18 Giugno 1975

La spiritualità dell'Anno Santo è simile ad un itinerario che sale, che passa da una stazione all'altra della vita religiosa e morale, qual è la vita cristiana, e che si svolge attraverso fasi diverse, come un'ascensione in montagna, sempre più aperta ai vasti panorami della verità rivelata, ma anche sempre più faticosa per arrivare alla sommità reale dell'unione con Dio, raggiunto finalmente quale Egli è, e a noi è promesso: Luce, Amore, Felicità ( si potrebbe qui ricordare l'empireo dantesco: « luce intellettual, piena d'amore; amore di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogni dolore » - Dante, Paradiso, 30, 40-41 ).

Noi abbiamo già percorso alcune tappe di questo ascensionale cammino, come la conversione, la penitenza, la preghiera, l'incontro comunitario, il momento sacramentale; ed anche abbiamo avuto qualche esperienza del gaudio, a cui anche durante il suo svolgimento ci porta il nostro itinerario, sempre consolato da tale gaudio, pur quando esso convive nel nostro spirito con prove dolorose, che lo contraddicono, e sembrano smentirlo, senza però spegnerlo del tutto giammai.

Ora questa bivalenza della nostra spiritualità: gaudio cioè e tristezza, merita una considerazione speciale;

primo, perché essa fa parte essenziale di quella autentica ed integra vita cristiana, che con l'esercizio dell'Anno Santo vogliamo in noi restaurare.

Ed è chiaro: può mai essere dimenticata la Croce nella definizione della vita cristiana?

E Croce, qui diciamo, non solo come causa in Cristo della nostra redenzione; ma altresì come forma esemplare della nostra fedeltà di seguaci di Cristo crocifisso; ciascuno di noi è chiamato ad essere, come il Cireneo della Via Crucis, associato a sopportare il peso opprimente di quello strumento di tortura e di morte, che gravò sulle spalle spossate del nostro Maestro Gesù.

La passione di Cristo è comunicativa ai suoi seguaci.

Ricordiamo le sue stesse parole, all'ultima cena: « In verità vi dico che voi piangerete e gemerete, e il mondo godrà; voi invece sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza sarà cambiata in gioia » ( Gv 16,20 ).

E ricordiamo le non meno conosciute parole di S. Paolo: « io completo nella mia carne quello che manca alle sofferenze di Cristo » ( Col 1,24 ).

Ora, ed è questa la nostra seconda osservazione, noi siamo istintivamente portati, e intenzionalmente noi moderni, ad escludere la sofferenza dalla nostra vita;

ed a ragione, fin dove ciò è onesto e possibile;

ma a torto, quando questa esclusione riguarda la concezione generale della vita cristiana, di quella nostra personale specialmente, e quando presumiamo di rendere gaudente e soddisfatta la nostra esistenza cristiana, al punto di giudicarla fallita, e fallita nei suoi principii e nel suo epilogo finale, quando essa ci impone la sofferenza;

quella sofferenza, che ci illudiamo di potere eliminare come risultato indebito della nostra professione cristiana.

Questo è frequente; e deriva da un concetto incompleto e falso di tale professione, come se essa ci dovesse immunizzare dai dolori propri della nostra esistenza terrena, e soprattutto ci dovesse risparmiare le conseguenze negative, le pene, gli insuccessi, le ingiustizie, derivanti precisamente dal fatto che siamo seguaci di Cristo.

Vorremmo un cristianesimo trionfante, un cristianesimo comodo, proficuo, applaudito.

Vorremmo che esso fosse finalmente liberato da quella sua intrinseca componente, che è il sacrificio.

Vorremmo un cristianesimo senza doveri; o almeno con doveri da cui si possa sempre trarre vantaggio, ovvero a cui sia facile ed elegante rinunciare, quando conviene.

Un cristianesimo, senza pericolose coerenze, senza obblighi di impopolari testimonianze;

un cristianesimo, senza eroismo.

Un cristianesimo sempre conformista; vile, senza che nessuno come tale lo qualifichi e lo condanni.

Invece no.

Il nostro cristianesimo dev'essere forte.

Dev'essere capace di testimoniare, che la fede, per cui esso vive, è ragion d'essere superiore alla stessa vita che lo professa.

Anzi, tale dev'essere il nostro cristianesimo da saper trarre argomento di nuova forza morale dai mali inferiori, che affliggono la nostra umanità.

Voce di San Paolo: « quando sono fiaccato, allora sono robusto » ( 2 Cor 12,10 ).

E « siate forti nella fede », ci grida S. Pietro ( 1 Pt 5,9 ).

Il nostro cristianesimo dev'essere una palestra di resistenza e di fortezza ( Cfr. 1 Cor 9,24ss; 2 Tm 4,7; Fil 3,14; etc. ).

Perciò la nostra iniziazione al rinnovamento cristiano, auspicato dall'Anno Santo, deve conoscere anche questa prova di forza morale e di fiducia in Dio; e deve accettarla con animo sereno ed impavido, e con sempre rinascente speranza.

A tanto vi conforti la nostra Apostolica Benedizione.