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VII - Contraddizioni

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Contraddizioni.

Dopo aver mostrato la bassezza e la grandezza dell'uomo.

Che ora l'uomo si stimi per quello che vale.

Che si ami, perché c'è in lui una natura capace di bene; ma che non per questo ami le bassezze che vi sono in essa.

Che si diprezzi, perché questa capacità è vuota; ma non per questo disprezzi questa originaria capacità.

Che si odii, che si ami: ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice; ma non possiede la verità, né in modo costante, né soddisfacente.

Per questo vorrei portare l'uomo a desiderare di trovarla, a essere pronto e libero dalle passioni, per seguirla dove l'avrà trovata, consapevole di come le passioni hanno offuscato la conoscenza; vorrei che odiasse davvero la concupiscenza che ha in sé e che lo muove, così da impedirle di accecarlo quando deve fare la sua scelta, e di fermarlo quando avrà scelto.

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La nostra presunzione è tale che vorremmo essere conosciuti dal mondo intero e anche da quelli che verranno quando non ci saremo più.

Ma siamo così vani che la stima di cinque o sei persone attorno a noi ci fa piacere e ci soddisfa.

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È pericoloso esagerare nel far credere all'uomo quanto è uguale agli animali, senza mostrargli la sua grandezza.

Ed è pericoloso anche fargli vedere la sua grandezza senza la bassezza.

Ma è ancora più pericoloso lasciargli ignorare sia l'una che l'altra, mentre è utile ricordargliele entrambe.

L'uomo non deve credere di essere come le bestie, né come gli angeli, non deve ignorare le due cose, ma conoscerle.

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Grandezza e miseria.

Poiché la miseria si deduce dalla grandezza e la grandezza dalla miseria, alcuni hanno affermato la miseria quanto più hanno preso come prova la grandezza, altri hanno affermato la grandezza con tanta più forza in quanto l'hanno dedotta dalla miseria stessa.

Tutto quello che gli uni hanno potuto dire per mostrare la grandezza è servito agli altri come argomento per dedurre la miseria, perché quanto più si cade dall'alto, tanto più si è miserabili, mentre per gli altri è il contrario.

Si sono rincorsi l'un l'altro in un cerchio senza fine, essendo certo che nella misura in cui gli uomini posseggono la ragione, essi trovano nell'uomo miseria e grandezza.

In una parola: l'uomo sa di essere miserabile.

Egli è dunque miserabile, poiché lo è, ma dal momento in cui lo sa è davvero grande.

114

Contraddizione, disprezzo del nostro essere, morire per nulla, odio del nostro essere.

115

Contraddizioni.

L'uomo è per natura credulo, incredulo, pauroso, temerario.

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Cosa sono i nostri princìpi naturali se non i princìpi dell'abitudine?

E nei bambini quelli che hanno ricevuto dalle consuetudini dei loro padri, come l'istinto della caccia negli animali.

Una diversa abitudine darà altri princìpi naturali.

Ce lo dice l'esperienza.

E se ce ne sono di quelli che l'abitudine non può cancellare, ce ne sono anche di quelli contro natura dovuti all'abitudine, e che né la natura né un'altra abitudine riescono a cancellare.

Ciò dipende dall'inclinazione.

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I padri temono che l'amore naturale dei figli si cancelli.

Che tipo di natura è dunque questa soggetta a essere cancellata?

L'abitudine è una seconda natura che distrugge la prima.

Ma cosa significa natura?

Temo fortemente che la natura non sia che un'abitudine originaria, così come l'abitudine non è che una seconda natura.

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Si può considerare la natura umana sotto due profili: secondo il fine, e allora è grande e incomparabile; secondo la media, come quando giudichiamo la natura del cavallo e del cane per il fatto di vedere la corsa e l'animum arcendi, e allora l'uomo è abbietto e vile.

Ecco i due modi con cui si può giudicarlo diversamente e che tanto fanno disputare i filosofi.

Uno nega il presupposto dell'altro.

Uno dice: « Non è fatto per quel fine, perché tutte le sue azioni vi ripugnano ».

L'altro: « Quando compie azioni così basse si allontana dal suo fine ».

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Due cose istruiscono l'uomo sulla sua natura: l'istinto e l'esperienza.

120

Mestiere.

Pensieri.

Tutto è uno, tutto è diverso.

Quante nature in quella umana!

Quante professioni e tutto per caso!

Di solito ciascuno sceglie ciò che ha sentito lodare.

Tacco ben lavorato.

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Se si vanta, l'abbasso; se si abbassa, lo vanto e sempre lo contraddico fino a fargli capire che è un mostro incomprensibile.

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Il principale punto di forza degli scettici, tralasciando cose meno importanti, sta nel fatto che non abbiamo alcuna certezza dei princìpi, al di fuori della fede e della rivelazione, tranne che li avvertiamo naturalmente in noi.

Ma questo sentimento naturale non è una prova convincente della loro verità, non essendoci certezza fuori dalla fede se l'uomo sia stato creato da un Dio buono o da un demone cattivo o per caso, c'è da dubitare se questi princìpi, a seconda della nostra origine, siano veri, falsi o incerti.

Inoltre nessuno, al di fuori della fede, è sicuro di dormire o di essere sveglio, dal momento che durante il sonno siamo certi di essere svegli come quando lo siamo veramente.

Crediamo di vedere gli spazi, le figure, i movimenti, sentiamo trascorrere il tempo, lo misuriamo, e infine agiamo come da svegli.

Così che, passando metà della vita nel sonno, per nostra stessa ammissione o qualunque cosa ce ne sembri, noi non abbiamo alcuna idea della verità, essendo allora tutte le nostre percezioni illusorie.

Chi sa se l'altra metà della vita, durante la quale crediamo di essere svegli, non sia un altro tipo di sonno, un po' diverso dal primo, da cui ci risvegliamo quando pensiamo di dormire?

E chi dubita che se si sognasse in compagnia e per caso i sogni concordassero, circostanza abbastanza comune, e si vivesse la veglia da soli, ciò in cui crediamo risulterebbe capovolto?

E poi, come spesso si sogna di sognare, accumulando un sogno sull'altro, non potrebbe essere che questa metà della vita sia essa stessa un sogno su cui sono innestati gli altri, un sogno da cui ci risveglia la morte e durante il quale noi possediamo così poco i princìpi del vero e del bene quanto durante il sonno naturale?

E i differenti pensieri che ci agitano non potrebbero forse essere illusioni simili allo scorrere del tempo, e ai vani fantasmi dei nostri sogni?

Ecco le principali argomentazioni da una parte e dall'altra, tralascio quelle minori come i discorsi fatti dagli scettici contro le impressioni dovute all'abitudine, all'educazione, ai costumi dei diversi paesi e altre cose simili che, per quanto influenzino la maggior parte degli uomini comuni, che poi dogmatizzano a partire da questi vani fondamenti, vengono rovesciate dal più leggero soffio degli scettici.

Non c'è che da scorrere i loro libri; se non si è già persuasi, lo si diventerà molto presto e forse anche troppo.

Per quanto riguarda i dogmatici mi limito al loro unico punto forte, vale a dire che, parlando in buona fede e con sincerità, è impossibile dubitare dei princìpi naturali.

A ciò gli scettici oppongono, in una parola, l'incertezza della nostra origine, che comporta quella della nostra natura.

E i dogmatici, da che mondo è mondo, devono ancora rispondere.

Ecco la guerra aperta tra gli uomini, dove ciascuno deve prendere posizione e schierarsi necessariamente con il dogmatismo o con lo scetticismo.

Chi crederà di restare neutrale sarà scettico per eccellenza.

La neutralità è l'essenza di quella scuola.

Chi non è contro di loro è comunque per loro; essi non sono a favore di se stessi, sono neutrali e indifferenti, incerti su tutto senza distinzione.

Cosa deve fare dunque l'uomo in queste condizioni?

Dubiterà di tutto?

Sarà in dubbio se è sveglio, se lo pizzicano, se lo bruciano?

Dubiterà di dubitare?

Dubiterà di esistere?

Non si può arrivare a tanto, e sono certo che non ci sono mai stati simili scettici perfetti.

Ci pensa la natura a sorreggere la ragione impotente, impedendole di vaneggiare fino a questo punto.

Affermerà dunque al contrario di possedere certamente la verità, lui che, per poco lo si incalzi, non può mostrare alcuna garanzia ed è costretto a lasciare la presa?

Che chimera è dunque l'uomo?

Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio?

Giudice di tutte le cose, ottuso lombrico, depositario del vero, cloaca d'incertezza e d'errore, gloria e rifiuto dell'universo.

Chi sbroglierà questa matassa.

« Questo va al di là del dogmatismo e dello scetticismo, e di tutta la filosofia umana.

L'uomo va al di là dell'uomo.

Concediamo dunque agli scettici ciò che hanno tanto gridato, che la verità è fuori dalla nostra portata e dal nostro carniere, che non abita sulla terra, che ha famigliarità con il cielo, che vive in seno a Dio, e che non possiamo conoscerla se non nella misura che a lui piace rivelarla.

Apprendiamo dunque la nostra vera natura dalla verità increata e incarnata. »

« impossibile, cercando la verità con la ragione, evitare una di queste tre scuole. »

« Non si può essere scettici né accademici senza soffocare la natura, non si può essere dogmatci senza rinunciare alla ragione. »

La natura confonde gli scettici e la ragione confonde i dogmatici.

Che sarà dunque di te, o uomo, che indaghi con la ragione naturale sulla tua autentica condizione?

Non puoi sottrarti né fermarti in una di queste scuole.

Prendi atto, o superbo, di quale paradosso sei per te stesso.

Umiliati, ragione impotente!

Taci, debole natura, impara che l'uomo va infinitamente al di là dell'uomo, e ascolta dal tuo maestro qual è la tua vera condizione che ignori.

Ascoltate Dio.

Perché infine, se l'uomo non si fosse mai corrotto, godrebbe stabilmente nella sua innocenza della verità e della felicità.

E se non fosse mai stato altro che corrotto, non avrebbe alcuna idea della verità né della beatitudine.

Ma la nostra disgrazia consiste nel fatto che, più che se nella nostra condizione non ci fosse alcuna traccia di grandezza, noi abbiamo un'idea della felicità e non possiamo raggiungerla, percepiamo un'immagine della verità e non possediamo che la menzogna, incapaci di un'assoluta ignoranza e di un sapere certo, a tal punto è evidente che siamo stati a un livello di perfezione da cui purtroppo siamo decaduti.

« Riconosciamo dunque che l'uomo è infinitamente al di là dell'uomo e che, senza il soccorso della fede, sarebbe incomprensibile a se stesso.

Chi non vede come, senza la conoscenza di questa doppia condizione della nostra natura, rimarremmo invincibilmente ignoranti della nostra natura? »

È stupefacente, tuttavia, che il mistero più distante dalle nostre conoscenze, la trasmissione del peccato, sia una cosa senza la quale ci è impossibile qualsiasi conoscenza di noi stessi!

Perché senza dubbio non c'è niente che urti maggiormente la nostra ragione dell'affermazione che il peccato del primo uomo ha reso colpevoli coloro che, così lontani da questa origine, sembrano incapaci di avervi parte.

Questa emanazione non solo ci sembra impossibile, ma anche molto ingiusta: perché cosa c'è di più contrario alle regole della nostra miserabile giustizia che condannare alla dannazione eterna un bambino incapace di volontà, per un peccato con cui sembra aver poco a che fare, dal momento che è stato commesso seimila anni prima che nascesse?

Certamente non c'è nulla che ci urti più brutalmente di questa dottrina, eppure, senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi siamo incomprensibili a noi stessi.

Il nodo della nostra condizione si piega e si avvolge in questo abisso.

Così che l'uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero sia inconcepibile per l'uomo.

« Da questo sembra che Dio, volendo rendere incomprensibile a noi stessi l'enigma della nostra natura, ne abbia occultata la soluzione ponendola così in alto, o meglio così in basso, da renderci incapaci di raggiungerla. »

Così che noi possiamo effettivamente conoscerci non con le gesta superbe della nostra ragione, ma con la sua umile sottomissione.

Le solide fondamenta stabilite sull'autorità inviolabile della religione ci fanno conoscere che ci sono due verità di fede egualmente ferme: una, che l'uomo nello stato in cui fu creato o in quello della grazia, è superiore a tutta la natura, reso simile a Dio e partecipe della divinità; l'altra, che nello stato della corruzione e del peccato, egli è decaduto e simile alle bestie.

Queste due affermazioni sono ugualmente ferme e certe.

Anche la Scrittura le conferma in modo indiscutibile quando, in più passi dice: « deliciae meae esse cum filiis hominum », « effundam spiritum meum super omnem carnem », « dii estis », etc., e in altri: « omnis caro foenum », « Homo assimilatus est jumentis insipientibus et similis factus est illis », « dixi in corde meo de filiis hominum ».

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