Induismo

IndiceA

Sommario

I. La religione vedica.
II. Le speculazioni antiche.
III. La tradizione.
IV. I riti e i sacramenti.
V. L'induismo medievale.
VI. Lo yoga e il tantrismo.
VII. L'induismo contemporaneo.

Le attuali discussioni teologiche sul valore rivelativo dei testi sacri appartenenti alle grandi religioni non cristiane prospettano la possibilila di utilizzarne i contenuti e valorizzare l'esperienza spirituale che da essi deriva ai fini di un ripensamento globale dei valori religiosi appartenenti all'umanità intera.

Ripercorrere il cammino storico dell'induismo significa quindi, per noi, conoscerne più a fondo la spiritualità che ancora vive, dopo millenni, nella preghiera, nella meditazione, nella filosofia religiosa dell'India odierna e il cui messaggio va diffondendosi sempre più nel mondo, specialmente tra le nuove generazioni.

L'incontro con l'induismo equivale pertanto ad una presa di coscienza della dimensione più profonda di tale messaggio.

I - La religione vedica

I quattro libri del Veda,1 giunti fino a noi mediante una tradizione plurimillenaria, mostrano ancora oggi la loro vitalità poetica e religiosa.

Gli antichi inni di lode in onore delle molteplici divinità vengono infatti reinterpretati in chiave monoteistica, simbologica, se non addirittura allegorica,2 di guisa che essi appaiono come aspetti molteplici dell'unica divinità, come già "profeticamente" annunciava un celebre verso del Rg Veda: « Uno è colui che i saggi chiamano con molti nomi ».3

L'India ha così ricuperato il meglio dell'antica ispirazione dei rshi, degli antichi veggenti-poeti e ha superato l'interpretazione naturalistica e ritualistica4 dei Veda che pareva restringerne troppo i molteplici significati.

L'innologia vedica si mostra, in tal modo, uno strumento utile per la preghiera e la meditazione, anche se conserva ancora qualche aspetto oscuro nel suo linguaggio arcaico.

Ma ciò più che un ostacolo si rivela infine quale stimolo per una penetrazione ulteriore nel mondo degli antichi saggi.

E se gli oltre mille inni del Rg Veda solo di rado, oggi, vengono usati nel rituale e nelle preghiere quotidiane - eccezione fatta per la Gayatri5 -, la mitologia vedica è rimasta presente, nelle sue varie e ricche forme, perpetuandosi nella letteratura, nelle arti figurative e drammaturgiche.

Di particolare bellezza e di ricco significato restano gli inni ad Agni, il dio del fuoco, del sacrificio, figlio del cielo e della terra, mediatore tra gli uomini e gli dèi, di cui una strofa rgvedica canta: « Di lui le fiamme che non conoscon vecchiaia, di lui i raggi, del bello a vedersi che ha bello aspetto ed è ricco di luce - come fiumi luccicanti nella notte, di Agni vibrano, mai dormendo, mai invecchiando » ( inno I, 143, 3 ).

Di Agni, di Mitra e Varuna6 è "occhio" il sole ( Sùrya ): « Riempì il cielo e la terra e lo spazio intermedio Sùrya, l'anima di quanto si muove e sta fermo » ( I, 115, 1 ).

E come Agni, Sùrya, Mitra e Varuna vengono celebrati gli altri dèi: da Indra, dio guerriero vincitore del dèmone Vrtra ( simbolo della siccità o, più in generale, del male cosmico e spirituale ), Ushà, l'aurora ( immagine della bellezza divina ), gli aurei Marut, dèi delle folgori e "cantori del cielo", il tempestoso Rudra o il dolce e splendente Soma, sacro liquore inebriante.

Talvolta gli dèi sono venerati collettivamente, come negli inni ai Visve Devàh, di cui canta uno degli antichi poeti: « La propizia benevolenza degli dèi è per quelli che rettamente si comportano; la liberalità degli dèi a noi si diriga.

Noi abbiamo coltivato l'amicizia degli dèi; gli dèi proteggano la nostra esistenza, affinché viviamo ».7

Non mancano, nei Veda, anche accenni a speculazioni che vennero poi sviluppate, in parte, negli Àranyaka, nei Brahmano e, soprattutto, nelle Upanishad.8

La preghiera si fa, allora, anche riflessione metafisica, come appare nel rgvedico inno ad Hiranyagarbha ( X, 121 ), di cui la quinta strofa così dice: « Per lui stabili sono i cieli e la terra è solida, in lui il regno della luce e la volta del cielo trovano supporto; da lui vennero misurate le regioni dell'aria ».

Di grande importanza per la speculazione posteriore è l'inno a Purusha, l'uomo cosmico9 da cui nasce l'universo, ma che si estende, nei cieli, al di là da esso.

Il Purusha, riassumendo in sé tutte le cose e, al tempo stesso, trascendendole, da un senso unitario e divino a tutte le creature, e fa del sacrificio rituale una liturgia universale.

II - Le speculazioni antiche

Le speculazioni filosofiche che segnano la conclusione del Veda10 hanno assunto importanza decisiva per quasi tutta la filosofia e la mistica dell'India posteriore, tanto che le Upanishad, insieme al Brahma-sùtra e alla Bhagavad-gità, costituiscono i tre grandi cardini del Vedantismo e sono tra i più importanti punti di riferimento per il pensiero teologico indù, e forse anche per il pensiero teologico universale.

La religione delle Upanishad si incentra sul conoscere, in senso mistico-speculativo, e tende largamente a ritrovare il divino in interiore homine, nell'intimo del cuore, ove dimora l'Àtman.

«Quanto è grande lo spazio universale tanto è grande questo spazio del cuore… questa è la vera città di Brahman, in essa sono riposte le mete e i desideri; questo Àtman è esente dal male, esente da vecchiezza, esente da morte, senza ne fame, ne sete: verace il desiderio di lui, verace l'intento».11

Anche se il pensiero delle Upanishad si mostra complesso e quindi non facilmente sintetizzabile, dobbiamo pur sempre riconoscere il primato del momento esperienziale di ordine interiore che conduce alla realizzazione del divino in noi e alla identificazione con esso.

Il rapporto dell'anima con Dio è variamente delineato nei diversi testi, ma si può riscontrare con chiarezza come le Upanishad post-buddhistiche ed ancor più quelle post-vediche accentuino il carattere teistico della divinità e insegnino, oltre alla via della conoscenza per giungere a Dio, la via della devozione ( bhakti ) senza escludere la via delle opere ( karman ) intese almeno come sacrificio interiore e come impegno etico.

L'opposizione costante, che ritroviamo nelle Upanishad, tra conoscenza inferiore e conoscenza superiore ( apara e para-vidyà ), si riferisce non solo alla necessità di tendere verso una sapienza superiore, ma anche al fatto che quest'ultima deve essere appresa da un "maestro" in possesso di una esperienza totale,12 capace di guidare il discepolo alla salvezza.

Il "maestro" è colui che già sa e realizza in sé la dottrina che insegna.

Donde lo stretto legame tra la teoresi e la prassi ( intese come impegno spirituale ).

Non tutto sembra dipendere, però, dello sforzo individuale, poiché in alcuni passi si accenna ad un'elezione da parte di Dio, come afferma la Katha Upanishad ( II, 23 ): « L'Àtman non io si può raggiungere ne tramite lo studio, ne per mezzo del solo intelletto, ne col molto apprendere; l'Àtman rivela la sua identità a chi egli stesso sceglie ».

Questa ed altre espressioni con cui si allude alla grazia divina, intesa come dono del Sé, ci introducono alla ricerca del Dio immanente: « Più piccolo del più piccolo, più grande del più grande è l'Àtman che si trova nel cuore della creatura; diviene libero dal dolore colui che guarda il Signore e la sua maestà per grazia del creatore e libero da desiderio ».13

La ricerca del Dio immanente, ma anche trascendente ed ineffabile, è il messaggio costante della spiritualità indiana che converge con quello delle più sublimi dottrine religiose del mondo e per questo si ripropone continuamente sia agli indù di oggi, sia a tutti coloro che ravvisano in tale messaggio uno dei migliori mezzi di realizzazione spirituale.

III - La tradizione

La tradizione ( Smrti ) si colloca in continuità con la dottrina rivelata della Sruti14 ed abbraccia un vastissimo patrimonio etico-giuridico e mitologico-folklorico tale da inglobare quasi tutta la ricchezza sapienziale dell'India.

Fra i testi, in certo modo legati alla tradizione epica, resta imprescindibile la Bhagavad-gìta, che è divenuta un "vademecum" spirituale per molti indiani, anche a motivo del suo carattere sincretico.

Il quale si pone a mezza strada tra le istanze della ascesi, della non violenza, della pura contemplazione, e quelle deontologiche e intra-mondane, proponendo l'insegnamento del karman ( azione ) compiuto con distacco e della bhakti ( devozione verso il Signore ).

Maestro dell'uomo è Dio stesso, nella sua forma incarnata di Krshna.

A lui l'eroe Arjuna, impersonante l'anima immersa nel dubbio, si rivolge con fiduciosa speranza: « … A tè io mi rivolgo, turbato nella mente circa il mio dovere; io a tè chiedo di dirmi che cosa è meglio ( per me ); io sono il tuo discepolo che in tè si rifugia: istruiscimi Tu » ( II, 7 ).

E Dio istruisce, come riistruirà certo - e questo è uno degli insegnamenti fondamentali della Gita - tutti coloro che sinceramente si rivolgeranno a lui nei momenti di conflittualità di coscienza, di angoscia e di tenebra.

Non a caso la Gita è uno dei testi più commentati dell'India ed anche uno dei più letti nelle numerose traduzioni fattene in moltissime lingue, tanto da essere considerata quasi un compendio della spiritualità indù, valevole, del resto, anche per i non indù.

Le incarnazioni divine di cui parlano ampiamente i testi della tradizione epica e puranica15 hanno avuto ed hanno tutt'oggi parte grandissima nella religiosità popolare e vengono invocate con devozione costante, in modo particolare Rama, ( il "divino" eroe, sposo di Sita, che combatte per ritrovarla, dopo il rapimento di lei da parte del demone Pavana ) e Krshna, di cui si celebrano le gesta ma anche e soprattutto gli amori con le Gopi ( pastorelle ) e con la prediletta Ràdhà; ciò da luogo a una letteratura in chiave mistico-erotica i cui echi si prolungano nella filosofia religiosa posteriore e nei versi di molti poeti dell'India medioevale e moderna.

Sulla scia dei canti religiosi krishnaiti e ràmaiti ogni anima si può identificare con la figura della donna amata dal Dio incarnato, come fosse l'unica amata, realizzando la più intima unione con lui, nei modi tipici della "mistica nuziale", nota anche ad altre tradizioni religiose, a partire da quella biblica del Cantico dei Cantici.

IV - I riti e i sacramenti

Il ritualismo, sebbene assai più semplice di quello del tempo vedico, è rimasto uno dei fattori più importanti della vita religiosa indù ed è anche legato alla meditazione.

Il culto privato, compiuto nei momenti di "congiunzione" tra le diverse parti del giorno ( alba, mezzogiorno, crepuscolo ), comprende abluzioni ed offerte, ma soprattutto una serie di preghiere, tali da sacralizzare l'intera giornata.

La preghiera, vocale e mentale, può essere compiuta in ogni momento ed è basata su invocazioni di mantra ( formule sacre ), spesso ripetute su rosari e recitate in forma litanica, simili alla preghiera contemplativa nota anche all'esicasmo cristiano e all'orazione devozionale di altre religioni asiatiche.

Di tutti i mantra, il più celebre è rimasto il fonema Om ( scomponibile in a, u, m ), simbolo speculativo dell'assoluto nella sua unità e nelle sue articolazioni, cariche di molteplici significanze secondo il variare delle scuole teologiche.

Alla preghiera contemplativa si unisce talvolta la tecnica ( v. ) yoga della concentrazione favorita dal controllo del ritmo respiratorio.

La preghiera interiore non esclude, tuttavia, il culto delle immagini - previamente consacrate - e poi venerate come abitazione della divinità che in essa discende ed è realmente presente.

Assai diffuso, tanto da essere ormai considerato quasi panindiano, il culto del Linga, simbolo aniconico di Dio ( più precisamente di Siva ), rappresentato un po' dovunque, nei templi, nei tabernacoli, in forma di "amuleti" portatili che sembrano aver funzione di "condensare" in sé la presenza invisibile della divinità.

Di grande importanza sono poi i samskara ( sacramenti ) che accompagnano la vita degli indù dal concepimento della vita fino alla morte, con una serie di riti liturgici variamente codificati.

Tra le cerimonie più importanti quella del "conferimento del nome" ( dieci giorni dopo la nascita ), quella dell'iniziazione, mediante la quale il ragazzo entra nella comunità sociale e religiosa e che equivale ad una "seconda nascita", onde egli diviene un "nato due volte" ( dvija ) ed è investito del cordone sacro; quella del matrimonio, che è tra le più elaborate e solenni; ed infine la cerimonia funebre che consiste nell'accompagnare il defunto al luogo di cremazione o di sepoltura recitando preghiere ( la sepoltura è riservata ai bambini e agli asceti che non abbisognano della purificazione del fuoco; ma è praticata anche da alcune sette religiose, per tutti i propri adepti ); ad essa segue il rito detto srdddha ( generalmente trenta giorni dopo il decesso ), mediante cui il defunto diviene un "padre" ( pitar ) e quindi un protettore dei viventi.

Il rapporto tra la vita e la morte è così strettamente legato, senza discontinuità e con gradualità segnata dai momenti salienti dei samskara.

Al di là della mediazione rituale si trova invece l'asceta, il sannyàsin, colui che ha rinunciato a tutto ( beni, matrimonio, casta, nome ) e si unisce immediatamente con Dio, divenendo così egli stesso un "segno" della presenza divina ed un esempio di vita "escatologica".

Anche se pochi raggiungono questo stadio di vita ascetica, in teoria tutti sono invitati ad abbracciarlo, almeno negli ultimi anni della vita, dopo aver percorso le precedenti tappe ( àsrama ) di studentato, paterfamilias, vanaprastha ( abitatore della foresta ).

Ciò significa che l'ideale supremo della vita indù non è quello dell'attività, della produttività, del successo nel mondo, ma quella del ritiro dal mondo, nei luoghi solitari, o in mezzo al mondo ma come monaco mendicante, testimone per eccellenza dei valori soprannaturali.

Ideale peraltro compatibile con quello dell'impegno sociale e della vita di famiglia, poiché non li esclude, ma solo li corregge ridimensionandoli su una scala che trascende la mondanità e la temporalità.

Se la vita dell'uomo è ordinata anche ad una funzione socio-temporale, non ha però in questa il suo fine ultimo.

I "purushàrtha" ( scopi dell'uomo ), che consistono nell'utile ( categoria economica ), nel piacere ( categoria edonistico-estetica ) e nella religiosità ( includente le categorie etico-giuridiche ), si concludono con il moksha ( la salvezza finale ), liberazione dal ciclo della trasmigrazione e raggiungimento della condizione escatologica ( comunque essa venga concepita, a seconda delle varie scuole teologiche ).

L'ideale monastico di rinuncia è da intendersi pertanto non come un disimpegno, ma quale coronamento e quale sublimazione di una vita di impegno nel mondo.

Basti pensare a ciò che ha compiuto Gandhi vivendo da asceta nell'ultimo periodo della sua vita e servendosi dell'ascesi anche come mezzo di azione, di "lotta" politica.

Ma anche il puro contemplativo non è inutile agli altri uomini, poiché con l'esempio li richiama al loro fine supremo.

V - L'Induismo medioevale

Il medio evo indiano, così detto per contemporaneità a quello europeo, anche se cronologicamente si estende oltre i limiti di questo giungendo fino al periodo precolonialistico, vede la fioritura dell'induismo devozionale e della teologia mistica insegnata da grandi filosofi come Sankara,16 il quale elabora la teoria del non dualismo ( advaita ) ontologico, riprendendo uno dei temi fondamentali della speculazione upanishadica che si prolungherà fino ai nostri giorni e si farà presente nella religiosità di non pochi grandi maestri indù.

La mistica del non dualismo è essenzialmente acosmica, tendendo al superamento di ogni contingenza visibile e sensibile nella pura intuizione dell'Unum ( ekam ) non duale, del Brahman supremo che sta al di là di ogni categoria concettuale e di ogni fenomeno psico-fisico.

In questa intuizione del Brahman, che viene a coincidere con lo spirito ( Àtman ) che abita nell'uomo, consiste la realizzazione di sé, la meta suprema da raggiungere.

Sulla linea advaitica si trova anche il filosofo kasmirico Abhinavagupta,17 il cui pensiero si arricchisce però di nuove categorie speculative derivanti dal tantrismo.

Il non dualismo di Abhinavagupta, a differenza di quello sankariano, è la figura di un tutto che comprende l'intero dei fenomeni; i quali vengono dunque valorizzati in quanto effetto della forza vibrante ( spanda ) della energia ( sakti ) divina.18

La spiritualità di Abhinavagupta si esplica pertanto nel riconoscimento della vita divina che riempie il cosmo e si ripete nel microcosmo individuale; sì che l'uomo che la riconosce può giungere ad integrare mirabilmente la vita mistica con la vita quotidiana.

Il non dualismo qualificato ( visishta-advaita ) di Ràmànuja19 svolge invece una dottrina fondata sulla devozione e sull'abbandono ( prapatti ) a Vishnu, il Dio personale che ha come "corpo" l'intero universo.

La devozione a Dio è il frutto della conoscenza, è il risultato che consegue alla meditazione ed è quindi legato allo studio dei testi fondamentali del Vedànta ( Upanishad, Bhagavad-gtfa, Brahma-sutra ), ma anche alla letteratura dei Furano ( in particolare del Vishnupurana ).

Il concetto di un Dio personale e la necessità di abbandonarsi a lui per ottenere la salvezza sono tipici di numerosi altri teologi e santi dell'India medievale e moderna, da Nimbàrka a Madhva, da Srìkàntha a Caitanya,20 i cui insegnamenti si sono perpetuati fino all'induismo contemporaneo.

Tra i numerosi santi, riformatori dell'induismo che hanno rivolto il loro messaggio anche agli strati più umili della popolazione e hanno lasciato nei loro canti una eco viva ed attuale, non possiamo non ricordare Kabìr ( figlio di un tessitore di Benares di fede islamica ), che predicò instancabilmente il ritorno ad una religione interiore e praticò i metodi dello Hatha-yoga.

Postosi alla confluenza di ( v. ) islamismo e di induismo, Kabir cercò di superare gli antagonismi tra le due religioni che si osteggiavano nell'India del XIV sec. e che tante difficoltà hanno creato nei secoli posteriori.

La figura di Kabir resterà dunque per sempre un esempio di tolleranza ed un costante richiamo al « Dio dai mille nomi », che può essere invocato, di volta in volta, come Brahman, Allah, Rama o Krshna.

Non meno celebre di Kabir è, ancora oggi, Tukàràm,21 figlio di un piccolo bottegaio di casta sùdra.22

Egli, un giorno, per una chiamata irresistibile, lascia il lavoro, la moglie, i figli, per rifugiarsi in luogo solitario e pregare.

E, sulla scia di altri grandi santi dell'induismo - delle cui opere ascoltò la lettura -, compose egli stesso canti in lingua volgare in cui parlò di sé, della sua vita spirituale e del suo amore per Dio.

Tukàràm resta così l'esempio dell'uomo di umili origini che giunge a Dio per una chiamata diretta, e che accede ai testi sacri dell'induismo e alla dottrina tradizionale attraverso le traduzioni nella lingua ( marathi ) della sua regione e diviene egli stesso atto a trasmettere un messaggio spirituale, in un tipico genere di composizione poetica, valido anche per le generazioni future.

Si tratta di canti semplici che riflettono gli stati d'animo personali dell'uomo combattuto tra i suoi doveri familiari e la chiamata ad una vita di preghiera e di contemplazione: un uomo senza cultura che diviene maestro e prosegue una tradizione religiosa "regionale" ma che, alla pari di quella di altri santi dell'induismo, trascende i limiti della cultura del proprio paese e può parlare a tutti gli uomini, proprio in forza della sua semplicità e della sua immediatezza.

Più limitata, forse, è stata l'azione di guru Nànak23 nella sua regione ( Panjàb ), anche se ha dato origine al ben noto movimento dei Sikh, che oggi costituiscono una vera e propria setta.

Il sikhismo ha cercato, almeno in origine, di riformare l'induismo accettandone alcuni aspetti come il culto rituale, la devozione a Dio e al maestro spirituale ( guru ), ma combinandoli con molti elementi musulmani che ne temperavano certe norme etico-giuridiche.

In pratica, tuttavia, il sikhismo posteriore ha tenuto a distinguersi nettamente dai musulmani, specie sul piano politico e sociale, fino a divenire una corrente socio-religiosa sui generis.

VI - Lo Yoga [ ( v. ) Yoga/Zen ] e il Tantrismo

L'antichissima pratica dello yoga indiano, che trovò la sua prima formulazione nello yoga-sùtra di Patanjali24 si è estesa un po' a tutti gli orientamenti religiosi dell'India.

Lo yoga pertanto non può essere identificato semplicemente ne con tecniche quali il controllo del respiro o la concentrazione mentale, ne con le formulazioni che ne ha dato il tantrismo, basandosi sulla concezione fisiologica dei sei centri energetici all'interno del corpo ( a partire dal plesso sacrale fino alla sommità del capo ).

Le tecniche yogiche, volte a favorire la meditazione per giungere fino all'estasi ( o all'unione perfetta con Dio ), presuppongono sempre l'osservanza di norme etiche senza le quali non è possibile accedere neppure alla soglia della contemplazione religiosa.

Se lo yoga come disciplina psicosomatica può far raggiungere risultati terapeutici e se può anche far ottenere facoltà straordinarie ( siddhi ) di ordine "preternaturale", esso resta essenzialmente orientato in direzione mistica.

Non tutti, per il vero, possono percorrere interamente le tappe del cammino che fa pervenire all'estasi, cosi come viene descritto nei trattati classici, secondo cui è necessario giungere all'arresto delle funzioni mentali tramite l'esercizio ( onde rendere calmo il fluire del pensiero ) e tramite il distacco ( ossia la libertà dalle cose vedute o rivelate da altri ).

Per ottenere ciò si richiede infatti la pratica dell'ascesi ( tapas ), della castità, della conoscenza ( o scienza dello spirito ) e della fede ( sraddhà ) - virtù, quest'ultima, da intendersi come desiderio vivo di raggiungere l'estasi ( samàdhi ) -.

Ne da tutte le scuole dell'induismo lo yoga è considerato un mezzo indispensabile per ottenere la salvezza.

Alcuni testi, come la Bhagavad-gifà - già sopra citata - propongono uno yoga come devozione ( bhakti-yoga ) o uno yoga dell'azione ( karma-yoga ), che consiste nel compimento del proprio dovere al tempo stesso con zelo e con distacco.

Esiste altresì lo yoga della preghiera ( japa-yoga ), tipico della preghiera contemplativa, ed esistono forme di meditazione con oggetto visualizzato, iconico o mandalico,25 alle quali si arrestano la maggior parte degli indù; pochi essendo, come è facile intuire, coloro che giungono alla meditazione senza oggetto ( ne visivo ne concettuale ) e all'estasi pura.

Ancora meno sono coloro che hanno ricevuto l'iniziazione e il metodo appropriato per esercitare lo yoga tantrico, mediante il quale si deve far risalire l'energia cosmica ( kundalinì ) attraverso i cerchi ( cakra ) o nodi energetici del corpo, fino alla sede del Dio trascendente ( al di fuori dello spazio corporeo ).

Lo yoga tantrico, fondato su una difficile sublimazione dell'energia sessuale, resta sempre esoterico e richiede una tecnica di estrema difficoltà.

VII - L'Induismo contemporaneo

L'odierna religione indù è rimasta, per larga parte, ancorata alla tradizione del passato, anche se non sono mancate quelle figure di riformatori che, soprattutto durante il periodo della dominazione inglese, hanno cercato di dare all'induismo un volto più universale, non senza aver subito, in un modo o nell'altro, l'influsso del cristianesimo.

Basti ricordare movimenti innovatori quale il Bràhma-Samàj ( associazione dei credenti in Brahman ), fondato da Ràm Mohan Ray,26 il cui scopo era quello di riunire in un'unica fede le tre grandi religioni presenti in India: induismo, islamismo, cristianesimo.

Sebbene tale scopo non fosse raggiunto e l'associazione si fosse nuovamente ispirata soprattutto alle sue fonti indù, il movimento ebbe una certa diffusione e popolarità grazie al poeta Rabindranàth Tagore, le cui opere, diffuse in tutto il mondo, contribuirono a dare dell'induismo un'immagine ideale e sincretistica; tanto che ancora oggi le numerose traduzioni e ristampe della sua opera poetica vengono considerate un mezzo utilissimo per far conoscere un certo tipo di spiritualità indù.

La quale, tuttavia, talvolta è erroneamente presa come quella autentica, o come la più diffusa.

Mentre l'induismo contemporaneo presenta ancora notevoli complessità ed è ben lungi dall'avere un volto univoco.

Solo le classi più colte della popolazione indiana hanno assimilato le istanze di tolleranza, di democratica intesa, il desiderio di progresso tecnologico e al tempo stesso morale, che fanno dell'induismo tagoriano una sorta di religione valida per tutti.

La maggior parte degli indiani invece vive ancora secondo le norme della loro casta, secondo lo spirito religioso della confessione o della "setta" cui appartengono e molti di loro ignorano perfino l'esistenza di altre fedi.

È stata forse, più di ogni altra, l'opera di Gandhi ad avvicinare tutti gli strati della popolazione dell'India, a partire proprio dai più umili, che si trovano al di fuori delle caste ufficiali.

Costoro, chiamati Harijan ( figli di Dio ) dal Mahatma Gandhi, sono tuttavia ancor oggi in posizione assai difficile e vivono una vita religiosa spesso assai spontanea e non codificata, o, in certi casi, ispirantesi ad antichi culti e credenze tribali.

Gandhi predicò a tutti gli indiani, senza discriminazione, il ritorno alle tradizioni più pure e originali, propagando le virtù della non violenza e il culto della verità ( satyàgraha ), intesi anche come mezzi di lotta politico sociale per la libertà.27

La liberazione dell'uomo, sul piano della vita terrena e in prospettiva escatologica, non può realizzarsi senza un sincero impegno di vita morale e senza una adesione totale alla ricerca teoretica e pratica del vero, come dicono le parole gandhiane: « Una sola cosa si radicò profondamente in me: ossia la convinzione che la moralità costituisce la base di tutto e che la verità è la sostanza di ogni morale.

La verità divenne il mio unico obiettivo ».28

Per Gandhi, come egli stesso ebbe più volte ad affermare, la religione consisteva - e consiste, del resto, per la totalità dell'induismo teologico - nella realizzazione di sé come spirito, come creatura che tende a ritrovare le origini divine del proprio essere: e ciò può avvenire non solamente in tutte le branche dell'induismo, ma ugualmente in altre religioni, purché in esse si viva con atteggiamento di tolleranza, e con sincero rispetto delle scelte individuali altrui.

Il tema della realizzazione del Sé come spirito viene svolto ampiamente da Vivekànanda,29 il cui messaggio viene ancora propagato in tutto il mondo tramite il veicolo della Ràmakrishna Mission.

L'induismo viene presentato nelle sue fonti tradizionali di cespite vedantico e divulgato mediante pubblicazioni di testi, con traduzione inglese, delle più note e più facilmente assimilabili opere del Vedànta non dualistico, poiché tale formulazione, reinterpretata anche alla luce delle esigenze del nostro tempo, sembra rispondere meglio di altre alla possibilità di sublimazione della vita umana o alla "divinizzazione" di essa.

Tra le figure più belle e più pure della mistica indù contemporanea troviamo Ràmana Mahàrshi,30 che fin dalla sua prima giovinezza visse una vita di pura contemplazione e preghiera, dopo una esperienza straordinaria di carattere "estatico".

Fuggito di casa appena sedicenne e recatesi presso uno dei templi che erano meta di pellegrinaggio nel Sud India ( a Tiruvannàmalai ), ivi restò per tutta la vita, seguito ben presto dai discepoli che riconobbero in lui un uomo di Dio.

L'insegnamento di Ràmana Mahàrshi, fondato sulla "esperienza liberatrice" che egli provò come per una sorta di "folgorazione", si traduceva in un continuo richiamo alla interiorità più profonda di ognuno.

Alla domanda: « Chi sono io? » - domanda che tutti possono e debbono porsi - non si può rispondere se non immergendosi nel proprio "sé", così come fa il pescatore di perle tuffandosi in mare; sì che, una volta pervenuti alla massima profondità, si possa trovare la scaturigine della coscienza, il fondo del proprio essere, la perla preziosa per cui vale la pena "vendere" o lasciare tutto il resto.

In tal modo è possibile conoscere il proprio spirito immortale e al tempo stesso il fulcro permanente intorno al quale ruotano tutte le cose.

Alla luce dell'eterno perdono importanza gli innumerevoli problemi che travagliano la vita singola e la vita del mondo: questo poteva insegnare Ràmana con la sua vita contemplativa in assoluto distacco, pur senza opporsi ne programmaticamente, ne teoreticamente al suo grande contemporaneo Gandhi che percorreva tutta l'India volto all'azione ( anche se compiuta sempre in spirito di preghiera ).

Tra i grandi contemporanei di Ràmana, e su di una linea contemplativa a lui più vicina, vi fu il bengalese Aurobindo Ghose, vissuto anch'egli nel suo "ritiro" di Pondichéry, non lungi da Tiruvannàmalai.

Ma l'interesse di Aurobindo, essendo largamente intellettualistico, si è espresso in una serie di opere filosofiche intese alla reinterpretazione del pensiro indiano arricchito di un certo apporto del pensiero occidentale.

Da tutto ciò è sorta una teoria evoluzionistica e spiritualistica ( in cui ha larga parte anche lo yoga ), in base alla quale è possibile prevedere il futuro andamento dell'umanità verso il suo compimento supremo.

Ma poiché tale evoluzione avviene tramite élites che fanno da guida agli altri uomini e, in epoca attuale, essendo il gruppo-guida quello ispirato da Aurobindo stesso e dalla sua "partner femminile",31 ne consegue un tipo fortemente minoritario degli iniziati al concetto e alla prassi aurobindiane della vita.

La spiritualità aurobindiana però venne ed è tuttora recepita anche al di fuori dell'India, forse a motivo della sua ispirazione di fondo, onde l'uomo è chiamato ad elevarsi a stati di coscienza sopramentali e ad attuare la sua perfezione con mezzi che superano la pura ragione e i prodotti da essa derivanti.

L'uomo deve perciò ritrovare la sua unità con la forza cosmica e sovrumana che regge l'universo e farsi portatore di essa, realizzando in tal modo la sua "vita divina": quella vita che non potrebbe raggiungere da solo ne senza l'aiuto di una guida superiore.

Tale filosofia si inscrive, come è facile intuire, in una tradizione indiana antichissima che vede nella Sakti ( divina potenza creatrice ) l'energia universale che muove il cosmo e si "concentra" negli spiriti umani che la recepiscono - tramite iniziazione e progresso etico-religioso -; essa tuttavia si diversifica dal Saktismo e dal Tantrismo a motivo della sua impronta occidentalizzante e sincretistica, non esente da aporie.

L'induismo contemporaneo si esprime in non poche altre forme rappresentate da gruppi ( più o meno numerosi ) che si riuniscono intorno ad un "guru" o ad una "madre" per trovare in essi una guida che conduca sul retto cammino della salvezza.

La maggior parte delle persone però in genere si affidano direttamente a Dio, adorandolo nell'una o nell'altra delle sue molteplici manifestazioni o incarnazioni, pronti a riconoscerlo in chiunque sappia rappresentarlo, anche se, paradossalmente, non appartenga all'induismo.

Di qui anche la facilità che ha l'indù di avvicinarsi ad altre religioni e in particolare ad avvertire la sincerità di chi è religiosamente impegnato, quale che sia il suo credo.

L'avvicinamento tra religioni diverse sembra pertanto più facile in India che altrove, o almeno in ambiente induizzante o orientaleggiante e ciò non tanto per la inveterata tendenza sincretistica dell'Oriente, quanto per una particolare sensibilità religiosa ed una apertura che si oppone ad ogni tipo di esclusivismo.

… e la carità Carità III
… e la contemplazione Contemplazione I,1
… ed escatologia Escatologia II,2
… e yoga YogaZen III
… e buddhismo Buddhismo VI

1 I più antichi Inni si pensa possano risalire al XII sec. a. C. e i più recenti intorno al X sec. a. C. Dei Veda esistono parecchie edizioni e traduzioni, nonché numerose raccolte antologiche, tra cui ricordiamo una delle più recenti, in traduzione francese, che comprende anche passi dei Brahmano, degli Aranyka e delle Vpanishad: Le Veda a cura di J. Varenne, Gerard, Vervier 1967, 2 voll.
2 L'interpretazione allegorica dei Veda è iniziata in epoca molto antica e si è reiterata per tutto il medio evo.
Ai nostri giorni è stata ripresa soprattutto da Aurobindo Ghose, per cui cf Le Secret du Veda, Parigi, Ed. des Cahiers du Sud 1955
3 Libro I, 164, 46
4 L. Renou, L'Hindouisme, Parigi, P.U.F. 19705. Vedi anche J. Gonda, Les Religions de l'Inde, Parigi, Payot 1966, I; Thè Visions of the Vedic poets, L'Aja, Mouton 1963; V. G. Rahurkar, Thè Seers of thè Rgveda, Poona, University 1964
5 Gayatrì è chiamata una delle più celebri invocazioni al dio Savitri, il cui splendore, simboleggiato dal sole, illumina e stimola la mente e il cuore dell'uomo
6 Le traduzioni citate sono di V. Pisani in Le più belle pagine della letteratura dell'India, Milano, Nuova Accademia 1962. Le due divinità, Mitra e Varuna, sono spesso cantate insieme e denotano il potere ordinatore e creatore dell'universo. Varuna è chiamato re degli uomini e degli dei, onnisciente e onniveggente, custode della legge morale e punitore dei peccati
7 Rg Veda I, 89, 2 (trad. V. Papesse, frinì del Rig Veda, Bologna, Zanichelli 1929)
8 I Brahmano e gli Aranyaka non sono anteriori al IX-VIII sec. a. C. Mentre le Upanishad sono ad essi posteriori e si suddividono in Upanishad vediche e post-vediche: le prime sono considerate "canoniche" e sono in numero di tredici.
Cf la traduzione italiana delle Upanishad a cura di C. Della Casa, Torino U.T.E.T. 1976
9 Rg Veda. X, 90
10 Esse vengono chiamate anche Vedaanta (fine del Veda)
11 Chdndogya Vpanishad, VIII, 1
12 Sulla figura del maestro spirituale vedi il lavoro comparato: Le Maltre spiritual dans les grandes traditions d'Occident et d'Orient, Hermes, n. 4, 1966-67 (Parigi, Minard)
13 Katha Upanishad, II, 20
14 Col termine Sruti si intende la rivelazione vedica
15 I testi epici sono il Mahabharuta e il Rdmayana; i Purdna sono in numero di diciotto, cui si accompagnano Puràna minori o Upa-purana
16 Egli visse, secondo la tradizione, tra l'VIII e il IX sec. d. C.
17 Vissuto nel X/XI sec. d. C.
18 Hymnes de Abhinavagupta, a cura di L. Silburn, Parigi, Institut de civilisation indienne 1970
19 Fiorito nell'XI sec. d. C.
20 Fioriti, rispettivamente, nel XII, XIII e XIV sec. d. C.
21 Vissuto nel XVI-XVII sec. I suoi canti possono essere letti in traduzione francese pubblicati con il titolo: Psaumes du Pelerin, nella Collection UNESCO, Parigi, Gallimard, 1956
22 È la più bassa delle quattro caste indiane, e raccoglie tutti coloro che svolgono mansioni servili o che discendono da essi
23 Su Guru Nanak, vissuto tra il xv e il xvi sec., cf S. Piano, Guru Nanak e il Sikhismo, Possano, Esperienze 1971
24 Gli aforismi dello Yoga, Torino, Boringhieri 1962. Sullo Yoga vedasi anche: M. Eliade, Lo Yoga, immortalità e libertà, Milano, Rizzoli 1973
25 Sul tema mandalico cf G. Tucci, Teoria e pratica del mandala, Roma, Ubaldini 1969
26 Vissuto tra il 1772 e il 1883, fu promotore della eguaglianza sociale e si oppose radicalmente alle distinzioni di casta, alle pratiche cultuali di tipo idolatrico e si avvicinò al cristianesimo cogliendone alcune istanze etiche fondamentali, pur respingendone la parte soprannaturale
27 Si veda la sua autobiografia: La mia vita per la libertà, Newton Compton Italiana, 1974
28 Anche Gandhi, The Message of Jesus Christ, Bombay, Bharatiya Vidya Bhavan 1963, 3
29 1863-1902. Fu dapprima membro del Bràhma-Samàj, poi discepolo di Ramakrishna, dopo la cui morte fondò una comunità monastica ispirantesi ai suoi principi. Fu a lungo in America e in Inghilterra ove tenne conferenze religiose e fece i suoi primi proseliti non indiani
30 Vissuto tra il 1879 e il 1950. Su Ramana Mahàrshi, vedi il recente volume di M. Burgi-Kyriazi, Romana Mahàrshi et l'Expérience de l'Ètre, Parigi, Maisonneuve 1975
31 Una delle sue discepole, detta "la madre", considerata da molti una personificazione della Sakti