Yoga-Zen

Sommario

I. Yoga:
    1. La parola sanscrita "Yoga";
    2. Origine e sviluppo dello Yoga;
    3. Presupposti dello Yoga classico:
        a. Una fisiologia,
        b. Una metafisica,
        c. Una morale,
        d. Un'ascosi;
    4. Dottrine e direttive dello Yoga.
II. Forme e trasformazioni dello Yoga nell'Induismo:
    1. Il Ràja Yoga;
    2. Lo Hatha-Yoga;
    3. Lo Yoga Tantrico.
III. Lo Yoga e il Buddhismo: i Dhyàna:
    1. Presupposti;
    2. Passi preliminari;
    3. L' "ottuplico sentiero";
    4. Al centro della ricerca.
IV. Dal Dhyàna allo Zen:
    1. Base filosofica;
    2. Base epistemologica;
    3. Metodi pratici dello Zen.
V. Il cristiano di fronte allo Yoga e allo Zen:
    1. Il problema riguardo alle dottrine;
    2. Il problema riguardo ai metodi pratici.

I - Yoga

1. La parola sanscrita "Yoga"

Deriva dalla radice "yug", che significa originariamente mettere insieme, adattare, connettere, unire in un sol tutto, in genere con l'intenzione di pervenire, così, meglio a un certo risultato.

Il termine indica di per se stesso l'azione di unire sia materialmente, per creare uno strumento, sia spiritualmente, per realizzare un comportamento; pertanto Yoga significa: il giogo ( il termine è il medesimo ) che tiene assieme i buoi, affinché tirino meglio il carro; e ( è l'accezione che qui ci interessa ) il metodo psico-somatico e spirituale che unisce le facoltà sensibili e intellettuali dell'uomo per pervenire a un'esperienza interiore estatica suprema.

2. Origine e sviluppo dello Yoga

L'origine prima del metodo sembra molto antica: un sigillo di steatite, scoperto a Mohenjo-Daro ( India NO ) e appartenente a una cultura del terzo millennio a. C., mostra un uomo seduto nella posizione classica "del loto" ( padmàsanà ) e apparentemente immerso in meditazione; sulla testa ha due grandi corna di toro, simbolo della forza virile e anche del potere spirituale.

L'impiego di simili metodi per raggiungere degli stati spirituali eccezionali è stato generale nell'India e tale rimane fino a un certo punto.

Così le pratiche yogiche non sono il monopolio di una sola scuola, ma vengono utilizzate da tutte le scuole, anche se con accenti e sotto aspetti diversi.

Tuttavia nella tradizione indiana classica lo Yoga in quanto sistema ( darsana ) elaborato costituisce di per sé uno dei dodici sistemi classici e d'altra parte si colloca tra i sei sistemi ortodossi.

Esso viene tradizionalmente messo in rapporto ideologico con un altro sistema più propriamente filosofico, che gli fornisce una base logica e metafisica, cioè con il Sàmkhya.

Occorre pertanto illustrare i punti essenziali dello Sàmkhya per farsi un'idea giusta dell'astmosfera e delle prospettive dello Yoga [ sotto 3, b ].

Però lo Sàmkhya è stato a sua volta preceduto da molte correnti di pensiero e di ricerca con cui le forme più antiche dello Yoga avevano già avuto a che fare.

Oltre al caso di Mohenjo-Daro, che rimane il più antico, troviamo le prime indicazioni, destinate a rimanere fondamentali, nel Rig-Veda, raccolta di inni risalenti a oltre mille anni a. C., e nei Brahmana, un po' più recenti.

Esse parlano di tecniche di "riscaldamento" ( tapas ) fisico-psico-spirituale che si ottiene esponendosi al calore del fuoco e controllando il respiro.

Comunque nei Brahmàna tale riscaldamento viene ricercato più come preparazione all'esecuzione possente di riti liturgici esterni e di sacrifici più o meno magici che come mezzo di progresso spirituale interiore.

Invece un po' più tardi, a partire all'incirca dal sec. VIII a. C., la corrente contemplativa indù delle Upanishad - testi di preparazione a una mistica esoterica - utilizza le pratiche ascetiche e le tecniche dello Yoga come mezzi purificatori e progressivi della riflessione metafisica e della contemplazione spirituale.

Già qui le rinunce e la fuga del mondo, raccomandate continuamente in seguito dallo Yoga, sono un'immagine della "morte al mondo e a sé", senza la quale l'uomo non può entrare nel regno segreto della grande rivelazione interiore.

Verso la metà del primo millennio a. C. le Upanishad più recenti presentano una forma più elaborata di "Yoga", che preannuncia già lo Yoga sistematico di cui parleremo più avanti.

Vengono già delineati gli aspetti essenziali di quest'ultimo: ritiro nella solitudine, posizione seduta immobile, regolazione della respirazione, come pure gli effetti "straordinari" del metodo: fenomeni acustici e visivi consistenti di suoni e di luci, stati mentali eccezionali, fino alla concentrazione unificata in cui si congiungono l'esperienza del Vuoto e l'esperienza del Pieno.

Simultaneamente si sviluppa tutta una fisiologia dinamica, che tende a unificare e a localizzare in modo preciso dei centri di energia spirituale nel corpo umano.

Così va prendendo forma tutta una serie di presupposti, di cui si avvarrà lo Yoga classico.

3. Presupposti dello Yoga classico

a. Una fisiologia

Il corpo umano, corpo sensibile grossolano e corpo "sottile" etereo, è polarizzato nel suo essere e nella sua attività da sei centri energetici ( cakra ) situati a livello dell'ano, dell'organo sessuale, dell'ombelico, del cuore ( supposto al centro del petto ), della gola e della fronte.

Questi centri e tutte le parti del corpo sono collegati tra di loro da molteplici canali ( nàdi ), 72 dei quali rivestono un'importanza particolare…

Nella pratica dello Yoga l'esercitante si sforza di purificare e di riaprire tali canali, otturati dalle impurità fisiche e morali, allo scopo di far risalire tutta l'energia vitale ( kundalini ) dalle parti più basse e più materiali verso le parti più alte e più spirituali: fronte e sommità del capo, dove si colloca la fiamma suprema.

Così questa energia potrà essere utilizzata interamente per la ricerca spirituale.

In questo lavoro il controllo del respiro ( pràna ) - segno e fondamento di ogni presenza di vita - ha grande importanza per il controllo della vita stessa, perché ne riduce gli aspetti e le attività materiali e ne libera gli aspetti e le attività spirituali.

b. Una metafisica

Si tratta della metafisica dello Sàmkhya, come abbiamo detto.

Questo sistema è stato codificato in maniera definitiva in un testo risalente all'incirca al IV sec. d. C., ma i suoi elementi e le sue tendenze sono molto più antichi.

Possiamo definirlo come un dualismo ateo.

È dualista perché considera la realtà come fondamentalmente composta dal gioco congiunto di due principi: una Natura dinamica ma cieca, la Prakriti; uno Spirito luminoso ma inattivo, Purusa.

Inattivo perché l'azione è cambiamento mentre la perfezione risiede nel riposo senza cambiamento ( che lo yogin si sforzerà appunto di imitare ).

La connessione e il mutuo gioco dei due principi sono causati dall'interazione di tre qualità dinamiche ( guna ): in basso, l'inerzia oscura ( tamas ), in alto la purezza luminosa ( sattva ) e - per garantire il flusso mutevole della realtà, il suo equilibrio tra Prakriti e Purusa - una terza qualità avente elementi oscuri e luminosi, di cambiamento dinamico e di riposo placido: la forza attiva appassionata ( rajas ).

Secondo l'assiologia dello Sàmkhya è fuori dubbio che la perfezione coincide con il trionfo del principio Purusa e della qualità sattva e con la rimozione e l'evacuazione dell'attività della Prakriti e della qualità tamas.

Perciò, contrariamente a quanto afferma il cristianesimo e dimostra l'Incarnazione, in questa visuale il mondo materiale non può affatto contenere e favorire lo sforzo spirituale, bensì gli è di ostacolo.

Ogni "incarnazione" equivale a un regresso della salvezza.

Sta precisamente qui il motivo per cui lo Yoga cerca di disciplinare, ridurre e, alla fine, sopprimere ogni attività legata alla materia, nonché ogni attività, di qualsiasi genere, ivi compresa l'attività mentale, anche quella più alta.

c. Una morale

L'esigenza pratica che deriva da una tale metafisica è confermata dalla costatazione psicologico-morale che tutto quanto esiste è fonte di dolore e dolore in se stesso.

La Sàmkhyakàrikà comincia con queste parole: L'uomo è la vittima di tre specie di sventure.

Tale convinzione, già presente nei testi più antichi, ha trovato il suo teorico definitivo in Buddha, che ne ha fatto il primo punto della sua predicazione cardinale incentrata sulle quattro Verità Nobili che conducono alla liberazione.

Ma tutta l'opinione indiana tradizionale concordava con lui nel proclamare che « tutto è dolore per il saggio » ( Yoga-sùtra, II, 15 ) e che occorre quindi distanziarsi da un mondo « tutto in fiamme », come afferma un famoso paragone di Buddha [ v. Buddhismo ].

d. Un'ascesi

Conseguentemente a questa diffidenza verso il mondo, verso tutto il reale e verso la stessa intelligenza umana discorsiva, ogni sforzo di progresso spirituale è strettamente legato e commensurato a uno sforzo di abbandono del mondo sotto qualsiasi aspetto, nonché di distacco da se
stessi in quanto parte del mondo e sottomessi alle sue condizioni.

Occorre quindi abbandonare la vita societaria e familiare, il possesso dei beni materiali e, nella misura del possibile, diminuire la dipendenza di fronte alle necessità asserventi del metabolismo vitale, fisico e mentale; insomma, occorre "morire" il più possibile alla natura e a ogni attività umana normale.

Una volta capiti questi presupposti, si capiranno facilmente anche le direttive pratiche dello Yoga e si penetreranno meglio le sue dottrine.

4. Dottrine e direttive dello Yoga

La dottrina ( darsana ) sistematica dello Yoga e i suoi precetti sono esposti nel trattato Yoga-sùtra del Maestro Patànjali, che comprende 195 aforismi divisi in quattro capitoli, l'ultimo dei quali sembra un'aggiunta tardiva.

Non conosciamo le date esatte ne dell'autore ne del trattato, che possono essere collocati tra il II o il I sec. a. C. e il III o anche il V sec. d. C.

Comunque tale ignoranza non ha un gran peso, perché le tecniche riportate nel trattato, stando alla stessa confessione dell'autore, non sono originali, bensì proprietà comune ( anche se, qui, più sistematizzata ) dell'India di tempi molto anteriori a lui.

La cosa migliore è quella di citarne le parti più caratteristiche, accompagnandole con un breve commento.

I - 2. Lo Yoga consiste nell'arresto delle funzioni della conoscenza cosciente.

12. Tale arresto si ottiene con lo sforzo e con l'assenza di passione.

16. Tale assenza di sete ( = passione ) raggiunge il suo vertice sotto l'illuminazione del Purusa ( = il principio spirituale ).

II - 3. I cinque ostacoli ( all'arresto delle funzioni ) sono: l'ignoranza, l'egoismo ( la credenza nell'esistenza dell'io ), l'amore, l'odio, la volontà di vivere.

4. L'ignoranza è la base di tutti gli altri ostacoli.

5. L'ignoranza consiste nel porre l'eternità, la purezza, la felicità, la sostanzialità in ciò che è in realtà temporaneo, impuro, infelice e senza sostanza.

25. Quando l'ignoranza scompare, scompare anche il legame ( con la molteplicità dolorosa e asservente ) e sopravviene la libertà e l'isolamento ( kaivalya ) ( = la giusta situazione finale ).

Alla luce di questo orientamento globale e di questo scopo finale vengono poi indicati gli otto "membri" ( anga ), che sembrano costituire lo Yoga.

II - 28. Esercitando gli otto membri dello Yoga, che distrugge l'impurità, si accende la sapienza fino a discernere la distinzione ( tra l'eternamente valido e il temporaneo illusorio, cf 11-5 ).

29. Ed ecco gli otto membri dello Yoga: yama, niyama, àsara, prànàyàma, pratyàhàra, dhàranà, dhyàna, samàdhi.

30. Lo Yama consiste nell'astenersi da ogni violenza, dalla menzogna, dal furto, dall'attività sessuale, dall'attaccamento ai beni materiali.

37. Lo Niyama consiste nel praticare la purezza, la serenità, l'ascesi, lo studio, la sottomissione al Signore.

Notiamo che è solo in questo contesto preliminare di perfezione morale che quanto segue risulta utile e efficace.

II - 46. L'Asana ( la posizione del corpo ) deve essere stabile e adattata ( in modo da permettere di non pensarvi più ).

47. L'àsana diventa perfetta quando lo sforzo per adottarla è scomparso, tanto che non si produce più alcun movimento nel corpo.

Si noti che il testo di base non esige esplicitamente questa o quell'altra posizione, anche se certe posizioni sembrano più favorevoli.

L'importante è dimenticare il corpo.

49. Il Prànàyàma ( il controllo della respirazione ) è la cessazione dei movimenti di inspirazione e di espirazione e viene praticato dopo aver assunto l'àsana.

Sia la posizione del corpo che il controllo della respirazione sono basati sulla fisiologia sopra descritta.

Il metodo si divide praticamente in tre tempi; inspirazione, conservazione dell'aria nei polmoni per un periodo ogni volta più lungo, espirazione.

Il rallentamento del ritmo respiratorio - che porta a un rallentamento del ritmo cardiaco, ben noto agli atleti e agli spirituali - può avere degli effetti reali di pacificazione psicologica.

Tuttavia, se viene praticato in maniera imprudente, può risultare molto pericoloso per la salute fisica e mentale dell'esercitante mal consigliato o mal guidato.

Occorre pertanto una sorveglianza medica adeguata, preventiva e concomitante.

55. Il Pratyàhàra è l'arresto ( dell'attività ) degli organi dei sensi ( di percezione esteriore ), che vengono completamente sottomessi.

Nella prospettiva indiana i cinque organi dei sensi sono completati dal manas, potere di sintesi sensibile di tutti i dati convergenti dei sensi in una data percezione.

Il pratyàhàra, chiudendo le "porte dell'anima", respinge e esclude l'invasione perturbatrice del mondo esteriore e isola il meditante.

III - 1. La Dhàranà è la concentrazione, la fissazione del pensiero ( ancora legato alle immagini ) su un solo punto ( ekàgratà ).

A partire dalla dhàranà lo yogin entra nelle pratiche "interne" e "sottili", che di fatto sono molto apparentate tra di loro né possono essere completamente separate nella realtà vissuta.

La radice dhr, da cui deriva dhàranà, significa tenere stretto e compatto, in un centro materialmente localizzato.

Il centro qui in questione può essere uno dei cakra superion: ombelico, cuore, testa, o altri oggetti esistenti nella persona o al di fuori di essa.

L'importante è che il punto fissato sia in grado di concentrare, insieme allo sguardo, l'attenzione, e di far scomparire dal loro campo ogni altra realtà.

III - 2. Il Dhyàna è la fissazione su un sol punto ( = un sol oggetto di pensiero ) della facoltà di pensare.

Lo Yogasàrasamgraha, commentando questa definizione, afferma che l'uomo, il quale avrà praticato dodici volte la dhàranà, ogni volta per la durata di dodici prànàyàma, arriverà al dhyàna, pensiero unificato su un solo oggetto di pensiero, senza intrusione di alcun'altra funzione.

Con il dhyàna non si percepisce solo il "contorno" esterno della realtà contemplata, bensì la sua essenza interna in una misteriosa lucidità.

D'altra parte l'oggetto finale del dhyàna risulta diverso a seconda del modo in cui il meditante concepisce la Realtà suprema.

Nell'induismo devoto ( bhakti ) tale realtà è un dio determinato, visto non soltanto come figura simbolica percettibile, ma secondo il mistero della realtà che tale figura significa, per es.: Siva nel mistero di morte-e-vita-alternantisi che, secondo questa visuale, costituisce tutto il reale.

Nel buddhismo, come vedremo, le cose si presentano in ben altro modo.

III - 3. Il Samàdhi è il puro riflesso della Realtà oggettiva, svuotato di ogni forma determinata.

Il samàdhi comporta quindi la cessazione di ogni attività intellettuale discorsiva, l'arresto, l'unione-identificazione con l'Ultimo, la coincidenza reale tra conoscente, conoscenza e conosciuto.

Pertanto il samàdhi, più che una conoscenza nel senso corrente del termine, è un'esperienza vissuta, uno "stato di essere".

Qui sta la cosa essenziale, anche se i commentatori distinguono ulteriormente due specie di samàdhi: l'una "accompagnata da un supporto", cioè che si ottiene con l'aiuto della considerazione di un oggetto determinato o di un'idea definita; l'altra "senza supporto", cioè che fa a meno di un tale aiuto.

Nel primo caso si distinguono ancora delle tappe, nel secondo no.

Non possiamo addentrarci qui nei dettagli di tali tappe, che del resto vengono esposte con differenza dalle varie tendenze.

In ogni caso possiamo concludere con questa affermazione dello Yoga-sùtra:

III - 4 La sapienza ( finale ) contiene tutto ed è scavatrice.

Ciò significa ch'essa libera l'uomo dalla relazione di dipendenza verso tutto il "reale" precario e, di conseguenza, da tutti i dolori che provengono da questa relazione.

L'uomo pervenuto al samàdhi è "isolato" ( kevala ), come dice l'espressione tecnica, e libero in modo definitivo.

Possiamo concludere che lo Yoga non è propriamente una "dottrina", anche se ne presuppone più di una, come abbiamo visto; esso è un "metodo" - applicabile in molti contesti - di controllo delle energie fisiche, intellettuali e morali, per condurre l'uomo all'isolamento e alla separazione da tutto ciò che è limitato, ivi compresa la sua propria natura individuale, e liberarlo così dal cambiamento e dal dolore, sulla base di una nuova conoscenza.

Rimane da sottolineare un elemento molto importante: non è possibile imparare lo Yoga attraverso la propria esperienza indipendente, ne attraverso i libri; esso non è solo una pratica, ma una iniziazione, e richiede assolutamente la direzione di un maestro ( guru ) già illuminato profondamente, a cui il discepolo si affida e in cui confida in un sentimento "sacrale".

Solo nella comunicazione orale tra questi due interlocutori e, ancora di più, nella convivenza con il maestro, sotto l'irraggiamento della sua energia spirituale, diventa possibile praticare lo Yoga senza errori e con frutto.

II - Forme e trasformazioni dello Yoga nell' ( v. ) Induismo

Abitualmente si distinguono tre grandi correnti negli Yoga che sono derivate - nel contesto indù - dallo Yoga-sùtra.

1. Il Raja-Yoga

Questa corrente, fedele in ciò allo spirito dello Yoga-sùtra, da meno importanza alle prescrizioni materiali e fisiche e pone l'accento sugli stati e sulle disposizioni spirituali.

Tra le altre cose è molto più flessibile sulla questione delle posizioni, anche se insiste sul controllo della respirazione.

2. Lo Hatha-Yoga

Questa corrente invece si ispira fortemente alla fisiologia dei cakra e dei nàdì descritta ( v. ) sopra I,3, a, e annette grande importanza agli aspetti corporei del metodo; per es.: sei modi preliminari di purificazione esterna e interna del corpo, selezione accurata dell'alimentazione e della posizione, osservazione minuziosa del controllo della respirazione.

D'altra parte stima grandemente i poteri straordinari visibili, che lo yogin può acquisire.

3. Lo Yoga Tantrico

Cerca e considera come fondamentale un soccorso consistente in certi suoni magici, in certe formule di sostegno ( dhàrani ), in certe immagini da contemplare ( mandala ), che condurrebbero efficacemente verso l'estasi.

Riferendosi alla dottrina dell'unione tra il Purusa, visto come l'uomo primordiale, e la Prakriti, considerata come la maternità feconda primordiale, questo Yoga utilizza in modo rituale il bere vino come eccitante, il mangiare carne come riserva di vita e l'unione sessuale ( maithuna ) come partecipazione, analoga e identificante, all'unione Purusa-Prakriti, culminante nell'illumina zione vittoriosa del Purusa.

III - Yoga e ( v. ) Buddismo: i Dhyàna

1. Presupposti

Tra i vari movimenti spirituali, che hanno fatto largo uso dello Yoga, il buddhismo è uno dei più importanti.

Gautama, durante i primi tempi ( di studio e di ascesi ) della sua ricerca spirituale, aveva appreso da alcuni maestri sia un certo Sàmkhya preclassico, sia diversi aspetti dello Yoga e segnatamente alcuni aspetti di controllo e di rinuncia.

E. Senart ha scritto giustamente: qualunque siano le novità introdotte da Buddha, il suo pensiero si è formato nel mondo dello Yoga ( Bouddhisme et Yoga in Rev. Hist. Rei., 1900, 348 ).

Dallo Sàmkhya il buddhismo ha attinto la critica spieiata che distrugge l'idea stessa di persona e la riduce a un aggregato fortuito di elementi temporanei e di esperienze dolorose.

Il buddhismo condivide pure, con molti altri sistemi, l'idea della fruttificazione degli atti ( il karman ) in effetti felici o infelici a seconda che gli .atti furono buoni o cattivi.

Similmente ammette con quasi tutta la tradizione indiana l'idea che tali effetti si prolunghino in rinascite successive, le quali risultano felici o infelici in virtù del karman, ma in ogni caso sempre insoddisfacenti nella loro successione ( samsàra ), perché precarie e senza fine in un'eterna insicurezza mai radicalmente bandita.

Per rimediare alle rinascite il buddhismo tenta di sfuggire alla retribuzione degli atti che le producono.

Di conseguenza ricerca un modo di agire - e più ancora di non agire e di comportarsi -, che non abbia più effetti, per il fatto che l'agente, anche se rimane provvisoriamente in una condizione all'apparenza umana, si trova ormai al di là delle note del bene e del male che vengono applicate all'agire.

È evidente che un tal modo di situarsi costituisce il termine ultimo di una lunga "via media", come dice Buddha, che passa a ugual distanza tra due eccessi: l'eccesso di piaceri di una vita mondana e l'eccesso di austerità di una vita ascetica.

2. Passi preliminari

Buddha non nega che si richiedano dei condizionamenti personali e ambientali per entrare nella sua via, "nella corrente" della salvezza ( srotàpanna ), ma tali condizioni esterne - un po' come nello Ràja-Yoga - sono considerate come preliminari al confronto finale essenziale.

Quest'ultimo si gioca nel campo della Conoscenza e della comprensione di alcune Verità, che conducono all'Illuminazione ( bodhi ), in cui il ricercatore diventa un "illuminato" ( buddha ).

Le condizioni preliminari corrispondono più o meno allo yama e al niyama dello Yoga e sono espresse nei cinque precetti fondamentali ( imposti a tutti i buddhisti, anche laici ): non infliggere violenza a un essere vivente, non mentire, non rubare, non mancare alla castità del proprio stato ( che è la continenza per i monaci meditanti ), non bere bevande inebrianti.

Risulta subito chiaro che il candidato alla bodhi deve superare questi preliminari, con una decisione non solo di vivere in modo temperante pur rimanendo nel mondo, ma di abbandonare completamente questo mondo, di diventare un errante ( parivrajaka ) che si è liberato da ogni attaccamento materiale, vivente di elemosine: un monaco mendicante ( bhikkhu ).

Il buddhista contemplativo - ritiratesi nella solitudine o vivente in comunità con altri contemplativi - si spoglia, perlomeno in linea di principio,di tutto ciò che non è indispensabile per sopravvivere in modo molto modesto; pratica la continenza totale, mortifica rigorosamente i sensi, in specie verso l'altro sesso, in modo particolare gli occhi, ma anche tutti gli altri sensi.

Impara da Buddha o da maestri esperti le vie della meditazione e le percorre con applicazione e perseveranza.

3. L' "Ottuplice Sentiero"

Tutto ciò serve solo da introduzione alla ricerca buddhista specifica, di cui possiamo segnalare alcuni caratteri:

La ricerca ha per oggetto delle verità da realizzare in modo vivo.

La chiave della libertà, come abbiamo detto, si trova al livello di una conoscenza illuminante.

Le verità essenziali da realizzare sono le quattro, che Buddha ha enunciato nel suo primo discorso-programma di Benares: tutto è dolore; il dolore viene dal desiderio; per sopprimere il dolore bisogna quindi sopprimere il desiderio; esiste un "ottuplico sentiero" che conduce a tale soppressione.

Si è discusso senza fine sulle otto diramazioni o membri del sentiero ( anga ) e sulla loro possibile successione cronologica, ma si tratta di una discussione inutile, perché ogni membro, una volta "acquisito", sussiste simultaneamente agli altri.

1-2: Due membri globali fondamentali si chiamano retta comprensione, retto modo di vedere ( sammà-ditthi ) le quattro verità essenziali, e retta risoluzione ( sammà-sankappa ) di distaccarsi da ogni progetto mondano per applicarsi alla ricerca meditativa.

3-4-5: Tre altri membri, chiamati congiuntamente una "morale" ( sìlà ), conducono ad altrettanti atteggiamenti concreti utili:

modo retto di parlare ( veracità, rispetto, utilità );

modo retto di agire ( i cinque precetti dello Yoga );

la loro messa in pratica esclude logicamente determinati mestieri violenti o disonesti, e per i monaci ogni mestiere lucrativo nonché vari segni di una vita facile e lussuosa;

questi tre membri corrispondono ai due primi membri dello Yoga classico.

Dato il nostro piano, progressivo, di esposizione, dobbiamo collocare qui i modi di agire esterni che si applicano in modo particolare alla meditazione e che si ispirano al terzo, quarto e quinto membro dello Yoga, anche se in maniera molto flessibile.

Per praticarli il monaco deve scegliere un posto isolato adatto, come una foresta, una grotta, ai piedi di un albero, al cimitero; deve assumere una posizione conveniente, cioè quella del loto, classicamente attribuita a Buddha anche nel periodo della sua ricerca, posizione che rimane esemplare per tutti i suoi discepoli e imitatori; deve regolare la respirazione e immobilizzare gli occhi su un punto determinato ( kasina ), in maniera che questa fissazione esteriore aiuti la concentrazione interiore su un unico tema semplice ( ekàgratà ).

A un livello più interiore il meditante deve eliminare ogni desiderio mondano, uccidere i sentimenti ostili verso chicchessia, praticare le quattro "stazioni spirituali" ( brahma-vihàra ), cioè effondere in tutte le direzioni i quattro sentimenti: simpatia; compassione; partecipazione alle gioie altrui; infine equilibrio pacifico.

Il meditante deve respingere incessantemente e fin dall'inizio la noncuranza e il dubbio ( cf Majjhima-Nikàya, III, 49 ).

4. Al centro della ricerca

6-7-8: Questi ultimi tre membri concernono il nucleo centrale dell'impresa meditativa vera e propria.

Si tratta del retto sforzo ( sammà-vàyàma ) per evitare o superare, come dicono i commenti, gli stati d'animo sfavorevoli al progresso e mantenere e sviluppare quelli favorevoli; poi viene la retta attenzione ( sammà-sati ), che ricorda e contempla oggetti percettibili della meditazione, come il corpo ( quale oggetto precario, soggetto alla corruzione e indegno di considerazione ), i sentimenti ( che bisogna controllare per stimolarli o soffocarli, a seconda dei casi ), lo spirito ( che bisogna svuotare a poco a poco ), i contenuti dello spirito ( che bisogna rarefare e escludere, come vedremo ).

Infine viene il samàdhi, la retta concentrazione, termine che viene preso in un senso meno rigido che nello Yoga classico: il samàdhi s'accompagna infatti a vari gradi di coscienza, utili ( kusala ) per progredire verso il termine ultimo.

Infine tale progresso passa attraverso otto stati interiori sempre più trascendenti, chiamati dhyàna, come nello Yoga, mentre il pàli ( lingua di un antico Canone buddhista ) scrive jhana, termine che altre lingue fonetizzeranno in seguito in modo ancora diverso, anche se il contenuto rimane identico.

La parola è sovente tradotta con: assorbimento ( del meditante nell'oggetto della meditazione ).

Questi otto stati si sviluppano nella maniera seguente:

1. Il meditante, avendo abbandonato gli oggetti dei sensi, perviene a un pensiero intellettuale ancora discorsivo, ma già estasiante ( distaccato ) e pieno di gioia.

2. Abbandonato il pensiero intellettuale discorsivo, egli perviene all'unità semplice dello spirito, ripiena a sua volta di estasi e di gioia.

3. Superata l'effervescenza del rapimento e della gioia, egli giunge a una coscienza pacificata, equilibrata e beata.

4. Superato il piacere, il dolore, la gioia e la tristezza, si fissa nell'uguaglianza stabile ( upekkha ) e in uno stato di attenzione molto vigile.

Questi primi quattro dhyàna conservano ancora un riferimento a delle forme ( rùpa ) determinate e vengono perciò detti rupa-dhyàna.

5. Superato tutto ciò che dipende dalla percezione provvista di forma - si tratti di una percezione rivolta verso l'esterno o verso se stessi - e ogni molteplicità precettiva, il meditante entra nella prima sfera superiore, quella dello "spazio illimitato", e ivi rimane.

6. Dalla sfera dello spazio illimitato si trasferisce nel campo della pura coscienza, entra nella sfera della "coscienza illimitata" e ivi rimane.

7. Dalla sfera della coscienza illimitata ove pensa: Nulla esiste, egli entra nella sfera del Nulla e ivi rimane.

8. Infine, abbandonata la sfera del Nulla, entra nella sfera di "Ne percezione ne non-percezione".

La formulazione più semplice di questo itinerario spirituale molto astruso si trova in uno dei discorsi lunghi ( Digha-Nikàya ) attribuiti a Buddha ( D.N., I, 182ss ).

Gli assorbimenti 5-8 sono giustamente chiamati senza forma ( aruppa ).

Essi conducono al Nirvana, la cui natura è misteriosa.

Un testo della Siksasamuccàya invita a non violare il seguente segreto: Conquistate questa condizione fatta di cessazione di ogni percezione cosciente; il monaco che l'ha acquisita non ha più nulla da fare.

Lo stato ultimo del meditante non può essere descritto in parole umane, poiché, come osservano i testi, le parole "formate" non sono adatte a esprimere ciò che è senza forma.

Sembra che quivi ogni esistenza individuale a noi nota scompaia; del resto, fin dall'origine del buddhismo, la non-esistenza radicale di un "io" elimina in partenza ogni base non solo per una risposta, ma persino per la stessa domanda sull'esistenza d'una persona.

Un testo famoso del principale manuale sistematico di meditazione buddhista, il Visuddhi-Magga, dice: « Esiste solo la sofferenza; non esistono sofferenti.

Esiste solo l'azione; non esistono agenti.

Esiste il nobile ottuplice sentiero; ma non esiste alcun viandante su di esso.

Esiste il Nirvana; ma non esiste persona che vi entri ».

IV - Dal Dhyàna allo Zen

Il termine dhyàna, modificato una prima volta in lingua pàli in jhàna, dopo l'insediamento del buddhismo in Cina è divenuto ch'an e, poi, passando in Giappone, zen.

Ma il contenuto rimane uguale, poiché si tratta in tutti i casi di stati meditativi superiori alla coscienza discorsiva e a ogni coscienza normale.

Infatti la scuola buddhista dello Zen, una delle principali del Giappone, si distingue per la sua affermazione radicale dell'alterità totale tra ogni metodo e conoscenza normale e il metodo e la conoscenza sperimentali finali nello Zen.

Lo Zen va visto sullo sfondo di un complesso di "basi" necessarie alla suo esatta comprensione, basi che molti libri e lettori trascurano.

1. Base filosofica

La filosofia soggiacente allo Zen avanza due idee complementari: la vacuità ( sunyatà ) e la "taleità" ( tathatà ).

L'idea della vacuità fondamentale, applicata fin dall'inizio da Buddha per dissipare l'illusione dell'esistenza della persona, viene estesa - secondo una dottrina già sostenuta dalla setta indiana dei màdhyamika - a tutti gli elementi ( dharma ) di quello che noi dichiariamo erroneamente reale.

I màdhyamika sostengono che qualsiasi idea e qualsiasi ragionamento umano non corrispondono a nulla di vero, di solido, di reale; fidarsi dei mezzi tradizionali di conoscenza ( pramàna ) significa ad un tempo confessare e rafforzare un'ignoranza ( avidyà ) disastrosa, dato che la sola e unica "realtà" è la vacuità universale inqualificata in se stessa, inqualificabile per noi, inesprimibile e non trasmissibile da parte di qualsiasi canale normale.

La vacuità non è però sinonimo di inesistenza, non va vista come un nichilismo, ma come un negativismo radicale nell'espressione di quella "taleità", ( tathatà ), di quel "quello là" che è il Nirvana, vuoto eterno e verità assoluta.

Il "quello là" in cui è entrato il Buddha, che viene pertanto detto il Tathàgata, è qualche cosa che non può essere né rappresentato, né pensato e ancor meno nominato e che costituisce tuttavia positivamente il mistero ultimo.

2. Base epistemologica

Di conseguenza la vacuità-taleità, scopo finale della ricerca, non è oggetto di intellezione, ma d'intuizione ( prajnà ), vale a dire di una scoperta in cui il ricercatore viene ad essere assorbito interamente nell'oggetto della sua ricerca.

Di conseguenza ogni procedimento discorsivo della ragione umana - che distanzia soggetto e oggetto - è assolutamente e essenzialmente incapace di fornire la soluzione.

Se uno non acquisisce la prajnà, tutta la sua intelligenza non lo farà avanzare d'un sol passo.

Qui la parola d'ordine è: « Chi pensa di conoscerlo, in realtà non lo conosce; chi non lo conosce ( nel senso corrente del termine ), lo conosce » ( o perlomeno si dispone meglio a conoscerlo attraverso questa stessa rinuncia )…

Ritroviamo qui le locuzioni apofatiche proprie di tante mistiche di tutte le religioni.

3. Metodi pratici dello Zen

In pratica l'essenziale viene indicato da questa direttiva generale continuamente ripetuta: « Non pensate a esercitare la prajnà e non pensate a non esercitarla; non pensate di poter realizzare con la prajnà qualche cosa che si possa immaginare, perché così non esercitereste la prajnà ».

In concreto: la scuola di meditazione cinese dello Ch'an-tsung - che è servita da ponte tra l'India e il Giappone in questo campo - e la sètta buddhista dello Zen ( nelle sue due forme Rinzai e Soto ) affermano a una sola voce che il segreto illuminante non può essere trasmesso né con la preghiera né con i riti, né per mezzo dei testi intelligibili, ma deve passare vitalmente e direttamente dallo spirito del maestro già illuminato al "fondo dell'anima" del discepolo.

Questa comunicazione interumana ( non osiamo dire interpersonale in un'atmosfera buddhista ) non viene realizzata attraverso costruzioni razionali logiche, bensì attraverso atteggiamenti dei maestri che sembrano sorprendenti, enigmatici, addirittura brutali o grossolani, e attraverso un'applicazione intensa dello spirito del discepolo su un'unica sentenza breve apparentemente enigmatica o contraddittoria, un koan proposto dal maestro.

Per esempio: Conosciamo il rumore prodotto da due mani, che battono l'una contro l'altra.

Qual è il rumore prodotto da una sola mano?…

Privato di tutti i ricorsi abituali alla riflessione, il meditante partecipa a delle lunghe sedute di Zen ( zazen ) in locali appositamente allestiti, in luoghi solitari immerso in una luce attenuata, e impara l'osservanza del silenzio, le lunghe pose immobili, nonché l'abitudine a rimuovere ogni pensiero normale.

Lo scopo è di rinunciare non soltanto alle occupazioni esteriori abituali, alle agitazioni inutili, bensì anche allo stesso pensiero nel senso ordinario del termine; di creare non solo una vacuità di fatto, ma di rinunciare in modo radicale e in linea di principio all'intellezione corrente, rinuncia che si accompagna a una volontà tutta protesa, attraverso l'assurdità del koan, a cogliere l'assurdità del pensiero e a essere così disponibile a questo "non pensare", "non pensato" e "non pensante" che costituisce l'illuminazione.

Tale ricerca può richiedere anni, anche più di un'esistenza ( nella prospettiva delle rinascite ), come può essere estremamente breve e addirittura immediata in certi casi privilegiati.

In questi ultimi tempi lo Zen - che in Giappone sopravvive più che prosperare veramente - ha suscitato un interesse considerevole in alcuni ambienti occidentali; questi però troppo raramente sono disposti a pagare per davvero il prezzo dello Zen, supposto ch'esso valga veramente il prezzo che richiede [ v. Corpo II,2 ].

V - Il cristiano di fronte allo Yoga e allo Zen

Le proposte di adattamento del vangelo, di s. Paolo e dei teologi dell'incarnazione ci impongono di considerare seriamente la possibilità di uno Yoga e di uno Zen cristiani.

Molti autori l'hanno già fatto, alcuni con grande rigore, altri in modo veramente troppo leggero e superficiale.

1. Il problema riguardo alle dottrine

Potrebbe sembrare che in questo campo non vi sia alcuna soluzione.

Se prendiamo alla lettera i loro enunciati, l'induismo dualista dello Yoga e il buddhismo impersonalista dello Zen si oppongono alle proposizioni più fondamentali del cristianesimo che è realista, pluralista e personalista.

Le affermazioni sulle quali tutti possono essere d'accordo sono preliminari e negative: l'uomo è un essere decaduto, che necessita di una riabilitazione, fondata sul trionfo dei valori spirituali e interiori.

Questa riabilitazione può essere raggiunta solo mediante un grande sforzo di distacco e di ricerca di nuova situazione, suprema e felice.

Lo sforzo deve palesarsi in un superamento e in una liberazione di fronte all'avvilimento del piacere e al tumulto dei pensieri.

È poco, certamente: si tratta di verità che un cristiano può apprendere dalla lettura del vangelo e degli autori spirituali anche più antichi e tradizionali; e in realtà è qui che il cristiano normalmente deve scoprirli.

L'idea di separazione e di fuga dal mondo risale alla più antica tradizione monastica egiziana ( IV sec. ); il concetto di silenzio è alla base di tutti gli ordini prettamente contemplativi: certosini, trappisti, ecc.; la prescrizione di immobilità e di atteggiamento adatto alla meditazione è sempre esistita.

La tendenza alla meditazione sulla vacuità degli esseri si avverte in tutti i mistici cristiani, soprattutto nel Nulla di s. Giovanni della Croce.

Per quanto riguarda il ritmo della respirazione come misura di riflessione e di preghiera, esso è conosciuto e praticato sia dal Pellegrino russo della Filocalia e dall'autore spagnolo degli Esercizi Spirituali, sia da tutte le religioni.

Ma può accadere che il cristiano ignori ancora la parola divina, nonostante l'abbia letta più d'una volta, oppure può darsi che gli sembri di conoscerla anche troppo e che non lo colpisca più.

In questo caso una voce dal di fuori ( s. Gregorio Magno diceva che anche i pagani hanno i propri profeti ) potrebbe dar vita o ridare vita a queste verità naturali, elevate dal vangelo.

Il vantaggio potrà essere notevole, ma è anche evidente il rischio che si dovrà evitare: il rischio di adagiarsi per sempre nell'atteggiamento autonomo di salvezza nel vuoto, mentre il vuoto, quando è stato prodotto e percepito, deve sempre convergere verso l'umile disponibilità attenta alla grazia di un Altro.

Chi impegnasse il cristiano nelle prospettive dello Yoga e dello Zen dovrà fare attenzione sia alla possibilità di vantaggio ascetico immediato, sia al pericolo d'una progressiva disintegrazione del desiderio essenziale per il cristiano: essere misticamente con Cristo Salvatore.

Se il vuoto conclamato dallo Zen è l'ultima parola, sia che si intenda come vuoto assoluto sia come un altro modo ineffabile di essere ( o di non essere ) se stesso e per se stesso, allora costituisce con molte probabilità la più forte tentazione che può incontrare un cristiano.

Ma se il vuoto zenista si dimostra come l'appello lanciato verso la pienezza d'un Altro - il che tuttavia tradirebbe i suoi stessi fondamenti classici - potrebbe essere utile, come ogni altra forma di umiltà.

Qui si inserisce la preghiera, in particolare la preghiera corta e spaziata della "giaculatoria", contrariamente ai principi dello Zen ortodosso, ma in modo normale e anzi indispensabile per ogni concentrazione cristiana perfetta.

Essa si inserisce soprattutto con il senso della nostra piccolezza e della contingenza del mondo, da una parte, e del la grandezza e presenza di Dio della nostra unione con lui, della nostra redenzione per opera di Cristo Salvatore, dall'altra.

2. Il problema riguardo ai metodi pratici

Se lo Spirito sopra descritto è coscientemente ammesso e fomentato, sebbene sia contrario all'autosufficienza del vero Zen, le pratiche dello Yoga e dello Zen possono avere un lato positivo poiché contengono, come s'è visto, osservazioni e metodi che meritano considerazione.

Non bisogna evidentemente cadere in "feticismi" stranamente accettati e creduti da alcuni occidentali, ne assolutizzare dei metodi semimagici.

L'effetto di certe positure fisiche e di ginnastiche mentali non è automatico né sicuro; queste non meritano cieca fede e i maestri più saggi lo riconoscono apertamente e raccomandano la discrezione e la libertà.

Essi ammettono anche che tutti gli esercizi non convengono a tutte le persone in qualsiasi situazione si trovino, anzi potrebbero essere in alcuni casi gravemente dannosi.

Il consulto d'un medico, d'uno psicologo illuminato e giudizioso, in ogni caso d'un esperto che sia onesto, dovrà precedere ogni applicazione intensa allo Yoga, anche fisico, e più ancora allo Zen, i cui metodi intellettuali sono più snervanti ed espongono a disavventure psicologiche.

S'aggiunga che queste pratiche non hanno lo stesso grado d'utilità per tutti i possibili candidati:

a. È evidente che nella ricerca spirituale un cristiano indiano o giapponese deve tener presente tutta l'eredità spirituale per ritenere quanto può aiutarlo, conforme al proprio atavismo secolare, a vivere la fede cristiana più "naturalmerite" e più intensamente,

b. È ammissibile che cristiani occidentali, da lungo tempo inseriti nell'esperienza cristiana della loro tradizione, vogliano lodevolmente arricchirne certi aspetti mediante la freschezza di procedimenti insoliti; e può essere motivo di rallegrarsi se questo arricchimento è raggiunto senza danni,

c. Ma che dei cristiani, specialmente giovani, di scarsa o addirittura inesistente esperienza spirituale, si dichiarino conquistati da metodi spirituali induisti o buddhisti, ciò dovrebbe far riflettere: potrebbe essere la prova che i loro avi non li hanno introdotti, con la parola e più ancora con l'esempio, nell'immensa ricchezza spirituale dei santi, dei mistici e in primo luogo del vangelo.

Il successo dei metodi orientali potrebbe essere frutto dell'assenza o dell'insufficienza nell'educazione spirituale cristiana dei giovani,

d. Tale desiderio di orientalizzazione pone un problema che non può avere un'unica e semplice soluzione.

Chi ci interroga è forse trascinato, cosciente o no, verso lo Yoga o lo Zen perché ha rinunciato alla fede o pensa di rinunciarvi?

La pratica indù o buddhista ha forse come effetto prevedibile l'allontanamento o il riavvicinamento a Gesù Cristo?

In alcuni casi, nei migliori, questa pratica potrebbe essere un diversivo necessario: una controprova o un complemento utile al ritorno alla vita cristiana?

Soltanto tale speranza può permettere di consigliare a un cristiano, spiritualmente povero e debole, di avventurarsi in questa esperienza che potrebbe mettere in difficoltà valori preziosi e perfino la fede.

Nell'ipotesi che qualcuno si decida a ricorrere ai metodi dello Yoga e dello Zen, egli dovrà essere debitamente informato circa le esigenze interiori preliminari di tali vie e circa il carattere subordinato ( anche agli occhi degli indù e buddhisti seri ) delle pratiche esteriori.

Non c'è Zen né Yoga senza frugalità di vita, senza padronanza delle passioni, senza non-violenza, senza la custodia dei sensi, senza il silenzio interiore e anche esteriore; non c'è Zen o Yoga senza rinuncia a se stessi e senza sforzo virilmente perseverante.

Chi promettesse l'esperienza interiore "immediata o senza fatica" sarebbe un ciarlatano che abusa della credulità degli ingenui generosi.

Se un cristiano ottiene vantaggio dalla pratica del duro programma che abbiamo tracciato, e se lo vuoi praticare per amore di Cristo e dei fratelli, non si può che approvarlo.

Ma prima di tutto l'uomo esamini se stesso, studi bene qual torre vuoi edificare e si chieda se ha la capacità di portarla a termine.

Come meditazione Corpo I,2
Training autogeno Corpo I,2
Zen Corpo II,2
In occidente Corpo I,2
Nel buddhismo Buddhismo IV
Nell'induismo Immagine IV
  Induismo VI