La teologia mistica di San Bernardo

Paradisus claustralis

La beatitudine celeste è l'unione a Dio che è Carità; restaurare nel cuore dell'uomo questa vita di carità, che non avrebbe mai dovuto spegnersi, significa quindi riavvicinarla a ciò che sarà la vita eterna: il chiostro, scuola dove si insegna la carità, è veramente l'anticamera del paradiso.

È vero che tutto dipende dal sapere se e come l'amore divino si può insegnare?

Ancora più in particolare si tratta di sapere se questo insegnamento è possibile secondo i metodi proposti da san Bernardo.

Di ciò si è dubitato.

Per comprendere il suo pensiero, siamo ormai obbligati ad attraversare la foresta di filo spinato con cui è stato circondato; come ignorarlo?

Esso forse costituisce l'unico contributo positivo della storia alla comprensione della teologia mistica di san Bernardo.

Tentiamo quindi di comprendere quale sviluppo segue il suo pensiero e a quale meta conduce.

La prima difficoltà che si incontra, appena ci si sforza di scoprirne la coerenza, è legata all'apparente contraddizione che esiste tra il punto dì partenza e il punto di arrivo.

Il punto di arrivo è l'amore puro e disinteressato di Dio, che ci pone in uno stato analogo alla visione beatifica; il punto di partenza è un amore egoista e anche « un amor proprio angusto, un amor proprio viziato, quello che caratterizza la natura peccatrice ».1

Come meravigliarsi allora del fatto che san Bernardo trovi qualche difficoltà a fare dell'amore un movimento unico e continuo?

Per riuscirvi dovrebbe essere in grado di dimostrare che il disinteresse è tipico dell'amor proprio e la carità della cupidigia.

È evidentemente una sfida che non si può accettare.

Nulla di più vero, ed è anche per questo che san Bernardo non l'ha accettata.

Il problema che gli si impone e a cui lo si sfida a trovare una soluzione è, in effetti, insolubile; egli non lo ha mai posto.

Il punto di partenza della sua analisi dei gradi dell'amore è sempre l'amore di sé, ma è opportuno ricordare che questa cupidigia, questa concupiscenza, questo amore carnale dai quali di fatto si comincia, non sono il vero inizio della storia dell'amore.

Se si trattasse di trasformare una « cupidigia essenziale » in carità, il compito sarebbe evidentemente contraddittorio, ma si tratta semplicemente di ricondurre un amore per Dio degenerato in amor proprio, al suo stato primitivo di amore per Dio.

Il problema è quindi completamente differente.

Non dico che sia così semplice - in realtà ci vorrà la grazia divina per risolverlo -, ma non è certamente contraddittorio porlo in questi termini.

In breve, san Bernardo viene accusato di aver vanamente tentato di cercare come la somiglianza divina possa essere restituita all'uomo, senza aver tenuto conto del fatto che egli ne ha conservato l'immagine.

Ciò che si considera come il punto di partenza dell'operazione in realtà ne è solo il secondo momento; lungi dall'essere un carattere essenziale dell'uomo, questo « amor proprio vizioso » ne è una corruzione contingente e, conseguentemente, eliminabile e che sarà guarita per effetto della grazia.

Non essendosi accorti di questo aspetto, ci si è immersi in difficoltà inestricabili, col rischio di attribuirle a san Bernardo.

È giusto dire: « esiste una sola corrente dell'appetito umano che bisogna incanalare », ma non è esatto dire che la cupiditas sia concepita da san Bernardo « come il fondo stesso dell'appetito naturale che la caritas manterrà guidandolo ».2

Esprimersi così significa considerare una parte della storia dell'amore cistercense e credere che questa storia inizi con la considerazione di questa parte.

No, la corrente che bisogna incanalare non è la cupiditas: è l'amore divino che, accidentalmente sviato in noi sotto forma di cupidigia, non chiede altro che di riprendere il proprio corso normale e originario.

Quindi, il punto di partenza dell'analisi è per san Bernardo, e deve restare anche per noi, la situazione di fatto, senza la quale non si porrebbe la questione e non ci sarebbero problemi da risolvere, ma per lui questo problema consiste nel ritrovare la salute durante una malattia, non nel canalizzare così bene una malattia da farla diventare la salute.

È vero che san Bernardo stesso talvolta si esprime come se questa fosse la sua intenzione.

La carità, dice, non sarà mai senza timore, ne senza cupidigia, ma la ordina; in breve, non si tratta mai di arrivare a non amare più noi stessi, ma di non amare più noi stessi se non per Dio.3

Non è forse questo il fondo comune di cupidigia, non sradicabile, che bisogna incanalare nella carità?

L'obiezione è tanto più forte in quanto può essere rafforzata dalla celebre analisi dei gradi dell'amore che si trova nel De diligendo Deo o, meglio, nella Epistola de cantate indirizzata ai Certosini e che costituisce la conclusione di questo trattato.

San Bernardo vi distingue infatti quattro gradi dell'amore: nel primo, l'uomo si ama per se stesso e si trova in uno stato di cupidigia quasi pura; nel secondo grado, l'uomo comincia ad amare Dio perché, prèndendo coscienza della propria miseria, si rende conto che ha bisogno dell'aiuto divino per uscirne.

Amare così Dio è ancora cupidigia, ma si nota che fissandosi sull'oggetto proprio dell'amore, la cupidigia prepara la guarigione della malattia di cui l'uomo soffre e lo mette sul cammino della carità.

Ciò che ancora ama in modo sbagliato, ha tuttavia ragione di amarlo, anche se male, perché è l'unica maniera per arrivare ad amarlo meglio.

In effetti, questo secondo grado conduce rapidamente ad un terzo, che gli è superiore.

A forza di rivolgersi a Dio per bisogno, l'anima comincia presto a sentire che é dolce vivere con lui, inizia quindi ad amarlo per se stesso, senza cessare però di amarlo ancora per se stessa, così che esita alternativamente tra l'amore puro e una cupidigia interessata, anche se ben ordinata.

Questa è la condizione nella quale l'anima dimora più a lungo, dalla quale è anche impossibile che esca completamente in questa vita.

Oltrepassare completamente questa mescolanza di cupidigia e di amore disinteressato, elevarsi all'amore puro di Dio, significherebbe uscire da questa vita e vivere già quella dei beati in cielo.

Sottolinearne bene questo punto, sul quale dovremo tornare e che è essenziale: mai, in nessuna condizione, l'amore umano per Dio è, in questa vita, un amore assolutamente puro e questo perché vi sarà sempre una rottura netta tra gli stati mistici più sublimi e la visione beatifica.

Ma aggiungiamo questo secondo aspetto che non è meno importante: la differenza tra il terzo grado dell'amore e il quarto non consiste nel fatto che il terzo comporta ancora un certo amore di sé dal quale il quarto sarà libero.

La differenza è necessariamente altrove, poiché l'amore di sé sussiste persino nella visione beatifica.

San Bernardo si esprime chiaramente su questo punto: l'amore puro di Dio non è una condizione nella quale l'uomo cessa di amare se stesso, ma nella quale egli non ama se stesso se non per Dio: « Iste est tertius amoris gradus, quo iam propter seipsum Deus diligitur Felix qui meruit ad quartum usque pertingere, quatenus nec seipsum diligat homo nisi propter Deum ».4

Come non vedere in queste espressioni, con la permanenza della cupidigia che noi speriamo di eliminare, la contraddizione in termini che negavamo gravasse sulla impostazione del problema in san Bernardo?

Le contraddizioni in termini non sono pericolose quando sono solo nei termini, è sufficiente spiegare i termini perché la contraddizione si dissolva.

Per rispondere al problema così posto, bisogna riprendere e approfondire tutto il problema della vita di carità così come si conduce in un chiostro cistercense, perché non si spiegherà mai completamente l'amore così senza aver definito la relazione tra l'amore e i suoi diversi oggetti.

L'unione mistica non è che il coronamento dell'amore di Dio in questa vita; vi è quindi implicata tutta l'interpretazione della mistica cistercense.

L'origine di tutte le difficoltà sembra essere la tendenza, che alcuni storici hanno, di definire astrattamente i termini di cui si servono i filosofi o i teologi, invece di definirli in funzione dei problemi concreti di cui essi cercano la soluzione.

Per esempio, la definizione dell'amore fornita da san Bernardo potrebbe essere considerata come una delle possibili risposte alla questione astratta: cosa è l'amore?

Per san Bernardo la domanda ha già ricevuto la propria risposta: l'amore è Dio.

Inutile quindi domandarsi a quali conseguenze potrebbero portare le sue formule in una dottrina dove Dio non fosse amore, perché Egli lo è, e questo è quanto basta.

Il problema si pone allo stesso modo per quanto riguarda un altro elemento della soluzione: la natura dell'uomo, ciò che essa fu e potrebbe ancora essere, ciò che essa è e ciò che potrebbe tornare ad essere.

L'uomo, e per Bernardo è un'altra realtà fondamentale, è una immagine divina che ha perso la propria somiglianza e che, a condizione che Dio gliela restituisca, può recuperarla.

Tentare di interpretare indipendentemente da queste realtà formule che hanno senso solo in rapporto ad esse, significa evidentemente imbattersi in difficoltà inestricabili, dalle quali dobbiamo cercare di uscire.

Ritorniamo quindi alla situazione concreta del Cistercense che, sotto la direzione del proprio abate, termina l'iniziazione alla carità.

Così come l'abbiamo definita, la carità è una liberazione della volontà.

È in questo senso che, attraverso di essa, il nostro volere si libera progressivamente dalla « contraddizione » che le impone il timore e dalla « curvatura » del voler proprio.

In altri termini, invece di volere una cosa perché ne teme un'altra, o di volere una cosa perché ne desidera un'altra, essa ormai, avendo scelto il solo soggetto che si possa volere per se stesso, può tendere verso di lui con un movimento diretto, semplice, cioè con un movimento « spontaneo ».

Intendiamo con « spontaneo » un movimento la cui spiegazione non comporti alcun elemento esterno al movimento stesso, ma che al contrario contenga in sé la propria completa giustificazione.

Desiderare una cosa per timore di un'altra, non è un movimento spontaneo; desiderare una cosa per ottenerne un'altra, è ancora un movimento determinato dall'esterno; al contrario, amare significa volere ciò che si ama in quanto lo si ama, ed è in questo che consiste la spontaneità.

Se quindi la spontaneità è la manifestazione della volontà nella forma pura, si può dire che rendendola spontanea, l'amore la rende volontaria, la restituisce a se stessa, la fa ritornare una volontà.

D'altra parte, è stato detto che la sola misura che si addice all'amore dell'uomo per Dio è l'assenza di misura.

Quindi dove si arresterà la volontà amante sulla via dell'amore?

Diciamo piuttosto: quale può essere la natura del fine perseguito da una simile volontà, quando si propone di amarlo senza misura?

Senza dubbio raggiungere Dio, possederlo; ma come, in quale senso, sotto quale forma?

È questo il problema che occorre risolvere prima di cercare in cosa l'amore è o non è disinteressato, perché è solo in rapporto a un fine determinato che ci può apparire la sua natura e divenire intelligibile.

Cerchiamo quindi di precisare la natura di questo fine.

In primo luogo, notiamo che se il chiostro è un paradiso, non è il paradiso.

Si può collocare il termine della vita mistica e l'oggetto dell'amore all'altezza che si vuole in questa vita, ma in nessun caso lo si dovrà confondere con la visione beatifica.

Si dice spesso che l'estasi è un'anticipazione della beatitudine e l'espressione, non errata, tuttavia non è che una metafora.

È proprio dell'essenza della beatitudine l'essere eterna; cosa sarebbe infatti, se non miseria, una beatitudine costantemente minacciata di cessare?

L'estatico, colui che viene elevato al terzo cielo dall'estasi, nondimeno resta un abitante della terra; è contraddittorio immaginarlo come una sorta di eletto provvisorio e di conseguenza è giusto dire che il termine dell'amore, in questa vita, non può essere la visione di Dio faccia a faccia, né il possesso del bene supremo quale egli è, per quanto brevi possano essere un tale possesso e una tale visione.5

È tuttavia esatto dire che il termine della vita di carità è, sin d'ora, raggiungere direttamente Dio, vederlo, in un certo senso, con una visione immediata, gustarlo, toccarlo.

Per valutare sino a che punto questa ambizione del mistico cistercense possa essere presa sul serio, basta ricordarsi dell'accentuato « spiritualismo » che caratterizza questa dottrina.

San Bernardo - su questo punto ritorneremo - ritiene possibile l'unione dell'anima a Dio, in ragione della spiritualità assoluta di Dio e della spiritualità dell'anima umana.

Poiché si tratta di due spiriti è possibile il loro contatto, la loro unione, persino la loro fusione; da qui risulta immediatamente che l'anima può raggiungere Dio solo dopo aver superato ogni realtà materiale e ogni immagine corporale.

Non è quindi sufficiente offrire a san Bernardo un sogno mistico e neppure un'apparizione soprannaturale, fosse anche quella di Dio.

Certamente sono grazie molto grandi e che sarebbe insensato disprezzare, ma non sono quelle a cui tende san Bernardo o che egli consiglia di desiderare.

Il termine della sua ricerca mistica in questa vita è uno stato di unione a Dio che non sia la visione beatifica, perché Dio non vi si rivela così come è, ma uno stato dove Dio ci rivela, tuttavia, qualcosa di ciò che é.6

Per comprendere la natura degli stati di questo tipo, qualunque sia il nome dato loro da san Bernardo e in qualunque modo egli li descriva, l'essenziale è ricordarsi che la prima condizione di ogni tipo di conoscenza è una modalità dell'essere.

Fedele all'antica dottrina greca: solo il simile può conoscere il proprio simile, Bernardo afferma che la somiglianza dell'anima a Dio è la condizione necessaria per la conoscenza che essa ha di Dio.

L'occhio non vede il sole così come esso è, ma nel modo in cui illumina gli oggetti, siano essi l'aria, una montagna o un muro; non vedrebbe questi oggetti se non fosse partecipe della natura della luce per la propria trasparenza e limpidezza; e inoltre, trasparente e limpido, vede la luce solo in proporzione alla propria limpidezza e trasparenza.7

Questi sono solo dei paragoni, ma possiamo utilizzarli se ci preoccupiamo di attribuire loro un senso propriamente spirituale.

Essi infatti vogliono esprimere che la condizione immediata della visione beatifica sarà una somiglianza perfetta dell'uomo a Dio, che questa somiglianza è ora troppo imperfetta perché possiamo aspirare alla visione beatifica, e infine che più si sviluppa la nostra somiglianza a Dio, tanto più aumenta la conoscenza che abbiamo di lui.

Le tappe del cammino che ci avvicina a lui sono quindi i progressi spirituali del nostro spirito nell'ordine della somiglianza divina.

Progressi che si realizzano per l'azione dello Spirito Santo, ma nel nostro spirito, e grazie ai quali noi ci avviciniamo poco a poco a quello stato divino in cui l'anima vedrà Dio così come egli è, perché essa diventerà non ciò che egli è, ma così come egli è.8

Porro iam praesentibus non aliud est videro siculi est, quam esse sicuti est, et aliqua dissimilitudine non confutati. Sed id tunc, ut dixi.

La formula è di fondamentale importanza.

Ci spiega anzitutto perché l'unione a Dio deve essere esclusivamente spirituale.

Fondata su una trasformazione interna dell'anima, non potrebbe realizzarsi attraverso una conoscenza di Dio nelle sue creature e neppure con una visione di Dio sotto forma di immagini esteriori; affinché questa unione si realizzi, bisogna che l'anima stessa sia trasformata dall'interno, purificata, chiarificata, restaurata nella somiglianza al proprio creatore.9

Tutto deve quindi concludersi all'interno, in quanto nulla può supplire questa purificazione interna dell'anima che la rende simile al proprio oggetto.

Ma, contemporaneamente, vediamo qual è la natura di questa necessaria trasformazione: una progressiva eliminazione della dissomiglianza, che ce la farà conoscere nella misura in cui ci renderà nuovamente simili a lui.

San Bernardo ha più volte ripreso la descrizione di queste trasformazioni unificanti e di queste assimilazioni progressive.

È molto difficile dire se, in lui, gli stati mistici vengono classificati secondo una gerarchia definita e quale possa essere.

I due principi ai quali è fermamente, legato sono la superiorità degli stati puramente « spirituali » su quelli dove le immagini hanno ancora un ruolo e il carattere essenzialmente diverso, senza caratteristiche comuni, delle esperienze mistiche individuali.

Abbiamo già commentato il primo, il secondo si ricollega allo stesso modo a quella idea fondamentale che abbiamo ricordato: in questa vita Dio non può essere visto così come egli é.

In effetti ne consegue che Dio può essere visto solo come egli stesso vuole farsi vedere e, poiché la sua libertà nella distribuzione delle grazie è assoluta, nulla consente di operare deduzioni riguardo alla natura di un favore mistico rispetto a un altro accordato da Dio in condizioni diverse o a un soggetto diverso.10

Proprio per questo la natura dell'unione divina non si presta a descrizioni generali che abbiano valore per ogni caso particolare; sola, l'esperienza può farci conoscere ciò che realmente sono questi stati e l'esperienza di uno non è valida per l'altro: a ciascuno spetta il compito di bere l'acqua del proprio pozzo.11

Questo individualismo degli stati mistici, così fortemente accentuato, ha forse distolto san Bernardo dal tentarne una classificazione sistematica; infatti è impossibile classificare senza comparare e questo accanito sostenitore del nasce tè ipsum ha sempre provato la più grande ripugnanza nel confrontare la propria esperienza, che conosceva, con quella degli altri, che, naturalmente, gli rimaneva estranea.

Alcune volte insiste maggiormente sulle condizioni teologiche dell'unione a Dio e cerca di descrivere l'economia delle grazie divine che la preparano; altre volte cerca invece di seguire le tracce dell'azione delle grazie nella propria anima e di risalire da questi effetti alla loro causa.

Cerchiamo di seguirlo a nostra volta in entrambi i tentativi e domandiamoci anzitutto a quali condizioni, da parte di Dio, è possibile l'unione dell'anima a Dio nell'amore.

Nella Trinità il Padre genera il Figlio e lo Spirito Santo procede contemporaneamente dal Padre e dal Figlio; è quindi il legame dell'uno con l'altro; ma lo Spirito Santo è carità - e d'altra parte è per questo che è il legame - così da poter dire di lui che, in quanto carità, lo Spirito Santo assicura in qualche modo l'unità della Trinità.12

È quello che si esprime dicendo che la carità è la legge di Dio.

Questa espressione ha due significati: innanzitutto che Dio vive della carità, inoltre che tutti coloro che vogliono vivere della vita di Dio non lo possono fare che vivendo di questa stessa carità, cioè ricevendola da lui come un dono.

In Dio l'unità suprema e ineffabile è conservata da questo legame sostanziale come dalla sua legge; ma ricordiamo il carattere essenziale della carità: essa è per definizione volontà comune; casta, cioè disinteressata; immacolata, cioè senza ombra di volontà propria: lex ergo Domini immaculata, carìtas est, quae non quod sibi utile, quaerit, sed quod multis.

La carità divina quindi si comunicherà: sostanziale in Dio, nella creatura sarà una qualità, qualitatem, o una sorta di accidente, aliquod accidens.

Quindi « è ugualmente giusto dire della carità che è Dio e che è dono di Dio; è per questo che la Carità dona la carità: il sostanziale da l'accidentale ».

Ma in virtù di questo dono, con il quale Dio la conferisce all'uomo, la carità che era la legge di Dio diviene la legge dell'uomo.

« Ecco quindi la legge eterna, creatrice e direttrice dell'universo.

Grazie a lei tutto è stato fatto in peso, numero e misura, e nulla è lasciato senza legge; perché essa, la legge di tutto, non è senza una propria legge, che d'altra parte non è altro che essa stessa, e per mezzo della quale, se non si è creata, almeno si governa ».13

Formule di una densità straordinaria che comanda tutta l'economia della liberazione dell'amore umano.

Consideriamo infatti la posizione di una volontà ancora « contratta » dal timore o « incurvata » dalla cupidigia.

Sappiamo che Dio stesso vive in base a una legge - nec absurdum videatur quod dixi etiam Deum vivere ex lege -, a maggior ragione anche il servo o il mercenario avranno la loro.

Sono leggi che essi si sono dati.

Essi non amano Dio; poiché Dio ama solo se stesso e si ama totalmente, il servo e il mercenario non vivono della legge divina, e invece di vivere di carità vivono sotto un'altra legge, quella del timore o quella della cupidigia.

Appare qui chiaramente in cosa consista la perversità della volontà propria, essa si preferisce alla volontà comune ed eterna, inoltre pretende di imitarla facendo ciò che solo il suo creatore può fare, cioè essere per se stessa la propria legge, governare se stessa, fare in modo che la propria volontà sia anche la propria legge.

Accade però che, come giusta ricompensa, volendo sottrarsi alla legge della carità, la volontà resti sottomessa all'ordine immutabile e necessario della legge eterna.

Per punire l'uomo Dio non deve infliggergli castighi supplementari, gli basta lasciare la volontà propria a se stessa perché essa implica il proprio castigo.

Al posto del giogo leggero della carità, il servo e il mercenario devono subire quello insopportabile della volontà propria, giogo pesante, perché se la carità è spontaneità, libertà, la volontà propria è schiavitù; invece di rendere l'uomo spontaneus, essa lo rende invitus incapace di agire con un movimento semplice e diretto d'amore, condannato, al contrario, a non volere una cosa se non per timore o per cupidigia.

Dio rimane quindi nell'immobile piacere della propria libertà, ma ci abbandona alla schiavitù che noi abbiamo scelto.

Contrari a noi stessi, divisi contro noi stessi, non possiamo far altro che rivolgere a Dio questa preghiera: « Signore mio Dio, perché non togli il mio peccato e non allontani la mia iniquità.

Affinché avendo respinto il pesante fardello della mia volontà propria, io respiri sotto il lieve peso della carità, e non sia più costretto da un timore servile o sedotto da un desiderio mercenario, ma sia guidato dal tuo spirito, lo spirito di libertà, da cui sono guidati i tuoi figli: esso renderà testimonianza al mio spirito che anch'io sono uno dei tuoi figli, perché la legge è la medesima per te e per me, e che, quale tu sei tale sono anch'io in questo mondo.

Infatti per coloro che fanno ciò che dice l'Apostolo: non dovete nulla a nessuno, se non l'amore reciproco, tale è Dio, tale sicuramente sono loro in questo mondo: non sono né servi né mer cenari, ma figli ».14

Per chi segue la deduzione di san Bernardo appare chiaramente, ancora una volta, che la sua dottrina della libertà è uno degli elementi essenziali della sua mistica.

Per l'uomo non potrebbe trattarsi di cercare questa libertà nel rifiuto di ogni legge, poiché Dio stesso vive della propria, ma, al contrario, di porsi volontariamente sotto la sola legge che sia veramente liberatrice, perché è la stessa di Dio, che è libertà.

È in questo senso che occorre intendere la parola di san Paolo ( 1 Tm 1,19 ): justìs non est lex posita.

Non significa che non vi sia una legge per i giusti, ma che il loro atteggiamento a suo riguardo è tale che, per loro, essa cessa di pesare come un fardello o di ostacolare come un impedimento.

È per questo che Dio dice ancora: tallite jugum meum super vos ( Mt 11,29 ), cioè: Io non vi impongo questo giogo, ma prendetelo voi stessi, in modo che pur non essendo mai senza legge - sine lege -, non siate tuttavia sotto la legge - sub lege -.15

In breve, ciò che san Bernardo ci chiede di fare è di rinunciare a formulare la nostra legge personale e di accettare quella di Dio, di fondare la nostra libertà assimilandola a quella di Dio.

L'iniziazione all'amore vero consiste quindi nel superare il piano dell'amore sensibile per unirsi alla vita puramente spirituale della carità divina.

Il mezzo migliore per determinare a quali condizioni un simile passaggio è possibile, è di considerare anzitutto il caso estremo in cui si è sicuri che esso si è realizzato: quello del « rapimento » divino o raptus.

Questo termine designa propriamente gli stati straordinari nei quali l'anima è elevata in questa vita alla visione di Dio.

La Scrittura ne trasmette la promessa e ne riferisce la condizione essenziale per quanto riguarda l'uomo: beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt ( Mt 5,8 ).

È quindi chiaro Che la purezza del cuore è richiesta a coloro che aspirano a gioite della visione di Dio, ma si può aggiungere che questa vita beatificante è promessa a colui che ha il cuore puro.

Perché e come gli verrà data?

L'iniziazione alla carità è un'assimilazione progressiva alla vita divina e l'anima che raggiunge la purezza si trova nel punto in cui possono esserle rivelati i segreti di Dio.

Riprendiamo, nell'ordine, le tappe già considerate.

Anzitutto la pratica della Regola benedettina così come viene osservata a Cìteaux: è l'iniziazione all'umiltà, cioè l'unione di fatto alla vita di Cristo, che nella Sua incarnazione si è manifestato come l'Umiltà.

Ora, il Cristo è il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità, quella per la quale la Trinità ci è meno inaccessibile, poiché si è incarnata per prepararci un accesso verso le insondabili profondità di un Dio che altrimenti ci resterebbe totalmente nascosto.

D'altra parte Cristo ci ha rivelato nell'umiltà il mistero della misericordia; infatti con il suo esempio insegna come l'uomo possa trovare nell'esperienza della propria miseria la compassione per quella altrui.

La compassione e carità e la carità è lo Spirito Santo: la terza persona della Trinità.

L'uomo si trova quindi condotto a una unione sempre più intima e completa con la vita delle persone divine e si può aggiungere che è ormai pronto per l'iniziazione suprema, se al Padre piace concedergliela.

In effetti, il Padre può ormai diventare tutt'uno ( conglutinai ) con questa ragione illuminata e con questo volere infiammato di carità.

Il cuore dell'uomo è diventato allora un cuore « puro », intendendo con ciò, nel senso tecnico dato a questa espressione da san Bernardo, un cuore-liberato da tutto il « proprium », cioè disappropriato.

La ragione allora conosce e giudica l'uomo così come Dio lo conosce e lo giudica.

La volontà, spogliandosi della propria cupidigia come la ragione sacrifica il suo senso proprio, ama il prossimo con compassione, per amore di Dio.

Nella misura in cui si è realizzata questa purificazione, l'anima ha recuperato la propria somiglianza perduta; è già ritornata in modo tale che Dio possa riconoscersi in essa; riconoscendovisi, si compiacerà in lei, infatti non può amarsi senza amare colei che, nell'immagine e nella somiglianza, è come un altro se stesso.16

Amandola o - ed è la stessa cosa - amandosi in lei Dio desidererà unirla a sé.

È esattamente questo il senso dell'espressione usata spesso da san Bernardo, quando dice che l'anima è diventata la « fidanzata » di Dio.

La metafora designa sempre, nel suo linguaggio, uno stato ben definito, quello di un'anima che Dio può ormai voler fare propria sposa perché si riconosce in lei e poiché in lei non esiste più nulla a cui il suo amore non possa affezionarsi.

Al punto in cui siamo giunti, nulla può sostituire il testo di san Bernardo, perché bisogna abituarsi a leggerlo sostituendo alle immagini che egli usa i concetti definiti di cui esse sono, per lui, i simboli.

I. Raddrizzamento della ragione per mezzo del Verbo

« Così quindi il Figlio di Dio, cioè il Verbo e la sapienza del Padre, trovando per prima cosa questa potenza della nostra anima, che chiamiamo ragione, depressa dalla carne,17 prigioniera del peccato, accecata dall'ignoranza, dedita alle cose esteriori,18 la assume con clemenza, la rialza con forza, la istruisce con prudenza, la trascina all'interno e, servendosi di essa in modo meraviglioso come per sostituirla a sé, la stabilisce giudice di se stessa così che, per rispetto al Verbo a cui è unita, essa diventa accusatrice, testimone e giudice di se stessa, esercitando così contro di sé la funzione della Verità.

Da questa prima congiunzione del Verbo e della ragione nasce l'umiltà.

II. Raddrizzamento della volontà per mezzo dello Spirito Santo

« Riguardo all'altra parte dell'anima, che chiamiamo volontà, infettata dal veleno della carne,19 ma già scossa dalla ragione, lo Spirito Santo la visita con fervore, la purifica con dolcezza, la riempie di ardore, la rende misericordiosa.20

Simile a una pelle che, dopo esser stata unta, si estende, essa, tutta impregnata da questa unzione celeste, si dilata per l'affetto21 sino ai suoi nemici.

Così, da questa seconda congiunzione dello Spirito di Dio della volontà umana nasce la carità »22

III. Passaggio all'unione mistica

« Delle due parti dell'anima, cioè la ragione e la volontà, una è quindi istruita dal Verbo di verità, l'altra è ispirata dallo Spirito di verità:23 quella, aspersa con l'issopo dell'umiltà;24 questa, accesa dal fuoco della carità.

Alla fine, resa perfetta, quest'anima, senza macchia grazie all'umiltà,25 senza rughe grazie alla carità,26 non opponendosi più la volontà alla ragione27 e la ragione non dissimulando più la verità,28 il Padre la unisce strettamente a sé, come una sposa gloriosa.

Non sia quindi più concesso alla ragione di pensare a sé, né alla volontà di pensare al prossimo; questa anima felice trovi la propria delizia solo nel dire questo: introduxit me Rex in cubiculum suum ( Ct 1,3 ).

Certamente degna, all'uscita da questa scuola dell'umiltà,29 dove, sotto il magistero del Figlio,30 ha imparato a rientrare in se stessa, secondo l'ingiunzione che le era stata fatta: si ignoras te, egredere et pasce haedos tuos ( Ct 1,7 ); degna, dico, all'uscita da questa scuola dell'umiltà, di essere introdotta dall'affetto,31 sotto la guida dello Spirito Santo, nei granai della carità,32 che bisogna sicuramente intendere come i cuori del nostro prossimo,33 e di là, circondata di fiori e colmata di melagrane, cioè i buoni costumi e le sante virtù,34 essere infine ammessa alla camera del re, il cui amore la fa languire ».35

IV. L'unione mistica

« Là, per poco tempo,36 cioè per circa mezz'ora, fattosi silenzio nel cielo,37 essa riposa dolcemente negli abbracci desiderati;38 certamente dorme, ma il suo cuore veglia,39 perché con esso scruta, in quei momenti, gli arcani della verità, dei quali il ricordo, ben presto, quando essa sarà ritornata in se stessa, la nutrirà.

Là vede cose invisibili, sente cose ineffabili, che non è permesso all'uomo esprimere,40 perché superano tutta quella scienza che la notte indica alla notte; tuttavia il giorno rivolge la parola al giorno ed è permesso parlare di sapienza tra sapienti41 ed esprimere cose spirituali in termini spirituali »42 (Gra VII, 21, III, 32,1-33,7 ).

Questa sintesi dottrinale pare essersi offerta al pensiero di san Bernardo come una scoperta personale.

Forse fu soltanto una riscoperta, tuttavia, anche se lo fu, egli non ha coscienza di ricordarsene e l'inizio della sua esposizione tradisce persino lo sforzo di un pensiero che vuole cogliere alcune intuizioni ancora confuse, pronte a sfuggirgli.43

Comunque sia, le tre tappe così descritte si adattano facilmente al celebre testo di san Paolo, di cui quello di san Bernardo è una sorta di commento dottrinale.

San Paolo dice che fu « rapito » al terzo cielo, intendendo proprio rapito e non portato.

In effetti il Figlio conduce l'anima al primo grado - cioè al primo ciclo - quello dell'umiltà; lo Spirito Santo la conduce al secondo - cioè al secondo ciclo - quello della misericordia; ma per passare dal secondo al terzo è necessaria più che una guida: è necessario un rapimento, uno sradicamento.

Colui che viene condotto cammina da solo, collabora al movimento, ed è così che noi lavoriamo autonomamente per acquisire l'umiltà e la misericordia, sotto la guida del Figlio e dello Spirito Santo.

San Paolo ha quindi potuto lasciarsi condurre al secondo cielo, ma, per raggiungere il terzo, è stato necessario che vi fosse rapito: rapi oportuit.

Questo è il senso esatto del vocabolo raptus.

Vuole quindi dire che l'anima così rapita non deve mettere nulla di proprio in una simile operazione che si opera in lei senza di lei e alla quale essa non collabora.

D'altra parte lo stile è caratteristico delle operazioni del Padre.

Il Figlio si è incarnato ed è disceso tra noi per redimerci; è con noi e nel mezzo della terra che ha operato la nostra salvezza.

Lo Spirito Santo anch'egli è disceso dal cielo, dal quale viene in « missione ».

È quindi conveniente che noi percorriamo la prima e la seconda tappa sotto la loro guida.

Ma il Padre non è mai disceso dal cielo e non è mai stato inviato tra noi.

Certamente si trova ovunque, ma nella sua persona lo si può trovare solo in cielo.

È in questo senso che bisogna interpretare le parole della preghiera per eccellenza: Poter noster qui es in coelis.

La persona del Padre è là e vi resta; san Paolo non ha potuto quindi esser condotto da lui, ma piuttosto rapito.

Così « quelli che il Figlio chiama al primo cielo nell'umiltà, lo Spirito li unisce a sé nel secondo nella carità e il Padre li esalta al terzo nella contemplazione.

Nel primo essi si umiliano nella verità e dicono, in ventate tua humiliasti me; nel secondo gioiscono nella verità e cantano, ecce quam bonum et quam jucundum, habìtare fratres in unum, perché è della carità che è scritto: congaudet autem ventati.

Nel terzo cielo sono rapiti sino agli arcani della verità e dicono: secretum meum mihi, secretimi meum mihi! ».44

Si potrebbe essere tentati di vedere in questa analisi del raptus la descrizione di uno stato specificamente distinto dagli excessus dei quali ora ci occuperemo.

Non oserei affermare che san Bernardo non ha avuto coscienza di una certa differenza tra i due casi, ma non sono riuscito a trovare alcun testo che autorizzi a distinguerli nettamente e meno ancora a gerarchizzarli.

La diversità delle loro descrizioni forse dipende, in misura maggiore, dalla differenza tra i due punti di vista possibili sugli stati di questo genere: quello del teologo che ne determina ex professo le condizioni, così come ha appena fatto san Bernardo, e quello del mistico che racconta se stesso e rivolge la propria attenzione alla propria esperienza per cercare di dire ciò che avviene in lui, come san Bernardo farà ora per noi.

Negare la naturale unità degli stati che descrive, a partire dal momento in cui viene superato il piano delle visioni e delle immagini, costringerebbe a dimostrare che, secondo lui, l'unione dell'anima a Dio non è un'assunzione dell'anima da parte del Padre che segue la restaurazione dell'anima da parte del Figlio e dello Spirito Santo.

Vedremo che questa è precisamente la caratteristica di ciò che san Bernardo descrive come la propria estasi personale.

Se, nella descrizione che ne offre, san Bernardo sembra fermarsi al punto in cui l'anima già ricolma di carità, esultando alla voce della verità, implora Dio di « tendere la destra all'opera delle sue mani » per unirla a lui,45 non è forse perché a partire da qui tutto è mistero?

Anche per chi lo subisce, l'excessus46 si perde nell'ineffabile non appena diventa realtà.

Come possiamo quindi immaginare questi stati?

La loro prima caratteristica è quella di essere contatti immediati e diretti con Dio; la loro prima condizione è quindi che tali contatti siano concepibili.

Di fatto lo sono in quanto l'immaterialità dell'anima e l'assoluta purezza della spiritualità di Dio rendono possibili tali comunicazioni.

Ci sono quattro ordini di spiriti: gli animali, gli uomini, gli angeli, Dio.

L'animale non è senza principio spirituale, ma è essenzialmente corpo e il suo spiritus è così poco capace di esistere al di fuori di un corpo che muore con lui.

L'uomo è diverso; ha un corpo e questo corpo gli è necessario per acquisire le conoscenze senza le quali non potrebbe farsi alcuna idea di Dio.

La famosa espressione di san Paolo: invisibilia Dei … significa chiaramente che, sebbene siamo esseri spirituali, il corpo ci è necessario per acquisire questa conoscenza di Dio, senza la quale ci è impossibile aspirare alla beatitudine.

Si può discutere il caso dei bambini battezzati che muoiono senza aver esercitato la propria ragione e tuttavia vedono Dio; ma questo è un miracolo della grazia divina et quid ad me de miraculo Dei, qui de naturdibus dissero?

Per chi si limita all'ordine naturale, il corpo fa necessariamente parte dell'uomo, al punto che per noi è lo strumento di conoscenza senza il quale non potremmo raggiungere il nostro fine soprannaturale.

Bernardo, come si vede, non avrebbe sollevato alcuna obiezione fondamentale all'epistemologia di san Tommaso d'Aquino.

Anche gli angeli hanno talvolta dei corpi, ma che non fanno parte della loro natura, in quanto non ne hanno bisogno per se stessi, ma per noi.

Bernardo non pone fine alla questione se questi corpi siano « naturali » o « assunti », perché constata che i Padri non si accordano su questo punto, ma afferma chiaramente che, in ogni caso, la conoscenza angelica è pura da ogni elemento sensibile; il corpo degli angeli non serve a loro per conoscere, ma per aiutare noi che siamo i loro futuri concittadini della Città celeste.

Tuttavia, per quanto noi e loro siamo spirituali, essi non potrebbero unirsi direttamente al nostro spirito, né noi al loro.

Fedele al principio agostiniano dell'inviolabilità degli spiriti, che si potrebbe chiamare la legge delle coscienze chiuse, Bernardo sostiene che nessuno spirito può unirsi a un altro spirito direttamente e senza la mediazione dei segni.

Gli angeli sono impenetrabili gli uni agli altri come pure agli uomini, e gli uomini sono impenetrabili gli uni agli altri e agli angeli; solo Dio può penetrarli.

« Bisogna quindi riservare questa prerogativa allo spirito supremo e illimitato.

È l'unico che, quando insegna la scienza all'angelo e all'uomo, non ha bisogno di usare le nostre orecchie corporali per farsi ascoltare ne una bocca per parlare.

Da solo penetra nell'animo, da solo si fa conoscere, puro è compreso dai puri ».47

In questo senso si può quindi dire che solo Dio è completamente spirituale; non ha bisogno di un corpo né per esistere, né per conoscere, né per agire.48

Nulla si oppone quindi - a che lo Spinto Santo se lo vuole, penetri direttamente il nostro spirito.

Una seconda condizione, affinché si realizzi questa unione, è che tra lo Spirito e il nostro spirito il Verbo faccia da intermediario.

Questa non è, sembra, una necessità per Dio, né qualcosa che dipenda dall'essenza della natura umana, ma sembra essere conseguente alla depravazione di questa natura causata dal peccato.

Il Figlio si è incarnato per redimerci, cioè per restaurare questa possibilità di amore tra l'uomo e Dio distrutta dalla colpa: è quindi diventato per noi la condizione necessaria per l'unione divina.

Si può anche andare oltre.

L'Uomo-Dio non è in effetti come un'estasi concreta, nella quale il Verbo assume l'uomo e l'Uomo è assunto da Dio?

È quindi il Bacio per eccellenza, l'Osculum del Cantico, ed è per mezzo suo che possiamo aspirare alle grazie della vita mistica.

È tale l'importanza di questo aspetto per le fonti della mistica di san Bonaventura,49 che è opportuno sottolineare il carattere assoluto di questa esigenza.

Nessun uomo, chiunque sia, può aspirare a più di quanto domanda il Cantico: osculetur me osculo oris sui, cioè non alla bocca, ma solo al suo bacio: « Christo igitur osculum est plenitudo, Paulo participatio, ut cum lile de ore, iste tantum de osculo osculatum se glorietur ».50

Il Cristo è quindi lo stesso bacio divino, nel quale la natura umana è assunta dalla natura divina; l'uomo non può sperare di più che ricevere il bacio di questo Bacio; l'Estasi che il Cristo fu è il modello e la fonte della quale ogni estasi non è che una partecipazione.

È sufficiente ricordare, come terza condizione, che l'anima che aspira all'unione divina deve avere superato il timore dello schiavo e la cupidigia del mercenario, ma è invece importante precisare che essa deve voIer andare persino oltre l'obbedienza del discepolo o la pietà del Figlio.

In essa non vi è più posto per alcun sentimento che non sia l'amore, poiché è divenuta la sposa - sponsa - cioè anima sitiens Deum: un'anima che ha sete di Dio.51

Significa quindi che il desiderio dell'anima, giunta a questo punto di perfezione, esclude ogni oggetto che non sia il bacio del Verbo.

Colei che chiede questo bacio è colei che ama: « quae vero osculum postulai, amat »; e colei che ama è colei che chiede questo bacio e niente altro: « Amat autem quae osculum petit. Non petit libertatem, non mercedem, non hereditatem, non denique dootrinam, sed osculum ».52

In breve, l'amore di Dio, giunto a questo grado d'intensità, partecipa alla caratteristica della beatitudine celeste di essere fine a se stessa; è ciò il cui possesso dispensa da tutto il resto in quanto già lo include.

Questo non senza ragione, infatti tra poco definiremo l'unione mistica come una anticipazione di questa beatitudine, ma prima di arrivare a quel punto dobbiamo anzitutto enumerare i segni di un amore così totalmente esclusivo.

Tre parole li riassumono: l'anima che ama così, ama caste, sancte, ardenter.

Nulla di più evidente che essa ami castamente; sappiamo infatti che casto significa disinteressato; l'anima allora ama colui che ama per ciò che egli è e per nessun altro motivo, fosse pure uno qualunque dei doni che potrebbe ricevere.

Possiede quella semplicità diretta che distingue l'amore propriamente detto dalla cupidigia.

L'anima allora va diritta verso il proprio oggetto e non cerca in lui altro che lui stesso: quae ipsum quem amat quaerit, non aliud quicquam ipsius.

Casto, questo amore possiede anche l'altra caratteristica di essere santo; intendiamo con ciò quello che è esattamente il contrario di un affetto della concupiscenza, poiché consiste nel desiderio di una unione di volontà tra l'uomo e Dio.

Ciò che l'anima desidera nel bacio è precisamente l'infusione in lei dello Spirito Santo, la cui grazia l'unirà al Padre.

San Bernardo l'ha affermato così spesso che il senso delle sue formule non lascia spazio ad alcun dubbio: « … ab osculo, quod non est aliud, nisi infundi Spiritu Santo »; « non erìt ab re osculum Spiritum Sanctum intelligi »; « dari sibi osculum, hoc est Spiritum illum ».53

Infine un tale amore è ardente, nel senso che esclude dall'anima ogni altro sentimento non distruggendolo, ma assorbendolo.

È vero in particolare per questi due sentimenti fondamentali dell'animo umano; il timore e la cupidigia.

Le conseguenze di questa trasformazione sono di una tale importanza che è necessario soffermarvisi.

L'amore che possiede un sufficiente ardore è una specie di ebrezza54

ed è necessario che lo sia perché l'anima abbia l'insensata audacia di aspirare all'unione divina.

Se fosse diversamente, come oserebbe aspirarvi?

Se la ragione rimanesse giudice, deciderebbe saggiamente che è assurdo da parte di una creatura aspirare a un tale onore e che questo è particolarmente folle per una creatura decaduta, spesso immersa nei vizi e impantanata nel fango della carne.

Il solo pensiero della infinita maestà di Dio ispira quindi all'anima sentimenti di timore, se è impura, e sentimenti di rispetto, se è pura.

Timore e adorazione, ecco i due soli sentimenti che possono normalmente trovare posto nell'anima dell'uomo fino a quando si lascia condurre dalla ragione, anche se accompagnata da un tiepido amore.

Ben diverso è quando l'amore raggiunge il più alto grado di ardore di cui sia capace; trasfigurando il timore e la cupidigia permette all'anima di superarli.

Il timore non è più allora la paura, ma il rispetto profondo di ciò che si ama e che da tutto il suo valore all'oggetto amato e lo rende più desiderabile; la cupidigia viene riassorbita nell'amore dello stesso bene amato il quale diviene contemporaneamente il mezzo e il fine dell'amore.

L'unica violenza, di questo sentimento per il fatto stesso che non lascia posto a nessun altro ha quindi come effetto naturale quello di generare in noi un'audacia, una fiducia - fiducia - che lo trascina spontaneamente al di la di ciò che ci tratterrebbe dall'aspirare all'unione divina se ascoltassimo solo la voce della ragione: l'anima dimentica in questa Ebrezza il pudore, il rispetto nato dal timore, la maestà di Dio: « quae ita proprio ebriatur amore, ut maiestatem non cogitet … »; « … desiderio ferorr non catione … pudor sane reclamai, sed superai amor ».55

Questa « fiducia » è precisamente la liberazione dell'anima nella quale inizia a regnare, al posto della miseria, la libertà dalla miseria, perche in lei si trova lo Spirito di carità che è lo spirito della Carità.

L'anima che giunge a questo punto è pronta per il matrimonio mistico.

Essa non vi giunge senza la grazia ne senza avervi a lungo cooperato con il proprio zelo ( industria ) ma, nel pensiero di san Bernardo, sembra che quando l'anima è arrivata a questo punto della vita di grazia e di penitenza, il matrimonio con il Verbo e la sua assunzione da parte del Padre siano violenze fatte al Cielo, che il Cielo subisce da parte di coloro che lo amano con amore ardente.

Per vedere fino a che punto ne è legittima la speranza, basta ricordarsi ciò che è lo Spirito Santo: il mutuo amore del Padre e del Figlio, la loro mutua benevolenza, la bontà dell'uno per l'altro.56

Domandando di essere unita al Verbo, l'anima domanda quindi di essere unita a lui e al Padre con la mediazione dello Spirito Santo, che è il legame dell'uno con l'altro.

È ciò che fa il Figlio: rivela se stesso e rivela il Padre donando lo Spirito Santo.

Tale è, almeno provvisoriamente, lo schema dell'operazione.

« Donando il Padre, il Figlio rivela e rivelando lo dona e poiché questa rivelazione si realizza per mezzo dello Spirito Santo, essa non solo illumina la conoscenza, ma infiamma d'amore ».

Due punti bisogna qui considerare: il contenuto di questa rivelazione e la ragione per cui essa si produce.

Riguardo al primo punto è importante notare in particolare che il matrimonio dell'anima con il Verbo, sebbene si compia nell'amore, comporta un elemento conoscitivo.

È vero che la conoscenza stessa, così come la concepisce san Bernardo, è profondamente impregnata di affettività.

Ciò significherebbe tuttavia semplificare eccessivamente il suo pensiero e dimenticare il ruolo che la conoscenza gioca nella sua dottrina.

Abbiamo già visto che anche l'amore sensibile per Cristo richiede il controllo della scienza teologica; san Bernardo non dimentica di far beneficiare a sua volta questa intermediaria dell'unione al Verbo, quando essa si verifica.

Non può non esserci unione al Verbo quando l'amore raggiunge questo grado d'intensità, ma l'anima non può unirsi al Verbo, che è Sapienza, senza accrescere la propria sapienza.

Manteniamo i due aspetti del problema: c'è conoscenza nel matrimonio dell'anima con il Verbo, anzitutto perché senza conoscenza l'anima non avrebbe nulla da amare, inoltre perché, in tale unione, essa fa esperienza diretta di quell'oggetto; ma è ugualmente giusto dire che la sua conoscenza è saggezza perché assapora il proprio oggetto sperimentandolo: « Essa invoca lo Spirito Santo dal quale riceve nello stesso momento il gusto della scienza e il condimento della grazia. Ed è naturale che questa scienza, data in un bacio, sia accolta con amore ».

Sono quindi necessari entrambi perché sia completa l'unione dell'anima a Dio: « Che nessuno pensi di aver ricevuto questo bacio, se conosce la verità senza amarla o se l'ama senza conoscerla, perché non vi è posto in lui ne per l'errore ne per la tiepidezza ».

In breve, « la grazia del bacio apporta l'uno e l'altro dono [ dello Spirito Santo ], cioè la luce della conoscenza e il succo della devozione.

In quanto è Spirito di Sapienza e di Intelligenza; come l'ape che porta contemporaneamente la cera e il miele, esso ha tutto quanto occorre per accendere la luce della scienza e insieme infondere il sapore della grazia ».57

L'amore ardente dell'anima la unisce quindi allo Spirito Santo per mezzo del Verbo e ciò implica l'essere impregnata da una luce infusa che sia indistintamente la carità della scienza e la scienza della carità, ma perché si produce questa unione?

La risposta si può sintetizzare in poche parole che noi abbiamo già suggerito; un amore per Cristo, a tal punto ardente da diventare esclusivo, pone l'animo in un tale stato di conformità con il mutuo amore delle persone divine da consentire il matrimonio dell'anima con Dio.

È questo ciò che ora dobbiamo spiegare, per vedere come le obiezioni dirette contro la dottrina di san Bernardo, poste su un piano completamente estraneo a quello sul quale egli si muove, spariscono se rilette dal suo punto di vista.

Torniamo allo stato dell'anima quale l'avevamo lasciata prima che la carità divina le avesse reso qualcosa delle sue libertà perdute.

Sfigurata, divisa contro se stessa, si fa orrore perché si sente contemporaneamente se stessa e diversa, somiglianza distrutta in un'immagine indistruttibile.

Confrontiamo ciò che era prima con ciò che è diventata.

Stabilendosi nell'anima la carità ha eliminato il proprium sostituendogli una volontà comune all'uomo e a Dio.

Il proprium è la dissomiglianza.

L'amore di Dio ha quindi per effetto immediato di restaurare nell'anima la somiglianza divina perduta e da qui derivano conseguenze di capitale importanza per la comprensione della dottrina.

Anzitutto, poiché ha appena ritrovato la propria vera natura, l'anima si riconosce nella pienezza del proprio essere.

Immagine, ciò che è sempre stata, essa ritorna a essere anche somiglianza, ciò che aveva cessato di essere a causa del peccato.

Il conflitto ulteriore che la dilaniava finisce, almeno nella misura in cui ciò è possibile in questa vita; la pace rinasce, la miseria diviene sopportabile e l'anima può gioire del proprio aspetto poiché è ritornata se stessa, un amore vivente di Dio.

Questo è il primo aspetto di questa nuova vita, nella quale la pace della coscienza crea una sorta di paradiso.

Ma vi è di più. Per una somiglianza divina così restaurata riconoscere se stessa significa riconoscere in sé il Dio del quale essa porta la somiglianza.

Vedendosi, lo vede.

San Paolo insegna che Dio può essere conosciuto a partire dalle proprie creature; a maggior ragione può esserlo a partire da quella che ha creato a propria immagine e somiglianza!58

Notiamo che questo fatto produce delle conseguenze sia dalla parte di Dio che dalla parte dell'uomo.

Nell'anima sfigurata, la conoscenza di se stesso rivela solo difformità proprie e non permette più di discernervi Dio, e Dio non si riconosce più nell'anima così macchiata: non si vede in noi più di quanto noi ve lo vediamo.

Al contrario, quando la carità regna Dio si riconosce in noi come noi ve lo riconosciamo.

Da qui due ulteriori conseguenze.

La prima è che svanisce la supposta antinomia tra l'amore di sé e quello di Dio.

Dalla parte di Dio, il cui eterno amore di sé non varia, si può dire che nulla è cambiato.

Egli ama se stesso; rendendosi dissimile a lui l'anima si è sottratta all'amore che egli ha per sé; essa si è in qualche modo ritirata dal campo dell'immobile amore divino.

Non vedendosi più in lei, che non gli assomiglia più, egli non si ama più in lei ed è allora che si comprende pienamente il senso delle espressioni usate da Bernardo: peregrinando nella regione della dissomiglianza, l'uomo vaga senza fine lungo il circuito degli empi, nell'oscurità di una terra sottratta al raggio dell'amore divino.

Da quando invece l'anima riscopre la somiglianza perduta, Dio si vede nuovamente in lei e si ama di nuovo in lei, con lo stesso amore con il quale non ha mai cessato di amarsi.

L'uomo giunge al medesimo risultato per le vie della creatura instabile.

Finché in lui trionfava il volere proprio, l'amore della dissomiglianza in quanto tale, egli non poteva amare Dio amandosi.

Amare se stesso era amare una persona detestata da Dio.

Supponiamo invece che la somiglianza venga restaurata nell'anima, allora ciò che ella ama amandosi è una somiglianza divina.

Ora, somigliare a Dio significa amare Dio per Dio, poiché Dio è questo stesso amore.

Non si potrebbe quindi chiedere a san Bernardo di definire il grado supremo dell'amore diversamente da come lo definisce: amare se stessi solo per Dio.

È impossibile eliminare l'amore di sé, non solo perché con esso sparirebbe l'essere creato dal quale è inseparabile, ma anche perché Dio ci ama, e cesseremmo di essergli simili, se cessassimo di amarci.

Ugualmente impossibile è eliminare la clausola « solo per Dio », infatti cesseremmo di essere simili a Dio, che si ama e ci ama solo per se stesso, se ci amassimo diversamente da come egli ci ama: per lui solo.

Aggiungiamo infine che, poiché l'amore di Dio per noi è compreso nell'amore che egli ha per sé, amarci esclusivamente per lui è identico a ciò che in lui è amare esclusivamente se stesso.

Il limite ideale, inaccessibile in questa vita, ma che l'estasi prefigura, sarebbe la comunione perfetta tra la volontà di Dio e la mostra.

Come l'amore che Dio ha per noi non è che l'amore che egli ha per se stesso, così l'amore che noi abbiamo per noi stessi non sarebbe altro che l'amore che noi abbiamo per Dio.

La seconda conseguenza è che, rendendo alla nozione di immagine il posto centrale che essa occupa in questa dottrina, siamo ormai in grado di comprendere il motivo per cui tutta la vita di carità tende spontaneamente alle unioni mistiche.

Amare se stessi, quando si sa di essere una somiglianza divina, è amare Dio in sé e amarsi in Dio.

E per Dio, quando si specchia in un'immagine sempre più perfetta di sé, è amarsi in lei e amarla in sé.

Il simile desidera sempre il proprio simile; l'uomo desidera quindi Dio che egli rappresenta, e Dio brama, per così dire, quest'anima nella quale si riconosce.

Come la fidanzata potrebbe non desiderare ardentemente di diventare la sposa e come lo sposo potrebbe non volere unirsi a questa fidanzata, la cui bellezza è l'opera del suo amore?

Ecco perché avviene che dal primo e dal secondo cielo, il Padre rapisca l'anima al terzo; così, cedendo al desiderio impetuoso di un'anima che tende verso di lui solo per l'amore che ha per lui, lo Sposo lascia per un momento che questa corrente impetuosa si ricongiunga alla propria fonte; l'Amore si concede all'amore così come esso vuole, anticipando il .momento per il quale egli l'ha creata, quando si donerà a lui così come egli è.

Indice

1 P. Rousselot, Pour Yhistoire du problème de l'amour au moyen àge, Aschendorif,. Miinster i. W. 1908, p. 51
2 Op. cit., pp. 51-52
3 Dil XIV, 38,IN, 152. Cfr. P. Rousselot, op. cit., p. 52.
4 DH IX, 26-X, 27, III, 141, 26-142, 4. Cfr. Dil XV, 39, III, 153, 4-5 " et nescio si a quoquam hominum quartus (gradus) in hac vita perfectc apprehenditur, ut se sd-licet homo diligat tantum propter Deum ".
5 Ct 2,6Non credo che ci siano state reali esitazioni nel pensiero di san Bernardo su questo punto. In ogni caso, la sua posizione è chiara nei Sermoni sul Cantico dei Cantici: " At talis visio non est vitae praesentis, sed in novissimis reservatur, his dumtaxat qui dicere possunt: Scimus quia, cum apparuerit, similes ei erimus, quia videbimus eum siculi est ( 1 Gv 3,2 ). Et nunc quidem apparet quibus vult, sed siculi vult, non siculi est. Non sapiens, non sanctus, non propheta videre illuni siculi est potest aut potuit in corpore hoc mortali; poterit autem in immortali, qui dignus habebitur. Itaque videtur et hic, sed sicut videtur ipsi, et non siculi est ", SC 31, 2, I, 220, 5-7. Questo testo così sicuro sembra debba essere considerato come la regola che permette l'interpretazione delle altre. Questa regola afferma che in questa vita non è impossibile la visione di Dio, ma che nessun uomo l'ha mai visto " così come egli è ". Quando si paragonano a queste formule le spiegazioni apparentemente contrarie che san Bernardo fornisce riguardo a san Benedetto, si vede che in effetti egli gli attribuisce la conoscenza delle cose in Dio, visione mistica analoga a quelle degli angeli e più che umana, poiché il destino dell'uomo è di conoscere Dio nelle cose, non le cose in Dio. Il raptus di san Benedetto è quindi consistito in una breve " visione in Dio " che suppone una certa visione di Dio, ma non di Dio siculi est (vedi Div 9, 1, VI-l, 121-122). Allo stesso modo, quando lo si esamina da vicino, il testo in cui san Bernardo cita Mosè, Filippo, Tommaso e Davide come coloro che hanno visto Dio, non implica, nella sua terminologia, che essi l'abbiano visto così come egli è: SC 33, 8-9, I, 239-240 e SC 34, 1, i, 245-246, dove si vede che anche Mosè ha ricevuto da Dio una visione inferiore a quella alla quale ambiva: SC 34, 1, i, 245, 15-19. Si può quindi attenersi a questa conclusione: san Bernardo ha rifiutato ogni identificazione dell'unione mistica, anche il raptus, con la visione beatifica
6 Anche ai santi dell'Antico Testamento, non è stato concesso di gioire della presenza divina " sicuri est, sed sicut dignata est "; inoltre: " haec demonsttatio, non quidem communis, sed tamen foris facta est, nimirum exhibita per imagines extrin-secus apparentes seu voces sonantes. Sed est divina inspectio eo differentior ab his, quo interior, cuna per seipsum dignatur invisere Deus animam quaerentem se, quae tamen ad quaerendum toto se desiderio et amore devovit ", SC 31, 4, I, 221, 18, 20-25. Cfr. la formula precisa che segue: " Non tamen adhuc illuni dixerim apparere sicuri est, quamvis non omnino aliud hoc modo exhibeat, quam quod est ", SC 31, 7, 223, 19-20. Sulle visioni accordate ai Padri dell'Antico Testamento, cfr. Pseudo-Dionigi, De Cadesti lerarchia, tr. di Scoto Eriugena, P.L. 122, 1047 B-C. 7
7 SC 31, 2, I, 220
8 SC 31, 3, I, 221
9 SC 31, 3-4, I, 221-222
10 SC 33, 9, I, 239-240. Cfr. SC 31, 2, I, 220.
11 Csì II, 6, III, 414. Cfr.: "hodie legimus in libro experientiae… hunc proprium experimentum… Audi expertum… ", SC 3, 1, I, 14, 7. 12. 15. SC 22, 2,1, 130. Vedi J. Schuck, Dos religiose Eriebnis beim hi. Bernhard con Clairvaux, Becker, Wurz-burg 1922, pp. 23-24
12 Lo Spirito Santo, legame del Padre e del Figlio, sarà quindi, nella dottrina di san Bernardo, anche il legame dell'anima a Dio. Esso ha esattamente lo stesso ruolo anche nella dottrina di GugueÌmo ai Sàinf^Thierry, ma lo svolge in modo diverso. Nel De diligendo Dea (XII, 35, m, 149-150, in realtà riporta l'Epistola de cantate indirizzata ai certosini in risposta alle Meditationes di Guigo i) san Bernardo costruisce la propria dottrina sulla nozione di Spirito Santo concepito come legge della vita divina. Guglielmo di Saint-Thierry, all'epoca in cui stava scrivendo il suo De contemplando Deo, o non conosceva ancora questa dottrina, o preferiva seguire una via più diretta. Pone così il problema: Gesù Cristo ha voluto che i suoi discepoli fossero una cosa sola in lui e nel Padre, come lui e il Padre sono una cosa sola ( Gv 17,21 ). Ora, il Padre e il Figlio sono una cosa sola per mezzo , dello Spirito Santo; è quindi per lui che noi possiamo unirci a Dio. La soluzione è, evidentemente, che ricevendo lo Spirito Santo sotto forma di dono-la grazia- noi partecipiamo alla vita divina, in quanto, essendo lo Spirito Santo in noi, l'amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre è in noi. È quindi Dio che si ama in noi, poiché l'amore che noi abbiamo per lui non è altro che il dono gratuito dell'amore per mezzo del quale egli ama se stesso: " Tu tè ipsum amas in nobis, et nos in tè, cum tè per tè amamus, et in tantum tibi unimur, in quantum tè amare meremur " (Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo, vii, 15, P.L., 184, 375 B). Questo amore di Dio per Dio, è lo Spirito Santo, cioè Dio stesso; da qui deriva che il dono della carità ci rende stirpe di Dio ( At 17,29 ), fa di noi degli dei ( Sal 82,6 ), ci autorizza a dare a Dio, in virtù di questa adozione, il nome di Padre che il Figlio può attribuirgli per natura, e ci lega a lui, non solo per mezzo dell'amore, ma anche per la beatitudine {op. cif., VIII, 16, P.L., 184, 375 D) che ne è inseparabile. Guglielmo di Saint-Thierry trova quindi nella vita di grazia, dono dello Spirito Santo, la via corta, il " compendiimi ", che conduce alle esperienze mistiche affettive descritte nel suo trattato (op. cit., IX, 20, P.L., 184, 378 C-D). In assenza di dati cronologici certi, che ci permetterebbero di situare i trattati di Guglielmo in rapporto a quelli di Bernardo, non si può formulare nessuna ipotesi sulla loro possibile genesi. Nonostante il notevole accordo dei loro punti di vista, non sono riuscito a scoprire la minima traccia di un influsso dell'uno sull'altro, sia nei ragionamenti che nella redazione. Rimango persuaso, sino a prova contraria, della loro completa indipendenza. La critica interna confermerebbe quindi l'ipotesi proposta da A. Wilmart, che riporta al periodo precistercense della vita di Guglielmo la composizione di questo trattato: ari. cit., in "Revue Mabillon ", 14 (1924), p. 166. " .
13 Dil XII, 35, III, 149, 28-150, 3. Sul ruolo dello Spirito Santo come legame: SC 8, 4, I, 38
14 Dil XIII, 36, III, 151, 1-9
15 Dil XIV, 37, in, 151. Non bisogna mai dimenticare i fondamenti della dottrina: a) l'immagine di Dio in noi-il libero arbitrio-sussiste ancora; b) la doppia somiglianzà di Dio in noi - la libertas consilii e la libertas compiaciti - è stata persa ( Gru H, 31, III, 187-188); c) l'immagine, sebbene sussistente, è stata macchiata e deformata dal peccato, e lo sarebbe per sempre senza la grazia di Gesù Cristo ( Gra X, 34, in, 189-190 ); la grazia aiuta l'uomo a recuperare le due libertà perdute e, di conseguenza, anche la sua somiglianzà divina (Gra X, 34, III, 189-190). Accostando questa conclusione alla dottrina del De diligendo Deo, esse si chiariranno a vicenda. Se tutto il problema della vita mistica consiste nel far propria la legge di Dio, che è la Carità, è chiaro che questo problema consiste, allo stesso modo, nel ricercare in sé la purificazione dell'immagine divina, in quanto non lo si può fare senza sostituire alla volontà propria la volontà comune, o carità. La dottrina della restaurazione dell'immagine nella somiglianza perfetta è un tutt'uno con quella della libertà; l'esito dell'una e dell'altra è l'unione mistica, in attesa della visione beatifica.
16 Qui ancora Guglielmo di Saint-Thierry raggiunge san Bernardo, ma per vie talmente indipendenti che non si può supporre che ne abbia subito, su questo punto, l'influsso. In ogni caso, ha saputo mantenere intatta la propria originalità. Ecco come, molto brevemente, si può riassumere la sua posizione: a) il simile desidera per natura il proprio simile; creato a immagine di Dio, l'uomo ama quindi naturalmente Dio e Dio ama l'uomo poiché l'immagine di Dio risplende nell'uomo {De natura et dignitate amoris, II, 3, P.L., 184, 382 B-C); b) a questa applicazione cristiana di un principio greco si aggiunge una tesi agostiniana, che ha in Guglielmo. un ruolo di capitale importanza che non ha invece in Bernardo: nell'immagine creata si trova la memoria; corrispondente al Padre, essa è in noi come il centro della nostra anima, nella quale genera la ragione (il Figlio), e la volontà (lo Spirito Santo) procede dall'una e dall'altra (loc. cit., 382 C-D); e) il punto di partenza della contemplazione mistica deve quindi essere uno sforzo di meditazione, per cercare Dio dove egli è, noè nella memoria, dove egli risiede e dove lo si trova come Carità (De contemplando Deo, tutto l'ammirevole De profundis mistico del Proemio 1-3, P.L., 184, 365-367); d) per questo il luogo di nascita dell'amore è Dio: là, presso di lui, esso è cittadino, indigeno; ma creato nell'uomo da Dio e confortato dalla grazia, esso è in noi, sebbene ricevuto, naturale (De natura et dignitate amoris, II, 3, P.L., 184, 382 B), così che si può affermare, contro Ovidio, che l'arte di amare ha un solo maestro " natura, et Deus auctor naturae " (op. cit., I, 1, P.L., 184, 379 C); e) perduta, a causa del peccato originale, quest'arte naturale deve essere imparata di nuovo; la sua rieducazione può avvenire solo per mezzo della grazia, sotto un solo maestro: Gesù Cristo, ma non senza il ministero di un uomo che ce ne ricordi gli insegnamenti: " Amor ergo, ut dictum est, ab auctore naturae naturaliter est animae inditus; sed postquam legem Dei amisit, ab homine est docendus. Non est autem docendus, ut sit tanquam qui non sit; sed ut purgetur, et quomodo purgetur; et ut proficiat, et quomodo proficiat; ut solidetur et quomodo solide-tur, docendus est " (op. cit., I, 2, P.L., 184, 381 A; cfr. VIII, 21, P.L., 184, 398 A); f) per l'uomo si tratta quindi di recuperare progressivamente la coscienza di questa legge naturalmente innata in lui, ciò che egli fa con un approfondimento della propria " memoria ", nella quale questa legge rimane inscritta. Si può quindi dire che, mentre la mistica di san Bemardo è fondata soprattutto su una dottrina della libertà, quella di Guglielmo di Saint-Thierry è fondata soprattutto su una dottrina della " memoria " che l'accomuna, più strettamente di quella di san Bernardo, alla tradizione nata da sant'Agostino.
17 CARO (Sinonimo: corpus): il corpo al quale è unita l'anima. Ma essa gli è unita in due sensi che bisogna distinguere, perché qui è in questione solo il secondo. 1. L'anima è unita al corpo per un legame di necessità naturale. Obbligata a provvedere ai propri bisogni, essa si trova in una situazione inferiore a quella dei puri spiriti; ma questa è la situazione normale dell'uomo e, in questo senso, il corpo non " deprime " l'anima, non l'abbassa al di sotto della sua situazione di anima, che implica l'unione al corpo. Se l'anima ama il proprio corpo come si conviene, essa se ne farà un alleato ed entrambi, aiutandosi l'un l'altro, raggiungeranno il loro fine comune: la gloria celeste. Vedi Dil XI, 31, in, 145, 17: " Bonus piane fi-dusque comes caro spirimi bono… ". QH 10, 3, IV, 444-445. 2. L'anima è anche non più esattamente " unita ", ma " sottomessa " al corpo a causa del peccato. Questo non è uno stato naturale, ma contro natura, poiché l'anima è superiore al corpo. In questo senso, il corpo è un " peso ", che " appesanti-sce " l'anima e la " deprime ". È in questo senso che caro viene qui considerato, come tutte le volte in cui implica un asservimenlo dell'anima al corpo. Cfr. " Traxit ammana corpus in regionem suam, et ecce praevalens opprimit peregrinata. Factum nempe est talentum plumbi, non aliunde tamen, nisi quia sedet iniquitas super il-lud. Corpus enim aggravai animam, sed utique quod corrumpitur ", Mart 3, V, 401, 10-13. A proposito del brano che stiamo commentando, Barton R.V. Milis (Selected Treatìses of S. Bernard of Clairvaux, p. 105, nota 20) rimanda giustamente a due testi importanti: Pre XX, 59, in, 291-292; Asc 3, 1, V, 131-132. TEMA SCRITTURISTICO: " Corpus enim, quod corrumpitur, aggravai ammani, et terrena inhabitatio deprimit sensum multa cogitantem " ( Sap 9,15 )
18 Accecato dall'ignoranza della propria miseria. Questa ignoranza dipende dal fatto che l'anima si occupa delle cose per conformarsi ad esse invece di cercare di conoscersi (tema: Si ignoras tè…}. In questo consiste la curiosità:, primo grado dell'orgoglio: " Quia enim seipsam ignorai, foras mittitur, ut haedos pascat ", Gra X, 28, III, 38, 8-9. Il commento letterale del testo si trova in Dil II, 4, III, 122, 13-17: " Fit igitur ut sese non agnoscendo egregia rationis munere creatura, irrationabilium gregibus incipiat aggregari, dum ignara propriae gloriae, quae ab intus est, confor-manda foris rebus sensibilibus, sua ipsius curiositate abducitur, efficiturque una de ceteris, quod se prae ceteris nihil accepisse intelligat ". Vedi sotto, Appendice I.
19 Vedi sopra, nota 17
20 Passaggio dall'umiltà, attraverso la conoscenza della propria miseria, alla compassione per la miseria altrui. Vedi sopra, cap. III, p. 81
21 AFFECTUS: Uno dei quattro sentimenti fondamentali dai quali sono composti tutti gli altri: amar, timor, gaudium e tristitia. Qui, evidentemente, l'amore. Cfr. Dil VIII, 23, III, 138-139. SC 85, 5, II, 310-311. Cfr. W. WUliams, ed. cit., p. 41, nota 9. Spesso bisogna distinguere dagli affectus le AFFECTIONES. AFFECTIONES: i diversi sentimenti che l'anima può provare nei confronti di Dio. Sono cinque ognuno dei quali determina una relazione distinta dell'uomo a Dio: Timor, stato di servus Spes, stato di mercenarium Obedientia, stato di discipulus Honor stato di filius Amor stato di sponsa. Vedi SC 7, 1, I, 31-32. Le afectiones, prese in senso proprio, sono sentimenti complessi e composti da diversi affectus fondamentali (vedi; affectus). Capita tuttavia abbastanza frequentemente che Bernardo usi afectiones nel senso di afectus, segue allora la terminologia ereditata, segue invece solo la propria quando classifica le afectiones così come è appena stato detto.
22 La carità è la " volontà comune " all'uomo e a Dio; nasce quindi dalla congiunzione della nostra volontà con lo Spirito Santo, amore comune del Padre e del Figlio. Vedi quanto già detto in questo capitolo
23 Sulla funzione " docente " dello Spirito Santo, vedi: Pent 1, 5, V, 163-164
24 L'issopo è uno dei simboli dell'umiltà in san Bernardo; l'umiltà è purificatrice ed è per questo che subito dopo leggiamo che, per l'umiltà, l'anima è senza macchia. Tema scritturistico. " Asperges me hyssopo et mundabor " ( Sal 51,9 ). Il simbolismo dell'issopo è commentato in questo senso in SC 45, 2, II, 50-51. Si complica d'altra parte per l'aggiunta di un dato preso dalla botanica simbolista: l'issopo è una " humili herba et pectoris purgativa humilitatem significans ", ibid., e Ded 1, 4, V, '373, 2-3. Poiché un simbolo non esclude mai l'altro, l'umiltà può essere rappresentata anche dal nardo, al quale sono attribuite le medesime proprietà medicinali: Asspt IV, 7, V, 249 (tema scritturistico: Ct 1,11); Cfr. SC 42, 6, II, 36-37; dalla colomba: SC 45, 4, II, 52; dall'amore Div 92, 3, VI-l, 348. 25
25 La macchia è il peccato; il peccato è volontà propria; l'umiltà è volontà comu-ne in quanto sottomissione e unione alla volontà di Dio; quindi l'umiltà elimina la macchia del peccato e rende l'anima immacolata. Cfr. nota precedente, e cap. in, p.79.
26 Non conosco testi nei quali questa immagine sia esplicitamente commentata. Forse bisogna paragonarla a quest'altra, frequente in san Bernardo, che descrive la cupidigia, o volontà propria, come un " affectus contractus "; sine ruga significherebbe allora che la carità, facendo perdere all'anima questa contrazione, in qualche modo la rende piana e le fa perdere le sue rughe o rugosità. D'altra parte san Bernardo ci ha appena detto che la carità unge l'anima: " ita ut more pellis, quae uncta extenditur, ipsa quoque… per affectum dilatetur ", Gra VII, 21, III, 32, 11-12. Quindi, molto probabilmente, vuole esprimere qui questa riduzione della contrazione dell'anima ad opera della carità.
27 Barton R.V. Milis (ed. cit., p. 106, nota 18) interpreta queste parole come significanti il liberum consilium. Io credo piuttosto che esse significhino il liberum complacitum, cioè Paccettazione da parte della volontà dei giudizi di una ragione retta. San Bernardo vuoi dire: " la volontà non si oppone più alla ragione, perché il proprium complacitum è stato eliminato "
28 La ragione non dissimila più la verità perché, grazie all'umiltà, il proprium consilium è stato eliminato ed è stato recuperato il liberum consilium. Poiché le due parti della frase si riferiscono certamente al consilium e al complacitum e la seconda non può applicarsi al complacitum, è necessario che ad esso si riferisca la prima parte. Non dimentichiamo, infatti, che l'uomo giudica grazie alla ragione: " Judex sui propter rationem ".
29 Tema: Regula monasteriorum: " schola divini servitii "; " scola caritatis "; vedi cap. II. Il Figlio, esempio di umiltà nell'Incarnazione, vi è nostro maestro.
30 Cioè, istruita dal Verbo-Sapienza che le ha insegnato a conoscere se stessa e a giudicarsi così come è, secondo il principio del Socratismo cristiano. Tema scritturistico: Ct 1,7. Vedi sopra, p. 39
31 Affectionem nel senso di amor: l'amore. Cfr. sopra, nota 21
32

Seconda tappa: dall'umiltà, appresa dal Figlio, l'anima passa alla carità, sotto la guida dello Spirito Santo. CELLARIA: luoghi dove sono conservati i prodotti dei campi o del giardino e dove, come un invito, si spandono i loro profumi. SC 23, 1, I, 138-139. Ct 1,3 ( cfr. Ct 2,4 ) offre questo testo: " Introduxit me Rex in celiarla sua "; la Vulgata: " …in cubiculum suum ". Bernardo conserva i due termini e da a ciascuno un significato proprio. Ne aggiunge un terzo: hortus, dal quale provengono i frutti e i fiori conservati nelle cellario. Questi termini sono definiti, SC 23, 3, I, 140 e Div 92, VI-l, 346-348. L'elemento che rimane costante nei tre testi, come giustamente fa notare Barton R.V. Milis (ed. cit., p. 106, nota 22) è che cella-rium ha un senso morale, mentre cubiculum ha un senso mistico: " Sit itaque bonus plana ac simplex Ustoria, sit cellarium moralis sensus, sit cubiculum arca-num theoricae contemplationis ", SC 23, 3, I, 140, 19-20. Infatti, nel passo che noi commentiamo, le cellario sono le virtù conferite dalla carità e sono la via del cubiculum, dove si realizza l'unione mistica propriamente detta

33 La carità ci fa entrare nei cuori degli altri uomini, perché ci fa partecipi della loro miseria, che conosciamo attraverso la nostra. Vedi p. 81
34 Tema scritturistico: " Fulcite me floribus, stipate me malis, quia amore lan-gueo " ( Ct 1,5 ).
Barton R.V. Milis (ed. cit., p. 107, nota 6) osserva: " Cf. a better interpreta-tion of these words ( Ct 2,5 ) in De diligendo Dea (see notes there)… ". A questo riguardo si impongono due osservazioni:
1°) Gli editori di san Bernardo, così attenti e accurati nei loro commenti, sembrano ossessionati dal problema di sapere se le sue interpretazioni del testo biblico ne rispettano esattamente la lettera. Va da sé che l'esegesi di san Bernardo è un'esegesi mistica e deve essere trattata come tale, se vogliamo intenderla così come egli l'ha intesa;
2°) L'interpretazione di queste parole nel De diligendo Dea può in effetti, essere migliore, ma soprattutto è diversa. In quest'ultimo testo le melagrane sono i frutti della Passione e i fiori quelli della Resurrezione (Dil III, 8, III, 125-126). Il testo corrisponde allora alla meditazione della vita di Cristo e descrive le ragioni del nostro " amor camalis " per lui. È un grado inferiore della contemplazione mistica, ma ne è già un grado. Qui, nel De gradibus humilitatis, l'interpretazione delle stesse parole è morale; san Bernardo vi legge una descrizione dello stato di un'anima pronta all'estasi, ma che non vi è ancora entrata. Nulla di più normale che vedere lo stesso testo interpretato dal medesimo autore " moraliter " e poi " mystice ".
35 LANGUORI stato in cui si trova l'anima in seguito all'assenza dell'oggetto amato; SC 51, 3, II, 85-86. Sinonimi: languor animi, mentis hebetudo, inerita spiritus. Tema scritturistico: Ct 2,5. Questo stato può essere il desiderio, non ancora soddisfatto, delVoscuIum, o l'intervallo tra due unioni mistiche: SC 9, 3, I, 43-44. È il caso del testo che stiamo commentando. Può anche essere il castigo, voluto da Dio, per qualche movimento d'orgoglio: SC 54, 8, II, 107-108
36 MODICUM: parola frequentemente usata da san Bernardo per designare la bre-vità dell'unione mistica. Cfr. " O modicum et modicum!… ", SC 74, 4, II, 241, 30. Tema scritturistico: " Modicum et non videbitis me; et iterum modicum, et vi-debitis me " ( Gv 16,17 )
37 Tema scritturistico: " Factum est silentium in cacio, quasi media hora " ( Ap 8,1 ). Cfr. Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo, IV, 10, P.L., 184, 372 D. Barton R.V. Milis (ed. cit., p. 107 nota 6) fa osservare: " It is difficult, e. g. to trace thè relevance of thè silence made in heaven (a clear allusion to Rev 8, 1) to thè slumbers of thè Bride… ". Il rapporto tuttavia si chiarisce se si aggiunge che san Bernardo si ricorda qui di Gregorio Magno e che, senza dubbio, ha presente il commento mistico dello stesso testo che questo santo aveva lasciato. Gregorio paragona l'anima del giusto al cielo; il silenzio nel cielo è quindi il silenzio della vita attiva che fa posto alla pace della vita contemplativa dell'anima del giusto. Vedi sopra, cap. I, II, 20. Il testo di Gregorio Magno è riassunto in C. Butier, Le monachismo bénédictìn, cap. vii, pp. 89-90.
38 AMPLEXUS: congiunzione spirituale di Dio, che desidera unirsi all'anima purificata, e dell'anima nella quale egli si infonde per mezzo della grazia. Tema scritturistico: Ct 2,6; Ct 8,3. Non sono riuscito a trovare in san Bernardo una esplicita definizione di questo termine, neppure nel sermone in cui commenta Cant 2,6. Invece lo stato designato con amplexus mi sembra descritto, per quanto possibile, in SC 32, 6, I, 229-230. È quindi una metafora scritturistica per indicare l'estasi, così come san Bernardo l'analizza nel suo commento a Cant 2,7: il sonno dell'anima nell'abbraccio divino: SC 52,1, II, 91. San Bernardo non ha commentato in modo speciale l'" amplexabitur " di Ct 2,6, forse perché tutto il sermone 52, che riguarda 2,7 ne è un commento. Notare una definizione del termine (allo stesso tempo déQ'amplexus umano e Wamplexus divino) in Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo, proemio, 3, P.L., 184, 366 B-C
39

Tema scritturistico: Ct 5,2. Dormio, generalmente commentato a proposito dei termini: SOMNUS, SOPOR: Stato caratterizzato da un duplice effetto della grazia: 1. l'anima si trova liberata dall'esercizio dei sensi corporali: è ciò che costituisce l'estasi propriamente detta. In questo senso si può dire che il primo momento di questo sonno mistico è Yexsfasis. È lo stato nel quale si trovava Adamo al momento della creazione di Èva: " corporeis excedens sensibus obdormisse videtur ". L'osservazione di Bernardo non permette di sbagliarsi su ciò che egli vuole dire: " lile enim soporatus videtur prae excessu contemplationis ". La morte di Cristo è un'altra dormizione di questo genere, perché la vita sensibile fu sospesa in lui non per un eccesso di contemplazione, ma per un eccesso di carità: Sept 2, 1-2, iv, 349-350. 2. Non è tutto; la sospensione dei sensi esterni si accompagna, nel sonno mistico, a una " abduzione " del senso intemo. Bisogna intendere con ciò che, senza addormentarsi, ma al contrario restando ben desto, il senso interno è condotto da Dio che lo illumina. Questo stato presenta quindi le apparenze di un sonno, ma è il contrario di un torpore: « Magis autem istiusmodi vitalis vigilque sopor sensum interiorem illuminat et, morte propulsata, vitam tribuit sempiternam. Revera enim dormitio est, quae tamen sensum non sopiat, sed abducat » SC 52, 3, II, 92, 3-6.

40 1 Cor 2,9-10; 2 Cor 12,1-4. L'ineffabilità dell'estasi dipende immediatamente dallo stato di abduzione nel quale si trova il senso per il tempo in cui essa dura
41 Sal 19,3. San Bemardo ha commentato altrove questo testo, ma in un contesto diverso: Div 49, VI-I, 269-270. Il nostro brano significa probabilmente: "perché esse superano completamente questa scienza che la ragione umana può tentare -di indicare a un'altra ragione; tuttavia Dio può dire queste cose all'anima illuminata, e ci è permesso, tra saggi di parlare di saggezza… " Vedi Div 49, VI-I, 269-270, per l'assimilazione del giorno a Dio e per il significato del termine " eructat ".
42 1 Cor 2,13. Testo che san Bernardo evoca quando vuole ricordare che le immagini mediante le quali si esprime l'unione mistica non devono essere considerate in senso materiale, ma spirituale. Cfr. SC 31, 6, I, 223. Si vede che ciò che Barton R.V. Milis (ed. cit., p. 107, nota 6) chiama " a strange mediey of metaphor and scriptural allusions " può essere spiegato. Per prima cosa, per quanto posso vedere, tutte le metafore sono allusioni scritturistiche; esse quindi non si mescolano: sono testi biblici intesi in senso mistico. Inoltre, il procedimento non ha nulla di strano nel medio evo - nel quale siamo - ma, al contrario, è del tutto classico (vedi E. Gilson, Les Idées et les Lettres, p. 154-169). Infine, quando si rende a queste metafore il loro senso tecnico, appare la successione delle idee: " La ragione, facendo silenzio per un po' di tempo nell'anima del giusto, riposa nel sonno dell'estasi desiderata; dorme, ma il suo senso più profondo, l'amore, veglia in lei e scruta gli arcani della verità il cui ricordo la nutrirà quando sarà ritornata in sé. Là essa vede l'invisibile e sente parole ineffabili che l'uomo non può ripetere all'uomo, ma che Dio può dire all'anima, e sulle quali noi possiamo intrattenerci tra sapienti, usando nostre espressioni in senso spirituale per parlare di cose spirituali".
43 Hum VIIi, 20, III, 31
44 Rum VIII, 23, III, 34, 24-35, 2. I testi scritturistici compresi sono, nell'ordine; Mt 6,9; Sal 119,75; Sal 132,1; Is 24,16
45 Hum VII, 24, III, 35, 8. Cfr. Gb 14,15
46 EXCESSUS: termine generico che indica, in modo generale, ogni superamento di uno stato per raggiungerne un altro. È già un excessus il liberarsi dalle proprie passioni. Tuttavia, il termine acquista un significato mistico solo quando designa il passaggio da uno stato normalmente umano, anche se raggiunto per mezzo della grazia, a uno stato più che umano. I due excessus più importanti sono: quello che libera l'uomo dai suoi sensi esterni (l 'estasi propriamente detta) e quello che gli fa Superare il pensiero stesso (abductio interioris sensus ).Si vede così che, a rigore, bisognerebbe distinguere l'excessus preso in senso assoluto dall'estasi, ma i due termini sono troppo strettamente legati perché si possa rispettare sempre questa distinzione.
EXSTASIS: termine raro in san Bernardo; egli tuttavia lo usa per designare lo stato nel quale i sensi corporali cessano di esercitare le loro funzioni. In questo senso rientra nel genere excessus; è Yexcessus che ci fa uscire dalla sensibilità esterna: " Proinde et ego non absurde sponsae exstasim dixerim mortem, quae tamen non vita, sed vitae eripiat laqueis ", SC 52, 4, II, 92, 9-10. Se Yexstasis è completa fa superare non solo il senso esterno, ma anche il senso interno; allora è identica all'excessus mentis.
47 SC 5, 1-9, I, 21-25
48 SC 6, l,I,26
49 S. Bonaventura, Itinerarium mentìs in Deum, prologo 3-4, Quaracchi 1911, pp. 201-202
50 SC 8, 8, I, 41, 14-15
51 « Osculetw me, inquit, osculo oris sui ( Ct 1,1 ). Quis dicit? Sponsa. Quae-nam ipsa? Anima sitiens Deum ", SC 7, 2, I, 31, 17-18. Bisogna d'altra parte intendere, in questa sete di Dio, l'assoluto disprezzo per tutto ciò che non è Dio e il desiderio, esclusivo di ogni altro sentimento, di essergli unito. Cfr. SC 74, 3, II 241; SC 85, 12, II, 315
52 SC 7,2,1,31,21.32,6-8
53 SC 8, 2-3, I, 37-38
54 EBRIETAS, EBMA: stato dell'anima infiammata da un amore tale che, dimenticando la propria paura e il proprio rispetto per Dio, osa desiderare il bado dell'unione mistica. " Quid enim? Respicit [Deus] terram et facit eam tremare ( Sal 104,32 ), et ista [anima] se ab eo postulai oscular!? Ebriane est? Ebria prorsus. Et forte tunc, cum ad ista prorupit, exierat de cella vinaria … »
55 SC 7, 3, I, 32, 19-21. 55 SC 7, 3, I, 32, 18-19; 9, 2, I, 43, 11-13; vedi soprattutto SC 9, 2, I, 43
56 SC 8, 4, I, 38
57 SC 8, 6, I, 39-40
58 Vedi sopra, cap. III nota 21