Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

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Capitolo undicesimo - III

III. Reazioni e atteggiamenti

Di fronte alla malattia, le reazioni sono tanto diverse quanto i malati, le evoluzioni tanto rapide quanto imprevedibili.

Fin dall'inizio, quando la forza fisica improvvisamente si trova falciata alla base, il malato barcolla.

La malattia produce un effetto di stupore, poi di collera: « Perché doveva succedere a me? Come Dio può permettere questo? Che ho fatto per meritare ciò? ».

Antico riflesso di colpevolezza che si trova già negli amici di Giobbe.

Poi la paura s'infiltra, multiforme: paura del dolore, della mulilazione; paura, specialmente negli esseri dotati di una forte personalità, di vivere in stato di dipendenza totale e umiliante; paura dell'allontanamento, poi, dell'abbandono da parte delle persone care; paura dell'avvenire, dell'incognito, di una eventuale morte, dolorosa, incerta; paura ancor più di quella cospirazione di silenzio che si legge sui volti e che circonda il malato più saldamente di un reticolato di filo spinato.

Nell'ambiente, l'avvenimento inatteso, produce un colpo momentaneo.

La situazione « grave » ispira l'emozione, rende i parenti e gli amici pieni di sollecitudine.

Ma se la situazione si prolunga, l'interesse sparisce.

Le attenzioni continuano, ma perdono la loro freschezza; la carità fraterna diventa un'abitudine.

Ben presto il malato si ritrova solo con se stesso, cosciente del suo stato: vulnerabile e sprovveduto.

È l'ora della tentazione.

Due atteggiamenti sono allora possibili: o la ribellione o l'accettazione cristiana della sofferenza.

A volte, il dolore è così acuto che getta in uno stato di prostrazione, di paralisi delle forze vive.

Al di là di una certa intensità, il dolore schiaccia, cessa di essere umano.

La coscienza non è più che passività pura.

Un tale stato dipende da una terapia di palliativi più che da un appello alla coscienza.

Può accadere anche che la malattia faccia di un essere lucido e cosciente, un ribelle, che si irrigidisce contro la prova, che si ostina contro ciò che chiama un'ingiustizia.

Invece di cercare un senso alla sofferenza, al di là del suo peccato, insorge contro la vita, contro coloro che lo circondano, contro Dio che lo riduce all'impotenza.

Il ribelle è come un « corazzato »: nessuna simpatia, nessuna pietà può penetrarlo.

« Lasciatemi soffrire e morire in pace », dice con amarezza.

Questo stato di rottura può condurre al suicidio o, attraverso la grazia, dal profondo dell'abisso, mutarsi in grido d'implorazione.

In clima cristiano, solo la preghiera può far cadere la ribellione e distendere la durezza di un volto.

Privato di ogni appoggio, il malato si rende conto della sua precarietà di fondo, della sua insufficienza, della sua finitezza.

La malattia lo raccoglie e l'approfondisce; essa svuota l'anima di ogni preoccupazione che abitualmente la « svaga » e la ingombra.

L'unico Necessario si staglia con un crudo rilievo sull'insignificante carettere degli oggetti che ci fanno correre e trepidare.

Perché concentra l'attenzione sul solo e reale Assoluto dell'esistenza, la sofferenza conferisce al malato una gravita, una profondità che lo distingue da tutti coloro che non hanno conosciuto altro che la salute.

Se inoltre la morte si profila all'orizzonte, ogni istante, agli occhi del malato, acquista una nuova densità.

Poiché morire è nascere alla vita, è importante nascere bene.

Non vi è tempo da perdere: ogni momento è donato per preparare questa nuova vita.

La morte è soltanto la fine della precarietà e l'entrata nella consistenza.

Nei riguardi degli altri, la malattia sviluppa il desiderio di comunicare, di amare: è fonte di delicatezza e di tenerezza.

Al momento in cui gli esseri cari stanno per esserci tolti, la comunione con loro si intensifica.

Quando la sofferenza è così accettata e vissuta, diventa potenza di ascensione, luogo di salvezza e di santità.

Ma per arrivare a un tale atteggiamento, occorre aver capito il senso della malattia come atto d'unione con Cristo e partecipazione alla sua sofferenza.

Ora, se è vero che i « sofferenti » giungono più in fretta a questa intelligenza della malattia rispetto ai « sani », è pur vero che i sani di oggi possono prepararsi a capire la loro condizione di domani.

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