29 Ottobre 1969

« Rimanete nel mio amore »

Diletti Figli e Figlie!

Tutti sapete che in questi giorni è stato celebrato il Sinodo straordinario dei Vescovi.

Per quale scopo?

Per studiare come meglio configurare l'ordine gerarchico nella Chiesa dopo che il Concilio ha messo in rilievo l'aspetto collegiale dell'Episcopato avente il Papa per suo capo, e per realizzare così, anche nel ministero pastorale del popolo cristiano una più stretta, più cosciente, più operante comunione.

Deve così avere ampio riconoscimento il carattere universale della Chiesa, con le sue particolari e subordinate autonomie locali; e deve essere promosso il suo carattere unitario e organico, in modo che ella sia ed apparisca sempre meglio, secondo il volere di Cristo, un corpo solidale e ordinato, gradualmente corresponsabile nella diversità delle funzioni gerarchiche e dei doni spirituali.

A ben guardare, si tratta di dare alla carità animatrice della Chiesa una più intensa, più ordinata, più operante attività.

Speriamo e preghiamo affinché il Signore stesso ci aiuti a progredire in questo progresso della carità ecclesiale.

Ora questo fatto, tipicamente post-conciliare, non riguarda solo l'ordine episcopale, riguarda a suo modo tutta la compagine del popolo cattolico.

Possiamo, a distanza di tanti secoli, fare Nostra per voi la parola di San Paolo: « Cresce la vostra fede ( ricordiamo: questa è la condizione prima, la fede, questa la radice di tutto ), e aumenta l'amore di ognuno di voi verso gli altri » ( 2 Ts 1,3 ).

La vita della Chiesa è così; essa trova sempre rifioritura di nuove forme nell'attingere la sua linfa nella fecondità dei suoi divini principi: qui il principio, dopo quello della fede, è la carità.

Approfondire il « senso della chiesa »

La quale, in questa sua generale applicazione e in questa sua contingente modernità, prende il nome di comunione.

È una parola questa che faremo bene a meditare.

Essa dice più di comunità, ch'è fatto sociale esteriore;

dice più di congregazione, più di associazione, più di fraternità, più di assemblea, più di società, più di famiglia, più di qualsiasi forma di solidarietà e di collettività umana;

dice Chiesa, cioè umanità animata da uno stesso principio interiore; e questo principio, non solo sentimentale e ideale o culturale, ma mistico e reale;

animata cioè da uno Spirito vivificante, lo Spirito di Cristo, la sua grazia, la sua carità, col duplice effetto di distinguere chi vive di questo principio santificante con uno stile originale di pensiero e di costume, che chiamiamo cristiano, e di compaginarlo in un corpo sociale, visibile e ordinato, che chiamiamo appunto la Chiesa.

Sono cose conosciute, ma che ora acquistano una forza significativa importantissima.

Bisogna che diventino coscienti e che informino maggiormente la nostra spiritualità e il nostro comportamento sociale.

Bisogna approfondire il « senso della Chiesa », e lasciarci educare da esso.

Il precetto della superna amicizia

Prima ancora di renderci conto degli effetti esteriori, ch'esso è destinato a produrre nelle strutture e nella vita pratica della Chiesa, Noi vorremmo oggi fermare un istante l'attenzione sul primo significato di questa misteriosa parola: comunione.

Cioè sul suo significato di comunione con Cristo.

Pensiamoci bene, perché l'altro significato di comunione ecclesiale dovrebbe dipendere da questo primo significato individuale, interiore, invisibile, anche se ha sue proprie modalità teologiche.

Per noi ora diciamo: bisogna essere in comunione vitale con Cristo.

In questa comunione è l'aspetto personale che viene in considerazione.

Anzi l'aspetto intimo, spirituale, che si verifica nelle profondità del nostro essere, alle quali la nostra coscienza non arriva, se non per fede, e per alcune rare e imperfette esperienze.

I mistici sono in questo campo i più esperti.

Ma ciascuno di noi deve poter dire: « Vivo non più io, ma vive in me Cristo » ( Gal 2,20 ).

Questo senso di comunione interiore con Cristo, di convivenza personale con Lui, d'inabitazione di Lui nella nostra anima ( cfr. Ef 3,17 ) dovrebbe ardere sempre come una lampada accesa dentro di noi, e dovrebbe modificare assai quella coscienza di noi stessi che chiamiamo la nostra personalità, senza per questo inceppare la nostra spontaneità, né esprimersi in bigotteria.

E che il Signore tenesse molto alla nostra comunione con Lui ce lo dice una sua dolcissima ed estrema parola, da ascoltare in attento silenzio; ed è questa; « Rimanete nel mio amore ».

Questo verbo « rimanere » doveva essere abituale sulle labbra del Signore, se lo troviamo tante volte ricorrente negli scritti di San Giovanni evangelista ( 67 volte, ci dicono gli esegeti, delle quali 40 nel suo Vangelo ), con vari significati, fra cui prevale quello spirituale, anzi mistico, che a noi pare espresso in pienezza nella breve frase citata: « Rimanete nel mio amore » ( Gv 15,9; cfr. Pecorara, De verbo « manere » apud Ioannem, in Divus Thomas, 1937, pp. 159-171 ).

Vincolo stabile

Questa dolce e profonda parola bisogna pensarla nel contesto dei discorsi del Signore pronunciati dopo l'ultima cena; essa risente dell'intensità di quell'ora notturna, preludio della Passione e tutta pervasa dalla gravità patetica e dalla commozione contenuta dell'estremo saluto, che Gesù dà ai suoi discepoli, chiamati amici quella sera ( Gv 15,14 ) e fatti depositari delle sue ultime confidenze, delle sue ultime volontà: « Rimanete nel mio amore ».

Che cosa intende dire il Signore con questa raccomandazione piena di tenerezza e di forza?

Che i discepoli dovevano perseverare nell'amoroso ricordo di Lui, come poco prima, dopo l'istituzione dell'Eucaristia, aveva detto: « Fate questo in memoria di me »? ( Lc 22,19 ); ovvero voleva dire che i discepoli dovevano conservare in se stessi l'affetto, che Cristo aveva avuto per loro?

O meglio Gesù desiderava che l'amore perdurasse in una intensa reciprocità?

Questo forse.

Ma in una misura piena, ultra-sentimentale, vitale.

Lo stesso Evangelista Giovanni nella sua prima lettera così si esprime: « Chi rimane nella carità rimane in Dio, e Dio in lui » ( 1 Gv 4,16 ).

La realtà è questa: che Gesù pensava ad una mistica unione da compiersi nella profondità dell'anima fra Lui e ciascuno dei suoi; pensava all'amore suo ai discepoli e all'amore suo nei discepoli e, insieme, all'amore dei discepoli a Lui; pensava al mistero della grazia, cioè della carità, che « è una certa amicizia dell'uomo con Dio » ( S. TH., II-IIæ, 23, 5 ).

E pensava che questo rapporto soprannaturale dovesse rimanere, rimanere sempre, anche dopo la scomparsa di Cristo morto e risorto dalla scena di questo mondo.

Il pensiero del Signore, sotto questo riguardo, è chiarissimo: Gesù stabilisce un vincolo stabile fra Lui ed i suoi, un vincolo che la sua morte e la sua risurrezione non avrebbero interrotto; sarebbe stato permanente da parte sua, ed Egli lo voleva permanente, anche se libero e personale, da parte dei suoi.

Concludiamo.

Se vogliamo rinnovare la vita della Chiesa come comunione, dobbiamo avere somma cura di stabilire in noi stessi questa comunione personale e soprannaturale con Cristo, alimentando cioè un amore vivo, animato dalla grazia e dall'interiore conversazione con Lui, presente dentro di noi.

Non per nulla la pietà cattolica chiama « comunione » la assunzione della Eucaristia, e dedica a questo incontro, tanto semplice e ineffabile, qualche momento di silenzio, di raccoglimento, di ascoltazione interiore, di incomparabile consolazione.

Molti oggi trascurano questa pausa preziosissima.

Vi esortiamo a tenerla cara

Con la Nostra Benedizione Apostolica.