaria al cistercense, quella che deve rimpiazzare per luì le arguzie dialettiche di Fiatone o i sofismi di Aristotele.

Dall'inizio del proprio insegnamento, Bernardo si impegna quindi nello studio dell'uomo e della sua dottrina, si allontana dalla filosofia speculativa solo per impegnarsi più profondamente in questo studio della vita inferiore dove lo aveva preceduto sant'Agostino e lo seguiranno Pascal e Maine de Biran.

Imponendo quindi all'uomo che si volge a Dio il dovere di conoscere innanzitutto se stesso, san Bernardo è l'erede di una lunga tradizione che si era formata presso i Greci, ma il cui corso era stato modificato dai Padri della Chiesa.26

Per quanto ci è possibile giudicare, le fonti dalle quali egli stesso ha attinto questa idea sono sant'Agostino e colui che sant'Agostino aveva ascoltato a Milano: sant'Ambrogio.

Si ha la prova che il testo di sant'Ambrogio era familiare all'amico intimo di san Bernardo, Guglielmo di Saint Thierry.

Nella prefazione alla sua Epistola aurea quest'ultimo riferisce che tra le opere da lui scritte si annovera un commentario al Cantico dei Cantici, interamente composto da testi disseminati nelle opere di sant'Ambrogio che si riferiscono a questo argomento.

Ciò che sant'Ambrogio stesso non aveva fatto, Guglielmo glielo fa fare.

Nulla di sorprendente per un uomo del quale si sa che, come san Bernardo, considerava il Cantico come l'iniziazione per eccellenza alla vita mistica.

È logico che sant'Ambrogio deve di conseguenza essere considerato come una fonte importante della mistica cistercense.

Ora, nel commentario ambrosiano compilato da Guglielmo, si trova raccolta una lunga serie di testi sulla necessità, per il cristiano, di conoscere se stesso27 e sulle ragioni che fondano questa necessità.

È sufficiente lasciare parlare san Bernardo per vedere come egli intenda questa conoscenza e cosa si attenda.

Conoscersi è per lui essenzialmente prendere coscienza di essere una immagine divina sfigurata: « Non ti vergogni di sollevare il capo, tu che non sollevi il tuo cuore?

Di stare con il corpo eretto, tu che hai il cuore che striscia per terra?

Avere il piacere della carne, desiderare ciò che è carnale, perseguire ciò che è carnale, non è strisciare per terra?

Tuttavia, poiché sei stato creato a immagine e somiglianza di Dio, divenuto simile alle bestie perdendo la sua somiglianza, la tua vita è ancora quella di una immagine.

Se quindi, quando eri nella grandezza, non hai capito che eri fango della terra, preoccupati, ora che sei caduto nel fango dell'abisso, di non ignorare che sei l'immagine di Dio e arrossisci per averla ricoperta con una somiglianza estranea.

Ricordati della tua nobiltà e vergognati di un simile abbassamento.

Non ignorare la tua bellezza, per essere ancora più confuso dalla tua bruttezza ».28

Frasi di una densità meravigliosa, nelle quali è contenuto tutto l'ascetismo cistercense.

Miseria dell'uomo: avere perso la somiglianza divina; grandezza dell'uomo: aver conservato l'immagine divina; dò che il novizio impara subito a Cìteaux è togliersi di dosso la somiglianza estranea con la quale il peccato l'ha rivestito.

Ma, per toglierla, è necessario riconoscerla, cioè conoscersi così come siamo diventati.

Torniamo ora alla regola di vita che il Cistercense fa professione di seguire; è proprio questa la prima cosa che essa gli insegna, perché imparare a conoscere la propria miseria significa essere iniziati all'umiltà.

San Benedetto ne ha descritto i dodici gradi che ha posto come altrettanti gradini, da salire con le nostre azioni e non soltanto da conoscere con il pensiero; scala i cui due lati sono il nostro corpo e la nostra anima e che innalza verso Dio la nostra vita in questo mondo, perché è umiliandosi che ci si eleva fino a lui.

San Bernardo ha costruito su questo tema tutta la propria dottrina del De gradibus humilitatis29 e si può vedere qui come il suo pensiero sia profondamente radicato nel terreno della vita benedettina.

Ciò che attinge dalla Regola è, nello stesso tempo, la nozione fondamentale dell'umiltà e quella del termine al quale conduce: la carità.

« Dopo aver salito tutti i gradini dell'umiltà, il monaco raggiungerà subito la carità di Dio, quella che, quando è perfetta, caccia il timore ( 1 Gv 4,18 ).

Con essa, tutto ciò la cui osservanza si accompagna in lui a qualche timore egli comincerà a osservare senza sforzo e come per una abitudine naturale, non più per paura dell'inferno, ma per amore di Cristo, per buona abitudine e amore delle virtù ».30

Sostituire la paura con la carità, grazie alla pratica dell'umiltà, questa è tutta l'ascesi di san Bernardo: il suo inizio, il suo sviluppo, il suo termine.

É quella di Cassiano, quella di san Basilio; è la disciplina attraverso la quale si realizza la promessa di san Giovanni: limar non est in cantate, sed perfecta caritas foras mittiti timorem, quoniam timor poenam habet: qui autem timet, non est perfectus in cantate.

In che modo la progressiva acquisizione dell'umiltà conduce l'uomo a questo fine?

Conducendolo alla verità31 e, prima di tutto, alla verità su se stesso.

Humilitas est virtus, qua homo verissima sui cognitione sibi ipse vilescit.32

Umiliarsi è quindi essenzialmente mostrare con azioni del corpo e del pensiero che si conosce la propria miseria e che la si giudica.

Tema di meditazione familiare a san Bernardo, che egli ricorda continuamente, e che è patrimonio comune di tutte le scuole cistercensi, ma che egli solo ha saputo approfondire sino alle sue giustificazioni teologiche.

Infatti vi è un problema che il suo genio non poteva non scorgere e analizzare.

Ogni direttore di coscienza sa che occorre umiliarsi; Bernardo sa e dice di più: discerne e mostra il profondo legame che unisce la conoscenza di sé al giudizio di sé e il giudizio di sé alla carità.

La carità abbiamo gia visto è « volontà comune » in opposizione alla volontà propria; rigorosamente parlando è la volontà comune all'uomo e a Dio.

Éssa quindi regna nel cuore quando la nostra volontà vuole ciò che vuole quella di Dio.

Cosa fa l'uomo quando pratica l'umiltà?

Dimostra di conoscere la propria miseria e di giudicarla; si giudica quindi come Dio lo giudica; il proprio consilium inizia a rettificarsi quando inizia a conoscersi con la propria ragione come Dio stesso lo conosce.

Su questo piano inferiore, ma necessario, l'uomo può già dire di conoscersi così come è conosciuto.

Affinché questo possa essere detto di lui, più tardi, nella gloria, bisogna che prima possa essere detto nella sua miseria; e ciò si può dire dell'uomo che si umilia e di lui soltanto.

Giudicandosi miserabile come Dio lo giudica miserabile, conosce l'enormità del proprio crimine e sa che merita di essere punito.

Il castigo è già presente nella orribile deformità di un'anima sfigurata che soffre nel sopportare la propria vista, ma non è compiuto, e l'uomo sa che lo sarà senza la grazia.

Non è sufficiente saperlo, egli lo accetta, lo vuole per quanto lo merita, ed è per dimostrare che lo vuole che egli stesso si punisce sino al limite delle proprie forze, mortificandosi.

Raddrizzamento di una natura in rivolta, l'ascetismo cistercense è quindi anche la prova che l'uomo va spontaneamente incontro alla punizione che sa di aver meritato.

Facendo ciò non unisce solamente il proprio giudizio a quello di Dio, ma anche la propria volontà alla sua ed è per questo che, nella propria essenza, l'umiltà è gia carità.

Questo primo passo, inizio necessario della restaurazione dell'immagine perduta, ne comporta subito un altro, perché la colpa originale ha avuto le medesime conseguenze per tutti i figli di Adamo.33

La mia storia è la vostra storia; la mia condizione, la vostra condizione.

Quando un uomo si riconosce miserabile, colpevole, condannato e degno d'esserlo, sa anche che ogni altro uomo è simile a lui.

Sapere la verità su se stessi è quindi saperla sul proprio prossimo, ed è necessario saperla, non più questa volta per giudicare come quando si trattava di noi stessi, ma per compatire.

Compassione che materialmente si esprimerà con l'elemosina, ma la cui fonte è nel cuore stesso del cristiano; esaminiamola sotto questi due aspetti procedendo dall'esterno all'interno.

L'elemosina cistercense è senza dubbio l'elemosina cristiana, ma con una sfumatura particolare.

Non per nulla fare l'elemosina viene detto « fare la carità », perché l'elemosina esprime bene la compassione, la compassione per il prossimo nasce dalla conoscenza della nostra personale miseria, la conoscenza di sé è l'umiltà, l'umiltà è già carità.

La carità di san Bernardo per i poveri era ardente; si osa a malapena dire, e tuttavia è necessario, che essa era feroce, ed è ciò che spiega la violenza delle sue invettive contro il lusso delle abbazie cluniacensi.

È difficile rileggerle senza rimanere stupiti, se si pensa ai motivi che animavano coloro cui erano rivolte.

Il « lusso per Dio » dei cluniacensi è un sentimento anch'esso profondamente cristiano, molto bello e fonte inesauribile di bellezza, ma una delle ragioni principali che provoca l'indignazione di san Bernardo è che, spendendo i soldi per ornare le chiese, si lascia Cristo soffrire nella persona dì coloro che soffrono la fame: « I muri della chieda risplendono, ma i suoi poveri sono nel bisogno.

Essa veste d'oro le sue pietre e lascia andare nudi i suoi figli.

Si lusingano gli occhi dei ricchi a spese dei poveri.

I raffinati vi trovano di che gratificare il proprio gusto, ma i miseri non vi trovano di che mangiare ».34

Sentimento profondo, certamente, e passione violenta, ma anche idee.

Quali? Poiché è carnale, l'uomo è legato al proprio corpo da un rapporto di necessità.

Non ha diritto a più di quanto tale necessità esige, ed è una encomiabile prudenza restare un po' al di sotto dei propri limiti medi.

Tuttavia, poiché è una necessità, essa determina un diritto, e, in rapporto ad esso, poiché i bisogni degli uomini sono generalmente i medesimi, essi sono uguali.

Nati così, da questo punto di vista essi lo sarebbero ancora, se la cupidigia non ne avesse trascinato la maggior parte a straripare dal letto della necessità naturale, per lanciarsi all'inseguimento di una quantità di beni maggiore di quella che possono realmente consumare.

Supponiamo che il peccato originale non abbia corrotto la volontà dell'uomo, accontentandosi ognuno del necessario ci sarebbe per tutti più di quanto è necessario.

Queste sono cose che un vero cistercense può dire, perché vive con poco, e lavorando con le proprie mani nei campi del monastero, il poco che consuma lo produce.

Produce a sufficienza per dare persino del proprio misero superfluo a coloro che sono pressati da simili necessità.

Ben diverso è l'atteggiamento di coloro che vivono nel mondo: avidi, non possiedono mai a sufficienza; quando la natura è sazia, s'impadroniscono, per soddisfare le proprie passioni, di ciò che dovrebbe essere il necessario degli altri; orgogliosi, spinti dalla « volontà propria », desiderano se stessi e per se stessi; allontanandosi dalla « volontà comune », si reputano maestri al di sopra di coloro che Dio ha creato loro simili.

Infatti « la natura ha creato tutti gli uomini uguali - equidem omnes homines natura aequales genuit- , ma poiché il modo naturale di vivere bene si è degradato sotto l'influsso dell'orgoglio, gli uomini sono divenuti impazienti di questa uguaglianza, lottando a gara per dominarsi gli uni gli altri e per superarsi ».

È ciò a cui il monaco rinuncia praticando l'obbedienza nella propria cella,35 cioè rinunciando alla « volontà propria », e, rinunciandovi, recupera la « volontà comune » che è carità.

La recupera nei due sensi, materiale e spirituale, l'uno trascina l'altro con sé.

Intesa come è stata precedentemente definita, l'elemosina è un atto con il quale la cupidigia toglie il proprio superfluo, affinché gli altri abbiano il loro necessario.

Essa ristabilisce quindi l'ordine voluto da Dio; dimostra, con questo atto esterno, che la volontà, nella propria segreta intimità, si accorda con la volontà divina; è quindi l'espressione concreta di una comunione del nostro volere con quello di Dio, il quale è la carità spirituale stessa.

D'altra parte è per questo che, anche su questo piano inferiore dell'amore carnale dove ancora ci troviamo.

Dio ci comanda di amare il nostro prossimo e di amarlo come noi stessi, ma per amore Suo; infatti non si può amare il proprio prossimo come se stessi senza sacrificare il proprio superfluo per rientrare nei limiti della necessità; ma in tal modo, oltre che ristabilire se stessi nella giustizia personale, si ristabilisce la giustizia sociale.

Chi vuole che ogni creatura di Dio abbia il proprio necessario, sacrificando il proprio superfluo ottiene più che la liberazione della propria anima da un fardello pericoloso: conoscendo la propria miseria conosce quella del proprio prossimo e se si priva dei beni inutili, perché ad altri non manchi ciò che per esperienza sa essere necessario, rifiuta di pretendere come propri dei beni che Dio ha voluto comuni.

Il Cistercense che si priva non dona, restituisce; ristabilire la giustizia sociale, significa per lui unirsi nella volontà alla volontà divina di giustizia; ama veramente il proprio prossimo come se stesso per amore di Dio.36

È l'amore carnale sociale.

Così inizia a sgretolarsi sotto la forza dell'ascesi quel consilium proprium, fonte di ogni male.

C'è di più. Se, elevandosi dall'ordine individuale all'ordine sociale, l'amore carnale avanza notevolmente nella vita della carità, è senza dubbio perché la conoscenza di se stessi è immediatamente conoscenza di tutti, ma soprattutto perché la conoscenza della nostra miseria supera, per un cristiano, la conoscenza dell'uomo; da quando Gesù Cristo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi, la nostra miseria è diventata quella di Dio.

Quale modello! Ma soprattutto quale trasfigurazione dell'amore carnale e quale infinito approfondimento della conoscenza di sé!

Magnifica iniziazione, in verità, quella del giovane novizio che scopre Gesù Cristo e impara a conoscersi e sa ormai che non conoscerà se stesso senza Gesù Cristo.

Gli basta infatti ricordarsi di Gesù Cristo per ottenere l'immagine perfetta di ciò che è l'umiltà e vedere che essa ha per fine la compassione.

L'incarnazione del Verbo, questa umiliazione infinita, Dio l'ha desiderata per se stesso e per noi, e i due desideri sono uno solo, ma si possono guardare da due parti.

In quanto Dio, il Verbo conosceva dall'eternità la nostra miseria; la conosceva meglio di noi: perfettamente, ma non la conosceva come noi perché non l'aveva sperimentata e non poteva sperimentarla se non facendosi uomo: sciebat quidem per naturam, non autem sciebat per expe-rientiam.

È per questo che questo Dio, impassibile, si è abbassato sino a soffrire; assumendo la forma di schiavo, ha sperimentato la miseria e la sottomissione, per provare la misericordia e l'obbedienza: l'obbedienza nella sottomissione, la miseria umana nella sua passione.

Esperienza della quale non aveva certo bisogno per arricchire la propria scienza - conosceva ogni cosa - ma per provare, dal punto di vista umano, quella sofferenza di cui aveva una conoscenza solamente divina.

In questo senso, non è esagerato dire che Dio si è istruito con la propria Incarnazione; ciò che Cristo già sapeva per propria natura divina, ha voluto sentirlo, cioè conoscerlo in altro modo, nella sua natura umana, e ha voluto conoscerlo per noi, per avvicinarci, con le proprie sofferenze, a colui da cui noi ci siamo tanto allontanatisi.37

Dio infatti, se così si può dire, non aveva altre risorse.

Non gli restava altro da fare che questo ultimo e incredibile tentativo: sperimentare egli stesso la miseria di cui noi soffriamo per aver peccato contro di lui, experiri in se, quod illi fadendo contro se merito paterentur.38

Se, mentre la sua giustizia ci castiga, la sua misericordia si sottomette al nostro castigo per salvarci, è perché egli aveva vanamente fatto ogni tentativo o, almeno, tutto quanto era possibile tentare per riportare a sé una creatura quale l'uomo, che viene mossa da passioni elementari molto semplici: il timore, la cupidigia, l'amore.

Nulla sarebbe stato più facile per Dio che dominare con la paura il cuore dell'uomo decaduto, ma così non lo avrebbe conquistato.

Divenuti carnali, noi restiamo tuttavia delle « nobili creature »: uomini, quindi esseri liberi, spontanei, e la paura è la negazione stessa della spontaneità.

« Volendo quindi recuperare questa nobile creatura che è l'uomo, "se io lo castigo suo malgrado - Dio disse tra sé - avrò un asino, non un uomo, perché non verrà a me spontaneamente né volentieri " ».

Bisognava quindi tentare un'altra via.

Dio poteva ancora pensare di tentare l'uomo nella sua cupidigia e lo ha fatto impegnandovi tutte le risorse di un Dio, poiché gli ha promesso il guadagno infinito della vita eterna in cambio della sua buona volontà.

La promessa è magnifica, la più capace di tentare l'uomo, perché se gli piace l'oro, ad esso preferisce la vita, ed è una vita eterna che gli viene promessa.

È evidente, anzi evidentissimo.

Sfortunatamente la vita eterna viene dopo, e l'oro subito; il desiderio dell'eterno non era ancora abbastanza forte per vincere quello temporale: « Vedendo quindi che ciò non serviva a nulla, Dio disse tra sé: "Non mi resta che una sola cosa, perché nell'uomo non ci sono solo il timore e la cupidigia, c'è ancora l'amore e in lui nessuna forza di attrazione è più forte di questa " ».

Ecco come Dio si è fatto uomo e ha sofferto la morte per conquistare il nostro amore, facendoci vedere il suo.39

Così la conoscenza di sé, che si era ampliata nell'amore carnale « sociale » per il prossimo, così simile a noi nella miseria, si ampliò una seconda volta nell'amore carnale di Cristo, modello della compassione da quando egli, per salvarci, è divenuto l'uomo dei dolori.

Questo è il posto che occupa, nella mistica cistercense, la meditazione sull'umanità sensibile di Cristo.

Essa è solo un inizio, ma un inizio assolutamente necessario.

Questo Dio umiliato ci mostra l'umiltà, questa Misericordia ci fa vedere la misericordia; questa « Passione per compassione » ci insegna a compatire.

Abituare la nostra volontà a estendersi da noi al nostro prossimo e dal nostro prossimo a Dio, significa estirpare la cupidigia che si attacca alla nostra carne e raddrizzare la volontà sfinita che non può più rialzarsi da sola.

Nell'uomo divenuto carnale bisogna che l'iniziazione alla carità cominci da qui.

Certamente la carità è spirituale e quindi questo non può essere che il primo momento del suo studio.

Questo amore è troppo sensibile se non vi si aggiunge la prudenza e se non ci si appoggia su di essa per superarlo.

Esprimendosi così, Bernardo non fa che codificare gli insegnamenti della propria esperienza, perché da lui stesso sappiamo che si era intensamente dedicato alla pratica di questo amore all'inizio della sua « conversione »; successivamente considererà un progresso l'averlo superato, cioè non l'averlo dimenticato, ma l'avergliene aggiunto un altro40 che lo supera, come il razionale e lo spirituale superano il carnale.41

Tuttavia questo inizio è già un vertice.

L'amore sensibile di Cristo è sempre stato presentato da san Bernardo come di ordine relativamente inferiore.

Lo è per il suo stesso carattere sensibile, poiché la carità è di essenza puramente spirituale.

In linea di principio l'anima dovrebbe potersi unire direttamente, con le potenze dello spirito, a un Dio che è puro spirito.

D'altra parte si deve considerare l'Incarnazione come una delle conseguenze della colpa, tanto che l'amore della persona di Cristo si trova, di fatto, legato alla storia di una caduta che avrebbe potuto e dovuto non avvenire.

Inoltre san Bernardo ha più volte notato che questo sentimento non basta a se stesso e che vi si deve unire ciò che egli chiama la « scienza ».

Egli conosce alcuni esempi di deviazioni alle quali può condurre la devozione più fervida, quando non si unisca a una sana teologia che la regoli.

Tuttavia, essa è necessaria e Dio stesso l'ha giudicata tale, infatti si è incarnato e ha sofferto nella carne per toccare con questo spettacolo sensibile degli esseri sensibili.

Ci si ingannerebbe quindi sul ruolo che essa occupa nella sua concezione spirituale, se si concludesse che essa può essere trascurata.

Superarla non significa distruggerla, ma conservarla completandola con un'altra.

Si pretenderebbe vanamente di elevarsi a quest'altra se non si passasse prima attraverso questa esperienza preparatoria, che, d'altra parte, deve prolungarsi e accompagnare la carità puramente spirituale dopo che è stata ottenuta.42

Lo spirituale supera il carnale, questo non è che un inizio, ma vediamo che, già da questo inizio, l'anima raggiunge un vertice.

È indubbio che la devozione sensibile alla persona del Cristo sia ricompensata con stati mistici nettamente caratterizzati.

La Chiesa, cioè, in questo contesto, l'anima dei cristiani, in opposizione a quella dei Giudei o dei Pagani, si sente trafitta da aculei sconosciuti agli altri, di fronte alla testimonianza d'amore infinito che essa sola riceve.

Davanti a questo spettacolo, che solo lei può contemplare, di un Dio morto sulla croce per salvarla, essa non può non esclamare con la Sposa del Cantico: vulnerata cantate ego sum.

È per questo che la meditazione della passione e della resurrezione che la corona, per il fatto stesso che provoca nei cuori degli slanci d'amore più ardenti, si accompagna a una crescita della carità tale da preparare l'anima a ricevere la visita del Verbo.

Essa allora va direttamente all'unione attraverso la compassione: compatimini et conregnabitis.43

Basta leggere con attenzione il terzo capitolo del De diligendo Deo per assicurarsi che qui si tratta di stati di unione mistica caratterizzati: « Gaudet Sponsus caelestis talibus odoramentis, et cordis thalamum frequenter libenterque ingreditur …; ibi profecto adest sedulus, adest libens … Oportet enim nos, si crebrum volumus habere hospi-tem Christum ».

Tali espressioni, e altre che si potrebbero facilmente raccogliere, non lasciano alcun dubbio sul carattere di queste visite.

Abbiamo detto che sono il primo frutto mistico della vita di carità, ma aggiungiamo che la meditazione sensibile di Cristo, l'amore carnale della sua umanità, deve continuare lungo tutta la vita del cristiano, anche quando un altro amore, più spirituale, ha iniziato a stabilirsi nell'anima.

Noi siamo e restiamo esseri carnali e la nostra sensibilità reclama sempre i propri diritti.

Una meditazione puramente spirituale esige una tensione che se prolungata, diviene uno sforzo insopportabile; è necessario che il pensiero si distenda, e lo fa ridiscendendo verso l'amore carnale di Cristo.

Questo ricorso alla meditazione della passione deve anche essere frequente, se non si vuole che l'amore di Dio si intiepidisca: « Haec mala, hi flores, quibus sponsa se interini stipari postulai et fulciri, credo sentiens facile vim in se amoris posse tepescere et languescere quodammodo, si non talibus iugiter foveatur incentivis ».

Questo testo, dello stesso capitolo terzo, serve come introduzione a quell'idea, molto importante, che la memoria, intendendo con questo termine la memoria e il ricordo sensibile della passione di Cristo, è in noi la condizione e l'annuncio della praesentia, cioè, in senso stretto, della visione beatifica della vita futura, ma anche già di queste visite dell'anima da parte del Verbo in questa vita.

« Dei ergo quaerentibus et suspirantibus praesentiam, presto interina et dulcis memoria est, non tamen qua satientur, sed qua magis esuriant unde satientur ».

Si capisce chiaramente, da tutto il contesto, che si tratta qui della memoria passionis.

Colui che trova penoso il ricordo frequente della passione, come sosterrà la presenza del Verbo che viene come giudice?

« Verbum modo crucis audire gravatur, oc memorìam passionis sibi iudicat onerosam. Verum qualiter verbi illius pon-dus in praesentia sustinebit? »

Avviene esattamente il contrario a colui a cui è caro e familiare il ricordo della passione.

« Ceterum fidelis anima et suspirat praesentiam inhianter, et in memoria requiescit suaviter ».

Incontriamo qui un tema teologico, divenuto celebre nella storia della poesia latina del medio evo grazie al famoso « Jesu dulcis memoria ».

Allo stesso tempo si nota che, se questo poema non è stato scritto da san Bernardo, dipende strettamente dal suo influsso ed esprime uno degli aspetti più importanti della sua dottrina mistica.

E, cosa ancora più utile, gli si può ormai dare il suo senso autentico.

Descrive il movimento con cui l'anima si eleva dal ricordo della passione di Cristo all'unione mistica, nell'attesa di essergli unita per sempre nell'eternità.

In effetti, l'opposizione di memoria e praesentia ha sempre valore tecnico negli scritti di san Bernardo o in quelli che si rifanno alla sua dottrina.

Si potrebbero, d'altra parte, riallacciare a questo aspetto della dottrina di san Bernardo gli altri poemi raggruppati dalla tradizione sotto il suo nome e che sono altrettante meditazioni sulle sofferenze di Cristo in croce.

Il « Salve caput cruentatum » se non è della sua mano - ed è poco probabile che lo sia - è certamente del suo pensiero o di un pensiero strettamente imparentato con il suo.

La tradizione ha probabilmente commesso un errore materiale attribuendoglieli, ma non capire quale profonda verità si nasconda sotto questo errore è un errore ancor più grave.44

Superare il carnalis amor Christi significherebbe terminare la fase della iniziazione alla vita di carità, poiché significherebbe passare dall'amore carnale all'amore spirituale di cui è il preludio.

Nell'attesa che si compia tale passaggio, la rinuncia alla volontà propria comincia a portare frutto.

Il disprezzo del mondo, che all'inizio non era altro che l'effetto di una volontà violentemente tesa contro di esso, si trasforma perché esprime il disgusto spontaneo di una volontà ormai protesa verso altre cose.

L'anima ama in un'altra direzione, il suo disprezzo per tutto il resto è ormai solo l'altro versante del suo amore per Dio.45

Così, sotto l'influsso della grazia, la libertas consilii si ricostituisce, in quanto la ragione inizia a conoscere ciò che bisogna preferire a tutto il resto.

Ma, nello stesso tempo, la libertas complaciti inizia ad aggiungersi, in quanto spontaneamente la volontà si allontana ormai dal mondo per rivolgersi a Cristo sofferente, cui vuole ricambiare l'amore con l'amore.

Inizia a cambiare il proprio atteggiamento anche nei confronti della vita di mortificazione.

Certamente non si tratta di farla diventare un piacere: cesserebbe di esistere se cessasse di essere accompagnata dallo sforzo e dalla sofferenza.

La carne è e resta ferita dal peccato; è quindi sempre in rivolta contro la volontà e contro la disciplina che essa le impone.

Se la volontà propria fosse completamente estirpata dall'uomo in questa vita, la carità non avrebbe più nulla da punire nel corpo.

Unendosi, contro di lui, al decreto punitivo divino essa si schiera dalla parte della giustizia di Dio contro una carne divenuta ribelle e, poiché le proteste della carne si fanno sempre sentire, il penitente non cesserà mai di provocarsi delle sofferenze.

Tuttavia egli ormai trova una gioia del cuore nel mortificarsi.

Le sofferenze che impone al corpo sono da lui stesso volute, nel desiderio di associarsi a quelle di Cristo in croce.

A sua volta nel dolore collabora al riscatto dell'uomo peccatore; la sua sofferenza è divenuta, in senso stretto, una compassione alla passione di Cristo; si associa alla sua opera di redenzione e inizia così a ristabilirsi in uno stato cui la volontà dell'uomo si libera dalla miseria alla quale è stata sottomessa dopo il peccato.

Castigarsi per amore non è più essere castigati nel timore; questo accordo della volontà con lo stato nel quale l'uomo si trova collocato è esattamente la libertas a miseria.

Questo è vero a tal punto che se i dannati all'inferno potessero fare ciò che l'uomo può ancora fare in questa vita, cioè abbracciare con amore i tormenti da cui essi sono oppressi dalla giustizia celeste, cesserebbero subito di essere in quello spaventoso eccesso di miseria, l'inferno cesserebbe di esistere: « cesset voluntas propria et infernus non erit ».46

Almeno per il novizio che, nel ricordo sensibile della passione e nell'amore carnale di Cristo, si introduce all'amore divino, la mortificazione si riveste di dolcezza e il giogo del Signore, senza cessare di essere un giogo, diviene più leggero.

Il Certosino nella propria cella comincia ad amare la solitudine; il Cistercense inizia ad amare teneramente, come una amicizia, il peso, forse ancor più pesante, della vita comune: Ecce quam bonus est …; uscendo progressivamente dalla terra della dissomiglianza per avvicinarsi a quella della somiglianza, esce da quell'analogo dell'inferno che è il mondo, per entrare in quell'analogo del Ciclo che è una vita monastica di unione al volere divino: paradisus claustrali!.

Indice

1 L'opposizione del " portico di Salomone " al portico greco era classica; risale, nella letteratura latina cristiana, fino alle sue origini, poiché la si trova in Tertulliano. De praescriptione haereticorum, e. vii, dove la Sapienza divina si erge già contro l'insegnamento dei filosofi: " Nostra institutio de porticu Salomonis est, qui et ipse tradiderat Dominum in simplicitate cordis esse quaerendum. Viderint qui stoi-cum et platonicum et dialecticum christianismum protulerunt. Nobis curiositate opus non est post Christum Jesum, nec inquisitione post evangelium. Cuna credimus, nihil desideramus ultra credere. Hoc enim prius credimus, non esse quod ultra credere debeamus ", Ed. P.C. de Labriolle, Picard, Paris 1907, p. 18. Tertulliano avrà una numerosa posterità nella storia del cristianesimo. Diciamo piuttosto che vi si incontreranno vari temperamenti simili al suo: culto esclusivo della Scrittura; accentuata sfiducia nella dialettica, che arriva talvolta sino all'odio; gusto raffinato per l'arte dello scrivere bene, che permette ad alcuni di loro di transigere nei confronti della filosofia, ma mai nei confronti della dialettica, fatale per il bello stile.
2 S. Benedetto, Regula monasteriorum. Prologo, ed. B. Linderbauer, Bonn 1928, p. 15, r. 78. L'espressione: " schola primitivae Ecclesiae ", si trova neÌl'Exordium magnum Ordinìs Cisterciensis, I, 2, P.L., 185, 998 A.
3 Exordium magnum, I, 1-3; per quanto riguarda S. Benedetto, op. cit; cap. 4. Cfr. Guglielmo di Saint-Thierry, Epistola aurea ad Frafres de Monte Dei, I, 1, II. 3-4, P.L., 184, 310-311
4 Exordium magnum, I, 4; col 1000 A: " dilectionem Dei et proximi quae est perfectionis sumrna "
5 " …conservationem caritatis… ", San Benedetto, Regula, ed. cit., p. 16, r. 81
6 Exordium magnum, I, 9, P.L., 185, 1005 A: Ovidio. Exordium magnum, III, 5, P.L., 185, 1056 C e VI, 1, 1180 A: Grazio
7 Guglielmo di Saint-Thierry, Vita S. Bernardi, I, 3, 9, P.L., 185, 231: " Ubi vero de conversione tractantem, fratres ejus qui carnaliter eum diligebant, persenserunt, omnimodis agere coeperunt, ut animum ejus ad studium possent divertere litterarum et amore scientiae secularis seculo arctius implicare. Qua nimirum suggestione, sicut fateri solet [notare l'uso del presente] propemodum retardati fuerant gressus ejus ". Berengario, il discepolo di Abelardo, ha rimproverato a san Bemardo di aver scritto nella sua giovinezza delle " cantiunculas mimicas et urbanos modulos ", e di avere sempre voluto superare i propri compagni nell'arte dello scrivere (Berengario, Apologeticus, P.L., 178, 1257 A-B). È stato fatto osservare che Berengario è un testimone molto sospetto (E. Vacandard, Vie de suini Bernard, i, Gabalda, Paris 1927, p. 13). È vero, ma non su questo punto. Nulla di più verosimile che Bemardo, scolaro a Chàtillon, abbia scritto dei versi profani imitando Ovidio. Come scriveva saggiamente Manrique: " Quae tamen, ut nullius fidei digna quippe ab auctore dannato et tunc furenti, per convincium objecta, ita vera fonasse esse potuerunt ", Acta Bollandiana, P.L., 185, 654 A.
8 L'austerità di san Bemardo è troppo conosciuta perché sia necessario citarne degli aspetti. È tuttavia importante tenere presente l'intima relazione, su questo punto, tra la pratica e la dottrina. Il suo scopo era anzitutto di assicurare una completa subordinazione del corpo allo spirito, grazie alla stretta osservanza della regola cistercense (vedi l'orario delle giornate in U. Berlière, L'ascése bénédictine, p. 52), temperata tuttavia dalla dirczione dell'abate (Humb 4, V, 443-444) e adattata, d'altra parte, alle attitudini individuali (Alt 2, v, 215). Attraverso il corpo, questa mortificazione raggiungeva la sensibilità. Lasciare il corpo alla porta entrando nel monastero (" Hic foris dimittite corpora quae de seculo attulistis. Soli spiritus in-grediantur, caro non prodest quicquam! ") significava raffrenare, non solo la concupiscenza, ma i sensi stessi mediante i quali essa entra nell'anima, al fine di pulire lo spazio per l'amore divino: Guglielmo di Saint-Thierry, Vita Bernardi, I, 4, 20, P.L., 185, 238-239 (l'ultima parte di questo testo può esser stata suggerita da Gre-gorio Magno, Moralia, IV, 30, 57-60, P.L., 75, 667-670). I celebri esempi di distrazione riferiti qui da Guglielmo, si spiegano per il fatto che attenuare la sensibilità era per lui la condizione necessaria per la propria libertà spirituale. Cfr. Goffredo di ChiaravaUe, Vita Bernardi, in, 1, 2, P.L., 185, 304 D - 305 A. Sullo spirito di povertà, vedi sotto, nota 34
9

Aeiredo, De spirituali amicitia liber, P.L., 194, 659-702. Tutto l'inizio è estremamente interessante per il modo in cui si combinano, facilmente distinguibili, gli influssi di Cicerone, sant'Agostino e san Bemardo. Un breve sommario dei suoi errori giovanili ricorda all'inizio Agostino: " …tota se mens mea dedit affectui et devo-vit amori; ita ut nihil mihi dulcius, nihil jucundius, nihil utilius quam amari et amare videretur " (695 A), cfr. S. Agostino, Confessiones, in, 1, 1. In seguito, come Agostino fu sedotto da VHortensius, Aeiredo lo fu dal De Amicitia e, nei due casi, la lettura di Cicerone diventa il punto di partenza di un movimento di conversione: " Et licet nec ad illud amicitiae genus me videre idoneum, gratulabar tamen quamdam me amicitiae formulam reperisse, ad quam amorum meorum et af-fectionum valerem revocare discursus " (659 A). Alla fine giunge la sua conversione; entra nel monastero e si fa cistercense. Dopo averne seguito la regola, trova nel De Amicitia poco sapore; nulla di ciò che non è la Scrittura lo soddisfa; tuttavia, sebbene abbiano spesso parlato dell'amicizia, i Padri non le hanno consacrato trattati speciali; si accinge quindi a scrivere un trattato sull'amicizia spirituale, cioè a riscrivere quello di Cicerone ad uso dei cristiani ( 660 A; cfr. 661 D - 662 B ). Infatti è chiaro che Aelredo, scrivendo il suo dialogo, aveva sotto gli occhi il testo di Cicerone; abbiamo già segnalato i riferimenti, talvolta letterali, che gli deve, così come le modifiche che fa subire alla sua dottrina per cristianizzarla; vedi su questo punto R. Egenter, Gottesfreundschaft. Die Lehre von der Gottesfreundschaft in der Scholastik una Mystik des 12. uni 13. Jahrhunderts, Benno Filser, Augsburg 1928, pp. 233-237. Egenter ha dimostrato che Aelredo utilizza anche il De Officiis di sant' Ambrogio ( lui stesso influenzato da Cicerone ), Agostino, Gregorio Magno, Gerolamo e un florilegio di pensieri tratti da Seneca. Sull'unità del tono negli amici e discepoli di san Bernardo, vedi le acute osservazioni di Dora A. Wilmart, Auteurs spiritueis et textes dévots …, p. 322 , n.5. Sarebbe interessante studiare il movimento letterario cistercense in se stesso; vi si troverebbero altri grandi nomi oltre quelli dei fondatori della scuola la cui dottrina costituisce l'oggetto di questo lavoro. Alano di Lillà è morto a Citeaux ( vedi il notevole studio di J. Huizinga, Vber die verknupfung des poefischen mìt dem theologischen bei Alanus de Insulis, Amsterdam 1932, p. 3 ). Hélinand de Froidmont ( morto nel 1229 ), autore dei famosi Versi della morte, è un cistercense. Guglielmo di Digulleville, autore del Pellegrinaggio della vita umana ( 1320 ) è un cistercense, e i soli titoli di queste opere suggeriscono la continuità della scuola e l'unità dello spirito che unisce le espressioni letterarie alle espressioni architettoniche e teologiche. Su Aelredo, vedi F.M. Powicke, Aelred of Rievaulx and bis Bioyapher Walter Danlel, University Press, Manchester 1922. Dom A. Wilmart, Auteurs spiritueis et textes dévots…, XVI, L'oraison pastorale de l'abbé Aeired, pp. 287-297.

10 Pre I, 1-2, III, 254-256, e II, 3 III, 256. È ciò che spiega l'atteggiamento di san Bernardo nei confronti di coloro che vogliono cambiare ordine religioso. Non gli piace che si lasci un ordine neppure per entrare a Citeaux; ben inteso, detesta più ancora che si lasci Citeaux per un altro ordine, perché si tratta allora di cambiare una regola più severa per una più leggera; è un'apostasia. Vedi la famosa lettera Ep 1, VII, 1-11. Sull'insieme di questo problema, E. Vacandard, Vie de saint Bernard, i, cap. IV-I, pp. 99-173
11 Quindi difficilmente la Regola può essere cambiata. Quei precetti che riaffermano i comandamenti di Dio sono strettamente immutabili, perché vengono da Dio. Riguardo alle disposizioni aggiunte da san Benedetto, esse hanno come unico fine quello di condurci più facilmente al fine della vita cristiana: l'acquisizione e la conservazione della carità: " Porro inventa atque instituta fuerunt, non quia aliter vivere non liceret, sed quod ita magis expediret, nec piane ad aliud quam ad lucrum vel custodiam caritatis ", Pre II, 5, III, 257, 7-9. Questa è la regola del discernimento che permette di giudicare le disposizioni delle Regole monastiche. Finché servono a promuovere la carità, esse sono inviolabili e costrittive; se esse vi si oppongono, bisogna cambiarle o sopprimerle, in quanto andrebbero contro il loro fine. Pre II, 5, III, 257
12 " Petrus Abelardus christianae fidei meritum evacuare nititur, dum totum quod Deus est humana ratione arbitratur se posse comprehendere ", Ep 191, 1, VIII, 41, 10-12. " Nihil videt per speculum et in aenigmate, sed facie ad faciem omnia intue-tur, ambulans in magnis et in mirabilibus super se", Ep 192, VIII, 43, 19-44, 1. L'opposizione di san Bernardo contro lo spirito filosofico si esprime chiaramente nel suo trattato: Abaci (= Ep 190) IV, 10, VIII, 25-26 e V, 12-13, VIII, 27-28. Sui rapporti tra san Bernardo e Abelardo, vedi E. Vacandard, Abélard, sa luffe uvee saintBernard, sa doctrine, sa méthode, Roger et Chernoviz, Paris 1881. Si leggerà anche con interesse e prudenza: P. Lasserre, Un conflit religieux au XII siede, Artisan du Livre, Paris 1930. San Bemardo non ha alcuna ostilità contro gli studi in quanto tali. Al contrario, in sé lo studio delle lettere è buono, perché orna l'anima, istruisce l'uomo e lo rende capace di istruire gli altri; ma esso è buono solo se preceduto da due cose:
il timore di Dio e la carità (SC 37, 1-2, II, 9-10). È difficile sapere ciò che Bemardo intende esattamente con questo studio delle " lettere "; esso include evidentemente gli studi umanistici, ma sicuramente non lo studio di Fiatone e di Aristote-le, la cui conoscenza aveva indotto in errore Abelardo e Gilberto della Porretta. Per una bibliografia sulla questione, vedi M. Grabmann, Die Geschichte der schola-stischen Méthode, il, Herder, Freiburg im B. 1911, pp. 104-108. L'antifilosofismo di san Bernardo non è universale, ma molto diffuso nell'antica scuola cistercense. Quello tra i suoi discepoli che più completamente ha sviluppato questo aspetto è Gilberto di Hoyland (Gillebertus de Hoilandia, morto verso il 1172), che ha continuato il commento di Bernardo al Cantico dei Cantici dal capitolo terzo. In lectulo, al quinto, Dilectus meus candidus (anche il suo commento fu interrotto dalla morte). La sua concezione dei rapporti tra fede e ragione è ampiamente sviluppata a proposito di Cant 3,2: Circuibo civitatem. Il " circuito " consiste nel cercare Dio a partire dalla fede mediante la ragione, per raggiungere l'intelligenza. È quindi un commento, d'altra parte molto personale, del 'Fides quaerens intellectum di sant'Anselmo. La ragione deve mantenersi nei limiti della fede (Gilberto di Hoyland, In Cantica Canticorum iv, 2, P.L., 184, 26 D) che essa conserva nella propria memoria e che esplora, senza d'altra parte che l'intelligenza finale possa contenere altre cose rispetto a quelle che la fede già contiene: " Fides, ut sic dicam, veritatem rectam tenet et possidet; intelligentia revelatam (svelata) et nu-dam contuetur; ratio conatur revelare. Ratio inter fidem intelligentiamque discur-rens, ad illam se erigit, sed ista se regit… ", ibid., 27 A. La città in cui l'anima non cessa di circolare è l'universo e più ancora la società dei santi: la Chiesa. Ci si potrebbe limitare all'universo studiato dalla ragione, ma si vede il pericolo che tale atteggiamento comporta, per l'esempio dei filosofi pagani (op. cit., IV, 5, P.L., 184, 29; cfr. op. cit., V, 2, P.L., 184, 32-33). Bisogna quindi diffidare della filosofia pura. Ogni dottrina che non fa menzione di Cristo gli è sus pecca e persino de speda (op. cit., V, 3, P.L., 184, 33 C; cfr. S. Agostino, Confesswnes.m, 4, 8). D'altra parteTTa stessa Legge giudaica non è sufficiente almeno come la comprendono i Giudei, in quanto essa contiene la verità, ma essi non sanno vederla: " velamen est magis in eorum mente quam lege " (op. cit., V, 3, P.L., 184, 33 D). La sposa ha quindi a sua disposizione una sola via, quella che conduce allo Sposo rivelando il senso della Legge: la Carità. Questa interessante sintesi di Agostino, di Anselmo e di Bernardo, meriterebbe di essere studiata in se stessa. Gilberto non è un grande mistico; forse non lo fu affatto (op. cit., II, 8, P.L., 184, 22) e, prudentemente, nel suo commento si tiene sul piano del " senso morale ", ma è uno spirito fermo, equilibrato, di cui vale la pena leggere gli scritti.
13 SC 36, 3, II, 5-6. A questo proposito cita un verso di Persie: " Scire tuum nihil est, nisi tè scire hoc sciat alter ", Satira I, V. 27
14 SC 36, 1, II, 4, 4-7
15 PenT 3, 5, V, 173, 21-26. Cfr. " Hi sunt magistri nostri (se. Petrus et Paulus), qui a Magistro omnium vias vitae plenius didicerunt, et docent nos usque in hodier-num diem. Quid ergo docuerunt vel docent nos Apostoli sancti? Non piscatoriam artem… non Platonem legere, non Aristotelis versutias inversare, non semper discere et numquam ad veritatis scientiam pervenire. Docuerunt me vivire. Putas parva res scire vivere? Magnum aliquid, imroo maximum est ", PP 1, 3, V, 189, 25-190,3
16 Div 40, 1, VI-I, 234, 12-13.235, 5-6
17 Dilectionem, nel senso di amore di Dio. Dilectio in san Bernardo si contrappone ad amore carnale; terminologia classica a partire da sant'Agostino e codificata da Isidoro di Siviglia, Etymologia, VIII, 2, 7: " Omnis autem dilectio carnalis non di-lectio sed anagis amor dici solet ", Ed. W.M. Lindsay, Oxford 1911, ad. loc.
18 Div 121, VI-I, 398, 3-19. La concezione benedettina della vita monastica come scbola Christi non appartiene in proprio a san Bernardo e neppure alla scuola cistercense; la si ritrova anche in altri benedettini (per esempio in Giovanni l'Uomo di Dio, in A. Wilmart, Auteurs spiritueis et textes dévots du moyen àge latin, Bloud et Gay, Paris 1932, p. 95, r. 38); è familiare, al di fuori dell'Ordine, a san Pier Damiani e a molti altri; nondimeno è parte integrante della dottrina cistercense e vi ha ricevuto una elaborazione notevolmente approfondita.
19 Guglielmo di Saint-Thierry, Epistola aurea, I, 2, P.L., 184, 309-310. D'altra patte, Guglielmo sa esattamente contro chi le scuole cistercensi devono insegnare la carità: contro le scuole letterarie nelle quali l'amore viene insegnato alla maniera di Ovidio. Quest'ultimo si era autoproclamato maestro nell'arte d'amare: Sed quicumque meo superarti Amawna ferro Inscribat spoliis " Naso magister erat ". Ars Amatoria, II, 743-744 Una delle tesi fondamentali di Guglielmo è che l'unico maestro nell'arte di amare non è l'Ovidio pagano che si leggeva avidamente nelle scuole, ma la Natura e Dio, che è l'autore della Natura. Tutto l'inizio del suo De natura et dignitate amoris è una rivendicazione dei diritti dell'amore cristiano contro l'amore pagano, e delle scuole di carità contro le scuole di lettere. Cfr. l'affermazione dell'inizio: " Ars est artium ars amoris, cujus magisterium ipsa sibi retinuit natura, et Deus auctor natu-rae ", op. cit., I, 1, P.L., 184, 379 C; e l'allusione che le segue: " doctor artis ama-toriae… " (I, 2, P.L., 184, 381 A) che si riferisce evidentemente a Ovidio. Tutta questa critica dell'Ara amatoria è così chiara e ampiamente sviluppata che l'intenzione di Guglielmo non può essere misconosciuta. Secondo l'espressione pittoresca e definitiva del suo antico editore: " Est alius ejusdem liber De natura et dignitate amoris quem secundum ipsius materiam: Antì-Nasonem possumus appellare ", P.L., 184, 363-364. La cosa è evidente per chi legge il testo; Mabillon si è preoccupato di farlo notare; tuttavia la storia non sembra proprio aver preso in considerazione un fatto così importante per definire lo sfondo umanista della mistica cistercense
20 Guglielmo di Saint-Thierry, Epistola aurea, I, 2, 5, P.L., 184, 311. Per il " vacare Deo ", op. rif., I, 4, 10, P.L., 184, 314 A
21 Op. cit., I, 7,18, P.L7, 184, 320, Cfr. I, 13-14, 41-42, P.L., 184, 334-335
22 " Haec est specialis caritatis schola, hic ejus studia excoluntur, disputationes agitantur, solutiones non ratiocinationibus tantum, quantum ratione et ipsa rerum ventate et experientia terminatur ", Guglielmo di Saint-Thierry, De natura et digni-tate amoris, IX, 26, P.L., 184, 396
23 Fons siquidem vitae caritas est, nec vivere ammani dixerim, quae de ilio non hauserit. Haurire porro quomodo potest, nisi fuerit praesens ipsi fonti, qui caritas est, quae Deus est? Praesens igitur Deo est qui Deum amat, in quantum amat ", Pre 20, 60, III, 293, 1-4. Cfr. " quia habet tè quis, in quantum amat tè ", Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo, VIII, 16, P.L., 184, 376 A. Entrambi si muovono qui nell'ambito delle idee familiari a sant'Agostino, Sermo 23, VII, 7-VIII, 8, P.L., 38, 158-159.
24 Il termine ascetismo e sempre usato, in questo trattato, nel senso di mortificazione del corpo. Il termine ascesi vi è usato nel senso di: disciplina volontaria e sistematica della volontà e del pensiero
25 " Praesens igitur Deo est qui Deum amat, in quantum amat. In quo enim mi-nus amat, absens profecto est. In eo autem minus Deum amare convincitur, quod carnis adhuc necessitatibus occupatur. lila vero circa corpus occupatio quid est, nisi a Deo quaedam absentatio? Et absentatio quid, nisi peregrinatio? Et peregrinamur ergo a Domino, et in corpore peregrinamur, cuius nostra nimirum et intendo praepe-ditur aerumnis, et curis caritas fatigatur ", Pre 20, 60, III, 293, 4-10. Si potrebbe o-biettare che l'anima ha il dovere di amare il proprio corpo e di non disprezzare la propria carne; nulla di più vero, ma amare la propria carne significa mantenerla al suo posto, nel suo ordine: al di sotto dello spirito. Chi risparmia maggiormente la propria carne, il cistercense, che la mortifica per salvarla, o l'uomo detto carnale, che condanna la propria ai castighi eterni? (QH 10, 3, iv, 444-445). La necessità naturale di amare il nostro corpo è quindi sempre rispettata da san Bernardo; è sufficiente che questo amore sia ordinato: " Diligat anima camem suam, sed multo ma-gis suam ipsium animam servet ", QH 10, 3, IV, 445, 1-2. Cfr. Div 23, 1, VI-I, 178-179; i Nor 2, 2, V, 307-308
26 M.J. Festugière, L'ideai religieux des Grecs et l'Evangile, Gabalda, Paris 1932, pp. 23-24. E. Gilson, L'esprit de la philosophie medievale, Vrin, Paris 1932, cap. i (tr. it., Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia 1947). La storia del socratismo cristiano meriterebbe di essere scritta; vedi per esempio Origene, Homiliae in Canticum Canticorum, lib. n, ed. Baehrens, p. 146, 12-150, 22. (Cfr. Rouèt de Journel, Enchiridion Asceticum, pp. 62-63). San Bernardo ha anche ricollegato questo tema all'insegnamento di san Paolo il quale non vi aveva certamente pensato. Ecco il ragionamento: san Paolo dice che si può conoscere Dio partendo dalle sue creature; a maggior ragione è possibile a partire da quella che più gli assomiglia: l'uomo, creato a sua immagine; è per questo che l'uomo deve conoscere se stesso se vuole conoscere il proprio autore: Div 9, 2, VI-l, 119.
27 Cfr. Guglielmo di Saint-Thierry, De natura corporis et anìmae, prologo, P.L, 180, 695-696: " Fertur celebre apud Graecos Delphici Apollinis responsum: " Homo, scito teipsum ". Hoc et Salomon, imo Christus in Canticis: " Si non, inquit, cognoveris tè, egredere " (Cant 1). Guglielmo ci fa assistere qui alla curiosa convergenza della tradizione greca e della Bibbia. Noi sappiamo inoltre a quale fonte attinge poiché è l'autore della compilazione estratta di sant'Ambrogio: Commentarius in Cantica Canticorum e scriptis sancii Ambrosii a Guilelmo, quondam abbate sancii Theodorici, postea monache Signiacensi, collectus (P.L., 15, 1947-2060). Tutte le dottrine della conoscenza di sé, che ho altrove designato col nome di Socratismo cristiano, e la cui importanza è considerevole in san Bernardo, Guglielmo, Ugo e Rie-cardo di S. Vittore, è lungamente sviluppata da sant'Ambrogio nel suo commentario Expositio in Psalmum cxvni (P.L., 15, 1278-1279): l'oracolo di Delfi fu rubato a Mosè che ne aveva detto l'equivalente in Deut 15, 9; da cui il commento di Ct 1,7: " Nisi noscat tè… ". Cfr. op. cit., X, 10-16, P.L., 15, 1402-1406; l'uomo deve conoscersi nella propria grandezza, come fatto a immagine di Dio. Lo stesso tema è sviluppato nel Liber de Isaac et Anima, IV, 11-16, P.L., 14, 533-535, sempre a proposito del Cantico dei Cantici. Questi testi sono stati raccolti da Guglielmo di Saint-Thierry nella sua compilazione di testi ambrosiani: In Cantica Canticorum, I, 33-38, P.L., 15, 1959-1962. Vi si possono aggiungere altri testi di sant'Ambrogio, Hescaemeron, VI, 39, P.L., 14, 271-272. " Cognosce ergo tè, decora anima, quia imago Dei es… ", op. cit., VIII, 50, P.L., 14, 277-278. È sufficiente confrontare un testo di questo genere a quelli citati da P. Festugière (nota precedente) per valutare una delle differenze essenziali tra il Socratismo cristiano e il Socratismo puro. I greci dicono: conosci tè stesso per sapere che non sei un Dio, ma un mortale; i cristiani dicono: conosci tè stesso per sapere che sei un mortale, ma l'immagine di un Dio
28 Div 12, 2, VI_I, 128, 3-11. Si ritrova in questo testo (Div 12, 1, VI-l, 127-128) l'invito a coltivare il Nasce leipsum che Bernardo riceveva dal Cantico dei Cantici:Si ignoras tè, o pulchra inter mulieres, egredere, et abi post greges sodalium tuo-rum" ( Ct 1,7 ).
29 S. Benedetto, Regula, VII, ed. B. Linderbauer, pp. 27-28; commentato da s. Bernardo, Hum, i, 1-2, in, 16-18.
30 S. Benedetto, Regula, vii: De Humilitate, ed. B. Linderbauer, pp. 27-31. Hum 1, 1, III, 16, 19-20: " Locuturus ergo de gradibus humilitatis, quos beatus Benedic-tus non numerandos, sed ascendendos, proponit ". Questo trattato, il primo delle grandi opere di Bernardo, è un commento ascetico al capitolo vii della Regola. Si noterà che la pratica dell'umiltà comprende l'impegno di tutto l'uomo, corpo e anima. È ciò che spiega come, per facilitare la conoscenza di se stesso, di cui l'umiltà è il primo momento, un cistercense abbia potuto scrivere un autentico trattato di anatomia secondo la scienza dell'epoca: vedi Guglielmo di Saint-Thierry, De natura carporis et animae, P.L., 180, 695-726 (cfr. S. Ambrogio, Hexameron, VI, 9, P.L., 14, 280-288). È, per ammissione dell'autore, una compilazione di testi tratti dagli autori antichi: filosofi, fisici, Padri della Chiesa, che deve servire da commento all'Oracolo di Delfi: " Scito tè ipsum ". MabiUon aveva già notato questo aspetto:
P.L., 184, 363-364.
31 L'umiltà è necessaria per raggiungere la verità, perché corrisponde alla verità su noi stessi; e la verità sulla nostra miseria ci insegna la carità, perché ci apre gli occhi sulla miseria del nostro prossimo, Hum I, 1, III, 16-17. (Cfr. Hum II, 3, III, 18, testo che si riferisce espressamente alla Regola di san Benedetto). D'altra parte, l'umiltà è carità ancora più direttamente, perché è sottomissione alla volontà di Dio, quindi unione con essa, e " volontà comune " come da definizione: Div 26, 2, VI-I, 194-195
32 Hum I, 2, III, 17, 21-22. Cfr.: " Et quemadmodum ex notitia tui venit in tè timor Dei atque ex Dei notitia Dei itidem amor, sic e contrario de ignorantia tui superbia, ac de Dei ignorantia desperatio venit. Sic autem superbiam parit ubi ignorantia tui, cum meliorem quam sis, decente et deceptrix tua cogitatio se esse menti-tur ", SC 37, 6, II, 12, 12-16. Mor (= Ep 42) V, 17-20, VII, 113-116
33 Hum V, 16, III, 28-29
34 Apo, XII,28, III, 105, 25-106, 2. Gli storici hanno molto insistito su questo aspetto del pensiero di san Bernardo, e in effetti è importante. Ma bisogna notare dapprima che Bernardo aveva ereditato questo amore per la povertà da santo Stefano Harding (Exordium magnum, I, 15, P.L., 185, 1011 A). Questa irriducibile opposizione al lusso architettonico e liturgico dei Cluniacensi è talvolta definita " puritanesimo ". (G.G. Coulton, Five Centuria of Religion, voi. i, University Press, Cambridge 1923, p. 300). La formula è allettante, ma a condizione di considerarla in un senso molto largo, al punto da essere generica. Il " puritanesimo " di san Bernardo si ispira a motivi che i Puritani autentici non avrebbero accettato completamente perché è essenzialmente funzione della povertà monastica e della vita mistica: " Denique quid haec ad pauperes, ad monachos, ad spirituale! virosi " (Apo XII, 28, III, 106, 8-9. È divertente notare che, anche in questo capitolo, Bernardo si ricorda di Persio, Satira n, v. 69). Se esiste un'architettura cistercense magnifica nella sua nudità e che la storia dell'arte tiene in grande considerazione, lo dobbiamo anzitutto alla povertà cistercense (Exordium magnum, I, 23, P.L., 185, 1018-1019), ma nella stessa misura allo spirito di mortificazione sensibile supposto da una vita di contemplazione. Come superare i sensi in mezzo a tante immagini scolpite? La nudità dei muri cistercensi sopprime gli ostacoli sensibili alla meditazione: " Tarn multa denique, tamque mira diversarum fonnarum apparet ubique varietas, ut magis legere libeat in mannoribus, quam in codicibus, totumque diem occupare singula ista mirando, quam in lege Dei meditando ", Apo XII, 29, III, 106, 21-24. L'architettura cistercense si inserisce quindi nella spiritualità cistercense e non potrebbe esseme separata. Le violente espressioni di san Bernardo contro il lusso delle chiese a scapito dei poveri, hanno causato talvolta degli equivoci in alcuni storici che lo incontravano in contesti diversi, senza conoscerne l'origine. Così, S. Parkes Cadman, Christianity ani thè State, Macmillan, New York 1924, p. 109, le ritrova sotto la penna di Wycliff e dichiara che queste righe contengono la metà del suo programma. L'altra metà deve essere stata ben diversa.
35 SC 23, 6, I, 142, 5-8. Cfr. Gregorio Magno, Maritila, XXI, 15, 22, P.L, 76, 203. S. Tommaso d'Aquino In II Sententiarum, d. 44, q. 1, a. 3, ad 1
36 Dil VIII, 23, III, 138-139, di cui ecco la conclusione: " Sic amor carnalis effici-tur et socialis, cum in commune protrahitur ", Dil VIII, 23, III, 139, 11-12.
37 Hum III, 6, III, 20-21. Cfr. " Non ergo debet absurdum videri, si dicitur Chri-stum non quidem aliquid scire coepisse, quod aliquando nescierit, scire tamen alio modo misericordiam ab aeterno per divinitatem, et aliter in tempore didicisse per camem ", Hum III, 10, III, 23, 25-28. Sottolineare la forza del didicisse che si accorda con il valore che san Bernardo attribuisce alla conoscenza per esperienza. Tutto questo sviluppo è un commento a Is 53,3
38 " virum dolorum, et sciente/M innr-mitatem… ". Cfr. Guglielmo di Saint-Thierry, De natura et dignitate amoris, XI, 34, P.L, 184, 401 B. Questo bellissimo testo di Guglielmo, anche se fosse ispirato a quello di Bemardo, conserverebbe tutto il proprio valore, in quanto l'accento è molto personale e ha una funzione diversa nello sviluppo della sua dottrina. " Hum III, 12, III, 25, 19-20
39 Div 29, 2-3, VI-I, 211-212. Cfr. SC 20, 6, I, 118, 21-22: " Hanc ego arbitrar praecipuam… ". Un brano di tono differente, ma di contenuto analogo, si ritrova in Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo, vi, 13, P.L., 184, 374. Il sermone di san Bernardo è forse posteriore al trattato, ma come sapere se si è ispirato ad esso?
40 SC 43, 3, II, 42-43. Div 29, 4, VI-I, 212-213
41 SC 20, 6, I, 118-119; SC 20, 8, I, 120. Notiamo che questo amore carnale di Cristo è eccellente in se stesso (ibid,, 9) ed è un gran dono dello Spirito Santo (ibid., 8). È inferiore agli altri solo per ciò che si collega all'animalità mediante la sensibilità. Si vede bene la sua debolezza perché non basta a se stesso, infatti se non è regolato dalla fede che gli da la " prudenza ", può facilmente deviare: Div 29, 4, VI-I, 212-213
42 Dil IV, 7-8, III 124-126. Notare le espressioni chiaramente mistiche: " in hor-tum introducta dilecti sponsa… ", Dil III 7, III 125, 2; " …cordis thalamum fre-quenter libenterque (sponsus) ingreditur… ", Dil IV, 8, III, 125, 18-19
43 Dtl IV, 11, III, 127-129
44 Dil IV, 11-12, III, 127-129. Sulla relazione del Jesu dulcis memoria alla dottrina di san Bernardo, vedi E. Gilson, Les Uées et les Lettres, Vrin, Paris 1932, pp. 39-57. Gli errori riguardo alla data del Jesu dulcis memoria derivano da una serie di malintesi la cui storia è stata ben spiegata da Réginaid Vaux, Jesu dulcis memoria, in "Thè Church Quarterly Review ", (1929), pp. 120-125
45 Dil IV, 13, III, 129-130
46 Pasc 3, 3, v, 105, 15-16. L'inferno è in effetti la " regione della dissomiglianza " completa e stabile per sempre. Conservando l'immagine di Dio, cioè il libero arbitrio, che non si può perdere, i dannati hanno perso, senza speranza di recuperarla, la libertas constili e la libertas complaciti, cioè la somiglianzà divina. In altri termini, essi sono eternamente fissati nel loro " volere proprio ", eternamente esclusi dalla " volontà comune " con Dio e, dal momento che questa volontà comune è carità, eternamente esclusi dalla Carità sostanziale, che è Dio. Dio è la beatitudine; il volere proprio eterno equivale quindi all'esclusione etema dalla beatitudine, cioè alla miseria eterna: l'inferno. Per i fondamenti di questa dottrina si veda Gru K, 30-31, m, 187-188.