L'azione

Indice

La sinergia interiore e la costituzione della vita individuale tramite l'azione

Capitolo III

Qualunque sia in noi la potenza che prende l'iniziativa, dal momento in cui l'atto è consentito, dal momento in cui si compie, una cooperazione intima associa anche le tendenze opposte, e stabilisce una solidarietà effettiva tra tutte le parti del meccanismo fisico e mentale.

Disperdendo lo sforzo centrale del pensiero e della libertà nella confusione dell'organismo, poteva sembrare che l'azione indebolisca in qualche modo e dissipi l'intenzione, senza che questa oscura disseminazione venga compensata.

È quanto appunto ammettono tutti coloro che nella loro condotta considerano solo la decisione iniziale, e si disinteressano dell'esecuzione materiale e delle conseguenze delle loro decisioni.

Sembra loro che la volontà si degradi e si perda nell'oscurità dei movimenti inferiori; sembra addirittura che essa si depauperi e si asservisca, trovando nell'azione consumata un punto d'arresto, una determinazione che esclude l'infinita ricchezza della sua virtualità originaria.

A sentire loro quando agiamo ci rimpiccioliamo, diventiamo un meccanismo, ci sporchiamo le mani.

Ma da un'analisi che svolgeremo risulterà al contrario che l'azione collega in un fascio le forze sparse della vita, per costituire la sintesi organica e per mettere in funzione la mediazione tra tutte le forme dell'attività corporea e spirituale; risulterà che essa arricchisce la volontà, rispondendo al primo movimento centrifugo di espansione con un movimento centripeto il cui ritorno costituisce il ritmo vitale e chiude il circuito della vita individuale.

In tale analisi si dovrà vedere altresì come tutte queste apparenti amplificazioni del volere iniziale vi erano già implicate, senza pregiudicare un'espansione ancora più ampia, la quale porterà l'azione fuori dell'individualità.

I.

Nel nostro organismo complesso vi è unità solo per coesione, e coesione solo per cooperazione.

Forse che quando vengono tese e usate in maniera energica le membra non sono collegate meglio, e i muscoli non sono più invulnerabili che allo stato di riposo e di rilassatezza?

L'azione è il cemento di cui siamo plasmati.

Noi non esistiamo che nella misura in cui agiamo.

L'ozio è una dissoluzione, la morte una decomposizione.

Il fiat della volontà non è soltanto il colpo decisivo che tronca tutte le incertezze del pensiero, che conferisce a una rappresentazione ancora fluttuante e molteplice un'unità, una solidità, una precisione definitiva, che separa radicalmente il presente dal passato e il reale dal possibile.

Essa è anche, sotto una forma particolare e determinata, la funzione generale e per così dire generatrice della vita organizzata.

Infatti in un'azione c'è di più di questa azione; c'è la coesione, la solidarietà, l'unione reale di tutto ciò che essa impiega e di tutto ciò che vi collabora.

Ecco in base a che cosa si spiega l'unità della sintesi e in che cosa si evidenzia l'autentica individualità che le scienze positive non avevano potuto considerare che dal di fuori, come un postulato, ma di cui adesso penetriamo la costituzione intrinseca.

Έν τώ έργω δοκεί είναι τό έν

In effetti l'azione reale non potrebbe essere parziale, divisa, molteplice come possono esserlo il pensiero o il sogno.

Quello che facciamo è fatto. O tutto o niente.

E nell'operazione che aziona gli organi c'è una connessione inevitabile tra le membra.

Poco importa che io sia ancora esitante e combattuto: se agisco, trascino da un lato l'intera macchina.

E tutto il resto segue, per persuasione o per violenza, ma in ogni caso per necessità.

Il sistema organico è interessato al minimo atto cosciente e voluto, senza ambiguità possibile nell'operazione medesima.

Pertanto l'azione ingloba e coinvolge in maniera del tutto naturale le tendenze più opposte.

Essa ne fa un corpo unico, ne fa il corpo.

E siccome forma un sistema armonico di tutto ciò che promuove o sacrifica in noi, non potrebbe essere confinata in un organo, limitata a una funzione, essere parziale con un membro senza recare pregiudizio o risultare ingiusta per gli altri.

Non c'è dunque che un mezzo per contenere, regolare e impiegare le energie diffuse in noi e gli impulsi anche ribelli della concupiscenza: quello di captarli nel sistema di un'attività generale, e di farli convergere, con l'esercizio, all'integrità della vita individuale.

In questo modo il bambino non diventa padrone del suo organismo e non da un ritmo alla sua vita fisica che grazie a un esercizio armonico delle sue membra.

Per dominare i suoi sensi e per ovviare alle mostruosità di una cultura disarmonica, in cui talvolta si rompe arbitrariamente l'equilibrio delle funzioni nervose, ha bisogno di agire, consentendo alle sue giovani energie l'espansione regolata che le conserva nella loro gerarchia naturale.

Anche lo scolaro non forma la sua intelligenza e non mobilita la sua attività mentale che con l'esercizio, un esercizio sistematico delle sue facoltà.

La cosa importante non è dunque solo quella di rilevare l'utilità o la necessità dell'azione, ma di scorgere l'unità che vi presiede e che essa produce necessariamente.

Indubbiamente essa è efficace e normale solo se è una sintesi, ed ecco perché l'educazione fisica e intellettuale deve essere generale.

« Speciale, bestiale », diceva un proverbio scolastico.

L'uomo è uomo solo per la vita universale che c'è in lui.

Ma bisogna capire bene che, piaccia o non piaccia, l'azione possiede questo carattere universale, e per quanto limitata la supponiamo, si attua sempre sub specie universi.

Grazie alla diffusione e alla connessione dei riflessi, l'atto si ripercuote in tutta la sinergia organica.

Pertanto non c'è una ginnastica parziale più di quanto vi sia un'educazione speciale.

In altri termini ogni attività parziale, che uno vorrebbe limitare alla parte interessata, diventa il centro dell'articolazione totale.

Laddove si spererebbe di sviluppare una parte nel senso del tutto, si tenderebbe a fare di questa parte il tutto stesso.

Se la « specialità » rimanesse specialità, non sarebbe del tutto male; il male è che per forza di cose dell'accessorio si fa la cosa principale, rischiando di scambiare una fiaccola per una stella e un atomo per l'universo.

Anche considerando anzitutto solo l'equilibrio delle funzioni fisiologiche, la verità dell'antico e banale adagio « Mens sana in corpore sano » è suscettibile, nonostante le eccezioni apparenti, di una dimostrazione in piena regola.

I biologi come Preyer ritengono che nel neonato coabitano diversi principi d'azione e, per così dire, più anime che bisogna subordinare all' « anima cerebrale ».

E come si potrà stabilire la perfetta armonia dei centri nervosi, se non attraverso un esercizio regolato di tutti gli organi?

Agire solamente con la testa, come i « cerebrali », significa spesso consentire alla bestia di vivere e di crescere in basso, e non soltanto a una bestia, ma a una muta di appetiti malsani e di gusti degenerati.

Meno uno è capace di agire, più diventa sfrenata l'intemperanza dei desideri, perché l'equilibrio tra i sogni e la prassi quotidiana si rompe sempre di più.

« Che importa il corpo », si dirà.

« È una sciocchezza interrogare questo giocattolo; e in qualunque follia mi comprometta, spetta a lui arrossirne di fronte a me! ».

Stolto disdegno. Presto o tardi si stabilisce l'omogeneità, in un senso o nell'altro.

Ed è una pericolosa chimera quella di voler erigere in sé compartimenti stagni.

Pertanto, come nello studio dello sforzo e della resistenza organica non abbiamo potuto separare l'inerzia materiale dall'opposizione psicologica che ne è la vera spiegazione, così afortiori qui, nello studio dell'azione e del ruolo che essa svolge per la formazione dell'individualità, non si potrebbe isolare la sinergia degli organi dall'armonia delle funzioni psicologiche.

I fenomeni corporei che accompagnano ed eseguono le nostre decisioni sono, in un certo senso, più che i segni o i simboli degli stati propriamente soggettivi ai quali corrispondono; si può dire, se interpretiamo bene, che ne sono la realtà medesima.

Quindi l'attenzione diventa più intensa solo se c'è realmente una tensione più grande degli organi.

Mentre nella coscienza c'è irradiazione, in più sensi e a diversi livelli, di immagini, di desideri e di movimenti incoativi, entra in gioco un'azione che, concentrando talvolta violentemente queste energie diffuse, le subordina tutte a un sistema unico, e ottiene la convergenza dei pensieri col concorso delle operazioni organiche, drenando in questo modo tutta l'attività disponibile, per formare col corpo e con lo spirito unicamente uno stesso insieme espressivo.

Perché allora lo sforzo della produzione intellettuale talvolta è così doloroso, più che il parto che lacera il seno, al punto da sembrare che pensare sia contro natura?

Perché per vivere e crescere questo pensiero deve comunicarsi a tutte le parti ribelli il cui concorso è necessario per esprimerlo; perché per raccoglierne gli elementi, come per manifestarne la vita completa, occorre estrarlo da tutte le nostre membra e produrlo attraverso tutti i nostri pori.

Peraltro anche un sentimento, una passione non si ravviva che interessando più largamente e più profondamente l'organismo morale e fisico tutt'insieme.

La memoria è legata alle funzioni di nutrizione; il meccanismo del pensiero è il motore: esso agisce tramite muscoli e sui muscoli.

La realtà degli atti di coscienza consiste negli atti di cui essi ci rendono edotti e che ci consentono di rischiarare e di produrre.

È dunque assurdo pretendere di isolare l'educazione del corpo da quella della volontà o dello spirito.

Come il pensiero che rimane estraneo alla prassi militante della vita resta vuoto e illusorio, allo stesso modo lo sport che non è altro che sport distrugge l'equilibrio naturale e l'integrità dello sviluppo umano.

Come la ginnastica produrrebbe dei mostri se esercitasse solo un membro, allo stesso modo la cultura, anche la più scientifica, dello spirito e del corpo finirebbe unicamente in una bancarotta per l'uno e per l'altro, se si occupasse separatamente dell'uno e dell'altro.

Nel gioco è il gioco, più che l'esercizio, a essere salutare e a risollevare l'energia affievolita.

Nel lavoro la resistenza fisica è il segno, il prezzò, il sostegno della forza interiore di una volontà abituata a passare oltre.

La vita rude del contadino è meno utile alla nazione per gli alimenti che le procura che per la forte fibra del temperamento e del carattere che il contatto con la terra conferisce all'uomo.

E se bisogna onorare questi membri attivi che accudiscono coraggiosamente alle mansioni necessarie, è perché nella forza, nella bellezza e nella salubrità del lavoro corporeo essi esprimono e operano al tempo stesso il risanamento morale, la pacificazione interiore, il vigore della volontà.

Dunque non è certo risparmiando le nostre forze che le preserveremo meglio e ne otterremo il maggior rendimento.

Non bisogna ragionare come per una bestia da soma, limitata ai movimenti dell'istinto, o come per una terra che si esaurisce quando nutre la pianta prodotta.

Indubbiamente nella vita animale ogni dispendio usura e impoverisce l'organismo, e l'esaurimento dei sensi ne sovreccita la suscettibilità e le esigenze malsane.

Pertanto è triste sentire che i movimenti della vita superiore restano soggetti al ritmo delle funzioni organiche.

Tuttavia nella misura in cui l'attività volontaria pervade e domina le potenze del corpo, ne ricava un vantaggio.

Essa vi trova un'eco in questa ragione immanente che può provocare le esigenze infinite della passione, ma può anche rispondere con un'inesauribile generosità all'appello dell'eroismo.

È una tattica sbagliata quella di cedere alla rilassatezza, di ascoltarsi, di prendersi con le molle.

Solo usando la nostra energia, proprio quando sembra che la sacrifichiamo e la mortifichiamo, la reintegriamo e l'amplifichiamo.

In questo campo dell'azione volontaria più si spende, più si possiede.

Caro operando deficit; spiritus operando proficit.45

Come il chirurgo, che durante l'operazione rimane impassibile di fronte al sangue perché sta operando, mentre talvolta non ne potrebbe sopportare la vista se fosse uno spettatore passivo; come il soldato che nella foga della lotta non avverte di aver già ricevuto parecchi colpi mortali; come lo scienziato o il mistico in estasi, trasportato nella contemplazione alla quale è appesa l'intera sua vita, sembra un paradosso fisiologico in quanto assorbe tutte le funzioni animali nell'unità di un pensiero o di un sentimento, così non c'è limite assegnabile alla cooperazione del corpo, alla sua forza di resistenza, alla sua potenza morale, perché l'azione lo unisce e lo solleva all'inesauribile fecondità della ragione e della libertà.

La migliore igiene non è quella di aver cura del corpo mediante il solo corpo; e nello stesso ascetismo si ha un principio di ringiovanimento, di salute e di vigore.

Arcum frangit intentio, corpus remissio.

In tal modo dunque, se una decisione è completa e sussiste solo impegnandoci e plasmandoci interamente, a sua volta l'azione, grazie a un progresso della volontà iniziale nell'organismo, partecipa dell'integrità e della forza dell'intenzione superiore da cui procede.

Per usare in questa sede, senza alcuna pretesa metafisica, le buone espressioni antiche, nonostante le distinzioni artificiose da esse favorite, è tramite l'azione che l'anima prende corpo e che il corpo prende anima; essa ne è il vincolo sostanziale, e ne forma un tutto naturale.

In noi la trascendenza implica l'immanenza.

La gente ha quindi ragione quando in maniera del tutto ingenua parla materialmente delle affezioni morali, quando per lei la persona è l'unità indistinta di una vita corporea e spirituale a un tempo.

« Il cuore, la testa », non si tratta soltanto di metafore atte a designare la generosità del carattere o la fermezza dello spirito, ma è l'espressione di una realtà sperimentata quotidianamente.

Non ci si meravigli del culto reso a un cuore che ama.

L'incarnazione del pensiero e del sentimento è una verità umana, la verità non è umana che incarnandosi.

In sintesi l'azione, qualunque essa sia, scuote e mette in azione tutta la macchina.

Dal momento in cui l'operazione voluta si compie in noi, c'è di fatto sinergia e concorso.

È una sintesi vivente.

Quante idee e sentimenti possiamo mettere in un atto assolutamente semplice e rapido, in una stretta di mano!

Ora questa unità degli atti ha come corollario necessario la solidarietà della vita fisica e della vita morale.

L'azione fa partecipare l'organismo materiale all'intenzione che l'anima, come pure fa riflettere nei nostri stati di coscienza le abitudini del corpo, e associa strettamente questo corpo ai movimenti del pensiero, tanto da farne uno strumento sempre più vibrante e docile ai tocchi segreti della volontà.

Ma adesso bisogna comprendere come questo determinismo in apparenza brutale, che sembra escludere tutti gli atti possibili eccettuato l'unico compiuto, e pare condannare la volontà a un duro assoggettamento, invece è per essa un mezzo di conciliazione e di liberazione.

II.

Dal momento in cui è stata presa la libera decisione, essa si è trovata subito afferrata da un ingranaggio che a poco a poco l'ha trasformata.

Infatti la decisione per rimanere sincera ha dovuto impegnarsi nell'esecuzione.

L'esecuzione esige sforzo.

E nello sforzo indispensabile all'operazione volontaria è apparsa una nuova necessità ancora: l'azione può prodursi solo suscitando una lotta intestina e uscendo vincitrice fin dall'inizio sul sistema antagonistico che si è formato contro la sua iniziativa.

Quindi per forza di cose l'operazione nel momento in cui si compie investe l'insieme organico e mentale.

E se è vero che questa unità totale ed esclusiva dell'atto contribuisce alla dipendenza mutua del « corpo e dell'anima », ciò non avviene a detrimento della ricca varietà del pensiero o dell'infinita potenza della libertà? No.

Assoggettando la volontà all'angusta ristretta semplicità di un esito unico, l'azione costituisce per essa la via dell'espansione e dell'arricchimento.

Un grande sforzo da fare, una decisione virile da sostenere producono un sentimento di rinascita e di lucidità più vivo.

Finché non si agisce, non ci si conosce.

Vivere e pensare come in un sogno, come in un breve istante di lucidità tra due periodi di sonno, senza avere sufficiente stimolo ad alzarsi, ad aprire gli occhi, a vedere e camminare non costituisce forse l'unico atteggiamento che abbiamo dovuto condannare decisamente fin dall'inizio, perché è contrario al movimento più genuino e fondamentale della nostra natura?

Ora come conoscere tutto ciò che si agita nel nostro universo interiore, come sapere se si ha un'attenzione abbastanza lucida, un'intenzione abbastanza precisa, un ardore abbastanza vivo, una volontà autentica?

Ma appunto non c'è bisogno di saperlo in via previa.

La garanzia e il criterio della sincerità è l'atto, il quale tronca le incertezze e manifesta i segreti più intimi che ignoriamo e nascondiamo a noi stessi.

Esso quindi è una rivelazione sul nostro stato profondo.

Manifestando il male cui siamo inclini, persino le mancanze possono servire come avvertimento premonitore e corroborante.

Ogni caduta deve essere una promozione.

Di solito le azioni sono in anticipo rispetto al bene che sembrano rivelare in noi ancor prima che vi si sia acclimatato, e sono in ritardo rispetto al fondo malvagio di cui paiono essere una manifestazione eccezionale, anche quando esso è abituale.

Questa scoperta è tanto più importante in quanto è in contraddizione con l'idea illusoria del nostro merito.

Pertanto è osservando i nostri atti, più che i nostri pensieri, che dobbiamo sperare di vedere quali siamo e di farci quali vogliamo.

Come si getta il solcometro nell'acqua profonda per misurare la velocità della nave, così le azioni che emergono dalle profondità della vita inconscia devono servirci per studiare le correnti che ci trascinano, talvolta a nostra insaputa.

Dandoci una lucida coscienza di ciò che vogliamo e di ciò che siamo, l'atto è per noi un segnale e un aiuto, come le figure geometriche aiutano il pensiero astratto con la rappresentazione materiale.

Esso ci fornisce una definizione concreta dell'idea che esprime.

E come ogni percezione distinta è una specie di cibo che accresce la nostra forza, la vista di ciò che facciamo è per noi un incoraggiamento, talvolta un entusiasmo e un'ebbrezza, come per Scevola il suo atto di singolare eroismo.

Prole audacior actus. Si può dire che c'è un'azione dell'azione.

Se si incontrano dei timidi che il solo suono della loro voce terrorizza, altri non pensano mai così bene o non pensano che parlando forte e chiaro.

Talvolta addirittura agire per agire è un rimedio utile a coloro che non ne hanno altri, come certe cure che sono superflue per la persona morente ma sono salutari per coloro che la circondano.

L'azione non soltanto serve a rivelare ciò che in noi è la cosa più forte, e talvolta persino ciò che è più forte di noi, ma spesso costituisce altresì un centro solido, nell'indifferenza e nella confusione degli stati inferiori, il quale diventa come il nocciolo del carattere.

Quante volte vogliamo solo dopo aver agito e perché abbiamo agito!

La vita del bambino alterna desideri opposti e movimenti capricciosi.

Egli costruisce e distrugge, e ben presto si stanca di tutto: è un'anarchia vivente.

Perché in lui si organizzi un sistema, e le sue forze si raccolgano in un fascio, occorre che impari a seguire decisamente una delle sue tendenze escludendone altre.

L'educazione deve aiutarlo a questa cristallizzazione, come il filo che affonda nel bagno di zucchero candito.

Dargliela sempre per vinta, non contraddirlo e non rifiutargli niente significa rovinarlo sistematicamente, significa rendergli incomprensibili i suoi desideri.

Egli finisce per non sapere più ciò che vuole.

Desidererebbe desiderare, e si irrita perché non lo deve più fare e non lo può più fare.

Per ottenere questa unanimità interiore l'atto ha un'efficacia perentoria.

Per conoscere, nello sconcerto dei sentimenti, la ferma decisione cui si arresta la volontà, non abbiamo che da chiederci se con tutta la calma della riflessione compiremmo un'azione semplicissima, da cui dipenderebbe ciò che abbiamo deciso, abbandonandoci per esempio a colui al quale vogliamo obbedire e al quale ci affidiamo con una promessa di sottomissione o con una carta in bianco.

Proprio perché l'azione manifesta, fissa, conferma e produce persino la volontà, essa serve di garanzia alle promesse ed è come la sostanza degli impegni irrinunciabili. Ciò che suggella il contratto, ciò che stringe il vincolo nuziale, ciò che consacra il diacono, è una firma, una parola, un passo, ossia sempre un atto che domina con la sua unità decisiva tutte le divisioni intestine, e che impegna per sempre tutte le potenze probabilmente ancora incerte o esitanti.

È letteralmente un bruciare le proprie navi. Si può sempre agire, per quanto poco ciò implichi e per quanto ci si senta combattuti.

Questo esiguo principio di iniziativa che, se vogliamo, è invincibile, diventa come la leva della nostra liberazione.

Infatti appoggiati alla solidità di ciò che è fatto, e come avendo alle spalle il muro superato, siamo passati dalla difensiva all'offensiva.

L'azione è una conquista.

In tal modo agendo riusciamo a volere ciò che, a quanto sembra, dapprima non potevamo volere, ciò che non volevamo veramente per mancanza di coraggio e di forza, ciò che vorremmo volere.

Infatti determinandoci a volere, non sempre seguiamo l'ultimo giudizio dell'intelletto.

Ma volendo, subiamo sempre l'influsso di tutte le nostre inclinazioni e delle nostre abitudini.

Parlando correttamente, noi non vogliamo volere, perché si potrebbe dire ulteriormente che noi non vogliamo volere volere, e ciò all'infinito.

Noi vogliamo agire e fare, ossia la volontà si offre a se stessa solo nella figura di un uso determinato.

Bisogna dunque prendere una scappatoia e usare destrezza; e di solito solo con azioni volute noi contribuiamo indirettamente ad altre azioni volontarie.

In tal modo, per quanto non si possa sempre giudicare o volere ciò che si vuole, è sempre lecito ottenere che si giudichi o si voglia col tempo ciò che si preferirebbe poter volere o giudicare oggi.

In questo lavoro della conversione o della perversione impercettibile vengono adibiti mille espedienti per far proprio un motivo d'azione dominante fino al punto da ritrovarlo del tutto naturalmente in noi stessi.

Come per Francesco Borgia, che volendo smettere il vizio di bere faceva cadere ogni giorno una nuova goccia di cera nella sua coppa.

Le astuzie anche puerili, i piccoli sotterfugi, le promesse allettanti, le minacce, i falsi scopi, la fuga, tutto giova a seconda delle circostanze per governare la bestia, il bambino e l'uomo che ognuno porta in sé.

Non bisogna parlare a tutte le nostre potenze lo stesso linguaggio, proprio come il capo di famiglia non comanda allo stesso modo agli animali, ai servi, ai figli e alla moglie.

Ma da tutti si deve esigere lo stesso concorso, perché nell'azione occorre potersi fidare di tutti.

In effetti voler agire significa lasciare le briglie a quelle forze infinitesimali che ci guidano più di quanto noi guidiamo loro.

Come negli affari di uno Stato, in noi molti affari vengono espletati tramite agenti che non vengono resi noti.

Ed è duro vedere che nonostante tutta la nostra circospezione siamo guidati da disposizioni momentanee che è impossibile calcolare in anticipo, con sicurezza.

Dopo le più prolungate deliberazioni, la decisione è sempre opera di un istante.

Poi, una volta superato questo punto critico, l'atto svolge senza fine e senza ritorno le sue conseguenze, quali che siano le fluttuazioni che l'hanno preceduto.

In tal modo, poiché la volontà si propone non di volere ma di agire, quanto è importante che questo stesso agire sia già una forma genuina del volere!

Per questo è prudente esercitarsi in anticipo nella lotta, provocare alla battaglia quegli avversari segreti finché sembrano indeboliti e smascherati, abituarsi a vederli come sono, prima del momento delle sorprese e delle illusioni.

È bene prevedere, analizzare e far funzionare tutte le passioni e tutti i vizi, - tranne uno, quello appunto che si rende principale o unico alimento della curiosità, dei romanzi o degli spettacoli!

Così, mentre ci si sforza di plasmare sentimenti generosi o di affrontare decisioni che ripugnano alla pusillanimità, li si imprime a poco a poco fin nella macchina organica con una specie di ipnotismo e di suggestione insistente.

Anche quando non sentiamo tutto ciò che diciamo o facciamo, quando non abbiamo che un desiderio di autentici desideri, quando le parole e gli atti procedono dall'abbondanza del cuore meno che da una costrizione arida e ripugnante, ciò produce un effetto, scende a poco a poco nella realtà della coscienza, diventa la nostra vita.

Talvolta sembra che vi sia mancanza di sincerità nel richiedere ciò che si teme, e nel fare ciò che è ancora odioso.

Ma purché la volontà, nel suo estremo di superiorità e di impassibilità, ratifichi l'espressione del desiderio che non si prova o la violenta brutalità dell'atto cui essa è contraria, ciò basta.

Viceversa è sufficiente che questa volontà superiore trovi una eco docile in ciò che vi è di più meccanico e di più bruto, perché contenga a poco a poco e domi tutte le ribellioni della vita media.

Noi possiamo tenere a freno le nostre membra anche quando non possiamo fissare i nostri pensieri e i nostri desideri.

Come per assediare una piazzaforte la si circonda di trincee convergenti, così la volontà nel tentativo di raggiungere la perfezione del suo libero movimento attraverso le resistenze accumulate usa una tattica a due tempi: siccome è più facile comandare agli ingranaggi del meccanismo animale che alle disposizioni interiori, spesso la generosità spontanea del sentimento si insinuerà nel cuore tramite l'operazione materiale, e dal cadavere smosso la vita risalirà allo spirito.

È quindi a torto che talvolta si sono opposti due metodi di formazione dell'uomo, quello che fa produrre il frutto degli atti dalle affezioni segrete e intime come dalla sola radice feconda, e quello che fa germogliare le disposizioni interiori dalle azioni stesse come da un seme.

Si tratta di un unico e medesimo metodo, proprio come il frutto non è altro che il seme.

Indubbiamente è necessario dapprima che l'intenzione abbia attinto la sua linfa nelle pieghe più profonde della vita soggettiva.

Ma abbiamo già visto per quali canali sotterranei scorre l'acqua che zampilla alla luce della riflessione.

E l'azione voluta contribuisce precisamente ad abbeverare queste sorgenti più lontane.

Infatti, se ci si aspettasse che l'armonia interiore e la pace si facessero automaticamente, si andrebbe direttamente contro l'aspirazione più genuina della volontà.

Chi non fa è sconfitto.

Non basta quindi volere semplicemente, quando si può e come si può, perché non si vorrebbe per molto tempo.

Siccome ogni azione che passa alla fase di esecuzione fa ricorso necessariamente a una costrizione per raccogliere e collegare le forze sparse; siccome essa è il segnale di una guerra civile in cui vi sono dei morti e dei feriti; siccome noi non andiamo avanti se non schiacciando in noi e sotto i nostri passi un'infinità di vite, la guerra è dichiarata qualunque cosa facciamo.

E se non prendiamo noi l'offensiva contro i nemici della volontà, sono loro che si coalizzano contro di essa.

Bisogna battersi. Chi fugge la battaglia, per forza di cose perderà la libertà insieme alla vita.

Anche nei migliori vi sono tesori di malizia, di impurità e di passioni meschine.

Non dobbiamo lasciare che queste potenze ostili si coalizzino in abitudini e in sistemi; dobbiamo dividerle per l'offensiva.

Bisogna sforzarsi di unire le forze leali contro l'anarchia prima che venga il tempo delle coalizioni, delle complicità e dei tradimenti.

A priori tutto sembra così facile! Ci crediamo armati contro le spinte pericolose.

Ma ci imbattiamo mai proprio in quello che avevamo previsto?

E il fattore inatteso decide quasi sempre di tutto.

Pertanto, per cautelarsi dalla vertigine dell'ultimo istante e dai sofismi della coscienza travestita, i quali dimostrano che quell'atto è permesso o quel piacere è legittimo, bisogna abituarsi a prendere l'iniziativa e a fare ben altro che evitare ciò che non si deve fare.

Bisogna poter rispondere con la forza dell'esperienza pregressa: « anche se questo è legittimo, io voglio privarmene ».

Dunque contro i movimenti involontari non è sufficiente volere, perché si resterebbe sorpresi e la stessa volontà verrebbe meno.

Non è neppure sufficiente resistere, perché si sarebbe vinti.

Occorre agire direttamente contro il nemico senza attenderlo, occorre provocarlo e suscitare con la lotta stati di coscienza nuovi, in modo da domarlo preventivamente e da captare fin nella sua scaturigine la fonte delle spinte rivoluzionarie.

Agere contro. L'azione voluta è il principio dell'azione sempre più volontaria e libera.

E non è mai un'impresa conclusa o una conquista consolidata.

Questa costruzione vivente è continuamente instabile, quasi sul punto di disperdersi.

Bisogna dunque sempre riscaldare con un soffio nuovo questi alleati pronti alle defezioni, e concentrare il calore dell'anima per così dire in un fuoco, in modo da fondere insieme tutti gli elementi necessari all'atto, il quale non può essere fuso in un solo blocco.

Il fatto di aver agito non esonera dall'agire: nella vita morale non si vive di rendita.

Pertanto si capisce che quando vogliamo agire perseguiamo, instaurando un circuito, il progresso della volontà medesima.

Macinando il grano duro dell'azione comandata implacabilmente, si ottiene il cibo delicato e nutriente della libertà.

III.

A uno sguardo superficiale sembrerebbe che la necessità di racchiudere l'intenzione nell'angusta lettera di un atto, e di escludere così tutte le altre alternative che si prospettano alla magnifica vivacità del pensiero, non sia che intralcio e schiavitù.

Ma uno sguardo più penetrante coglie in questa accaparratrice gelosia dell'azione solo un istinto segreto della volontà e un intento di pace, di concordia e di unità.

Essa ci aiuta in maniera morbida, insinuandosi impercettibilmente, a volere ciò che vogliamo volere.

Coordina e disciplina tutte le energie, raccoglie le tendenze contrarie in una forza composita, e orienta verso il fine voluto tutto ciò che in noi si può convenire a essa.

Fa passare all'atto anche ciò che è opposto alla volontà dichiarata.

Non omettendo nulla, e nella sintesi che essa forma con tutti gli elementi della nostra vita complessa, li ingloba e li coinvolge come in una rete invisibile.

L'atto volontario, nel momento stesso in cui pare materializzarsi e restringere la volontà, viceversa la dilata e in qualche modo l'arricchisce.

Anima operantium impinguabitur.

La prassi riesce a compiere, senza soluzione di continuità e senza pretese, quel prodigio rispetto al quale falliscono le speculazioni astratte: unisce in una nuova sintesi le tendenze opposte, le quali sono tutte, vittoriose e vinte, rappresentate, riformate, trasformate nell'atto compiuto, perché c'è inevitabile solidarietà, solidarietà congruente con l'aspirazione della volontà tra parti che potrebbero essere indipendenti solo in un chimerico stato di indifferenza completa o di riposo assoluto.

Indubbiamente agire significa tenere a freno certi desideri, mortificare certi organi per dare soddisfazione e per vivificarne altri.

Ma non per questo il movimento combattuto e respinto è perso.

Esso serve a modificare e a precisare il movimento prodotto.

E soprattutto contribuisce ad arricchire con una specie di bottino conquistato la volontà vincitrice.

Abbiamo appena mostrato il sacrifico apparente preteso dallo sforzo, dalla lotta e dalla stessa vittoria; ma in fin dei conti bisogna comprendere il guadagno reale di questa mortificazione, anche per il fattore vinto.

In effetti l'azione non è come un'analisi logica dei motivi, nella quale con una scelta esclusiva della libera decisione si considerano le idee separate nella loro purezza e nella loro irriducibile opposizione.

Essa non è neppure una conciliazione astratta dei contrari nella regione dei possibili, e ancora meno uno sviluppo di forze incoerenti che si disseminerebbero a raggiera nell'organismo inabissandosi nell'inconscio.

È invece una concentrazione sistematica della vita diffusa in noi, è una presa di possesso di sé.

Rivelando ciò che si agita oscuramente nelle profondità ignote della vita, porta alla luce e raccoglie in un fascio visibile quei fili impalpabili che formano il reticolo dell'individualità.

È come un rete gettata in mare aperto: le maglie della rete ritornano chiudendosi e diventando sempre più cariche.

Grazie all'azione dunque il meccanismo vitale si mantiene e si rinsalda.

Tale meccanismo, formato da un assemblaggio di parti, ottiene la coesione solo col concerto ideale delle funzioni.

Grazie all'azione la diversità delle tendenze antagonistiche, senza essere abolita, si fonda su un accordo meno effimero, e si opera ciò che le scienze naturali chiamano l'ontogenesi, ossia l'evoluzione particolare, e per così dire circolare e chiusa, di ogni individuo.

Che cosa bisogna intendere in effetti con questa conciliazione dei contrari di cui l'azione diventa il principio?

E in questo caso che cosa sono i contrari?

Questo: dei motivi differenti, che con la riflessione si erano liberati dall'automatismo psicologico.

Ora la decisione, costretta ad adottarne uno escludendo gli altri, ne ha fatto degli avversari in apparenza irreconciliabili, perché occorre che tutti cedano il passo davanti a quello preferito.

Ora che cosa si propone la volontà, e che cosa la induce all'azione?

È l'intento di ritrovare se stessa attraverso gli ostacoli che, separandoci per così dire da noi stessi, le impediscono di essere già ciò che essa vuole, e di andare liberamente verso ciò che vorrebbe volere e ottenere.

Quindi le tendenze contrarie alla volontà in atto rappresentano in noi questa barriera provvisoria e mobile che noi desideriamo abbassare e arretrare a poco a poco davanti ai progressi della libertà maturata.

E se l'azione coinvolge nella sua unità violenta le potenze recalcitranti, ciò avviene proprio perché esse sono la posta in gioco di questa volontà futura, e vi si raccolgono impercettibilmente.

Pertanto in ciò che sembra assolutamente opposto al nostro volere presente vi è un segreto elemento di conformità con questo volere medesimo.

Ciò che blocca e contraddice l'azione al suo inizio troverà un impiego nuovo nell'azione realizzata.

E dal sacrificio apparente richiesto dalla mortificazione naturale dei desideri compressi si avrà come risultato il guadagno reale che la conversione dei moti ribelli apporta alla volontà.

In tal modo diventa intelligibile la forma dapprima paradossale della crescita della volontà.

Sembrava che per entrare in esercizio la volontà dovesse necessariamente restringersi.

Adesso è palese il senso di questo determinismo.

E osserviamo bene che qui poco importa l'orientamento delle intenzioni che si qualificano buone o cattive.

Infatti, sia esso buono o cattivo, l'atto persegue lo scopo in tutta la sua genuinità.

Nessuno si sottrae alle conseguenze di una decisione che ferisce il proprio sentimento del giusto; ma in seguito sarà la stessa persona che giudicherà?

Sì, la stessa persona, ma trasformata dalla sua condotta, abile nell'assolversi, di solito incapace di accusarsi o di emendarsi.

Peccato davvero che le conseguenze della nostra iniziativa siano determinate dai fatti e non dalle giustificazioni!

Se almeno la vita fosse un calcolo che si potesse rifare una seconda volta.

Ma ciò equivarrebbe a credere che si correggerà una sottrazione sbagliata facendo un'addizione giusta.

Nell'azione manchevole c'è una terribile costrizione che dapprima può cambiare un uomo onesto in una persona furba, e poi può riconciliarlo con questo stesso cambiamento, per la semplice ragione che una nuova colpa si prospetta alla sua coscienza come la sola cosa buona ormai per lui.

- Questo determinismo è analogo sia nell'opera della perversione sia in quella della conversione.

Occorre prestare attenzione esattamente a questa necessità inerente agli atti.

I « contrari » sono dunque il costo previsto e la posta in gioco prospettata alla volontà.

Quando si agisce è in gioco non solo la volontà dichiarata che ottiene la vittoria in ciò che ha voluto, e che si afferma manifestandosi così come era, ma anche la volontà che ottiene la vittoria in ciò che non voleva, e che estrae dalle stesse resistenze l'oscuro desiderio che cospirava non essa.

Essa quindi non si nutre solo della propria sostanza e sul campo acquisito, ma anche della sostanza dei suoi avversari e sulle terre conquistate.

Restituendo alla vita spontanea alimenti già digeriti e vivificati, essa opera una specie di transustanziazione, nella misura in cui grazie a essa la legge dello spirito pervade la legge delle membra.

Pertanto i progressi migliori e più profondi sono spesso quelli meno avvertiti, perché fanno davvero corpo con noi.

La cosa importante è regolare con diligenza il senso dei dettagli usuali, il corso quotidiano della vita.

Infatti nelle circostanze decisive noi siamo ciò che siamo stati, e cambiarne con grossi biglietti la moneta spicciola che bisogna accumulare pezzo per pezzo.

L'individualità umana è dunque una sintesi insieme organica e psicologica, e questa sintesi è il risultato di una sinergia.

È così che si determina la vita individuale, si profila il carattere, e la persona riceve la sua forma sostanziale, perché talvolta anche un solo atto è sufficiente a trasformarla.

Penetrando grazie all'azione in questo mondo oggettivo che porta in sé, il soggetto gli comunica la propria vita.

E, riprendendo per così dire la trama del lavoro per completarlo, come quando si riprende il filo per bloccare la maglia di un tessuto, egli raccorda i fenomeni ancora esteriori e fluttuanti alla realtà intima della volontà, offrendo loro la possibilità di partecipare alla solidità della riflessione e della libertà.

Di modo che ogni atto è all'origine un'unità indivisibile nella quale l'iniziativa umana e il contributo dell'universo si incontrano.

Così le due forme di fenomeni di cui avevamo già esibito la relazione scientifica, i fatti che la coscienza si rappresenta come oggettivi e i fatti la cui trama costituisce la vita propriamente soggettiva, si uniscono per formare una realtà nuova.

Completandosi reciprocamente, la volontà prende corpo e si incrementa nell'oggetto in cui opera, e i fenomeni, ancora estranei alla vita inferiore, assumono anima e coscienza nella volontà che li impiega in vista dell'azione.

La libertà, che all'origine era solo immune dalla necessità antecedente, immunitas a necessitate, diventa una volontà piena e padrona di sé, una volontà che sa e può volere, una volontà liberata a poco a poco da ciò che le impedisce di vedere, volere e fare, una libertà più libera, immunitas a servitute, liberum consilium.

Nel sentimento indistinto di questa conciliazione arricchente bisogna vedere il segreto del piacere, frutto dell'azione.

C'è piacere quando un elemento estraneo si incorpora all'organismo, quando l'organismo stesso partecipa maggiormente alla vita soggettiva, quando grazie a un movimento di concentrazione dal di fuori al di dentro l'energia centrale e la volontà risultano accresciute, comprese, obbedite.

Ecco perché il piacere si aggiunge all'atto, non per renderlo perfetto, ma per testimoniare che è perfetto, ossia che un circuito si è appena chiuso, che c'è un ritorno o uno sbocco nell'attività.

Ecco anche perché il piacere, nel momento stesso in cui funge da ricompensa, serve anche da incoraggiamento, da forza e da attrattiva per l'azione.

Infatti sembra che nel piacere la volontà ritrovi se stessa.

Essa si raccoglie attraverso l'oggetto che assimila a sé, come se, rimanendo ovunque presso di sé, dovesse costituire il vincolo universale, e rendere sottomesso e immanente a se stessa il mondo intero che si compendia nella nostra vita.

Ma anche qui si rivela l'inconsistenza necessaria e l'insufficienza incurabile di questa vita individuale, per quanto il suo sviluppo circolare appaia saldamente stretto in un nodo.

Se l'azione concilia le tendenze ancora incoerenti e procura questo benessere che nasce da una crescente armonia, questo stesso sentimento è l'indice e il principio di un movimento che rinasce.

È una fine, ma anche un nuovo inizio.

Il determinismo dell'azione la porta sempre al di là.

Infatti nello stato passivo che fa seguito all'iniziativa volontaria riappaiono le contrarietà talvolta dolorose e l'incompatibilità dei desideri o delle affezioni che già prima avevano suscitato la decisione e lo sforzo.

Infatti non è certo tutto d'un colpo che in noi l'azione unisce tutto, converte tutto, pacifica tutto.

Essa stessa, prendendone coscienza, rompe l'equilibrio che aveva ristabilito.

Le radici tagliate germogliano di nuovo, i bisogni soddisfatti rivivono, la volontà divenuta più forte e più estesa non soltanto aspira a restare padrona del terreno conquistato, ma a estendere i suoi successi: chi non avanza più indietreggia.

Non si smonta una macchina durante il suo funzionamento.

In tal modo, perché si conservi e si confermi l'unità dell'individuo, occorre che un'assidua cooperazione associ le sue forze, e che l'equilibrio perennemente minacciato sia di continuo restaurato, come in una marcia, la quale di fatto non è altro che una caduta sempre bloccata.

Si è molto discusso sull'idea di sostanza: ricondotta a ciò che in questa sede ne evidenzia l'analisi, la sostanza dell'uomo è l'azione, ciò che egli fa.

Έν τώ έργω τό όν.

Noi non siamo, non conosciamo, non viviamo che sub specie actionis.

Non soltanto l'azione manifesta ciò che eravamo già, ma essa ci fa anche crescere e ci fa, per così dire, uscire da noi stessi.

Di modo che dopo aver studiato il progresso dell'azione nell'essere, e il progresso dell'essere per mezzo dell'azione, occorre ormai trasferire fuori della vita individuale il centro di gravita della volontà coerente con la legge del suo progresso.

Nella cerchia dell'universo che portiamo in noi, in mezzo a questa lotta intestina delle tendenze refrattarie alla piena coscienza e alla volontà, l'azione non è adeguata alle sue condizioni totali.

Essa non è l'espressione integrale e definitiva della vita unificata, utilizzata, armonizzata nella sua interezza.

Ora la sproporzione dell'azione rispetto alla causa efficiente è esattamente ciò che fa sorgere e spiega la causa finale: si va avanti soltanto se, indietro o sul posto, non si è in una condizione di sicurezza o di sufficienza.

È dunque la pienezza della nostra volontà originale che rende conto della nostra esigenza inappagabile e ci proietta sempre più lontano.

Άνάγκη ού στήναι.

Pertanto non si agisce tanto per agire, e senza proporsi uno scopo.

Nella sterminata varietà degli oggetti che essa sembra perseguire come uno scopo esteriore e superiore, ma che in realtà ingloba e domina, la volontà cerca sempre se stessa.

Come la libertà formale non aveva preservato la sua autonomia che imponendosi l'eteronomia di un'obbligazione pratica e di uno sforzo, così allo stesso modo la persona non nasce nell'individuo, non si costituisce e non si conserva, che assegnandosi un fine impersonale.

È questa la grande verità di cui vi è una percezione nel sentimento popolare.

L'uomo non è sufficiente a se stesso, ma è necessario che agisca per gli altri, con gli altri e tramite gli altri.

Non è possibile sistemare da soli gli affari della nostra vita.

Le nostre esistenze sono talmente collegate che è impossibile concepire una sola azione che non si estenda, con ondulazioni infinite, ben al di là del fine cui sembrava tendere.

Le azioni più insignificanti possono arrivare, assai lontano, a sconvolgere una vita oscura, a far uscire uno sconosciuto dal suo egoismo, e a provocare colpe o dedizioni che nel loro insieme concorrono a creare la tragedia umana.

La coscienza individuale, che lo sappia o no, è una coscienza dell'universale.

Pertanto, dopo aver mostrato che il dovere esiste e che la volontà deve agire, ότι έστιν, a poco a poco emerge ciò che la volontà deve essere e fare, ό έστιν.

Non che adesso occorra fare appello alla buona volontà: anche in questa sede si vuole semplicemente scoprire il determinismo dell'azione volontaria.

Si tratta di avviarlo al suo termine necessario, una volta poste le premesse così come sono state poste.

La zizzania cresce come il buon grano.

Egoismo e disinteresse seguono la medesima legge, per quanto l'applichino differentemente: noi non possiamo mai bastare a noi stessi.

Per riuscire a essere meglio e più completamente uno, non dobbiamo e non possiamo restare soli.

La volontà dunque tende normalmente a un fine che sembra esserle esteriore; essa si espande.

Da sintesi che già era diventa l'elemento di una società più ampia di noi.

In effetti in noi stessi ci imbattiamo in una molteplicità e in un contrasto di desideri che non possiamo armonizzare tutti, perché come i pezzi spaiati di un intarsio aspettano i pezzi complementari per combaciare.

Come dunque lavorare per tutto noi stessi, e soprattutto per quello che in noi sfugge alla coscienza distinta e alle decisioni esplicite, se non consacrandoci a qualche opera il cui interesse è troppo generale per non oltrepassare i calcoli riflessi?

L'amore integrale di sé deve perdere terreno e annegare nell'oceano dell'io.

C'è in noi un sentimento oscuro e permanente di tutte le vite estranee alla nostra, di queste vite che tramite la conoscenza vi si sono concentrate per alimentare e sostenere la nostra attività.

Volentieri siamo propensi a credere che da queste profondità si sollevi la nebbia che vela sempre a metà la coscienza, a ritenere che rompendo ogni legame con le nostre origini ci apparterremmo maggiormente.

E ci sembra che avremmo tutto da guadagnare a rifiutarci a chiunque.

No, senza questo impersonale percepito vagamente noi non ci vedremmo, come in un cristallo trasparente.

L'egoismo ci acceca. Noi ci possederemo meglio se usciamo dalla vita individuale, e ci leghiamo non a noi ma ad altro.

Il bambino vive ancora soltanto per sé; e perciò non è ancora in sé.

Non si preoccupa affatto degli altri, del loro giudizio o del loro piacere.

In lui la ragione appare, ed egli diventa una persona, dal giorno in cui sa attribuire un io agli altri, contro se stesso, dal giorno in cui partecipa alla persona dell'altro, sia pure a proprie spese, e dal giorno in cui fa uno sforzo con se stesso per non essere ingenuamente il centro di tutto.

In effetti in noi c'è un posto centrale da occupare.

Esso non ci può appartenere. E allora a chi lo daremo?

L'illusione dell'egoismo è quella di pretendere di averlo.

Quindi la vittoria della volontà non potrebbe consistere in una specie di riserva gelosa o di apoteosi sacrilega, ma piuttosto in un'apparente rinunzia.

Essa tende a fini impersonali e inconsapevoli.

Per agire occorre in qualche modo alienarsi ad altri, abbandonarsi a forze che non domineremo più.

Sembravamo appena sollevarci, all'epilogo di lenti processi di formazione, alla riflessione e alla volontà ed eccoci risucchiati da un ingranaggio capace di frantumare, almeno così sembra, l'individualità nascente.

Si rileva scarsamente questo determinismo che afferra gli atti nel momento in cui sorgono per trascinarli lontano dalle nostre previsioni e dalle nostre intenzioni.

Però di esso i grandi uomini di azione hanno avuto un vivo sentimento, persuasi come erano tutti che il soffio della fatalità passasse in loro e coinvolgesse il loro destino.

Pertanto la nostra vita rappresenta il concorso di tutto il resto, la nostra persona costituisce la nostra espansione e la nostra dedizione a tutti, la nostra azione istituisce la collaborazione dell'universo e il trionfo dell'impersonalità.

Forse che alienandosi in questo modo, la volontà si prepara a un arricchimento?

E questo determinismo implacabile è ancora la vita della liberazione e della conquista?

* * *

Il mio proposito in questa sede è di percorrere il cammino che va da una coscienza a un'altra coscienza, seguire il progresso dell'azione dal perimetro dell'individuo fino al punto in cui la volontà, che anima sempre questo movimento di espansione, attende e reclama il concorso intrinseco degli altri, trasferire il baricentro dell'attività umana al di là della sinergia individuale, in una comunità reale di vita e di azione.

- Anzitutto, espandendosi nel contesto ambientale, l'operazione volontaria vi costituisce un fenomeno espressivo e vi persegue un fine.

- In questa stessa causa finale noi cerchiamo una risposta efficace e una cooperazione.

La volontà cerca quindi di sottomettere e assimilare a sé l'universo esteriore, come già aveva tentato di conquistare e di penetrare l'organismo.

- Grazie a questa stessa collaborazione la volontà iniziale si arricchisce e si espande.

Considerata come una sintesi di energie concorrenti e come una creatura a sua volta feconda, l'azione diventerà così il cemento di una federazione sociale.

- Non che si tratti già delle opere nate dall'unione profonda delle volontà e scaturite da vite fuse insieme; si tratta di opere che fanno nascere questa unione e consentono una più stretta cooperazione.

Come giungiamo a cogliere e a volere altri noi stessi?

In questa sede dunque bisogna studiare lo spazio che intercorre tra le coscienze e le azioni umane.

Indice

45 Questa espressione, come quella poco più avanti, è ripresa da Blondel, con leggere modifiche, da proverbi correnti.
La prima è di ascendenza patristica ( Leone Magno, Sermo 59,8 ).
La seconda risale allo Pseudo Seneca ( Monito 187 ), ove peraltro ricorre in questa forma: " Arcum intentio frangit, animum remissio ".