La storia della Chiesa

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II. Il mutamento di Paolo III

1. Parlando della cooperazione del papato alla riforma interna nel secolo XVI, e di una riforma del papato stesso, occorre prestare molta attenzione alla portata delle parole: per molto tempo ancora la riforma qui non raggiunge, se non nei suoi prodromi, la vera e propria sfera religiosa, specialmente nel senso della santità.

Si trattava, innanzitutto, di vincere l'incontrastato dominio del fasto mondano nella curia romana e di avviare una restaurazione del giusto rapporto tra religione e civiltà.

Questo mutamento procedette con estrema lentezza.

2. Alla fine, però, l'insostenibilità delle condizioni della Chiesa, specialmente nella curia, nella vita dei vescovi e nella prassi amministrativa in generale, si era fatta tanto evidente, la gigantesca opera svolta nel silenzio da forze interne di riforma aveva assunto tale rigoglio e la pressione dei più diversi circoli di riforma era diventata talmente energica, che il loro influsso si fece decisamente sentire al vertice del governo ecclesiastico.

Ciò accadde sotto Paolo III ( Farnese ) ( 1534-49 ).

Quest'uomo di vasta cultura e doti brillanti, cresciuto nella Roma di Alessandro VI ( prima di diventare papa ebbe tre figli e una figlia ), dalla condotta di vita estremamente mondanizzata e nepotista in grande stile, finalmente si riscosse; favorì i nuovi Ordini sorti negli anni 30: barnabiti, teatini, cappuccini, somaschi, orsoline e, più tardi, i gesuiti ( § 88 ); egli operò nel 1536 quella nomina di cardinali d'importanza superiore ad ogni apprezzamento ( e in seguito ancora per due volte ), mediante la quale fecero il loro ingresso nel supremo senato della Chiesa gran parte delle personalità più nobili e più eccellenti di quel tempo per il loro spirito religioso e morale: Contarmi, Morene, Pole, Carafa, Sadoleto, Fisher di Rochester ( martire ).

( Importante per il successivo sviluppo fu la tensione tra la cerchia rigorista di Carafa e il gruppo irenico del Contarini ).

Da questi cardinali e vescovi ( Giberti ), che il Papa riunì in una commissione ufficiale per la riforma e della quale non faceva parte alcun cardinale di curia ( il famoso « Consiglio per la riforma della Chiesa » del 1537 ), furono redatte importanti proposte di riforma che poi ebbero un'enorme importanza storica.

In esse furono denunciati, con estrema severità, gli abusi annidatisi nella Chiesa di Dio e in particolare « in questa curia romana » e nel clero secolare e regolare, e furono indicate le strade che avrebbero condotto alla riforma: dalla curia dovevano scomparire l'arbitrio e il mammonismo; i vescovi dovevano essere scelti con cura e, affinché fosse possibile una direzione della diocesi, doveva essere fatto loro obbligo della residenza.

Fu dichiarata guerra, oltre tutto, anche all'adulazione cortigiana e alla corrispondente teologia di corte, che sosteneva il curialismo.

Il testo di queste proposte di riforma è impressionante e ancor oggi può servire per un esame di coscienza.

Viene biasimato il fatto che si proclami il papa padrone di tutti i benefici, a tal punto che la conclusione sarebbe: « Poiché il papa vende soltanto i suoi averi, non può affatto commettere simonia ».

Oppure: « Poiché la volontà del papa - qualunque esso sia - è il criterio direttivo delle sue intenzioni e delle sue azioni, ne segue senza dubbio che tutto quello che a lui aggrada è anche permesso … ».

Doveva essere eliminata la prassi di concedere con leggerezza dispense per qualsiasi causa.

Qui troviamo dei casi incredibili come le dispense a « religiosi apostati » o la esenzione del celibato per i detentori degli ordini superiori.

Sempre di nuovo viene bollata la simonia in ogni sua forma e l'abuso di assolvere da essa dietro corresponsione di denaro.

Si condanna la sordidezza del vestire, cosa per noi davvero difficilmente immaginabile, ed anche l'ignoranza dei sacerdoti nella celebrazione della messa in San Pietro.

Vien posto il principio generale autenticamente apostolico, ma che colpì profondamente il mondo della curia d'allora: al papa, vicario di Cristo, non doveva provenire denaro alcuno dall'uso del potere a lui trasmesso da Cristo.

Poiché questo è il comandamento di Cristo: « Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date » ( Mt 10,8 ).

Viene aspramente rimproverata l'assoluta incuria nella formazione dei futuri sacerdoti, da cui poi risultava un abbassamento generale dello stato sacerdotale, con scandali da una parte e disprezzo dall'altra.

3. Roma non aveva mai udito tanto fino a quel tempo.

Ma si trattava pur sempre solo di un programma.

Paolo III, frattanto, aveva preso a cuore anche l'idea d'un concilio generale.

Malgrado tutti gli ostacoli, rimase fedele al progetto ( anche se si dimostrò sempre pericolosamente e talvolta incomprensibilmente esitante ed eludente ) e finalmente, quasi all'ultimo istante - quando già molti dei più zelanti, delusi, avevano perso ogni speranza, - cedette alla forte pressione di forze politiche ed ecclesiastiche e nel dicembre 1545 fece aprire il concilio a Trento.

Nonostante le grandi lacune nella composizione di questo concilio ( § 89 )109 il papato, mediante questa convocazione ha concentrato in maniera decisiva le forze della Chiesa e ne ha assunto ( insieme con il regolamento ) la guida.

Con questo rapporto ci si conformava all'essenza della Chiesa quale noi oggi la riconosciamo dal processo di sviluppo; e soltanto così fu possibile ottenere la vittoria nelle battaglie decisive che sarebbero venute.

Soprattutto, dato il pericolo che allora incombeva ( della debolezza interna della Chiesa e dell'attacco che veniva portato dal di fuori dall'innovazione, che andava notevolmente estendendosi ), questa concentrazione era l'unica soluzione adatta al caso specifico.

Dopo la defezione di Ochino nel 1542, Paolo III, sollecitato dal Carata e da Ignazio di Loyola, istituì l'Inquisizione romana ( § 83,II,7d )un apposito organo centrale romano per la preservazione della fede, con compiti prettamente inquisitori.

Attraverso l'una e l'altro furono soffocati in Italia i primi inizi della Riforma.

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109 Data la tensione politica, non si poteva dar torto ai vescovi-principi tedeschi per non aver voluto abbandonare le loro diocesi e i loro paesi.
Che la Chiesa tedesca non sia stata quasi per nulla rappresentata al concilio, è da imputarsi ai legati pontifici; così come ebbero pochissimo riguardo per la situazione della Chiesa tedesca in genere ( Jedin ), similmente non usarono della facoltà, loro accordata dal Papa, di concedere il diritto di voto ai rappresentanti dei vescovi tedeschi.