Immagine

IndiceA

Sommario

I. Premesse bibliche:
1. La proibizione delle immagini;
2. L'uomo immagine di Dio;
3. Cristo immagine di Dio.
II. La lotta iconoclasta e la venerazione delle immagini.
III. L'icona nella spiritualità bizantina:
1. L'iconografia come ministero;
2. L'iconografia arte divina.
IV. L'immagine sacra nella spiritualità occidentale.
V. La civiltà dell'immagine e la sua spiritualità:
1. La secolarizzazione dell'immagine e la possibilità di un'arte sacra;
2. La bellezza salverà il mondo?

I - Premesse bibliche

1. La proibizione delle immagini

« Non ti farai alcuna immagine scolpita, niente che rassomigli a ciò che sta nei cieli lassù, o sulla terra quaggiù, o nelle acque sotto la terra.

Non ti prostrerai davanti a queste immagini ne le servirai » ( Es 20,4s ).

Il divieto rigoroso di produrre immagini ( per lo più di esseri umani e di animali ) è motivato, nella religione mosaica, dal pericolo dell'idolatria, molto diffusa nei popoli vicini.

Esso è fondato sull'assoluta trascendenza di Dio rispetto alla creazione ( egli è il Signore che ha creato ogni cosa, la sua sovranità domina su tutto ) e sulla sua inequivocabile e pura spiritualità ( perciò egli non può essere rappresentato sensibilmente ).

Dio si manifesta ai sensi nelle "teofanie", non però in se stesso, ma nella sua gloria e nella sua potenza, sì che trascendenza e spiritualità vengono rigorosamente salvaguardate ( Es 33,18-23 ).

Jahve è un Dio nascosto, impenetrabile ai sensi e all'intelligenza ( Is 45,15 ).

Nonostante il divieto delle immagini esisteva in Israele un'iconografia sacra, ma è interessante notare che le raffigurazioni non erano di eroi o personaggi sacri, ma memorie di eventi, di azioni salvifiche di Dio.

Il NT in certo modo continua la tradizione mosaica, ma cambiandola di significato.

I cristiani che restano saldi nella fede, al contrario degli apostati, rifiutano di adorare l'« immagine della bestia » ( Ap 13,14s; ecc. ) ossia dell'imperatore.

Gesù infatti restituisce a Cesare quel che è di Cesare, riservando rigorosamente a Dio quel che è di Dio.

L'immagine dell'imperatore impressa nella moneta dice che il diritto di moneta spetta a Cesare e con ciò egli è soddisfatto, non può chiedere di più ( Mc 12,16 e par. ).

L'immagine è ricondotta al suo valore secolare e non deve irretire religiosamente.

Il cristianesimo primitivo, a differenza dei culti sincretistici contemporanei, non riconosce alla iconografia un valore autonomo di culto, essendo incentrato, per ripetere la presenza di Dio, sulla parola e sui sacramenti.

Compaiono però ben presto simboli e figure decorative che richiamano i misteri della salvezza intorno alla persona di Gesù e degli apostoli.

2. L'uomo immagine di Dio

Se rappresentare un'immagine di Dio è impossibile e falsante, perché egli è il creatore trascendente e spirituale, appunto un riflesso o un'impronta di lui è presente nella creazione.

Questa idea, piuttosto tardiva nella sua formulazione, è preceduta da un'altra idea, più centrale e insistita, quella dell'uomo creato « ad immagine e somiglianza di Dio » ( Gen 1,26 ).

Trovandosi analogie nella letteratura babilonese, probabilmente l'idea ha un'origine mitologica: prima di creare l'uomo Dio raffigura su una tavola di bronzo la creatura che deve essere formata.

Il fatto che Dio crea l'uomo come un'immagine di sé vuole indicare non in primo luogo la spiritualità dell'uomo, quanto la sua origine divina e la sua centralità nel creato, che egli deve dominare.

L'immagine di Dio nell'uomo è un dato antico che si trasmette con la generazione ( Gen 5,1s insieme a Gen 5,3 ) e costituisce la dignità dell'uomo ( Gen 9,6: chi lede il corpo dell'uomo oltraggia la gloria stessa di Dio ).

Proprio la nozione di "gloria" può aiutarci a comprendere cosa significhi "immagine di Dio".

L'uomo è fatto di poco inferiore a Dio, coronato di gloria e splendore ( Sal 8,6s ).

Gloria indica la manifestazione della potenza inferiore.

Dunque l'uomo è partecipe della realtà divina proprio in questo: nel suo "peso", nel suo valore, che lo fa espressione della potenza e della gloria di Dio.

La cosa può apparirci più chiara se pensiamo che in tutto il mondo antico, e in special modo in quello greco, l'immagine non è la rappresentazione di un oggetto, quasi a tener luogo dell'oggetto, ma è un'irradiazione, una manifestazione visibile della essenza della cosa stessa.

Non l'opera d'arte, ma la cosa stessa nel suo splendore, nel suo valore, è immagine sensibile della sua realtà intima.

Ovviamente questo vale in modo speciale per l'uomo.

La bibbia accoglie volentieri quanto nelle speculazioni greche poteva servire ad esprimere l'idea dell'uomo come immagine di Dio, senza nulla togliere alla trascendenza di Dio e al divieto di raffigurarsi immagini di lui.

Sotto l'influsso ellenistico si vede l'immagine di Dio nella spiritualità dell'uomo ( Sir 17,3ss, da intendersi non dualisticamente: la corporeità non è esclusa, anzi implicata nell'immagine come manifestazione sensibile ) e nella immortalità perduta col peccato ( Sap 2,23s ).

Nel NT tale significato della parola immagine è confermato da 1 Cor 11,7s, dove si dice che l'uomo è immagine e riflesso di Dio, mentre la donna è riflesso dell'uomo, perché non l'uomo è stato tratto dalla donna, ma la donna dall'uomo.

Ciò non va inteso, ovviamente, come negazione della spiritualità della donna, ma richiama l'immagine come derivazione e riflesso sensibile.

Cosa confermata in 1 Cor 15,49, dove però la derivazione dalla terra richiama l'immagine di Adamo, mentre la derivazione celeste richiama l'immagine del Cristo escatologico.

Secondo Paolo l'uomo deve conformarsi a Cristo ( Rm 8,29 ) che è l'immagine di Dio ( Col 1,15; 2 Cor 4,4 ) in modo dinamico, anticipando una realtà escatologica, e restaurando così, in una nuova creazione, l'immagine del creatore ( Col 3,10 ).

Il cristiano infatti a viso scoperto riflette come in uno specchio la gloria del Signore, e il Signore, che è spirito, lo trasforma costantemente a sua immagine ( 2 Cor 3,18 ).

3. Cristo immagine di Dio

È chiaro che nel NT c'è un grande arricchimento di significati.

Cristo stesso è immagine di Dio, nel senso che riflette pienamente in se stesso la sostanza del Padre ( Col 1,15 ).

Dunque in Cristo la nozione di immagine assume il suo significato più realistico: è la cosa stessa quasi duplicata, ma non di numero, bensì nel senso di una derivazione che è perfetto e totale rispecchiamento.

Ora, tale immagine del Padre che da sempre il Figlio è nel seno di Dio, viene conosciuta sensibilmente nel Verbo fatto carne ( Gv 1,14; Gv 14,9 ).

Se Cristo è parola eterna del Padre ora detta nel mondo in modo definitivo, allora l'uomo diviene simile all'immagine quando accoglie la parola nella fede e la fa fruttificare.

Se Cristo è sacramento del Padre, allora il cristiano nei sacramenti si conforma a Cristo crocifisso e risorto e partecipa alla gloria della sua immagine.

Il valore soteriologico ed escatologico della parola e dei sacramenti è tutto fondato sul fatto che Cristo realizza perfettamente e assorbe totalmente il significato dell'immagine di Dio.

Quanto di artificioso e spurio v'è nell'immagine riprodotta rispetto alla realtà, nel cristianesimo scompare perché assorbito nella carne di Cristo che diventa "organo della divinità" ( s. Atanasio ).

Il vecchio regime della legge era perciò "ombra" rispetto all'immagine stessa della realtà ( Eb 10,1 ) che si è manifestata in Gesù Cristo.

Solo la fede però può cogliere tale sostanza delle realtà che non si vedono ( Eb 11,1 ), la divinità celata e manifestata nella carne di Cristo.

Oggi ancora noi vediamo, per la fede, come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia.

Oggi conosciamo in maniera imperfetta, allora conosceremo come siamo conosciuti ( 1 Cor 13,12 ).

Il peccato consiste nello scambiare la gloria di Dio incorruttibile con la riproduzione della semplice immagine dell'uomo corruttibile ed animale ( Rm 1,25 ): il peccato qui non è solo l'idolatria, ma la privazione della gloria di Dio nell'uomo mediante azioni immorali che deturpano l'origine divina della immagine, sì che l'uomo diventa simile a ciò che adora e perciò si abbrutisce.

Il peccato, infatti, secondo la tradizione rabbinica accolta da Paolo, se non distrugge totalmente l'immagine, la deturpa però profondamente, anzi fa entrare la morte nel mondo.1

II - La lotta iconoclasta e la venerazione delle immagini

La chiesa antica, non solo in Occidente, offrì grosse resistenze a riconoscere un valore cultuale alle immagini sacre, ossia a rappresentazioni di Cristo, di Maria e dei santi con intenti religiosi.

Ne l'AT ne il NT - beninteso - proibivano l'arte, la produzione di immagini profane.

L'immagine religiosa però incontrava resistenze non tanto o non solo per il pericolo dell'idolatria.

Mai, infatti, tali produzioni nell'ambito del cristianesimo intendevano avere un valore cultuale autonomo, in se stesse, come nel paganesimo.

Vi erano invece più profondi motivi teologici: si trattava di preservare il carattere di immagine divina alle realtà primarie, cioè la creazione, l'uomo, Cristo, in contrasto con le realtà secondarie, ossia l'opera d'arte.

Questo era anche in accordo con la stessa concezione platonica secondo cui l'opera d'arte era considerata un'immagine "umbratile".2

Significativo il rifiuto che Eusebio di Cesarea oppone alla richiesta di Costantino di avere un'immagine di Cristo: non è possibile raffigurare con colori morti e senza vita Gesù che già sulla terra era irradiato dalla gloria divina.3

È evidente che, a parte il pericolo di idolatria, si trattava di una sorta di "digiuno figurativo" funzionale alla tutela del valore proprio del sacramento, ovvero all'immagine del Cristo glorioso riflessa e presente nella chiesa e nei sacramenti.

Ma proprio tale finalità, funzionale e pedagogica nei confronti dei misteri cristiani o sacramenti del Cristo glorioso, aprirà le porte, in Occidente, all'uso didattico e catechetico delle immagini sacre.

Gregorio Magno respinge l'adorazione delle immagini ma accoglie il loro uso didascalico e pedagogico: « Ciò che per i lettori è la scrittura, lo è l'immagine per gli occhi dei non istruiti, perché in essa persino gli ignoranti vedono ciò che devono imitare, in essa leggono anche coloro che non sanno leggere ».4

L'immagine insomma viene ad acquistare un valore complementare e collaterale a quello della parola ( le famose "bibbie dei poveri" ), capace come la parola di suscitare meraviglie per le azioni salvifiche di Dio, fede in Cristo, relazione filiale con lui.

Altra direzione ha preso l'Oriente ( soprattutto bizantino ).

Presupposto teorico sono le speculazioni di Filone e la metafisica di Plotino, anche se l'ispirazione rimane profondamente ed esclusivamente biblica.

Anzi, qui la filosofia dell'immagine riesce a far mantenere la centralità ai contenuti teologici: la questione cristologica, tra dottrina trinitària e antropologia, rimane ancora la questione nodale proprio in virtù di un'estetica teologica che ha nella speculazione sull'immagine il suo punto di forza.

Si può affermare che la lotta per il riconoscimento del valore cultuale delle immagini costituisce l'ultima grande disputa cristologica dell'Oriente e della chiesa antica.

Il nucleo teologico era biblico e comune alla cattolicità.

Cristo è l'immagine del Padre, lo Spirito riflette il Figlio; l'uomo è fatto ad immagine del Dio trino e la salvezza consiste nell'assumere sempre di più la somiglianza con Dio, sino alla gloria.

Il nucleo speculativo è invece peculiare: l'immagine vale per il suo rapporto con l'origine, la somiglianza perciò ha un carattere di rivelazione, di manifestazione sensibile della gloria invisibile.

È chiaro che qui viene in discussione il dogma dell'incarnazione.

Il concilio di Hieria ( anno 754 ), culmine della tendenza iconoclasta, nega che si possa offrire un'immagine vera e propria di Cristo, perché essa dovrebbe raffigurare la sua natura divina.

Ma ciò è impossibile perché essa, assolutamente infinita, non è dipingibile.

D'altra parte rappresentare la sola natura umana di Cristo sarebbe come cadere in una forma di nestorianesimo, che negando l'unione ipostatica separa le due nature.

Rappresentare immagini di Cristo è dunque, nonché impossibile, dannoso, dal momento che esse separerebbero l'umanità dalla divinità e il loro culto sarebbe fatalmente deviante ( pur se non cadesse nell'idolatria ).

Come si vede, l'iconoclasmo trova impossibile un'estetica teologica, ossia la possibilità che la gloria divina si manifesti nella forma della materia e possa in questa essere resa percepibile.

Il secondo concilio di Nicea ( anno 787 ), favorevole alla venerazione delle immagini, chiarì appunto che essendo Cristo immagine del Padre, ne rende possibile la ricezione della sostanza.

Quando il Figlio si è incarnato la stessa materia è stata innalzata alla gloria della unità ipostatica con la divinità e quindi resa capace di rappresentare, supposta la fede, la manifestazione della gloria.

Dunque le rappresentazioni del Cristo suppongono la fede ed esigono la proskinesis ( venerazione ).

L'atto cultuale, o adorazione vera e propria ( latreia ), è rivolto alla cosa rappresentata ( prototipo ) che si manifesta e prende forma percepibile nell'immagine.

La disputa sul culto delle immagini divenne aspra, anche a causa delle implicazioni politiche.

I Libri Carolini ( anno 790 ) dei teologi di Carlo Magno ribadiscono che le immagini non possono e non devono essere adorate.

Osservazione più che giusta, che non teneva però in conto la distinzione bizantina tra latreia e proskinesis.

Mette conto osservare che l'Occidente, più secolare, ammetterà il valore "proprio" dell'opera d'arte, ma sarà meno sensibile a riconoscere in essa il valore "teologico" della gloria.

S. Tommaso d'Aquino, come al solito assai rigoroso, vede l' "utilità" dell'immagine nella triplice funzione: in quanto strumento d'informazione, atta cioè a istruire coloro che non sanno leggere, in quanto ausilio per la memoria dei misteri della salvezza, in in quanto stimolo alla devozione.5

Compare invece il problema semantico, ovvero quale nesso vi sia tra segno e significato.

S. Tommaso coglie perfettamente il movimento intenzionale che, attraverso il segno, termina al significato.

Perciò egli ammette che l'immagine di Cristo debba venire adorata, perché qui il movimento dal segno al significato termina a Cristo stesso.6

Ma viene mantenuta ferma la centralità dell'uomo, creatura razionale, a cui solo è dovuta reverenza in quanto immagine di Dio, luogo proprio della somiglianza.

Non meraviglia allora che s. Bernardo di Chiaravalle veda nel moltiplicarsi delle opere d'arte la quintessenza del lusso e una minaccia alla vita spirituale.

Egli richiede la sobrietà delle immagini per l'architettura monastica, lasciando ai vescovi le ricche cattedrali.

L'antropocentrismo occidentale piega fatalmente la spiritualità dell'immagine verso il nesso uomo-società.7

III - L'icona nella spiritualità Bizantina

[ v. Oriente cristiano VI,3 ]

1. L'iconografia come ministero

Dalle premesse bibliche e teologiche è facile intuire il posto che le chiese bizantine od ortodosse assegnano alla contemplazione delle immagini ( o "icone" ) di Cristo, della Vergine e dei santi.

Esse non hanno solo valore didattico, o rammemoratore dei misteri salvifici, ne si accontentano di suscitare solo la devozione, ma hanno un vero e proprio valore dogmatico e un posto di primo piano nella economia ecclesiale.

« L'arte sacra dell'icona non è stata inventata dagli artisti.

Essa è un'istituzione che viene dai santi padri e dalla tradizione della chiesa ».8

L'iconoclasmo pecca di docetismo perché non sa riconoscere l'epifania dell'invisibile nel visibile, è insensibile al realismo evangelico, al sacro nella storia, nega alla santità la capacità di trasfigurare la natura.

Sicché colpire le icone significa colpire lo stato monastico, il culto dei santi, la stessa maternità divina di Maria, in ultima analisi la incarnazione del Verbo.

Nell'economia ecclesiale l'icona non è solo complementare, didatticamente e pedagogicamente, come in Occidente, alla parola, ma si affianca alla liturgia, che riguarda il tempo sacro, e all'architettura, che riguarda lo spazio sacro, in una molteplicità epifanica dell'unica santità di Dio nella chiesa e nel cosmo.

Anzi, la visione acquista un certo primato sulla parola perché coglie l'elemento sensibile del Verbo incarnato, nella forma spirituale e pregna di santità offerta dall'energia dello Spirito santo.

Non si sostituisce certo ai sacramenti, ma, come una sorta di sacramentale, anticipa in qualche modo la percezione della gloria finale, rivela già da ora la bellezza del regno celeste.

Per questo motivo gli aspiranti iconografi dovevano misurarsi anzitutto con l'icona della trasfigurazione, dovevano assimilare la teologia "taborica".

Dipingere icone è un vero e proprio ministero.

Nel manuale di iconografia sacra si dice: « Il sacro ministero della rappresentazione iconografica cominciò presso gli apostoli…

Il sacerdote ci presenta il corpo del Signore nei servizi liturgici in forza delle sue parole… il pittore attraverso le immagini ».9

Per questo l'iconografo deve prepararsi alla pittura con preghiere e digiuni, con ascesi e santità.

Perché l'icona è fatta per la contemplazione sensibile della divinità invisibile e santa.

Venerare le icone non è un puro atto di reverenza, arricchito da commozione devota: « Attraverso la rappresentazione iconografica vediamo cogli occhi nostri carnali spiritualmente lui stesso che è invisibile…

Per mezzo di questa visione la nostra mente si solleva al desiderio e all'amore divino, la stima data all'icona si trasferisce al prototipo di essa… e già adesso in questa terra diventiamo illuminati e penetrati dalla luce dello Spirito santo » ( Giuseppe di Volokolamsk ).

Attraverso la percezione della santità che traspare nella forma sensibile siamo noi stessi santificati dall'energia dello Spirito santo.

Ciò suppone quella antropologia dei padri greci con la quale noi occidentali, dopo s. Agostino, non abbiamo più dimestichezza.

Natura per i padri greci non era separata dal soprannaturale, ma cospirava in un'unica sinergia umano-divina alla restaurazione edenica e alla theiosis ( divinizzazione ).

Veniva insomma mantenuto un dinamismo non solo antropologico, ma anche cosmico alla divinizzazione, a scapito - è vero - della autonoma consistenza ontologica del creato.

2. L'iconografia arte divina

Ciò si manifesta anche nei canoni pittorici stabiliti dalla « Guida degli iconografi » ( XI sec. ).

Le tecniche artistiche sono totalmente assorbite dal contenuto, che non è la rappresentazione, ma l' "immagine" contenuta dalla rappresentazione, cioè gli archetipi divini che solo la fede e lo Spirito rivelano.

Il pittore deve cogliere le strutture spirituali nascoste.

Non l'essenza divina, perché essa rimane celata, ma le energie divine.

Per questo, pur essendo arte figurativa, non è ritrattistica ne astratta.

Sarebbe ritrattistica se desse spazio agli elementi psichici ( espressione, gesto, posa, movimento, ecc. ).

Sarebbe astratta se non cogliesse le strutture pneumatiche.

Il volto di Gesù non è ritratto, ma icona della sua presenza.

La stilizzazione dematerializza le forme per permettere la rivelazione della trasparenza finale e celeste della carne.

Dei santi occorre saper cogliere non tanto "l'uomo interiore" - che potrebbe condurre all'inganno dell'identificazione con l'introspezione psicologica - quanto "l'uomo celeste", quello che viene assieme a Cristo nella parusia.

La mancanza di prospettiva e la libertà nel definire i rapporti tra le dimensioni reali degli esseri e delle cose ( negli angeli della Trinità di Rublev la proporzione tra il corpo e la testa è il doppio di quella reale ), permette uno "straneamento" visivo che incentra l'attenzione sull'intellegibile.

La bidimensionalità genera una "prospettiva invertita" ( le linee si avvicinano allo spettatore ) dando l'impressione che i personaggi escano dalla icona e gli vengano incontro.

La mancanza di chiaroscuri e i colori vivi, ordinati secondo canoni cromatici in parte fissi e in parte estremamente liberi, esprimono il meriggio dell'incarnazione ( solo l'ade ed il peccato sono il semplice nero: vedi la Natività, la Crocifissione, ecc.: ma non c'è dramma, c'è solo la kenosis ).

Tutto è luce, ma non si vede la sorgente della luce, perché questa è l'icona stessa.

Nella grande, raccolta immobilità, v'è un infinito gioco di energie santificanti che investono il contemplante.

L'icona più famosa è senza dubbio la Trinità di Andrej Rublev ( anno 1425 ).

Il concilio dei Cento Capitoli, centocinquant'anni dopo, la erige a modello dell'iconografia e di tutte le rappresentazioni della Trinità.

Si trova a Mosca, nella chiesa dell'Assunzione.

Una disposizione canonica, non rispettata, proibisce le riproduzioni su carta delle icone e la vendita commerciale.10

IV - L'immagine sacra nella spiritualità occidentale

L'Occidente, alieno dal caricare la produzione di immagini con simili contenuti dogmatici, più rigoroso nel conservare il carattere di "immagine di Dio" alle realtà primarie ( Cristo, l'uomo, la natura come creazione ) e la forza dello Spirito santificante ai segni sacramentali, orientato ad una antropologia più etico-pratica, ma dunque più secolare, non per questo deve dirsi privo di una spiritualità dell'immagine.

Esso sperimenterà, al contrario, una lacerante tensione tra la secolarità dell'immagine e la concretezza santificante dell'incarnazione, che marcherà in modo dialettico e dinamico lo stesso sviluppo della civiltà, di contro all'immobilità epifanica del mondo bizantino e ortodosso.

Già nel medioevo, in seguito alle crociate ed ai pellegrinaggi in Terra Santa, si sviluppa una simbolica incentrata sulla croce, collegata ad una pietà marcatamente doloristica ( identificazione tra le sofferenze del fedele e le sofferenze del Cristo crocifisso ).

Si sviluppano la devozione delle cinque piaghe e quella della via crucis.

Si diffondono le riproduzioni degli strumenti della passione e le rappresentazioni del crocifisso.

Anche nell'iconografia mariana si sottolinea meno il mistero della theotokos ( madre di Dio ), quanto piuttosto l'umanità della vergine madre sofferente sotto la croce.

Più che l'arte figurativa ( sviluppata già da tempo nelle "bibbie dei poveri" e nelle miniature dei libri liturgici monastici ), prevale l'arte drammatica ( vedi le laudi o sacre rappresentazioni, per lo più suggerite dalla liturgia pasquale ) e quella plastica ( oggetti in legno o pietra, in cui il crocifisso tiene un posto centrale ).

Ma la sintesi di tutto si avrà nella cattedrale gotica, in cui figurazione e plastica si intrecciano in infiniti giochi decorativi, didattici e scenici, racchiusi nell'universo dello spazio sacro: vera sintesi della città medievale.

Qui avranno libero gioco anche rappresentazioni edeniche ed apocalittiche che esprimono un singolare rapporto di Cristo con la natura e gli animali, nonché una selva di simboli che esprimono una vasta cultura, vuoi nei rimandi tipologici tra AT e NT, vuoi nei presupposti neo-platonici, vuoi nei riferimenti all'esperienza liturgica e a quella sociale.

Sarà proprio la figurazione pittorica ad esprimere la crisi della spiritualità occidentale.

Se il Beato Angelico esprimerà ancora la teologia domenicana nei canoni iconografici classici, ovvero legati alla grande lezione bizantina, Giotto aveva già spezzato, con l'introduzione della prospettiva, uno dei maggiori presupposti di quell'arte.

Con lui e dopo lui accade qualcosa di grosso nell'iconografia, qualcosa che segue una peculiarità già da sempre presente nella spiritualità occidentale: l'irruzione, nell'immagine, dell'umanità storica e sociale dei soggetti religiosi.

L'arte sacra occidentale esprimerà perciò sempre la tensione e il dramma tra l'umano e il divino.

Il punto di rottura e di scontro drammatico perciò sarà sempre, in ultima analisi, il crocifisso.

Tale teologia della croce, nella quale si caricano i mali e le brutture dell'umanità, è descritta, in modo parossistico e già pienamente luterano, nei dipinti di Grunewald.

Qui il crocifisso è beffeggiato da un popolo, prima che dalla soldataglia, pieno di vizi e dal ghigno satanico.

Il crocifisso tende le sue braccia sullo stipite della croce piegato come una balestra.

Nella Tentazione di s. Antonio la natura umana, irrimediabilmente corrotta, produce mostri e demoni che attanagliano il santo, il quale grida: « Dov'eri, buon Gesù, dove eri?

Perché non sei venuto in abbondanza a sanare le mie ferite? ».

Si avverte anche l'eco proletaria della rivolta dei contadini nel panneggio lacero, nel paesaggio spoglio e allucinato, ad esprimere la categoria muntzeriana dello "svuotamento".

La riforma non potrà proseguire la strada iconografica, perché non riconosce nell'uomo peccatore la sussistenza dell'immagine di Dio.

La natura umana produce solo mostri ( come in Bosch e in Brüghel ) e la salvezza non viene dall'immagine, dalla visione, ma solo dalla parola.

Lutero riteneva l'immagine un adiaphoron, ne buona, ne cattiva.

Zwingli e Calvino combattono decisamente il culto delle immagini.

Ma ormai la coscienza della mondanità dell'immagine si è imposta.

Il concilio di Trento, nella professione di fede recita: « Fermamente ritengo che si devono avere e conservare immagini di Cristo, della sempre vergine Madre di Dio e degli altri santi, che si deve dimostrare ad esse la dovuta venerazione ».

S. Roberto Bellarmino, in contrasto con s. Tommaso, ritiene la venerazione delle immagini cosa più umile che la venerazione della persona: il rapporto tra segno e significato ( religioso ) è diventato problematico.

I commenti di teoria dell'arte al Tridentino richiedono una verità sgombra dall'errore per l'immagine e contro la procax venustas vogliono una venustas spiritualis.

Tutta l'arte cattolica controriformata sarà impegnata in questa tensione tra mondanità e misticismo.

Ne si può dire che l'equilibrio sia sempre stato raggiunto.

È dubbio che l'estasi di s. Teresa del Bernini esprima un tocco mistico piuttosto che l'orgasmo dei sensi e certamente dietro il manierismo devoto, come in Rubens, si nasconde spesso una corposa sensualità profana.

Vi sono - e si moltiplicano - i temi o soggetti religiosi, ma non v'è più coincidenza meccanica con l'ispirazione sacra, o con la trasparenza mistica del trascendente nell'immagine.

La tela si divide in due.

Gli avvenimenti terreni, nel basso, hanno una reduplicazione in cielo, in alto, e un movimento di nubi e corpi angelici unisce il cielo alla terra: il trascendente deve essere spazialmente rappresentato perché non è più incarnato nell'immagine terrena.

Se il trascendente non è più meccanicamente presente nell'immagine secolare, nonostante il manierismo devoto, allora esso deve essere faticosamente guadagnato.

Nel Crocifisso di Velàzquez la sottile sensualità apollinea del corpo di Cristo è tutta contenuta e assorbita da una luce mistica, tenera, riposante e santificante.

Il volto reclinato e seminascosto fa trasparire il mistero, ormai composto, della sofferenza per amore.

L'arte si congiunge alla pietà.

Di fronte a questo quadro non è impossibile pregare: « Anima di Cristo, santificami - Corpo di Cristo, salvami - Sangue di Cristo, inebriami - Acqua del costato di Cristo, lavami - Passione di Cristo, confortami - O buon Gesù, esaudiscimi - Nelle tue piaghe nascondimi… ».

Un recupero che non ha nulla da invidiare alla spiritualità dell'icona e alla preghiera esicastica, e che nello stesso tempo non si lascia sconvolgere da una tragica teologia della croce luterana, in cui l'uomo è irrimediabilmente corrotto e sul crocifisso sono assenti il Padre e lo Spirito.

Nella pietà popolare cattolica esiste anche un'immagine che non ha pretese artistiche, ma che tuttavia è simbolo, e forse più che simbolo, di una retta comprensione della umanità di Cristo: la immagine del s. Cuore.

Si può discutere sul buon gusto di quella effigie, non si può dubitare del suo valore dogmatico e della sua efficacia santificante.

A sconfiggere il rigorismo giansenista e il terrore dell'ira di Dio per la natura corrotta, il Cristo offre il suo cuore ferito e ardente, ad esprimere che la misericordia di Dio si incarna in un cuore umano, nel mistero della sua carità, e che dunque ad ogni cuore umano è possibile, nonostante i peccati, il movimento missionario e santificante della carità.

V - La civiltà dell'immagine e la sua spiritualità

1. La secolarizzazione dell'immagine e la possibilità di un'arte sacra

Da quanto sinora detto è chiaro che il valore sacro dell'arte non può essere affidato alla scelta del tema o soggetto religioso, ma deve derivare da un'ispirazione o intuizione che colga nella realtà l'impronta del creatore, nell'uomo l'immagine di Dio, nel Cristo un raggio visibile della divinità invisibile.11

0ra, nel secolo dell'illuminismo, proprio il primo punto si è frantumato.

Il pensiero antimoderno mette in rilievo il fatto che nella natura non si riconosce più l'impronta del creatore, ma solo l'emozione psichica dell'uomo di fronte alla percezione visiva.

Da questa giusta osservazione passa a parlare di una secolarizzazione che costituirebbe per l'uomo la "perdita del centro", la "morte della luce".

L'arte astratta del novecento sarebbe l'estremo disfacimento dovuto a quella radice che è lo spaesamento dalla verità.12

La cosa tuttavia può essere riguardata sotto un altro aspetto.

Si sa che la nozione biblica dell'immagine comprende non solo la relazione dell'uomo a Dio, ma anche la relazione dell'uomo all'altro uomo, nel dominio della natura.

Mi sembra giusto dire che la prima relazione è diventata oggi più problematica e più marcatamente oggetto di fede, mentre la seconda tende a prendere tutto il campo.

Sicché l'attuale vicenda della civiltà rimane ancora nel campo della teologia dell'immagine, pur con grosse tensioni e contraddizioni interne.13

La responsabilità dell'arte secolare cristiana è quella di ricostruire, nell'intuizione, un'immagine terrena di uomo riconciliato con le sue possibilità storiche e sociali, in un rapporto pacificato con la natura.

Ciò non può avvenire che nell'unità tra il vero, il buono e il bello, ma non più come nell'era sacrale.14

2. La bellezza salverà il mondo?

L'ascetica cristiana ha sempre parlato di una custodia degli occhi e di una modestia corporale come regola per la fruizione e la produzione di immagini di sé o della realtà circostante.15

L'intento era, e rimane, di non produrre e di non fruire di rappresentazioni che offendano la dignità della persona umana e deturpino la gloria di Dio.

L'indicazione rimane valida, ma va inserita e ricompresa in una più vasta antropologia teologica capace di cogliere il mutamento attuale della storia con i suoi problemi.

Si tratta di comprendere la cosiddetta civiltà dell'immagine.

L'immagine oggi non instaura più, come nel medioevo, un rapporto tra produttori e fruitori di tipo artigianale, in cui nell'immagine prodotta si potesse riconoscere visivamente e sensorialmente un mondo organico di valori ( nell'unità del bello il vero e il buono ) universalmente riconosciuto.

Già l'avvento della stampa a caratteri mobili ( Gutenberg ) aveva spostato la religiosità verso l'approfondimento critico e il giudizio privato ( Lutero: la bibbia, il primo libro a stampa più diffuso, come norma assoluta della fede ), comprimendo le arti plastiche e figurative, nonostante la controriforma, a nuovi e collaterali valori visivi.

La divisione sociale del lavoro organizzato industrialmente da una parte, e la nascita della fotografia, del cinema, dell'immagine pubblicitaria e della televisione dall'altra, hanno fatto riesplodere la civiltà dell'immagine, ma con nuove caratteristiche.

L'immagine si pone come mezzo di comunicazione,16 per di più di massa,17 e in gran parte come omogeneizzazione intorno al consumo dettato dalla produzione.

Sicché la critica dell'immagine tende a diventare la critica della società, il disvelamento dello spaesamento dell'uomo, dei suoi malesseri sociali.18

La spiritualità dell'immagine deve allora guardarsi dal divenire riflesso ideologico ( o pura protesta ) dell'immagine di Dio deturpata.

Si pone in termini nuovi, e quanto mai attuali, il problema di un valore salvifico dell'immagine, prima secolare, poi sacra.

Ha un senso il grido di Dostoevskij « la bellezza salverà il mondo? ».

Ciò suppone un allargamento della teologia tridentina della grazia.

Essa non può più essere intesa solo come realtà ontologica interiore ( partecipazione alla vita divina ), appena integrata in chiave personalistica ( amicizia con Dio, capacità di dialogo, ecc. ) o esistenzialistica ( orizzonte autentico, decisione per l'esistenziale cristico, ecc. ).

Rimarrebbe completamente scisso l'elemento sensibile, estetico ( grazia nel senso di bellezza ).

Eppure la visione del Verbo incarnato non è solo di gloria escatologica e di tipo puramente intellettuale, ma anche sensibile.

Dunque anche la grazia, che è anticipo della visione, deve esserlo.19

D'altra parte nella società industriale la produzione di immagini è tra le poche produzioni di oggetti il cui valore d'uso non consiste nell'essere distrutto, ne si esaurisce tutto nella funzione di riproduzione, di distribuzione, di servizio.

Rimane per la visione.

La sua fruizione rimane contemplativa, si appaga nel giudizio: è bello a vedersi.

È anticipo della vittoria della contemplazione sull'homo oeconomicus.

Essa sottrae il principio di piacere alla pura liberazione della vitalità, comunque esca, nel presente stato, del consumismo, per nutrirsi del bello.

Un consumo che non distrugge l'oggetto e non lo feticizza come valore di scambio.

Ciò suppone però che l'homo faber sia liberato.

Solo quando il lavoro come attività sensibile socialmente utile si incontri con la produzione di immagini belle, si potrebbe avere quell'unione di visione intellettuale e visione sensibile che arricchisce nell'uomo la immagine di Dio, riflesso della sua potenza.

Altrimenti l'immagine non sarebbe "reale", non sarebbe manifestazione sensibile della cosa, ma solo epifania dello spaesamento.

Solo il lavoro "bello" e il "bello" del lavoro può produrre immagini di grazia, che solidarizzano gli uomini, che preparano l'implosione della gloria nella umanità.

La spiritualità cristiana dell'immagine secolare ricorda le condizioni teologali ed etiche di tale fuoruscita storica dalla falsa immagine dell'uomo per una riappropriazione anche estetica della gloria.

Allora il problema dell'etica dell'immagine, il problema dell'arte cristiana o dell'immagine nella liturgia e nella devozione non saranno qualcosa di separato dalla vicenda storica dell'uomo.

Icona
… di Dio in Cristo nell'uomo spirituale Immagine I
Parola III,2
Uomo sp. VIII
… dei santi Modelli I,1c
… di Dio nella famiglia Discernimento IV
… di Dio e sessualità Sessualità VIII
… e rassomiglianza per l'oriente cristiano Oriente II,2
Venerazione delle immagini Immagine II

1 Sulla teologia biblica dell'immagine vedi G. von Rad-H. Kleinknecht-G. Kittel, eikón in GLNT III, 139-184; S. Otto, Immagine in DK. Teol. (a cura di H. Fries), II, 56-65
2 Plafone, Rep.. 598b
3 PG 20, 1545
4 Ep. 11,13
5 In IV seni.. 1. III, dist. IX, a. 2, sol. 2, ad 3
6 S. Th., III, q. 25, a. 3
7 Sulla lotta iconoclasta e la venerazione delle immagini vedi H. Schade, Immagine in Sacramentum mandi (ed. italiana), IV, 467-474; C. Capizzì, Iconoclasmo in Enciclopedia delle religioni (a cura di M. Gozzini), III, 809-815
8 Concilio di Costantinopoli
9 PodUnnik, a cura di T. Bolsakov, Mosca 1903
10 Sulla teologia dell'icona vedi P. Evdokimov, L'ortodossia, Bologna, Il Mulino 1965, 312-345; Id., La teologia della beitela, Roma, Edizioni Paoline 1971
11 Su arte e religione vedi V. Fagone, Arte e religione in Enciclopedia delle religioni I, 607-614
12 Cosi H. Sedimayr, La rivoluzione dell'arte moderna, Milano, Garzanti 1958; Id., La perdita del centro, Torino, Boria 1967; Id., La morte della luce, Milano 1970
13 Ciò appare nelle vicende della filosofia estetica di cui indichiamo le tappe più rilevanti: I. Kant, Critica del giudizio, Bari, Laterza 1938; G. F. Hegel, Estetica, Milano, Feltrinelli 1938; B. Croce, Breviario di estetica, Bari, Laterza 1913; G. Lukàcs, Estetica, Torino, Einaudi 1971; M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia 1968; H. G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Fratelli Fabbri 1972,132-207
14 Per il problema di un'arte profana-cristiana vedi J. Maritain, L'intuizione creativa nell'arte e nella poesia, Brescia, Morcelliana 1957; Id., La responsabilità dell'artista, Brescia, Morcelliana 1963
15 Si veda un manuale di ascetica cristiana come ad es. A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma, Edizioni Paoline 1960
16 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore 1967
17 R. C. Wright, La comunicazione di massa, Roma, Armando 1965
18 V. Packard, I persuasori occulti, Torino, Einaudi 1958; E. Morin, L'industria culturale, Bologna, Il Mulino 1963
19 Un vigoroso e suggestivo tentativo di formulare un'estetica teologica è stato fatto da H. U. von Balthasar, Gloria I, Milano, Jaca Book 1976